Perché non credere ai sondaggi

Da anni, da quando ho iniziato ad occuparmi di sondaggi, soprattutto politici ma non solo, ho sempre fatto riferimento ad uno strano decalogo, quasi un decalogo all’incontrario: 10 buoni motivi per cui è opportuno non credere ai sondaggi, o meglio, ai risultati di un sondaggio. Gli errori insiti nel procedimento demoscopico sono così numerosi che, anche a cercare di far le cose in maniera il più corretta possibile, è quasi impossibile arrivare ad una soluzione che rispecchi esattamente il pensiero della popolazione di riferimento. Ci si può avvicinare, certo, ma con grandi margini di imprecisione.

Pensate soltanto ai quotidiani sondaggi sulle intenzioni di voto. Si utilizzano campioni di un migliaio di casi, quando va bene, per stimare partiti che a volte stanno attorno al 4%, e che con il classico “errore di campionamento” del 2-3% potrebbero valere dall’1% al 7%. Senza senso. Ma anche per le forze politiche più robuste le stime rimangono parecchio aleatorie. Su 1000 persone che rispondono, almeno 350-400 sono indecisi o astensionisti, e già qui il campione si riduce a 600 casi, con un margine di errore che sale a +/- 4%. Quindi, se ottengo una percentuale di consensi per la Lega, ad esempio, pari al 32%, vorrà dire che sono quasi certo che la Lega viaggia tra il 28% ed il 36%. Tutto e il contrario di tutto: se fosse al 28%, sarebbe in crisi, al 34% sarebbe in gran spolvero. Sostanzialmente, quel sondaggio non mi serve a niente, non mi dice nulla di più di quanto non sapessi già.

E questo per limitarci al solo errore statistico “misurabile”. Mentre nulla sappiamo di tutte le altre distorsioni non quantificabili: le sostituzioni del campione, l’auto-selezione dei rispondenti, l’errore di rilevazione, le bugie consapevoli e inconsapevoli, gli “auto-inganni”, l’influenza del mezzo di rilevazione, la desiderabilità sociale, la ristrutturazione del ricordo di voto, le risposte acquiescenti, l’impatto dell’intervistatore, l’aleatorietà delle opinioni e così via.

Last ma non certo least, il cosiddetto “wording”, vale a dire la scelta delle parole utilizzate per porre una certa domanda, che ha una influenza a volte così decisiva sui risultati dei sondaggi che in alcune occasioni le opinioni di campioni della popolazione, interrogati nello stesso giorno da due istituti di ricerca differenti, divergevano nettamente le une dalle altre.

Il caso più noto ci riporta a quanto avveniva negli USA durante la guerra del Vietnam: i quotidiani pro-intervento pubblicavano sondaggi in cui emergeva come la maggioranza degli americani fosse favorevole a “proteggere il popolo vietnamita (e americano) dall’influenza sovietica”; i quotidiani anti-interventisti pubblicavano viceversa sondaggi dove la maggioranza si dichiarava contraria a “mandare i propri figli a combattere e a morire in Vietnam”. Ma tutti i giornali titolavano semplicemente: “Gli americani sono a favore (oppure contro) il ritiro delle truppe”.

Questo esempio, unitamente a molti altri dello stesso tenore, ci induce infine a porci la cruciale domanda: fino a che punto è possibile “manipolare” un sondaggio, indirizzare cioè già dalla formulazione delle domande gli esiti delle interviste, ancora da realizzare? Per tentare di rispondere a questo quesito ho condotto un esperimento, in un mio recente laboratorio universitario. Ho redatto due questionari sulla qualità della vita a Milano, uno mirato ad ottenere un esito “positivo” e l’altro “negativo” su numerosi aspetti della vita milanese, e in particolare sulla accoglienza del programmato incremento di 50 centesimi del biglietto dei trasporti pubblici, deciso dal Comune.

