Quando il “fact checking” è farlocco

Chi ama informarsi su internet, girovagando fra un sito e l’altro, si sarà sicuramente accorto della recente nascita di un nuovo genere letterario: il “fact checking”, o controllo dei fatti. Sotto questa etichetta, vagamente pretenziosa, centinaia di analisti si autonominano giudici delle affermazioni di politici, giornalisti, studiosi, industriali, scrittori, figure pubbliche in genere.
Il fenomeno è interessante, e merita una riflessione. La prima cosa che colpisce è la mancanza di competenze specifiche, pertinenti e soprattutto riconosciute, di molti autori di spietate “verifiche” delle affermazioni altrui. In perfetto stile internet, per cui uno vale uno e tutti abbiamo diritto di dire la nostra, chiunque si sente autorizzato a improvvisare audaci operazioni di fact checking, quasi sempre volte a smontare quel che qualcun altro ha detto. Ma l’aspetto più interessante è che non di rado gli esperti, ovvero coloro che hanno una riconosciuta competenza o esperienza riguardo all’argomento di cui si parla, risultano ancora meno affidabili dei dilettanti. La faziosità è endemica fra coloro che si occupano di temi scottanti, specie se l’analista si sente impegnato nella difesa di una buona causa.
Per capire come tutto ciò sia possibile dovremmo, prima di tutto, renderci conto che il genere letterario fact checking non è un genere omogeneo. O meglio: l’espressione fact checking è usata per tre tipi molto diversi di operazioni critiche.
Il primo tipo di fact checking potremmo, con un piemontesismo, definirlo il fact checking dei “pistini”, o dei pignoli. Esso si applica ad affermazioni relativamente poco importanti, talora espresse in modo vago, ma che è (abbastanza) facile controllare se si ha un minimo di dimestichezza con le fonti statistiche. Questo tipo di fact checking, che non interesserebbe nessuno se non coinvolgesse figure pubbliche, viene per lo più usato per punzecchiare i politici sgraditi e assolvere i politici graditi. Di norma non è erroneo, ma solo tendenzioso nella scelta dei bersagli. Il politico dice che il Pil è aumentato dell’1.7 nell’anno x, il pistino gli obietta che in realtà è aumentato dell’1.4%. Il giornalista di fama afferma che il paese y ospita la metà dei richiedenti asilo dell’Italia, il pistino gli obietta che non è esatto, che dipende dal periodo di riferimento, e comunque bisogna capire che cosa intendesse quel giornalista. L’effetto che questo tipo di fact checking esercita sui politici è più o meno quello di una mosca sulla schiena di una mucca.
Il secondo tipo di fact checking si potrebbe chiamare il fact checking delle “sentinelle”, o dei guardiani dei fatti. L’unica vera differenza con il fact checking dei pistini è che le affermazioni sottoposte a controllo riguardano fatti “caldi”, che ciascuno di noi può giudicare più o meno interessanti, ma che pochi si azzarderebbero a considerare irrilevanti. L’idea delle sentinelle è che, su certi fatti, chi ha responsabilità pubbliche o è molto conosciuto non si possa permettere di dire il falso. Non puoi dire che il debito è diminuito se è aumentato (e viceversa), non puoi dire che i morti in mare sono aumentati se sono diminuiti (e viceversa), e così via. Un caso tipico è il recente fact checking cui, sul sito lavoceinfo, è stato sottoposto un clamoroso errore di Saviano, ingenuamente convinto che “i 5 miliardi che servono per i rifugiati (…) non pesano sul debito italiano, non sulle nostre tasche”.
L’effetto che le sentinelle producono su politici e figure pubbliche è spesso modesto, a meno che non sia sfruttato e amplificato dai media (cosa che, giustamente, non avviene mai con il fact checking dei pistini).
La caratteristica logica fondamentale di questi due tipi di fact checking è che, di norma, resistono al fact checking del fact checking. Salvo casi rari di malafede o di ignoranza, è difficile che sorga una controversia sui “veri” fatti, mentre è assai comune che i colpiti dal fact checking, non dovendo rendere conto a nessuno, semplicemente se ne facciano un baffo.
Fin qui il fact checking può essere utile o inutile, ma di norma non è dannoso, e tantomeno pericoloso. Dove invece può diventarlo è con il terzo tipo di fact checking, che io chiamerò semplicemente “fake checking”, cioè controllo fasullo, o farlocco. Quel che distingue il fake checking dal fact checking è che esso non verte su fatti ma su interpretazioni dei fatti. Il fake checking comincia quando si finge di credere che certe affermazioni, che riguardano i nessi fra fatti (tipicamente i nessi di causa-effetto) siano obiettivamente verificabili, e in più si ha la pretesa di attribuire a sé stessi il ruolo di giudice di ultima istanza. E infatti la caratteristica fondamentale del fake checking è che non resiste a sua volta al fact checking. Così può accadere che qualcuno (spesso un istituto di ricerca, o un presunto esperto) produca un fact checking, e qualcun altro lo sottoponga a sua volta a critica, magari chiamando la critica stessa fact checking. E’ successo qualche tempo fa con un pretenzioso “fact checking dell’euro”, prontamente smontato mediante un fact checking del fact checking. E lo stesso si potrebbe fare oggi con i numerosi tentativi, davvero molto maldestri, di demolire la tesi del “pull factor”, secondo cui la presenza di navi pronte al soccorso avrebbe aumentato le partenze dalla Libia. Tutti questi fact checking non sono controlli dei fatti, ma proposte (spesso zeppe di errori logici e tecnici) di prendere per mano i fatti per condurli in un porto ideologicamente sicuro. Con un’aggravante, rispetto alla normale critica: la critica ammette e anzi dà per scontata la controvertibilità delle tesi che essa argomenta, il fact checking pretende di dire l’ultima parola. La critica è per sua natura aperta, la critica che si presenta sotto le mentite spoglie del fact checking, invece, ambisce a chiudere il discorso.
So naturalmente che filosofi ed epistemologi, non avendo mai fatto ricerca empirica, a questo punto del discorso immancabilmente insorgono ricordando Nietzsche (“non esistono fatti ma solo interpretazioni”), o Kuhn e Feyerabend (per i quali ogni osservazione è “carica di teoria”). Ma è un punto di vista ingenuo: per chi si occupa della realtà con i normali strumenti delle scienze sociali, la distinzione fra fatti e nessi fra fatti è quasi sempre chiarissima. Se dico che nei 36 mesi successivi all’introduzione del Jobs Act l’occupazione è aumentata di circa 700 mila unità faccio un’affermazione controllabile (con i dati Istat), se affermo che ciò è avvenuto grazie al Jobs Act, o che l’intero incremento è ad esso attribuibile, stabilisco un nesso causale che nessuno può provare in modo inoppugnabile, ma solo argomentare in modo più o meno convincente, con modelli matematico-statistici più o meno solidi: le interpretazioni dei fatti non si distinguono fra vere e false, ma semmai fra plausibili e implausibili.
Sfortunatamente il fake checking è piuttosto di moda. Esso infatti permette, a chi è affezionato a una tesi, di travestire da fatti obiettivi quelle che sono semplici ricostruzioni delle concatenazioni fra i fatti, più o meno sostenute da indizi favorevoli. Ed è mortificante che, tanto spesso, questo travestimento sia attuato da esperti o presunti tali, un fenomeno che Giovanni Guzzetta ha di recente bollato come “disinformazione di qualità”.
Ma come si fa a riconoscere il fake checking?
Non è troppo difficile, perché il fake checking ha sempre due tratti distintivi, che finiscono per smascherarlo. Il primo, come abbiamo già visto, è di chiamare fact checking un’attività che non si occupa dei fatti puri e semplici, ma della loro interpretazione: che cosa ha determinato che cosa, come sarebbero andate le cose se si fosse fatta un’altra scelta, che cosa succederebbe se si adottasse una determinata politica, eccetera eccetera. Il secondo tratto che smaschera il fake checking è di selezionare arbitrariamente i fatti, che curiosamente risultano tutti coerenti con una sola interpretazione, che guarda caso è in sintonia con le credenze di fondo dell’autore: l’assenza di dubbi è il marchio inconfondibile del fake checking.

