Quant’è bella eresia L’ impresa eccezionale è restare ortodossi…

«Fece la fine dell’abbacchio ar forno /Perchè credeva ar libbero pensiero, /Perchè se un prete je diceva: -È vero/ Lui risponneva -Nun è vero un corno!». Questi versi dell’immortale Trilussa fanno venire in mente uno dei buchi neri del carattere nazionale, la passione inesausta per gli eretici. Basta che uno scenda in piazza per dire «non è vero un corno», per riscuotere l’ammirazione e la simpatia degli italiani o meglio dell’intellighentzia che, nel nostro paese, si ritiene lo specchio più fedele dell’opinione pubblica colta e pensante. Solo da noi, se ci si pensa bene, per esaltare qualcuno—specie post mortem—si dice che «fu un eretico!». Essere stato un «ortodosso» (il contrario, appunto, di eretico) equivale a venir accusato di conformismo se non di servilismo. L’eretico può sempre contare su una buona stampa indipendentemente dall’obbligo di rispondere a domande non retoriche come: «ribellione a chi? E perché?». Il pregiudizio positivo, tipico dei popoli immaturi, porta a esaltare gli oppositori, in virtù del principio che la critica è sempre una manifestazione di vitalità. «Sono lo spirito che sempre dice no/ Ed a ragione. Nulla/c’è che nasca e non meriti/ di finire disfatto». Si direbbe che questi siano i versi del Faust di Goethe che più hanno colpito i nostri chierici. Non si spiegano, altrimenti, l’entusiasmo di non pochi storici per gli avversari radicali di Robespierre, di Stalin, di Mao, dello stesso Hitler. Cosa importa che contestassero l’Incorruttibile perché non tagliava abbastanza teste o «l’Uomo che più di tutti ha fatto per la liberazione e per il progresso dell’Umanità» (così “L’Unità” diede la notizia della morte di Stalin), di non fare abbastanza…L’importante è criticare, criticare, criticare nella certezza che dalla contestazione la libertà uscirà armata come Athena dalla testa di Zeus. Ma è proprio sempre così?

Non vorrei essere equivocato. Sappiamo tutti che senza il vento vivificatore della critica—e della stessa protesta—il lago della politica diverrebbe uno stagno malsano. In Politica in nuce, Benedetto Croce scrisse, in proposito, una delle sue riflessioni più profonde: «la vita morale abbraccia in sé gli uomini di governo e i loro avversari, i conservatori e i rivoluzionari, e questi forse più degli altri, perché meglio degli altri aprono le vie dell’avvenire e procurano l’avanzamento delle società umane. Per essa non vi sono altri rei che coloro i quali non si sono ancora elevati alla vita morale; e spesse volte loda e ammira e ama e celebra i reietti dai governi, i condannati, i vinti, e li santifica martiri dell’idea. Per essa ciascun uomo di buona volontà serve alla causa della cultura e del progresso a sua guisa, e tutti in concordia discorde». E tuttavia, come non tutte le ciambelle escono col buco, così non tutte le contestazioni dell’esistente «procurano l’avanzamento delle società umane». Anche fascisti, nazisti e comunisti rifiutavano le democrazie liberali ma non pertanto meritano la gratitudine del mal seme d’Adamo. Il 68, almeno in Italia, ha contestato scuola e università e ne ha contribuito allo sfascio irreparabile. Certo i modelli di democrazia liberale e d’istruzione pubblica, in Italia, in Germania, nella Russia di Kerensky, per molti aspetti lasciavano a desiderare ma le febbri di crescita non si guariscono con la cicuta, sopprimendo il malato tout court.

 In Italia, se si pensa ai versi commossi dedicati dalla stampa mainstream ai vari movimenti giovanili “scaturiti dal basso” —dai girotondi alle sardine—c’è un basso continuo antico che non si riesce a eliminare. Mi riferisco alla persistente contrapposizione del paese reale al paese legale. Tale contrapposizione aveva senso (eccome!) prima del suffragio universale, quando gli attori politici e sociali che contavano erano un’esigua minoranza, rispetto alla stragrande maggioranza della popolazione che non aveva voce né rappresentanza. Quando la patria era quella di lor signori richiamarsi agli ‘esclusi’ non era solo democratico ma altresì liberale, giacché significava il riconoscimento della dignità di tutti i cittadini, anche di quelli male in arnese.