Ho mandato poi gli studenti del laboratorio ad effettuare 600 interviste a due campioni gemelli con i due diversi questionari. I risultati hanno certificato, almeno in parte, le aspettative. I giudizi sugli aspetti considerati differiscono di quasi 20 punti percentuali tra il “positivo” e il “negativo”, con differenze piuttosto significative (oltre il 30%) per quanto riguarda soprattutto la dotazione commerciale, la manutenzione stradale e, come c’era da aspettarsi, il tema dell’immigrazione e dell’integrazione. Meno evidente, inaspettatamente, il “distacco” sul problema della sicurezza percepita.

In generale, peraltro, la buona percezione della qualità della vita a Milano è stata ribadita in entrambi gli approcci, con un livello di soddisfazione comunque elevato, costantemente superiore al 70% di giudizi positivi. Segno evidente che, se la gente è abbastanza soddisfatta, risulta difficile indurla alla negatività, anche con strumenti manipolatori.

C’è però un dato, infine, che getta una luce obliqua sulle capacità manipolatorie del “wording”, ed è quello che riguarda il giudizio sull’incremento del biglietto dei mezzi di trasporto. In questo caso, le differenze sono davvero molto sensibili: con l’approccio “positivo” l’opinione favorevole all’aumento del costo è pari al 69%, con quello “negativo” si riduce ad un misero 22%. Un abisso.

Che cosa farà dunque un’Amministrazione comunale “perversa” per far accettare ai suoi cittadini una qualsiasi propria iniziativa? Semplicemente, diffonderà con molta enfasi risultati di sondaggi manipolati, in cui risulta che la popolazione è particolarmente favorevole a quella iniziativa. Attenzione, dunque, quando appaiono sui giornali titoli evocativi di sondaggi effettuati: è opportuno, in ogni occasione, non fidarsi. Meglio andare a verificare “come” sono state poste le domande.




Odio o senso di ingiustizia?