Articolo pubblicato su Il Messaggero il 5 agosto 2018



Commento ad Angelo Panebianco e a Sofia Ventura

«Spesso, sono i governi che bene amministrano quelli che hanno vita breve e vengono cacciati a furor di popolo. I governi che male amministrano, invece, hanno sovente vita lunga e felice. Perché? Perché mentre i primi si occupano del benessere collettivo e così facendo danneggiano e fanno inferocire potenti gruppi organizzati, i secondi sanno costruirsi, a scapito del benessere collettivo, un insieme di clientele (alcune più ristrette e potenti, altre più povere di risorse ma più ampie numericamente) le quali, per non rinunciare ai benefici che il governo elargisce loro, lo sosterranno in tutti i modi. Il buon governo può contare (e nemmeno sempre) su un consenso diffuso ma disorganizzato. Il mal governo si regge, di solito, su un consenso più ristretto ma organizzato. In politica, l’organizzazione ha sempre la meglio sulla disorganizzazione». Lo sostiene Angelo Panebianco nell’editoriale, Perché durerà. Le ingenue profezie sul governo, apparso sul Corriere della Sera il 26 luglio u.s. Confesso che le sue parole hanno lasciato molto perplesso chi, come me, da anni va sostenendo che bisogna Dimenticare Platone—è il titolo di un mio saggio di qualche tempo fa—se davvero vogliamo far prosperare anche in Italia l’albero della democrazia liberale. L’articolo dello scienziato politico bolognese riecheggia antiche critiche—da Platone, appunto, a Ugo Spirito—rivolte al governo del demos e ai suoi ludi cartacei dove prevalgono quanti votano con la pancia e non con quello che Woody Allen chiamava “il mio secondo organo preferito”. Se le cose stanno come vien detto nell’articolo non sarebbe venuto il momento di pensare a un governo di saggi (o di ‘tecnici’, per non peccare d’immodestia) imposto dall’alto, senza tener conto dei risultati elettorali che hanno premiato i Di Maio, i Salvini, gli Orban? Leggere oggi che «i governi che si occupano del benessere collettivo danneggiano e fanno inferocire potenti gruppi organizzati» fa un certo effetto. Innanzitutto perché è difficile pensare a compagini ministeriali che abbiano vinto le elezioni o comunque abbiano registrato una forte affermazione senza il consenso di “potenti gruppi organizzati”: i risultati ottenuti, nella Prima e Seconda Repubblica, da DC e PCI non avevano nulla a che fare con la Federconsorzi, Confindustria, sindacati, magistratura, amministrazioni pubbliche, etc? L’idea di una divisione tra ‘consenso diffuso’ e debole (giacché i cittadini responsabili non si organizzano) e ‘consenso clientelare’ sarebbe stata condivisa da Auguste Comte, critico implacabile dell’irrazionalità democratica, ma non trova credibili corrispondenze sul piano empirico. Panebianco, facendo l’esempio dell’attuale coalizione di governo, scrive che la benevola neutralità dell’alta dirigenza e l’appoggio incondizionato della Magistratura, di cui “i Cinque Stelle hanno sempre dichiarato la loro volontà di essere l’obbediente braccio politico” giocano a favore della sua durata. Sono d’accordo ma il potere giudiziario, chiedo umilmente, è diverso, in quanto gruppo di pressione, da quelli su cui ha potuto contare per oltre mezzo secolo la sinistra italiana, come il potere sindacale? E non è strano dover ricordare a un realista, come l’amico Panebianco, che l’espressione ‘benessere collettivo’ (quanto mai ‘equivoca’, per non dire ideologica), non è che la versione laica e secolarizzata—perché riferita a bisogni materiali e non più alla salvezza delle anime—del “bene pubblico”, dell’etica politica cognitivista, ovvero da quella filosofia che fa derivare da un fatto, da una verità, una prescrizione, un’obbligazione, contraddicendo alla ‘grande divisione’, teorizzata da Davide Hume, per la quale, dall’essere non si può dedurre nessun dover essere? Tornando al vecchio significato, cos’è il ‘bene collettivo’ se non ciò che ritengono tale, nella selva selvaggia delle opinioni e degli interessi contrastanti e spesso conflittuali che caratterizzano le moderne società ipercomplesse, i vari gruppi, classi, individui, in competizione per il potere? Del ‘bene collettivo’, per la Cirinnà, fanno parte le adozioni gay, per ‘Scienza e Vita’ il divieto del matrimonio omosessuale. La democrazia liberale non è il metodo infallibile che realizza, su questa terra, Giustizia e Virtù ma un accordo arazionale, che nelle grandi questioni che dividono la società civile, fa prevalere (fino alla prossima tornata elettorale) le opinioni del maggior numero.

La questione cruciale—ben nota ai liberali classici, alla cui fonte Panebianco, come il suo Maestro Nicola Matteucci, si è senza dubbio abbeverato– è che lo spazio della politica sia ben circoscritto, che un Parlamento e un Governo non abbiano la libertà e l’autorità di invadere tutti gli ambiti dei rapporti umani, di ‘poter fare tutto’ (tranne che trasformare un uomo in una donna, come sostenne ironicamente quel deputato di Westminster, che non poteva certo prevedere i miracoli dell’ingegneria genetica). Purtroppo —per ragioni storiche e culturali che, a spiegarle, ci vorrebbero non saggi ma interi tomi–sappiamo che non è così—e non solo in Italia—e che lo ‘stile politico limitato’—che distingue le democrazie dalle dittature—da noi non ha mai preso stabile alloggio.