Col suffragio universale, però, le cose sono radicalmente cambiate: la legalità—i rappresentanti del popolo sovrano— è diventata, piaccia o no, il fondamento della legittimità—il diritto/dovere degli eletti a governare e a fare le leggi—  e continuare a opporre la seconda alla prima ingenera il sospetto che si voglia esentare le presunte “guide della nazione”—depositarie del senso elevato dello Stato e della difesa della Costituzione antifascista— dal mettersi da parte in caso di sconfitta elettorale. Di qui l’entusiasmo nei confronti dei “giovani adulti” (come il pindarico Ilvo Diamanti chiama le sardine) che riempiono le piazze mostrando che c’è un popolo che vive, che sente, che si preoccupa, che guarda, con timore e tremore, all’ascesa dei sovranismi, delle destre nazionaliste, di quanti vogliono riportare indietro le lancette della storia, che saranno pure maggioranza ma certo ‘maggioranza silenziosa’ servile e ignorante. “A foa || favola|| a l’è sempre quella”, dice una vecchia canzonetta genovese. E la “foa”, a ben riflettere, è la longue durée dell’abito mentale azionista con la sua «vocazione alla pedagogia verso gli altri partiti e verso il paese spesso più irritante che efficace», come scrisse il compianto De Caprariis, uno dei grandi storici del cenacolo crociano.

 In un articolo pubblicato su “Il Dubbio” il 27 novembre u.s., Se fanno i girotondi 2.0 finiranno per perdersi, Zeffiro Ciuffoletti ha scritto che «bisognerebbe ricordare che non sono solo le piazze a determinare la politica, e nemmeno la piattaforma Rousseau, ma semplicemente le urne elettorali che in Italia contano sempre meno, ma tuttavia restano decisive fin che saremo una democrazia». Forse, considerando il clima attuale che si respira in certi ambienti italiani, che temono sempre AnAnibale alle porte, la “nuova eresia” è questa: credere che al di fuori della legalità democratica non ci sia nessun’altra “legittimità superiore” —almeno se si resta nella dimensione della politica ovvero della vichiana “feccia di Romolo”.

Pubblicato su Il Dubbio



Le famiglie in difficoltà: quanti non riescono ad arrivare alla fine del mese?

Di seguito l’andamento trimestrale e mensile della percentuale di famiglie rispetto all’utilizzo che fanno del bilancio familiare: chi riesce a risparmiare, chi fa quadrare i conti e chi usa i risparmi o contrae debiti (le cosiddette famiglie in difficoltà)

Nel mese di novembre la percentuale di coloro che devono usare i risparmi o contrarre debiti è al 15.9%. Le variazioni degli ultimi mesi mostrano un dato in leggero aumento, è ormai lontano il trend di diminuzione che si era avuto nel 2016-2017.

Su base congiunturale (ovvero su ottobre 2019) l’aumento della percentuale di famiglie in difficoltà è vicina al punto percentuale (+0,8 pp), su base tendenziale (su novembre 2018) l’aumento è di ben 2.4 pp.

In calo rispetto a ottobre la percentuale di famiglie che riescono a risparmiare che sono il 27.2% a novembre, contro il 29.7% del mese precedente, anche su base tendenziale il dato è in calo (-2.1 pp). Infine, per quanto riguarda coloro che riescono a far quadrare i conti, che rappresentano il 56.6% delle famiglie, a novembre 2019 rispetto ad ottobre la percentuale aumenta di 1.5 punti, mentre su base tendenziale c’è una leggera flessione, -0.5 punti percentuali.