Riassumiamo i fatti. L’altro ieri i residenti di Torre Maura (quartiere di Roma) hanno dato vita a una rivolta, con vari episodi di violenza e di intimidazione, quando si sono accorti che il Comune stava trasferendo 77 rom in un centro che, fino a poco prima, aveva ospitato alcune decine di migranti. Gli abitanti di Torre Maura, recentemente “liberati” della presenza dei migranti, non ci hanno visto più quando se li sono visti sostituire con i rom.
L’operazione rientra nella cosiddetta “terza via” di Virginia Raggi: trovare un compromesso fra il buonismo “senza sé e senza ma” della sinistra e il cattivismo, anch’esso senza se e senza ma, della Lega e del suo leader Salvini.
L’idea è (o meglio era) di sgomberare i campi rom, assicurando percorsi di reinserimento individuale (formazione, lavoro, alloggio, ritorno in Romania), ampiamente finanziati dalla mano pubblica. Una strategia già tentata senza grande successo l’estate scorsa con il campo rom di Prima Porta (Campo River). Oggi, forse scottata da quell’esperienza, la sindaca la riformula in modo un po’ più filosofeggiante: “Su migranti e campi rom sto portando avanti la ‘terza via’: inflessibili con i delinquenti, accoglienti con le persone fragili. Semplificare i temi complessi è sbagliato”.
Giustissimo, ma più facile a dirsi che a farsi. Perché portare in blocco 77 rom in un quartiere degradato, che ha già enormi problemi, dallo stato penoso degli alloggi comunali ai roghi dei cassonetti, che cos’è se non un modo semplicistico di affrontare il problema? (e infatti l’Amministrazione comunale ha già fatto macchina indietro: i 77 rom, in massima parte donne e bambini, saranno portati tutti via entro una settimana).
Semplicistico, soprattutto, è prendersela con l’ira popolare senza comprenderne le ragioni. Ragioni che non giustificano in alcun modo gli atti violenti e le manifestazioni di odio (su cui già indaga la Procura) ma che hanno una loro macroscopica consistenza. Proviamo a riassumerle, una ad una.
Prima ragione. La gente non capisce perché si continui a parlare di periferie degradate, della necessità di riqualificarle, dell’urgenza di un ritorno della politica nei quartieri, e poi non riesce né a tener pulite le strade (che è il minimo sindacale per un’amministrazione), né a garantire la sicurezza (che è il minimo sindacale per uno Stato), e come se questa assenza non fosse già abbastanza colpevole scarica su un territorio già stremato i problemi di specifici gruppi sociali (migranti e rom), peraltro noti per un tasso di criminalità superiore alla media.
Seconda ragione. La gente non capisce perché un cittadino italiano ordinario, per vivere, debba sbattersi in cerca di un lavoro e di una casa, mentre alcuni gruppi sociali “speciali” paiono godere di una sorta di diritto a reddito e alloggio. E ancor meno capiscono che altre minoranze sventurate, questa volta costituite da cittadini italiani, non godano di altrettanti diritti e attenzioni (“andate via, fate venire i terremotati che stanno sotto la neve!” è una delle frasi che si sono ascoltate durante le proteste a Torre Maura).
Terza ragione. La gente non capisce la “terza via” perché sa perfettamente come andrà a finire: il lato buonista premierà le persone fragili (o presunte tali), il lato cattivista resterà lettera morta. Perché è facilissimo spendere soldi dei contribuenti o dell’Europa per gestire l’accoglienza, è praticamente impossibile arginare i comportamenti illegali (le periferie non sono presidiate dalle forze dell’ordine, intere porzioni del territorio sono in mano alla criminalità, chi infrange le leggi può tranquillamente essere arrestato e liberato decine di volte).
La realtà, temo, è che la Terza via, attuata con tanta improvvisazione (pare che dell’operazione di trasferimento a Torre Maura non fosse stato informato neppure il presidente grillino del VI Municipio, di cui Torre Maura fa parte), non possa che rafforzare il cattivismo cui pretende di porre un freno. Certo, se si pensa che le reazioni rabbiose al trasferimento dei rom siano dovute alla rozzezza del volgo romano, o all’estrema destra che soffia sul fuoco, aizzando i peggiori istinti popolari, allora non c’è niente da fare: fascismo e razzismo avanzano tenendosi per mano, e tocca ai sinceri democratici resuscitare antifascismo e antirazzismo, i due grandi anticorpi alla disumanizzazione trionfante.
C’è però anche un altro modo di mettere le cose. A giudicare dai resoconti della protesta, dalle frasi e dagli slogan che si sono sentiti, il sentimento centrale che pare animare la protesta non è l’odio ma, forse più semplicemente e umanamente, un forte, fortissimo, disperato senso di ingiustizia. Chi fatica a sbarcare il lunario in un quartiere degradato, non riesce a capire perché i migranti non siano inviati in altri quartieri delle città (già: perché?), soprattutto in quelli del politicamente corretto i cui abitanti manifestano orgogliosamente in favore dell’accoglienza. Ma soprattutto non capisce un’altra cosa: perché, nella distribuzione delle risorse pubbliche, la maggior parte dei cittadini siano lasciati soli, a giocare la loro difficilissima battaglia individuale per la sopravvivenza, mentre ad alcuni gruppi e minoranze (rom e migranti innanzitutto) è accordata una speciale precedenza e attenzione, il tutto senza che alcun merito, o fragilità estrema, giustifichi una tale differenza di trattamento.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del  4 aprile 2019