Nei primi decenni del nuovo millennio, una civic (sic!) culture che ha insegnato a decine di generazioni  che ‘tutto è politica’, che non esistono competenze oggettive—giacché i diversi codici professionali sono sempre ideologicamente condizionati—reagisce sgomenta davanti all’invasione degli Hyksos, si chiede come sia stato possibile, rimette (inconsapevolmente) in discussione il principio di maggioranza, riattualizza le vecchie diagnosi dei grandi conservatori dell’Ottocento e del Novecento sulla ‘ribellione delle masse’, sulla fine delle ‘mediazioni politiche’, sul tramonto delle elite. A ben riflettere, però, ci troviamo di fronte a uno sgomento che nasce dalla falsa coscienza, dalla messa sotto accusa del corpo sociale malato non accompagnato da alcuna autocritica né, tanto meno, dalla consapevolezza che è l’ambiente malsano a far insorgere la malattia.

In nome dei diritti, del Welfare, della ‘tutela delle fasce deboli’, si è accresciuto, per citare Panebianco,”il controllo politico sull’economia”, si sono messe “a disposizione della politica risorse da distribuire alle clientele”, si sono creati enti, uffici, associazioni che hanno fatto quasi avverare la profezia del Tocqueville della seconda Democrazia in America: “Al di sopra di costoro si erge un potere immenso e tutelare, che si incarica da solo di assicurare loro il godimento dei beni e di vegliare sulla loro sorte. E’ assoluto, minuzioso, sistematico previdente e mite. Assomiglierebbe all’autorità paterna se, come questa, avesse lo scopo di preparare l’uomo all’età virile, mentre non cerca che di arrestarlo irrevocabilmente all’infanzia; è contento che i cittadini si svaghino, purché non pensino che a svagarsi. Lavora volentieri alla loro felicità, ma vuole esserne l’unico agente e il solo arbitro; provvede alla loro sicurezza, prevede e garantisce i loro bisogni, facilita i loro piaceri, guida i loro affari principali, dirige la loro industria, regola le loro successioni, spartisce le loro eredità; perché non dovrebbe levare loro totalmente il fastidio di pensare e la fatica di vivere?». La profezia si è realizzata un po’ dappertutto, ma specie in Italia dove si è creata una pericolosa (per le libertà civili) cabina di comando politico e di monitoraggio sociale, mai pensando che degli strumenti messi a disposizione degli ‘amici del progresso’ si sarebbe potuta impadronire la progenie di Cleone e di Catilina.

Suscita un sorriso amaro, pertanto, l’union sacrée contro i populisti e i sovranisti al governo che dovrebbe includere proprio quelli che hanno instaurato lo stato assistenziale in Italia e i loro ideologi, filosofi e giuristi, che, paladini dei ‘diritti sociali’, dichiaravano candidamente che un partito con un programma thatcheriano da noi sarebbe incostituzionale? Gli attuali governanti saranno pure “amici della Cgil”, certo non lo sono degli eserciti in rotta della vecchia sinistra.

Sofia Ventura, una scienziata politica non meno seria e documentata di Panebianco, in una breve, densa intervista, concessa a ‘La Stampa’, Il popolo non è saggio. La politica vuole le élite, (24 luglio 2018), dove a ragione critica la ‘democrazia diretta’ dei sedicenti neo-rousseauiani, scrive giustamente: «occorre più mediazione politica, non meno» ma poi aggiunge «Se noi abbiamo un problema, oggi, è che il ceto politico assomiglia troppo al popolo per povertà di esperienza, di background, di capacità». “È la democrazia di massa, bellezza!” Ma non è un processo irreversibile? Il problema è quello di capire perché tale trend nei sistemi politici stabili e liberali non ne minacci le fondamenta istituzionali mentre nelle democrazie senza salda legittimazione nell’immaginario e nell’etica collettiva finisca per lastricare la via per l’Inferno.

«L’errore di fondo, per Sofia Ventura, è credere che nel popolo risieda una saggezza universale, invece non è così». Già, non è così ed è ben per questo che, a fondamento della democrazia liberale c’è lo scetticismo di Montaigne e di Hume, non l’ottimismo antropologico di Rousseau. Poiché nessuno di noi ha la verità in tasca ma esprimiamo tutti opinioni più o meno caduche —a guidarci è la doxa non l’aleteia—non è arbitrario stabilire che debbano prevalere quelle della maggioranza. La democrazia liberale nasce dalla diffidenza verso l’uomo, segnato dal peccato originale, non verso il popolo, entità vaga e misteriosa alla quale apparteniamo tutti, o verso questa o quella classe o razza. Ritengo anch’io assurda la sostituzione della democrazia diretta alla democrazia rappresentativa che consegnerebbe il potere di far e le leggi quell’incompetenza, che ci investe tutti, fingendo di dimenticare che «chiunque di noi, chiamato ad esprimersi su argomenti difficili che non conosce, ha reazioni simili a quelle di un bambino». Sennonché, chiarito questo punto, ci si dovrebbe poi rendere conto che la politica è, sostanzialmente, mercato, sia pure sui generis, dove gli elettori sono i consumatori dei prodotti messi in vendita da vari imprenditori, che offrono le loro diverse merci, i programmi di governo. Se qualcuno vende più degli altri significa che viene incontro a bisogni di cui la concorrenza non tiene alcuna considerazione. Le élite sono quelle scelte dal popolo sovrano—ovvero dall’insieme dei cittadini iscritti nelle liste elettorali—: un politico militante, un intellettuale impegnato, potranno sentirsi in dovere di pesarle sul bilancino della loro ‘cultura superiore’ ma il dato inoppugnabile è che esse portano sul mercato i prodotti più ricercati. E se questi ultimi—è il timore fondato della politologa– comportassero la fine delle libertà politiche e dei diritti? «Pensiamo solo a che cosa può accadere, se un demagogo|…| convincesse la maggioranza che le donne sono esseri inferiori. Seguirebbero leggi a sancirne l’inferiorità». Certo è quanto potrebbe capitare in una democrazia progressiva come la nostra dove il controllo pubblico sempre più totale della società civile nelle mani di chi vuol cambiare tutto potrebbe passare in quelle di chi vuol tornare indietro. Nei paesi liberali, però, nessuno potrebbe farlo. Come scriveva Tocqueville, nella Democrazia in America: «la maggioranza, di per sé stessa, non è onnipotente. Al di sopra di essa, nel campo morale, si trovano l’umanità, la giustizia e la ragione; nel campo politico, i diritti acquisiti. La maggioranza riconosce queste due barriere e, se le capita di superarle, è perché essa ha delle passioni, come ogni uomo, e perché, come lui, essa può fare il male pur discernendo il bene».

Ma c’è un’altra domanda che ho spesso rivolto agli amici analisti della politica e che non ha trovato risposta: se la maggioranza sceglie, nel supermercato della politica, le merci cosiddette ‘sovraniste’ e ‘populiste’ è a causa della sua naturale irrazionalità o perché quelle merci appagano bisogni—ad es. di sicurezza e di identità—che le altre non sono in grado di appagare? Continueremo a lungo a concentrarci sulla paranoia di Hitler e sulla misteriosa fascinazione da lui esercitata sulle masse tedesche senza considerare minimamente quali buone ragioni esse avevano per rivolgersi a un leader politico che con gli occhi del poi, sembrò vomitato dall’Inferno.