 




Anteprima- Rassegna Stampa 3 dicembre

Clamoroso

Sigle sindacali nel mondo scolastico italiano: 177. Ore di lezione perse dagli studenti per i 12 scioperi indetti nell’ultimo anno dalle 177 sigle sindacali scolastiche: due milioni e mezzo. Delle 177 sigle sindacali, 114 hanno meno di cento iscritti [Stella, CdS].

In prima pagina

  • Repubblica, Stampa & Co sono ufficialmente degli Agnelli
  • Conte si difende alla Camera sul Mes: «Tutti i ministri sapevano, contro di me accuse infamanti». Salvini: «Si vergogni»
  • Approvato il prestito ponte da 400 milioni per Alitalia. Altri sei mesi per la vendita
  • La maggioranza si spacca sulla spazzacorrotti per le fondazioni
  • Decreto Fiscale: tassi di interessi ridotti e più tempo per presentare il 730
  • Centomila euro per cenare con Renzi. Le tariffe di Bianchi
  • Al via a Madrid la conferenza dell’Onu sul clima: «Il mondo scelga, speranza o resa»
  • Boris Johnson annuncia una stretta sull’immigrazione: per entrare in Gran Bretagna serviranno visto stile Esta e passaporto
  • Francesco accoglie in Vaticano 43 migranti provenienti dall’isola di Lesbo
  • Proteste a Malta, il premier Muscat bloccato in Parlamento
  • Le prime sanzioni della Cina contro gli Usa per il sostegno alla protesta di Hong Kong
  • Dazi sull’import da Brasile e Argentina. La guerra commerciale di Trump continua
  • Il professore dell’università di Siena che elogia Hitler su Twitter
  • Dell’Utri ha scontato la pena, da oggi torna in libertà
  • Omicidio Sacchi, trovata cocaina nell’auto di Paolo Pirino
  • La Scala dei Turchi si sta sbriciolando
  • A Cagliari anche i vigili hanno la scorta
  • Raccolte otto tonnellate di cibo per i poveri
  • Chiude la Società dell’Apostrofo
  • Una nuova passeggiata spaziale per Parmitano
  • L’inganno dell’Uomo Vitruviano è un algoritmo
  • Un Cagliari da brividi sconfigge la Samp
  • Messi vince il sesto Pallone d’oro e supera Ronaldo
  • Il Brescia esonera Grosso dopo tre partite. Torna Corini
  • È morto Franco Janich, il libero del Bologna che vinse lo scudetto del 1964.
  • Gli Europei di nuoto 2022 sono stati assegnati a Roma

 

Titoli

Corriere della Sera: Conte attacca, gelo con Di Maio

la Repubblica: Ne resterà soltanto uno

La Stampa: Di Maio-Conte / il grande gelo / “Così Salvini / si prende tutto”

Il Sole 24 Ore: Fondo salva Stati: / scontro alle camere / Ue verso mini rinvio

Avvenire: «Agire o disastro»