Pirati per necessità

Nei giorni scorsi un mercantile turco, che aveva tratto in salvo oltre centro naufraghi al largo della Libia, è stato dirottato (verso Malta) da alcuni di coloro che aveva messo in salvo. Ora, grazie all’intervento delle forze armate maltesi, i dirottatori sono agli arresti, mentre gli altri naufraghi sono ospitati nei centri di accoglienza maltesi. Non appena si è capito che la vicenda non avrebbe interessato direttamente l’Italia ma avrebbe toccato solo Malta, l’eco della notizia si è però rapidamente spento sulla maggior parte della grande stampa. Non saprei se la ragione sia il provincialismo, che fa sembrare rilevanti solo le notizie che riguardano l’Italia, o sia più semplicemente il timore di mettere in cattiva luce i migranti (da poveri naufraghi a dirottatori), ma resta il fatto che di quella vicenda si parla poco. Ed è un vero peccato, perché proprio il fatto che, finalmente, noi non c’entriamo e il cattivo Salvini non ha alcun ruolo (se non quello di appioppare l’epiteto di “pirati” ai naufraghi), ci metterebbe nella condizioni ideali per fare una riflessione non troppo condizionata dall’emotività e dai pregiudizi ideologici.
Eppure questo tipo di riflessione è quanto mai urgente. L’avvicinarsi della bella stagione non può non moltiplicare i tentativi di entrare in Europa via mare, ed è gravissimo che l’Europa stessa non abbia una linea, o meglio abbia come unica linea quella di ritirare quel poco di controllo delle frontiere che aveva messo in piedi con l’operazione Sophia (ora sostanzialmente dismessa), lasciando all’Italia e a Malta il cerino acceso dei naufragi e degli sbarchi.
L’episodio del dirottamento mostra che ci troviamo, ormai, di fronte ad un problema insolubile nel quadro delle regole vigenti. La legislazione internazionale che impone il soccorso in mare e l’accompagnamento nel porto sicuro più vicino richiede non solo un accordo chiaro su che cosa si debba intendere per “porto sicuro” ma anche una disponibilità dei porti sicuri ad accogliere i naufraghi. E’ difficile sostenere, al tempo stesso, che dobbiamo aiutare la Libia a bloccare le partenze, ma non possiamo riportare in Libia i naufraghi salvati lungo le sue coste perché la Libia non è un approdo sicuro. Per non parlare dei porti della Tunisia, considerati sicuri o meno a seconda delle circostanze e dei punti di vista, e comunque tutt’altro che pronti a farsi carico dei naufraghi.
Ma supponiamo pure che, a un certo punto, si arrivi a stabilire quali porti sono sicuri e quali no, e persino che Francia, Spagna, Grecia e Cipro (gli altri paesi euro-mediterranei, oltre a Italia e Malta), aprano improvvisamente e generosamente i loro porti. Sarebbe una soluzione? Potremmo dire che l’Europa, non lasciando più “sole” Italia e Malta, ha finalmente capito il problema?
Temo che la risposta sia no. Una linea del genere, infatti, non farebbe che moltiplicare le partenze dall’Africa, arricchendo il business dei trafficanti. Naufragi programmati e dirottamenti si moltiplicherebbero: una volta affermato il principio che chiunque riesca a farsi salvare in mare, persino se dirotta o fa dirottare una nave, ha il diritto di essere condotto in Europa per fare una domanda di asilo (che nel 90-95% dei casi sarà respinta), il risultato non potrà che essere un aggravamento del problema degli ingressi illegali: accanto a una piccola minoranza di rifugiati, non potrà non crescere la massa degli irregolari, che già tante tensioni sta suscitando in quasi tutti i paesi europei.
Naturalmente si può obiettare che, in realtà, dovremmo accogliere tutti, che i mercantili devono essere pronti, all’occasione, a comportarsi come navi delle Ong, e persino assuefarsi al “dirottamento per necessità”. La ragione sarebbe che chi parte dalla Libia fugge da veri e propri campi di concentramento, come quelli dei nazisti.
Ebbene, forse è giunto il momento di dire chiaramente almeno due cose. La prima è che il principio dell’asilo politico è stato concepito, a suo tempo, per gestire casi individuali o di piccoli gruppi. Nessuno Stato può accettare il principio per cui basta provenire da un paese che non rispetta i diritti umani per acquisire il diritto di entrare in un paese democratico. Chi sostiene questo principio deve essere pronto a portarlo alle estreme conseguenze, prima fra tutte la circostanza che sono alcuni miliardi le persone che potrebbero pretendere di usufruire di questo diritto. Un discorso analogo vale per l’obbligo di salvataggio in mare, un nobile principio che fu concepito senza immaginare che un giorno sarebbe stato sfruttato dai trafficanti di uomini per pianificare viaggi pericolosi, che senza la prospettiva del soccorso in mare non sarebbero stati intrapresi.
La seconda cosa che vorrei dire è che dovremmo avere un po’ più di rispetto per gli ebrei e per tutte le vittime della ferocia nazista. La narrazione per cui sui su barconi e gommoni ci sarebbero essenzialmente persone fuggite dai campi di prigionia del governo libico, dipinti come lager nazisti, è incompatibile con quel poco che si sa dei flussi migratori che alimentano le traversate del mediterraneo. La maggior parte dei resoconti su torture, stupri, vendita come schiavi, sequestri a scopo di estorsione non riguardano i campi governativi (sicuramente non degni di un paese civile), ma provengono dalle testimonianze di persone che sono state catturate e imprigionate in campi di prigionia completamente illegali, gestiti dai signori della guerra che spadroneggiano sul suolo libico, specie nel sud e al confine con il Niger. E’ qui, a quel che risulta da molte testimonianze, che si consuma il vero dramma dei migranti: chi ha abbastanza soldi per pagare viaggio e traversata tenta di arrivare sulla costa (spesso dall’Africa subsahariana), ma una volta arrivato nel sud della Libia viene sequestrato e portato in campi illegali, dove i trafficanti di uomini gli estorcono altro denaro, per lo più ricattando le famiglie. E questo traffico, con il carico immane di violenze che porta con sé, è alimentato precisamente dalla possibilità di attraversare il mediterraneo, grazie al combinato disposto di scafisti, Ong, navi mercantili costrette a salvare i naufraghi, ed ora anche a portarli dove vogliono loro.
Forse, più che dividerci fra buoni e cattivi sulle politiche migratorie, sarebbe il caso di prendere atto che nessuno, né l’Europa assente, né il crudele governo giallo-verde, né la sinistra dura pura e generosa, sono ancora stati capaci di trovare una soluzione non dico ragionevole (perché probabilmente una tale soluzione non esiste), ma anche solo decente a questo dramma dei nostri tempi.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 30 marzo 2019