Tornando a Panebianco, il suo discorso fa pensare più a un ideologo liberista che non a uno scienziato sociale alle prese con la ‘realtà effettuale’: «Innalzare dazi, protegge certe industrie inefficienti scaricandone i costi sui consumatori. Il protezionismo, in altri termini, colpisce il benessere dei più per favorire il benessere di pochi. Ma i più (i consumatori) sono disorganizzati e quindi hanno scarso peso politico mentre i pochi (gli addetti all’industria inefficiente) sono organizzati. I dazi li ‘fidelizzano’: una volta ottenuto il dazio essi non smetteranno mai di appoggiare il governo che glielo ha concesso (per timore che altri governanti lo tolgano di mezzo).|….|Più in generale, puntare su una economia chiusa in nome di un preteso neo-nazionalismo provoca danni economici (l’economia langue) ma genera vantaggi politici che tendono a protrarsi oltre il breve termine: assicura il consenso senza riserve al governo della parte più inefficiente del mondo della produzione, accresce il controllo politico sull’economia, mette a disposizione della politica risorse da distribuire alle clientele. Si capisce perché né i Cinque Stelle né la Lega apprezzassero Sergio Marchionne: era il simbolo di una economia aperta, efficiente e dinamica. Il loro ideale economico (come quello dei loro amici della Cgil) è l’opposto».

Avrei qualche obiezione di metodo da fare, dal momento che c’è protezionismo e protezionismo e talora si confonde il protezionismo col dirigismo e con la socialdemocrazia—come hanno mostrato gli studi di insigni storici come i compianti Rosario Romeo, Giuseppe Are e mostra oggi Guido Pescosolido nei suoi magistrali saggi sulla questione meridionale e sull’arcicalunniata Cassa per il Mezzogiorno—ma rimando la riserva ad altra sede. Quello che vorrei ribadire, invece, è che la politica è l’arte della mediazione per antonomasia, non la realizzazione di ricette astratte, per quanto ragionevoli, di economia. Se la globalizzazione provoca delle vittime, cosa si dirà a chi se ne trova male: chi ha avuto ha avuto e chi ha dato ha dato? sicché non resta che rassegnarsi alla legge del mondo fatto a scale dove c’è chi scende e c’è chi sale? E se il rottamato dal progresso trova chi fa mostra di comprendere le sue esigenze e il suo dramma per la perdita di status e di reddito? Lo considereremo una zavorra di cui liberarsi al più presto per consentire al pallone aerostatico del progresso di volare liberamente nei cieli azzurri della globalizzazione? E se la questione sicurezza e la difficoltà di convivenza interetnica nei quartieri popolari delle nostre città fa vincere i populisti diremo che, come gli untori manzoniani, sono loro ad aver creato un clima di diffidenza per trarne beneficio? O ripeteremo agli irresponsabili elettori che gli arrivi dall’Africa sono in calo e che Tito Boeri (citato da Panebianco come un’autorità indiscussa) ha invitato a fare entrare quanta più gente è possibile in Italia giacché sono i nuovi lavoratori che pagheranno le nostre pensioni e la loro esuberante vitalità a rimediare al nostro regresso demografico?

A scanso di fraintendimenti, anch’io credo che le politiche neonazionaliste non facciano bene alla nostra economia e che l’uscita dall’euro sarebbe un disastro per l’Italia ma il vero problema, ripeto, è un altro: che ne facciamo di chi non condivide il mio liberalismo condito di liberismo con juicio? Gli diremo come il dignitario ecclesiastico, nel terribile sonetto del Belli, ‘avanti alò chi more more’? In un paese ci sono individui e classi sociali, regioni e aree economiche, che hanno interessi e prospettive di vita molto diversi: lo Stato nazionale era sorto anche allo scopo di trovare un modus vivendi che non garantisse il benessere collettivo (vaste programme!) ma riuscisse, ad ogni crisi, a ricucire quella ‘collaborazione sociale’ senza la quale i governi restano sempre esposti a sommosse e a potenziali rivoluzioni. A volte questo può comportare il sacrificio dell’efficienza sull’altare di un compromesso sociale che non soddisfa interamente le parti in conflitto ma riesce a tenerle buone per un certo periodo. A volte non ce né bisogno grazie al fattore ‘spazio’, che la retorica antifascista ha fatto relegare tra i ferri vecchi della storia. L’Inghilterra vittoriana spediva i poveri, i ribelli, gli asociali nelle più lontane terre dell’Impero dove poteva accadere che ex forzati creassero, come in Australia, una società civile oggi non meno raffinata di quella scandinava. Gli Stati Uniti avevano a disposizione la frontiera per rovesciarvi irregolari e scontenti che non si trovavano bene sulla costa orientale.

In Italia Giovanni Giolitti, uno statista che in fatto di pragmatismo non era secondo a nessuno, non arretrava dinanzi a ‘protezioni’ e favoritismi atti a riconciliare con lo Stato risorgimentale le masse cattoliche e socialiste per mezzo secolo estranee ed ostili. La politica è questa: la capacità di registrare attese, paure, speranze della gente comune per trovare il modo di portarle alla luce e metterle sul tavolo della grande, incessante, ’transazione collettiva’, dissinnescandone la carica potenziale. Le Group Mind Fiction—globalizzazione vs protezionismo, sovranismo vs europeismo etc. etc.—non sono di aiuto. Ci troviamo dinanzi ad antitesi troppo radicali e assolute, che   rischiano di riportarci ai climi ideologici infuocati di passate stagioni della storia italiana, il 1948, il 1968 etc. In un articolo uscito sul ‘Messaggero’ del 19 luglio u.s., Se il diritto di critica sfocia nell’incitamento all’odio la costituzionalista Ginevra Cerrina Feroni ha messo in guardia dall’uso di un linguaggio politico manicheo, volto a demonizzare gli avversari «Preoccupa che questa metodologia di attacco, combinata alla crescente deculturazione dell’uditorio, possa avere effetti dilanianti sulla dialettica democratica e possa istigare qualche sprovveduto alla violenza». Negli anni di piombo, gli ‘effetti dilanianti’ si videro bene, con gli attentati della destra a esponenti e a sedi di partiti e di sindacati e della sinistra ai militanti del MSI e di Forza Nuova—v. l’episodio dei fratelli Mattei, su cui è calato uno spesso velo di silenzio. E, tuttavia, se gli ‘eccessi polemici’ sono ancora comprensibili in bocca ai politici—ma anche qui con juicio –essi diventano armamenti retorici ai quali dovrebbe essere vietato l’ingresso nei laboratori della ricerca e dell’analisi sociale e politica. Altrimenti la Wertfreiheit—la neutralità della scienza–prescritta da Max Weber e richiamata da tutti i politologi (persino da quelli che, a differenza di Panebianco, non hanno alcuna pratica di liberalismo) diventa un mero omaggio verbale.