Il Messaggero: Conte-Di Maio, il governo trema

Il Giornale: Conte trasloca nel Pd

Il Fatto: Su prescrizione / e manette, Pd / e Lega bocciati / dagli elettori

Libero: Il salva-Stati fa schifo. Lo pretende solo Conte

La Verità: Traballa la cattedra di Conte

Quotidiano del Sud: Pagliacci in parlamento

il manifesto: Il clima non è buono




MINIMA POLITICA. Ora anche i sovranisti si mettono a fare gli antirisorgimentali

«Non si dimentichi, inoltre, che l’Unità d’Italia venne imposta con le armi, e non è considerazione di poco conto, e ben più della maggioranza degli abitanti dell’Italia pre-unitaria non la voleva affatto». Sono settant’anni che leggo frasi come queste in cui dà il meglio di sé l’attitudine italiana a épater les bourgeois avvalendosi di constatazioni ovvie. Nelle altre culture lo stupore si accompagna al trasgressivo, a verità che non sono tali per tutti ma, si sa, come diceva il vecchio Indro Montanelli, noi vogliamo fare la rivoluzione col permesso dei carabinieri. C’è però una grossa differenza rispetto al passato. Al tempo della mia giovinezza, a ripetere le celeberrime parole di Alfredo Oriani (maître-à-penser, si ricordi sia di Benito Mussolini che di Antonio Gramsci) sul sopruso della minoranza eroica che, nell’indifferenza dei popoli della penisola, fece l’Italia «aiutata da incidenze e coincidenze straniere», erano soprattutto gli eredi dei vinti del Risorgimento—comunisti e cattolici. E’ vero che non tutte le sinistre erano, si direbbe oggi,’revisioniste’—c’è un vario socialismo risorgimentale e mazziniano che arriva sino a Gaetano Salvemini e a Leonida Bissolati; ed è anche vero che, nel mondo cattolico, una componente di rilievo—il cui più prestigioso esponente, nel secolo scorso, fu Carlo Arturo Jemolo—si riconosceva  toto corde nei valori dello stato nazionale. D’altra parte, senza l’apporto decisivo della borghesia colta cattolica non avremmo avuto l’unità ed è, forse, superfluo ricordare che grandi statisti come Massimo D’Azeglio, Bettino Ricasoli, Marco Minghetti e lo stesso Cavour che volle per il viatico un francescano, poi condannato da Pio IX, erano credenti. Resta, comunque, che i comunisti erano patrioti di un’altra patria (l’URSS) e i cattolici si sentivano eredi di uno Stato che la Chiesa non aveva riconosciuto.

 Oggi le cose sono cambiate. Paradossalmente è tra quanti si chiedono «per quale oscura ragione di diritto internazionale dobbiamo mettere il nostro ambito legislativo in posizione subordinata al diritto europeo e chiedere il nulla osta preventivo prima di decidere delle nostre questioni interne?» che si ritrova, spesso e volentieri, la demistificazione dello stato nazionale. In realtà non si comprende quale giovamento ne venga alla nostra civic culture e su quali valori i ‘sovranisti’ intendano ricostituire una citizenship condivisa. Abbattuti i monumenti a Cavour, a Mazzini, a Garibaldi, cancellate le tradizioni e gli ideali di chi volle farci diventare «una d’arme, di lingua e d’altare, di memorie di sangue e di cor» (Alessandro Manzoni, un cattolico unitario risorgimentale…), cosa ci rimane? Prevedo l’obiezione: dovremmo reintrodurre la retorica nel nostro insegnamento della storia? E trattare il Risorgimento nazionale come l’ANPI tratta la Resistenza antifascista? Ma neppure per sogno! Il processo che portò al ricongiungimento delle sparse membra della penisola fu, sia pur assai meno della lotta di Liberazione, costellato di contrasti, di violenze, di dure opposizioni sul tipo di stato (centralizzato o federale) che si sarebbe dovuto sostituire alla Staaterei preunitaria. E tuttavia la storia va studiata seriamente e la storia ci dice che se i modelli politici, vagheggiati dalle diverse correnti patriottiche, furono diversi, c’era qualcosa di profondo che le univa tutte: un fortissimo sentimento d’italianità, che rifulge nettamente persino nel più intransigente oppositore della soluzione sabauda, il federalista a 360 gradi Carlo Cattaneo (basta leggersi i due volumi degli Scritti letterari, a cura di Piero Treves, ed. Le Monnier).

 Il problema, però, è un altro: quando si scrive, come faceva Oriani, che il popolo rimase estraneo (se non ostile) alle guerre di indipendenza, bisogna, perché l’osservazione abbia un senso, fare del comparativismo. La ‘costruzione dello Stato’, in altri contesti europei, avvenne consultando le popolazioni interessate?’I trenta re che fecero la Francia’, per citare il grande Charles Maurras, chiesero il consenso dell’Anjou, del Cotentin, della Provence? E i monarchi inglesi tennero conto dei desideri di gallesi, irlandesi, scozzesi quando ne fecero gemme della loro corona? E ci sono Stati in Europa che fecero eccezione?