Automazione e perdita di controllo

Ha suscitato una viva impressione il disastro aereo del Boeing 737 dell’aviazione etiope, che è costato la vita a 157 persone. Impressione, certo, perché un disastro aereo fa sempre impressione. Ma impressione anche per altri motivi. In Europa occidentale non siamo più abituati ai disastri aerei (l’ultimo risale a 11 anni fa, in Spagna). La compagnia produttrice dell’aereo, l’americana Boeing, è il più grande produttore di aerei civili del mondo. E poi, soprattutto, le cause presunte del disastro: la ipotesi più accreditata è che il disastro, in questo caso come in un altro di pochi mesi fa in Indonesia, sia stato provocato da un difetto di un sottosistema di controllo automatico (software) della stabilità e correttezza dell’assetto del velivolo, che sarebbe entrato in conflitto con il sistema di guida manuale, ovvero con i tentativi del pilota (essere umano) di correggere gli ordini del “software”.
Sapremo, forse, come sono andate le cose, solo quando i tecnici avranno recuperato e analizzato i dati della scatola nera, nonché raccolto tutte le altre informazioni necessarie per tentare una ricostruzione attendibile di quel che è successo. Fin da ora, però, c’è una cosa che possiamo registrare: l’ipotesi di un disastro dovuto a una cattiva interazione fra operatore umano e software è considerata verosimile. Anche se si scoprisse che la causa è stata tutt’altra (la meno accreditata: un attentato) resterebbe il fatto che le cose potrebbero essere andate così, e comunque quasi sicuramente sono andate più o meno così in un precedente disastro, sempre con un Boeing 737, avvenuto pochi mesi fa in Indonesia (in quel caso con 189 vittime).
Di fronte a questa eventualità, e cioè che sia stata una cattiva interazione fra operatore umano e procedure automatiche a causare il disastro, possiamo naturalmente liquidare la questione (qualcuno lo ha già fatto) notando che sono molto più numerosi i casi in cui la tecnologia evita i disastri che quelli in cui li provoca. Possiamo anche spingerci ad accusare di luddismo, o di avversione irrazionale al progresso, quanti segnalano i rischi talora connessi all’interazione uomo-macchina. Ma sarebbe saggio?
A mio parere no. Perché se è vero che ci sono innumerevoli situazioni in cui la cooperazione fra operatori umani e supporti tecnologici più o meno automatici funziona perfettamente, è altrettanto vero che ci sono ambiti nei quali le cose sono assai più problematiche.
Alcuni di tali ambiti sono apparentemente innocenti. Se lascio libero il correttore automatico di infierire sull’articolo che sto scrivendo, posso star sicuro che la parola Pasolini verrà sostituita con ‘pisolini’, e hackeraggio con ‘shakeraggio’. Se messaggio distrattamente con il telefonino, dovrò vigilare perché la mia firma (ricolfi) non diventi ‘rivolgi’.
Ma prendete un caso più serio. Se programmo in un certo linguaggio, e uso un editor amichevole (cioè rivolto a un utente ignorante), non è infrequente che il programma mi suggerisca, e talora mi imponga, che cosa scrivere dopo una certa istruzione. O mi avverta continuamente che non ho completato una espressione, o che ho commesso un errore di sintassi. Questi interventi sono quasi sempre fastidiosi, e non di rado dannosi (perché devi perdere tempo a scovare dove il software ha messo le sue parole al posto delle tue). Ma soprattutto sono rischiosi, perché attenuano la nostra vigilanza e le nostre capacità di attenzione: a forza di essere assistiti da un programma, diventiamo meno bravi a scrivere programmi complessi, che richiedono piena padronanza di una sequenza complicata di passaggi.