Ancora un’ultima (perfida) annotazione. Leggendo Panebianco si tira un sospiro di sollievo. «La classe politica oggi al potere—scrive—può contare sull’appoggio delle più potenti corporazioni del paese». Se si considera, però, che i maggiori quotidiani nazionali—da ‘La Stampa’ al ‘Corriere della Sera’, da ‘Repubblica’ al ‘Fatto quotidiano’, senza contare i ‘cespugli’ come ‘Avvenire’ e ‘Il Foglio’— pubblicano, in fatto di sovranismo, populismo, emigrazione, editoriali intercambiabili, rivolti a quell’opinione pubblica ‘disorganizzata’ ma capace di ragionare nella cabina elettorale, se ne deduce: o che non c‘è nessuna ‘potente corporazione’ dietro quei giornali o che abbiamo una stampa libera che non prende ordini da alcuna centrale di potere. Nel secondo caso, ci troveremmo davvero dinanzi a un nuovo ‘miracolo italiano’.




Il muro tra Buoni e Cattivi

Mi piacerebbe intervenire nel dibattito, scottante, sui migranti. Dire come la penso, tra amici, conoscenti, vicini di casa, magari a una cena, o nell’atrio di un cinema, o durante una passeggiata al mare, in montagna.

Ma non lo faccio quasi mai. Mi sembra di avere un muro davanti, dove non riesco a trovarmi un varco. Un muro di frasi fatte, parole d’ordine, formule precostituite. Mi sembra che le persone ormai girino con questo muro attorno, senza accorgersene. Almeno, le persone che mi capita d’incontrare, di frequentare maggiormente. Dovrei dire le persone che fanno parte del mio mondo, ma che non saprei bene come definire. I ceti abbienti? Gli istruiti? I benestanti, i professionisti? Sì, un misto di tutto ciò, e altro, anche gente non così istruita e non così benestante, più media. E anche le punte estreme, intellettuali, scrittori e studiosi e giornalisti, noti e meno noti. Non so. Dovrei dire “ceti medi riflessivi”, per usare l’espressione di Ginsborg, che mi sembra la migliore ma comunque non mi soddisfa.

Di queste persone mi disturba il partito preso, l’appartenenza aprioristica, il disprezzo per l’altro, il parlare per formule, le parole d’ordine con cui riconoscersi a vicenda: se le usi, bene, appartieni allo stesso reggimento e vieni incluso, apprezzato, vezzeggiato. Se non le usi, sei fuori: appartieni ipso facto all’esercito nemico.

E quali sarebbero, poi, questi due eserciti? Credo che non esistano. Credo che esista una sola parte, che si è creata l’altra. Un po’ come, in Fichte, l’Io oppone a sé il Non-io. Voglio dire che emerge una sola rappresentazione delle cose, ed è la rappresentazione che la minoranza che si sente eletta ha dato, una volta per tutte e fin dall’inizio. In questa rappresentazione unica e univoca ci sono due schiere contrapposte. Ma in realtà ce n’è una sola, che ha costruito l’altra. Così, da una parte, per dirla in breve, ci sono i buoni dell’accoglienza-tolleranza-solidarietà; e dall’altra i cattivi della morte, desolazione, disuguaglianza, egoismo, sopruso, disprezzo della vita umana. E le due parti sono drasticamente definite: nella prima schiera intellettuali, scrittori, giornalisti, professionisti d’ogni genere paladini del Bene: i pochi, “illuminati”; e nella seconda il popolo bruto e rozzo dei sentimenti ignobili: i molti, dunque per contrapposizione, “bui”.

“Uomini e no”, così una recente copertina dell’”Espresso”.

Dovrei appartenere, in quanto scrittrice, alla prima schiera. Per mestiere e per cultura, dovrei stare con gli Illuminati. Ma vorrebbe dire riconoscermi in un pensiero pre-stabilito, consegnarmi agli automatismi ideologici, usare la retorica dei buoni sentimenti. Non ce la faccio. Mi vergogno delle parole dolciastre e ipocrite, e anche del compiacimento sottile di esibire le virtù, civiche, umanitarie, solidali. L’autocompiacimento azzera ogni eventuale virtù. E mi sembra troppo facile e tranchant spostare il discorso dal campo della politica alla morale, è qualcosa che taglia ogni possibile confronto, e ogni analisi. Azzera le parole. E noi ora abbiamo bisogno non solo di immagini crude e dolenti che “scuotono le coscienze” (come ci offre tanto giornalismo del cuore), ma anche, e soprattutto, di parole il più possibile chiare e oggettive, che illustrino e spieghino con esattezza le cose come stanno, e che si spingano a prospettare qualche possibile soluzione.

Penso ci siano molte persone normali, e anche diversi intellettuali non arruolati, che vorrebbero parlare ma non lo fanno, intimiditi dal muro di voci sicure e giudicanti. Persone perbene, che non hanno voglia di esporsi alla pubblica gogna, di vedere le loro idee, appena nate e magari incerte e titubanti, stritolate dai Maestri del Bene. E scelgono di tacere. Parlare vorrebbe dire essere subito etichettati tra coloro che pensano cose che è bene non pensare; o che non pensano esattamente le cose che è bene pensare. Anche se il loro pensiero fosse estremamente dubbioso e pieno di interrogativi, per il solo fatto di non mostrare le certezze granitiche dei Buoni, verrebbero collocati tra i Cattivi.

C’è una specie di costrizione al silenzio, all’astensione, alla reticenza. O meglio, non tanto una costrizione quanto una pressione, una… induzione: si è indotti, dal clima intorno, a stare zitti. Non è vigliaccheria, o timidezza. È piuttosto una rassegnazione malinconica, venata di senso dell’inutilità. Il fatto grave è che questo silenzio aiuta l’egemonia degli altri, l’affermarsi del loro unico pensiero, e il dilagare della loro retorica sdolcinata.

È su questo silenzio coatto che bisognerebbe interrogarsi. Se tutti coloro che non sono Cattivi, non vogliono la morte dei migranti in mare, né le ruspe e i rastrellamenti, ma nello stesso tempo non si riconoscono nel semplicismo delle soluzioni dei Buoni né nella loro arroganza morale, nell’esibire le virtuose formule della loro superiorità; se costoro rompessero il silenzio e si convincessero a parlare, forse i muri che ci troviamo davanti cadrebbero.

E i cosiddetti intellettuali (studiosi, professori, scrittori, artisti, attori, registi e affini…)?