 Si dirà: ma allora non erano i popoli a decidere bensì i sovrani. Certo, in ogni epoca storica sono determinate forze politiche ad assemblare regioni, province, città: la democrazia, come potere del demos, è venuta dopo. D’accordo ma la regola vale altresì per l’Ottocento, e per quello italiano in particolare, in cui a ‘fare politica’, a guidare i popoli, erano le borghesie nazionali e le loro avanguardie intellettuali. Ebbene si può contestare che la stragrande maggioranza di quelle borghesie—anche grazie alla stagione illuministica, che segnò una grande pagina della nostra storia intellettuale e alla conquista francese, che ci diede il tricolore—era per l’unità, per la Grande Italia? Nel meridione—a parte qualche piccolo storico locale nostalgico dei Borboni—l’alta cultura era quasi tutta schierata dalla parte dei Savoia (e, tra l’altro, non proponeva soluzioni federali ma uno stato forte e centralizzato in grado di mettere mano ai mali antichi del Sud). Nel centro e nel nord sentirsi italiani significava sentirsi moderni e volersi ricongiungere all’Europa vivente. Letteratura, arte, storia, filosofia non conoscevano frontiere e la lingua era un potente argomento per quanti volevano che le frontiere culturali coincidessero con quelle politiche. «Unità imposta con le armi?» Vulimme pazzià´? come si direbbe a Napoli. E il fenomeno del volontariato—che univa nelle stesse formazioni combattenti abitanti di ogni parte della penisola—non era la riprova che le ‘minoranze eroiche’ erano, sì, minoranze (nel senso che contadini e plebi urbane rimanevano a guardare le loro gesta, ma per gli artigiani si dovrebbe fare un discorso diverso) ma diffuse sull’intero territorio nazionale?

 A scuola una volta ci mettevano in guardia contro gli anacronismi. Anacronismo, si legge nell’Enciclopedia Treccani è l’« errore cronologico per cui si pongono certi fatti in tempi in cui non sono avvenuti e, in special modo, si attribuiscono a un’età istituti, idee o costumi discordanti dal quadro storico di essa». La sua proliferazione è, forse, la più triste riprova di quella perdita della storicità, che fu il portato più prezioso del liberalismo ottocentesco. Ricordare che l’unità italiana è stata fatta senza il consenso delle masse sta sullo stesso piano dell’abbattimento delle statue di Cristoforo Colombo, colonizzatore e razzista. Sulla bocca di un sovranista è a dir poco sconcertante!




Il terrorismo del piano inclinato

Mi permetto di suggerire a Michela Murgia, l’Hannah Arendt di Cabras, inventrice del fascistometro, un indicatore forse ancora più infallibile dei 65 da lei individuati per smascherare la personalità totalitaria. Si tratta dell’argomento della china pericolosa—slippery slope argument—fondato sul sofisma che una volta ammesso A non puoi evitare di percorrere tutte le tappe che ti porteranno a Z. E’ come dire, chi ha cominciato a fumare lo spinello si ritroverà dipendente dall’eroina. Forse pochi altri stili di pensiero rivelano il cancro del fondamentalismo etico, dell’ottusità mentale, dell’oscuramento della ragione, del furore nichilistico come questo. A destra e a sinistra se ne fa un uso smodato: «se ammettiamo questo, chissà dove andiamo a finire!», «ciò che sulle prime sembra innocuo può diventare l’inizio delle peggiori nefandezze!». In tutto questo c’è una sottile sfiducia nella libertà e nella responsabilità umana: un’opinione cattiva diventa un cappio al collo di cui non ci si può liberare più e sostenere un’idea politicamente scorretta (lasciamo stare, per il momento, chi decide che sia tale) è come aver contratto una malattia. E coi malati non si dialoga: si curano o si isolano. Così se si hanno riserve sulla politica dell’accoglienza e delle porte aperte si finisce, in virtù dello slippery slope argument— in compagnia di Hitler, se si propone una qualche nazionalizzazione (ed io da liberale non sono certo favorevole ad affidare allo Stato la gestione delle aziende in crisi), si finisce in compagnia di Stalin. E il risultato, guardando a sinistra, è che, come ha scritto Luca Ricolfi nel suo magistrale articolo di fondo Chi rema contro il partito del Pil (‘Il Messaggero’ 16 novembre u.s.), poiché nel mondo progressista, l’ideologia tende a prevalere su tutto «per la sinistra, la Lega e il suo leader, non sono normali avversari, portatori di un progetto politico a quello della sinistra. No, la Lega e i suoi alleati (specie Fratelli d’Italia), sono prima di tutto la manifestazione dei più torbidi impulsi della società italiana: razzismo, odio verso gli stranieri, antisemitismo, nostalgie fasciste, tentazioni autoritarie».