Andiamo oltre. Se apri il computer può capitare che il sistema operativo ti obblighi a interagire con una nuova risorsa (per esempio un assistente vocale), che tu non hai richiesto, né hai la minima intenzione di usare. Per non parlare di una qualsiasi, normalissima, visita a un sito internet. Prima di poter fare, finalmente, quello per cui ti sei recato colà, ecco una serie di perentorie richieste di interazione: approvi le nostre politiche sulla privacy? ci autorizzi a usare cookies, cioè a schedarti e pedinarti (naturalmente “per migliorare il servizio”)? vuoi accedere a quell’informazione (se sì devi registrarti)? ti piace quel che hai visto? perché non lasci un commento?
Fin qui, direte, è solo interazione molesta. Niente a che fare con il dramma dell’aereo precipitato. Può darsi, ma non ne sarei sicuro: in entrambi i casi, pur nell’enorme differenza fra una immane tragedia e uno sciame di seccature, c’è una sostanziale perdita di controllo dell’operatore umano, che può incontrare difficoltà ad affrancarsi dalla tutela del software, o può non esserne capace, o semplicemente può trovarsi nell’impossibilità di farlo perché il software non lo consente. Una perdita di controllo che può diventare insopportabile quando, a essere obbligati a interagire con il software (e spesso solo con il software), sono i disperati cittadini di fronte ai mostri burocratici che governano le reti elettriche, il gas, la telefonia, la previdenza, tutti enti divenuti ormai inaccessibili agli esseri umani, costretti a interagire a distanza, inviando mail cui, di norma, risponderà automaticamente un apposito software. Né oso immaginare che cosa potrà succedere quando, con Internet of things e le reti 5G, tutti saremo collegati con tutto, con conseguente moltiplicazione dei rischi e delle vulnerabilità, dai furti informatici agli hackeraggi ai black-out.
Ma dove la cooperazione fra software ed esseri umani sta assumendo i tratti più inquietanti è, probabilmente, nei due pilastri dello Stato sociale, ossia la sanità e l’istruzione. Qui proprio la disponibilità di supporti più o meno intelligenti, di dispositivi più o meno autonomi, spesso rischia di prosciugare le capacità di chi con essi deve interagire e cooperare. Accade così che strumenti nati per potenziare le prestazioni di operatori umani, in un primo momento migliorino il servizio, perché i rispettivi contributi si sommano, ma poi lo peggiorino, perché i contributi si sottraggono: l’operatore umano rinuncia a sapere quel che presume possa sapere al posto suo il software cui lui si affida.
Non sarebbe grave, se si trattasse solo di taxisti che, a navigatore spento, non ti sanno portare da nessuna parte, o di automobilisti che non sono in grado di cambiare una ruota dell’auto perché non c’è campo, e quindi non possono chiedere a Google come si fa (così in The mule, ultimo film di Clint Eastwood). Ma il problema si fa serio quando un professore non è in grado di tenere due ore di lezione senza una montagna di slide. O quando un medico non è in grado di fare una visita clinica, o di formulare una diagnosi senza una caterva di esami strumentali.
In questi casi il mito dell’interazione uomo-macchina perde un po’ del suo smalto, perché rivela quel che essa in realtà è: nient’altro che un Giano bifronte, come la maggior parte delle conquiste dell’umanità.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 17 marzo 2019