Noi scrittori, per esempio. Annaspiamo, mi sembra. Ripetiamo stanche formule, mantra ideologici sopravvissuti. Interveniamo ogni tanto, sui giornali, alla radio, in tivù, sui social. Lanciamo slogan, promuoviamo manifestazioni, oppure compiamo (o annunciamo che compiremo) gesti simbolici eclatanti (e subito mediatici). E firmiamo appelli. Perché continuiamo imperterriti a firmare appelli (sempre più scarni e ignorati, peraltro)? Perché questi esibizionismi verbali, vistosi e inutili (e a costo zero!), che inducono al sospetto di una mera autopromozione?

E poi, perché gli scrittori dovrebbero avere voce in capitolo, oggi? Perché più di altri, quali sarebbero i loro meriti? Perché gli scrittori e non i medici, gli psicanalisti, gli architetti? E perché non i contadini, i panettieri, gli idraulici, gli operai, gli imbianchini? O si dà per scontato che questi ultimi, non avendo studiato, parteggerebbero di sicuro per i Cattivi, rozzi, brutali, amorali e incivili?

Mi chiedo quale dovrebbe essere oggi il ruolo dell’intellettuale, ammesso che debba averne uno. Domanda molto novecentesca, e abusata. Non so proporre un ruolo chiaro, ma credo che non debba ridursi a questo schierarsi così retorico e prevedibile, a questa stucchevole aria di voler sempre salvare il mondo da catastrofi imminenti e apocalittiche. Catastrofi a volte addirittura auspicate, invocate, perché risulti meglio la cattiveria dei Cattivi e la bontà degli eroici custodi del Bene…

Il primo compito, mi viene da dire, sarebbe quello di rinchiudersi da qualche parte e riflettere, informarsi e studiare. E, per un certo tempo almeno, tacere. Stare a vedere. Pensare. Considerare gli aspetti più nascosti, meno ovvi, più controversi. E poi, semmai, porre interrogativi, provare a scardinare schemi, a vedere la scena da più di un angolo visuale. Aiutando a individuare un possibile itinerario… Essere scomodi, certo, sempre. Ma con tutti! Con il nemico, ma anche con chi la pensa come noi. Meglio ancora, stabilire dopo chi è con noi e contro di noi, non a priori, e non con questo sprezzante senso di superiorità.

Amos Oz, in una recente intervista al Tg1: “I nemici non si amano. Ma si deve dialogare, con i nemici”. Dialogare, non urlare formule contro il nemico. Sembra che abbiamo bisogno di un nemico, per esistere. Preferiamo esibire un nemico, più che un pensiero.

Siamo tutti frastornati e confusi, inutile proclamarsi per principio i migliori, unici detentori della Verità. Più utile parlarsi davvero, gli uni con gli altri, consapevoli che forse le scelte che saremo chiamati a compiere, in questa fase storica che forse si chiamerà Estinzione della civiltà europea, sono difficili, persino tragiche, e non si lasciano ridurre alla comoda opzione fra arruolarsi nell’esercito del Bene o in quello del Male.

Se proprio devo scegliere, io sto con i contadini, i panettieri, gli idraulici, gli operai e gli imbianchini.

Mi stanno a cuore anche le ragioni di questi cosiddetti “cattivi”, che tanto dispiacciono a noi intellettuali. Mi capita di parlare con qualcuno di loro, a volte, anche solo superficialmente, ma quel tanto che basta per accorgermi che la loro “cattiveria”, poi, non è altro che una massiccia dose di buonsenso e disperazione. Non credo che, se manifestano paure, siano paure vigliacche, colpevoli. Mi chiedo piuttosto se non siano anche loro vittime, insieme ai poveretti degli sbarchi. Vittime almeno quanto i migranti che “accogliamo” nei containers per poi farli diventare schiavi e servi, braccianti della raccolta dei nostri pomodori e badanti dei nostri anziani. Parlo dei ceti più deboli, degli italiani che faticano a sopravvivere e abitano in quartieri periferici o degradati, dove subiscono spesso furti e aggressioni. Hanno paura ogni sera di tornare a casa, si sentono stranieri nelle loro città, nei loro quartieri, nella propria casa, nelle classi dei loro figli, accerchiati da altre lingue, altri costumi, altre religioni. Mai protetti, e per giunta additati come razzisti, ignobili, ingenerosi. Sono vittime anche loro. Ma vittime nostrane, italiane, “bianche”: troppo simili a noi, troppo poco esotiche?

La fragilità appartiene a tutti. “Di che reggimento siete/ fratelli?/ Parola tremante /nella notte/ Foglia appena nata/ Nell’aria spasimante/ involontaria rivolta/dell’uomo presente alla sua fragilità/ Fratelli”.

Chi firma appelli saturi di retorica, chi fa girare video edificanti sui social, chi lancia i suoi anatemi sui novelli nazisti, spesso non ha idea di come viva la maggioranza della gente. Abita nelle sue “isole” lontane e lussuose, e predica un’accoglienza che di fatto non sa cosa sia. Accoglienza è una parola meravigliosa. Ma non dovrebbe rimanere solo una parola, tanto meno una metafora. Sono stupita di quanto poco sia intesa in senso letterale, concreto, presso i ceti medi riflessivi. Mi sembra il solito “Armiamoci e partite”. Indigniamoci e accogliete.

Bisognerebbe dare il buon esempio. Fare un gesto vero, letterale, di accoglienza. Ne vedo ben pochi, di questi gesti, nel mondo della classe agiata: com’è possibile? Allora meglio dismettere l’enfasi e la retorica, astenersi dal predicare, e dal giudizio sprezzante.

Sto leggendo Buzzati, Il reggimento parte all’alba, ora ripubblicato nelle bellissime edizioni Henry Beyle. Non l’avevo mai letto. È un inno alla nostra ineluttabile mortalità, al fatto che tutti nasciamo per morire, che a tutti compete questa partenza, un giorno.

“Tutti senza eccezione nella città e anche fuori nelle campagne, valli, rive del mare, per quanto è esteso il mondo, tutti in certo modo appartengono a un reggimento e i reggimenti sono innumerevoli, nessuno sa quanti sono, e nessuno sa neanche quale sia il suo reggimento (…). Però, quando un reggimento parte, chi gli appartiene, pure lui deve partire.

Altri dicono invece che si tratta di navi. Ciascuno è iscritto come passeggero di una nave senza sapere dove sia né il nome. E sono navi strane capaci di salpare dal centro di un arido deserto o dalla precipitosa gola di una montagna. Ma reggimento o bastimento è lo stesso, il fatto è che un bel giorno ciascuno di noi deve partire”.

Ecco, anche Buzzati parla di navi. Bastimenti. Andar per mare. E morire. Ma così come ne parla lui, nessuno è buono o cattivo. Scompaiono gli eserciti, le fazioni, i Giusti e gli Sbagliati, gli Illuminati e i Bui. Di colpo, siamo su un altro piano, pacificato. Nulla di più… egualitario.

Per fortuna ci sono i libri. Soprattutto i libri che non abbiamo letto, che ci sono sfuggiti, nella vita, e che quindi troviamo a un certo punto, inaspettati, sorprendenti. Dovremmo dedicarci a scovarli, e leggerne il più possibile, prima che la nave arrivi, invece di blaterare le formule del Pensiero Dominante. Leggere è da sempre il modo migliore di non lasciarci dominare.




Migranti/Dilaga l’appellite, ultima moda salva-coscienze

A giudicare dalla crisi di “appellite” che da qualche tempo ha colto diversi personaggi pubblici, con particolare veemenza nel mondo degli scrittori (Veronesi, Saviano, finalisti Strega), sembrerebbe che in Italia siano possibili solo due posizioni. Da una parte i sinceri democratici, preoccupati dell’involuzione “autoritaria, xenofoba e razzista” degli italiani, nonché decisi a schierarsi dalla parte del Bene; dall’altra parte tutti gli altri, che ignorano gli appelli dei maestri di virtù per viltà, ignavia, opportunismo, o semplicemente in quanto popolo rozzo e insensibile, stregato dalla propaganda leghista.

Eppure, a quanti non hanno deciso di rinunciare completamente a usare la ragione, dovrebbe essere chiaro che, per chi deve governare l’Italia, non ci sono – in materia di immigrazione – due sole opzioni, di cui una feroce e l’altra umana. No, purtroppo per chi deve decidere, ieri come oggi, ci sono solo alternative tragiche. La scelta non è fra il bene e il male, ma fra due (e forse anche più di due) differenti specie di male. Ecco perché, a mio modo di vedere, il primo dovere di chi studia e di chi informa non è quello di schierarsi risolutamente a favore di uno dei due mali, ma quello di raccontare il lato oscuro di ogni scelta, quel lato che, proprio perché occulta una tragedia, i politici si ostinano a non vedere, ma soprattutto a non dire.

Oggi quel lato oscuro è innanzitutto l’inferno libico. I morti nella traversata nel deserto, di cui non si saprà mai il numero. Le decine di migliaia di persone detenute in campi legali (sotto l’autorità del governo libico), in condizioni disumane. Ma, ancora più terribile, le decine di migliaia di persone ammassate in campi illegali per ottenere un riscatto in denaro o per essere vendute e rivendute come schiavi. E poi c’è l’altro lato oscuro (ma forse è solo la punta dell’iceberg), le migliaia di morti in mare per raggiungere l’Europa, fra traversie e drammi di cui pochi sanno. Chi volesse avere un’idea vivida di tutto ciò può leggere Non lasciamoli soli, un bellissimo libro di testimonianze che Francesco Viviano e Alessandra Ziniti hanno da poco pubblicato con Chiarelettere.

E’ con questo lato oscuro che ogni politica migratoria, quale che sia il suo orientamento, si trova a fare i conti. Può cercare di occultarlo, e spesso ci riesce anche, ma non può cancellarlo. Vale per le politiche di chiusura, ma anche per quelle di apertura.

Prendiamo, ad esempio, la linea Minniti-Salvini. So benissimo che fra Minniti e Salvini ci sono differenze, che la visione del problema migratorio è radicalmente diversa ma, nel breve periodo e sul piano concreto, i capisaldi sono sostanzialmente i medesimi. Ostacolare le partenze, con l’aiuto della guardia costiera libica. Frenare il flusso dal Niger alla Libia meridionale, con l’aiuto delle tribù locali. Aumentare i controlli dei campi legali da parte dell’Onu. Aprire corridoi umanitari direttamente dall’Africa. Incentivare i rimpatri assistiti di chi non ha diritto alla protezione internazionale. Il prezzo è che migliaia di migranti che cercano di entrare in Europa via mare restano intrappolati nell’inferno libico, o vi vengono riportati dalle vedette libiche. Secondo le mie stime, negli ultimi mesi quasi metà dei partenti vengono intercettati e riportati indietro dalla guardia costiera libica. E, anche se è vero che ad attenderli c’è “personale internazionale con le pettorine azzurre”, resta il fatto che la destinazione sono i campi di detenzione governativi, controllati da militari non di rado corrotti e in combutta con i trafficanti di uomini. Questo è il lato imbarazzante della linea dura, inaugurata dal governo Gentiloni (con Minniti) e sostanzialmente confermata dal governo Conte (con Salvini).

Vediamo l’alternativa, ovvero la linea seguita dai governi di Letta e Renzi (ricordo che è stato Enrico Letta a lanciare l’operazione Mare nostrum). Questa linea non si preoccupava né di frenare gli ingressi dal Niger alla Libia, né di imporre la presenza delle organizzazioni internazionali in Libia, né di aprire canali umanitari in Africa, né di rafforzare la guardia costiera libica. Il nucleo era: lasciamoli partire, e aiutiamoli a non morire in mare. I benefici sono sempre stati chiari, e ampiamente sottolineati:  centinaia di migliaia di persone hanno avuto la possibilità di entrare in Europa, perlopiù sbarcando in Italia. Ma i costi?

Vediamoli. Il primo, il più evidente, è stato di moltiplicare i morti in mare. Nel biennio 2012-2013, ovvero subito prima di Mare nostrum, il numero di morti in mare era  relativamente basso, negli anni dell’apertura (2014-2016) è quasi decuplicato. Oggi torna a scendere, ma solo perché è crollato il numero delle partenze (la rischiosità dei viaggi sta invece aumentando). È il dramma della linea dell’apertura: riesce a portare più persone in Europa, ma moltiplica anche i morti. Ed è terribile che, in tutti gli anni del regno di Renzi, non una sola riflessione si sia sentita su questo prezzo dell’apertura.

C’è però anche un altro lato oscuro della linea dell’apertura, ed è il tributo che, senza volerlo, essa paga ai sequestri di persona e allo schiavismo: più persone si mettono in viaggio, più persone attraversano il confine meridionale della Libia. Lì la norma è essere catturati, rinchiusi in un campo illegale gestito da miliziani senza scrupoli, essere umiliati, torturati, stuprati, finché le famiglie (informate via telefono dalle urla strazianti dei prigionieri) non pagano il riscatto richiesto; altrimenti il destino è essere venduti come schiavi, o uccisi perché ormai invendibili come schiavi. Questo business, forse, è ancora più redditizio di quello dei trasferimenti via mare in Europa. La linea dell’apertura verosimilmente lo alimenta, perché il tam-tam corre veloce e, se si sa che ci sono buone possibilità di partire via mare, più persone tentano di raggiungere la Libia dall’Africa centrale, per la gioia dei trafficanti di uomini che controllano buona parte del territorio libico.