In attesa di nuovi leader. Intervista a Luca Ricolfi

L’idea dell’accoglienza, evocata dal Papa, è un’idea molto cristiana ma non è di sinistra. Il giorno dopo sentire risuonare queste parole da un sociologo di sinistra come lei può impressionare. Può spiegare meglio che cosa intende?

Il papa e l’ONU possono permettersi il lusso di rivolgersi all’umanità intera, come se vivessimo sotto un unico super-regime mondiale, più o meno orwelliano. Invece i governanti, finché ci sono gli Stati nazionali, hanno il dovere di difendere i propri cittadini, da cui sono stati eletti. Se poi sono di sinistra hanno anche il dovere di occuparsi degli ultimi, ovvero operai, disoccupati, precari, esclusi, svantaggiati, eccetera. Se non lo fanno, e tendono a sostituirsi al Papa e all’ONU in nome del dovere dell’accoglienza di cittadini provenienti da altri Stati, vengono puniti dai loro elettori. Il governo gialloverde non è una meteora piombata sulla politica italiana dal cielo, ma la logica conseguenza della rinuncia dell’establishment progressista ad occuparsi degli ultimi.

Ministri fuori dai ministeri, politici fuori dalle Camere e presentissimi sui social network e in tv. È una degenerazione senza via di uscita o un mutamento dell’idea di rappresentanza?

Come mutamento dell’idea di rappresentanza mi pare poco riuscito, almeno nel caso dei Cinque Stelle: il 98% dei votanti per i Cinque Stelle non è iscritto alla piattaforma Rousseau.

E chi ci governa davvero dal momento che chi dovrebbe farlo è impegnato a comunicare ciò che non ha più il tempo di fare?

In realtà il tempo per il “fare” lo trovano. Solo che è un fare demoralizzante: nomine, spartizioni, lottizzazioni, regole cucite su misura di lobby varie (taxisti, per esempio) e di segmenti elettorali più o meno di nicchia. Tutto per acchiappare consenso, non certo per affrontare i problemi del paese…

È trascorso un anno dal 4 marzo 2018, il voto che anche a suo dire ha modificato e anzi ‘sconquassato’ le modalità della lotta politica. Sì è solo imbarbarita o è una mutazione genetica più profonda? E si può tornare indietro?