Ecco perché dicevo che, purtroppo, la scelta che sta di fronte alla politica non è fra il bene e il male, ma fra due mali diversi. Perché le azioni hanno conseguenze, e spesso le conseguenze sono diverse dalle finalità che si perseguono. Anche se volessimo ignorare del tutto il punto di vista dei ceti popolari, convinti da anni di accoglienza anarchica che in Italia non c’è più posto, e volessimo invece preoccuparci solo del bene dei migranti, il dilemma resterebbe. Non è evidente che il male che facciamo chiudendo sia più grande di quello che facciamo aprendo; così come non è evidente il contrario. Per questo le scelte della politica, almeno finché l’Europa resterà ignava come ha fatto fin qui, non possono che essere tragiche. Non c’è modo di perseguire il bene senza provocare il male. Per chi non vuole autoaccecarsi, come fece Edipo, non c’è “la cosa giusta” da fare, ma solo la scelta fra due corsi d’azione entrambi tragici nelle catene di conseguenze che mettono in moto.

E precisamente per questo gli appelli accorati al nostro “lato umano” mi sembrano quanto meno fuori bersaglio, un logoro esercizio di ostentazione etica, forse buono per rassicurare qualche coscienza, ma incapace di farci fare un solo passo nella comprensione del dramma dei migranti.

 




La solitudine dei numeri di serie A

Di mestiere mi occupo di numeri (insegno Analisi dei dati all’Università di Torino). E di numeri mi capita spessissimo di parlare, in un libro, in un saggio, in un articolo di giornale. E anche qui su “Panorama”, naturalmente. Perciò non ho potuto restare indifferente quando, negli ultimi giorni, è scoppiato il caso Boeri, con quella sua stima di 8.000 posti di lavoro perduti se passerà il “decreto dignità”. Ma lo stesso mi era accaduto quando, durante l’ultima campagna elettorale, Roberto Perotti, dalle colonne di Repubblica, ha cominciato a valutare, uno per uno, i costi dei programmi politici dei principali partiti italiani, giungendo alla conclusione che erano quasi tutti insostenibili.

Oggi come allora la reazione della politica di fronte ai numeri è la squalifica. Se i numeri sono sgraditi, il “produttore di numeri” viene istantaneamente portato sul banco degli accusati, con l’infamante accusa di “fare politica”, ovvero di manipolare le cifre a sostegno di una parte e a danno di un’altra. Un’accusa che, prima o poi, colpisce tutti coloro che maneggiano numeri delicati, o “politicamente sensibili”.

Se butti lì un stima, azzardatissima e priva di qualsiasi serio riscontro scientifico, di quante tonnellate di piselli si producono in Italia, puoi stare certo che nessuno metterà in discussione la tua stima. Ma se ti azzardi a dire quanto costerebbe l’abolizione della legge Fornero e il ritorno al sistema precedente, anche se lo fai nel modo più accurato possibile, calcolando (e dichiarando) i margini di errore delle tue stime, puoi stare certo che ci saranno un bel po’ di politici che ti azzanneranno, accusandoti di non essere super partes.

Eppure ci sono numeri che sono quelli che sono. Non nel senso che sono esatti (quasi tutti i numeri di cui si parla sono il risultato di stime, e quindi sono soggetti a margini di errore) ma nel senso che nessuno li metterebbe in discussione in un consesso di osservatori competenti e intellettualmente onesti. Detto altrimenti, ci sono numeri di serie A, difficilmente controvertibili, e numeri di serie B, e persino C, che è bene guardare con grande circospezione.

Le stime Istat dell’occupazione, ad esempio, sono di serie A, le stime dell’evasione fiscale sono di serie B, le stime dell’economia illegale sono di serie C. E, sia chiaro, quel che determina in che serie gioca un determinato numero non è solo l’autorevolezza scientifica di chi lo produce, ma anche la difficoltà del compito. Un numero può giocare in serie C, nonostante lo produca l’Istat, il Fondo Monetario o l’Ocse, semplicemente perché non ci sono strumenti affidabili per calcolarlo: è il caso delle previsioni della crescita del Pil a 1 o 2 anni, che si rivelano quasi sempre estremamente inaccurate, quando non decisamente sballate. Così un numero può giocare in serie A per il solo fatto che è meccanicamente generato da una fonte amministrativa, come accade con le quantità di auto circolanti in Italia o con il numero di unità vendute di un certo prodotto.

I politici fanno due errori logici. Il primo è di trattare numeri di serie A come se fossero numeri di serie B o C. Il secondo è di confondere impegno politico e manipolazione numerica: il fatto che un produttore di numeri faccia politica non implica che tutti i numeri che produce giochino in serie C. Questo è esattamente il caso di molte delle cifre fornite da Perotti o da Boeri, che la stragrande maggioranza degli studiosi imparziali considererebbe plausibili, senza preoccuparsi del fatto che i loro produttori siano politicamente schierati con una parte politica.

Tutta colpa dei politici, che non sanno e non vogliono riconoscere i numeri di serie A, ovvero quelle cifre che uno studioso onesto e ben informato dovrebbe accettare come sostanzialmente corrette?

No, non è tutta colpa dei politici. Anzi io li assolvo, perché in fondo fanno il loro gioco. La politica, con poche eccezioni, è manipolazione in vista del consenso. E lo è in modo così naturale e sistematico che spesso i manipolatori non se ne rendono conto. Quante volte mi è capitato di discutere, in pubblico, con dei politici sinceramente convinti che le assurde cifre che davano fossero corrette! Il fatto è che, quando si è schierati da una parte, e si è perduta ogni curiosità del mondo, si diventa macchine che immagazzinano esclusivamente le informazioni coerenti con le proprie credenze. Lo aveva scoperto negli anni ’50 il grande psicologo sociale Leon Festinger studiando le sette, ma vale perfettamente per il ceto politico di oggi (nonché per molti miei amici…).

Quel che può fare la differenza non è la qualità dei politici, ma l’ambiente in cui si trovano a operare; l’ambiente in cui sono “costretti” ad operare, mi vien da dire. Se i numeri di serie A non riescono ad imporsi, buona parte della responsabilità è di giornalisti e studiosi. In Italia la maggior parte dei giornalisti e conduttori televisivi semplicemente non sono in grado di contestare ai politici i numeri che questi ultimi enunciano con sicurezza o respingono con sdegno, neppure nei casi più clamorosi e ovvi; né vale obiettare che conoscere i numeri non è compito dell’informazione, visto che ci sono paesi (Regno Unito e USA, ad esempio) in cui i giornalisti lo sanno fare.

Ma la colpa più grande è di noi studiosi. Non solo in Italia, le discipline che si occupano di numeri (economia, sociologia, scienza politica, psicologia) hanno tuttora una fortissima componente ideologica, o di impegno sociale. E chi è fortemente identificato con una causa, specie se universalmente riconosciuta come una buona causa, per lo più non esita a piegare i dati alla causa stessa, negli infiniti modi che il nostro mestiere ci consente. Ecco perché, quando un politico si trova di fronte numeri per lui imbarazzanti, trova sempre uno studioso che gli presta la propria scienza, la propria autorevolezza, o semplicemente il suo biglietto da visita (“docente di X presso l’Università Y) per demolire quei numeri, anche se sono numeri di serie A, che in un contesto neutrale nessuno si sognerebbe di mettere in dubbio.

Articolo pubblicato su Panorama il 26 luglio 2018