La mutazione riguarda la società italiana, prima ancora della politica. Quindi suppongo che non si possa tornare indietro. A meno che per ‘tornare indietro’ si intenda un ritorno della sinistra al governo, evento invece perfettamente possibile.

La ricchezza del Paese in quest’anno è sensibilmente diminuita. Gli ultimi dati parlano però di un bilancio degli operatori finanziari tornato positivo. Vuol dire che si allarga la forbice tra chi perde e chi guadagna? O si può intravedere qualche segnale di ottimismo?

Contrariamente a quanto dicono le opposizioni, non è vero che – sul piano economico – tutto va male da quando c’è il governo Conte: va male quasi tutto, non tutto. Fra le cose che non vanno male c’è l’occupazione (che è stabile da qualche trimestre) e la ricchezza finanziaria, che è minore di com’era il 4 marzo dell’anno scorso, ma maggiore (per un ammontare di 21 miliardi) di com’era a fine maggio, quando si è insediato il governo giallo-verde.

La cosa interessante è che il colpo più micidiale alla ricchezza finanziaria del sistema-Italia non l’ha dato la polemica sull’Europa (quelle perdite virtuali sono già state riassorbite) ma il trimestre di incertezza nella formazione del governo, culminato con l’azzardo Cottarelli (per i dettagli: fondazionehume.it).

L’assistenzialismo del reddito di cittadinanza, è una delle sue tesi più note, sta creando cittadini assistiti più ricchi dei lavoratori cosiddetti atipici o forse sarebbe meglio dire sottopagati. Teme che questa contraddizione deflagri in uno scontro sociale?

Più che temerlo, me lo auguro, naturalmente a condizione che il conflitto resti pacifico. Chi come me è contro i privilegi e le diseguaglianze ingiustificate non può veder bene l’emergere di una frattura sociale, quella che separerà chi guadagna sudando e chi nullafacendo.

La Lega sembra aver capitalizzato la fiducia degli italiani nonostante sulla sicurezza non sembrano essere stati fatti passi avanti. Al contrario, i casi di cronaca nera sono sempre più paurosi. E non si intravedono nuove politiche sull’immigrazione. Come se lo spiega?

La gente non era arrabbiata perché criminalità e immigrazione dilagano, ma perché il precedente governo negava l’esistenza del problema. E’ possibile che prima o poi anche a Salvini venga chiesto il conto, ma si dimentica troppo spesso una cosa: per mettere in crisi Salvini bisognerebbe strillare che la criminalità e gli ingressi irregolari sono in aumento, e questa è precisamente la cosa che i media progressisti sono propensi a non fare, sia quando l’allarme è giustificato sia quando non lo è. Fossi Salvini dormirei ancora per un po’ fra due guanciali (però non metterei l’immagine su internet).

Rispetto al Contratto, che pure è stato già un grave vulnus nel modo di vedere la rappresentanza nella nostra Repubblica, che cosa può dire che è stato attuato e che cosa no? Vede promesse mantenute?

Sì, ne vedo, anche se in modo alquanto parziale: reddito di cittadinanza al 30%, Fornero e quota 100 al 25%, flat tax al 2%.

Come si esce da quello che lei ha definito il trash della politica? In questa mediatizzazione che scavalca i contenuti pensa che l’elezione di Zingaretti sia una delle conseguenze dell’effetto Montalbano?

No, penso sia una conseguenza della disciplina del popolo di sinistra.

Una domanda da profeta più che da studioso: si attende la nascita di nuovi leader?

Sì, mi attendo che qualcuno ci provi.

In quale area esiste il vuoto da cui può nascere un Macron o un De Gasperi?

L’area in cui può nascere qualcosa di nuovo è una sola: è l’area degli smarriti.

E cioè?

Gente semplice, che non frequenta i salotti, ma viene disprezzata perché non urla e conserva un po’ di educazione.

Intervista a cura di Sabrina Cottone pubblicata su Il Giornale de 5 marzo 2019