Si è a favore delle unioni civili ma contrari al matrimonio gay e al diritto di adozione (rivendicato con successo da Niki Vendola)? Si rischia l’accusa di omofobia e, se dipendesse da Monica Cirinnà, si potrebbe anche essere citati in giudizio. Si vuole chiudere i porti all’immigrazione irregolare? Si rischia di passare per biechi nazionalisti, amanti dei muri e delle frontiere. Si vogliono pene certe e severe per i reati contro le persone e le loro proprietà? Si rischia l’accusa di giustizialismo e di essere seguaci di Charles Lynch. Se poi qualcuno si dichiarasse a favore della pena di morte—sostenuta, peraltro, dal più grande filosofo dell’età moderna, Immanuel Kant, e nell’Italia contemporanea da uno studioso insigne come Vittorio Mathieu, che di Kant è forse il massimo esperto mondiale—sicuramente non avrebbe accesso a giornali e a cattedre universitarie. Intendiamoci, non sto sostenendo che le opinioni citate siano corrette e che quanti sono di diverso avviso, contrariamente alla communis opinio della stampa establishment, siano nel torto. Il virus totalitario sta nel ritenere che le opinioni abbiano lo stesso status logico degli ‘aridi veri’ della scienza e che opporsi, ad es., a un disegno di legge ritenuto giusto—e in linea con la Costituzione—equivalga ad affermare che sia il sole a girare attorno alla terra. Per i regimi totalitari era senz’altro così: nell’URSS opinare che il potere non apparteneva al popolo ma a una ristretta oligarchia, significava venir preso per pazzo—alla stregua di un sostenitore della teoria geocentrica—e rinchiuso in un manicomio criminale; nell’Italia delle camice nere, assai meno totalitaria della Russia e della Germania, negare le benemerenze del regime comportava una bella bevuta di olio di ricino, al fine di liberare corpo e mente dai veleni dell’antifascismo.

Nel clima denunciato da Ricolfi, purtroppo, si registra un effetto moltiplicatore. La denuncia di quanti sono accusati di odiare i diversi (immigrati, gay, zingari, islamici, ebrei etc. etc.) assume toni così forti e (verbalmente) violenti da convertirsi in odio per i (presunti) seminatori di odio: sicché all’odio dei secondi si unisce quello dei primi e il cielo della politica diventa ancora più plumbeo e opprimente.

E dispiace che a gettare benzina sul fuoco sia un pontefice pur rispettabile, come Francesco I che giustamente, nel recente discorso ai penalisti internazionali, ha fatto rilevare l’inciviltà della carcerazione preventiva—una battaglia liberale quant’altre mai. «Quanto sento qualche discorso di qualche responsabile del governo mi vengono in mente i discorsi di Hitler nel’34 e nel ‘36». ‘Esageruma nen’? direbbero in Piemonte. Concordo in pieno con quanto scrive Fabrizio Cicchitto sul ‘Tempo del 16 novembre u.s.—I grillini vogliono lo Stato di polizia. Qualcuno li fermi—e ritengo anch’io liberticida la legge Severino (votata anche da ‘Forza Italia’ grazie all’ineffabile Niccolò Ghedini) e un giudizio non meno severo mi sento di dare sull’eliminazione della prescrizione dopo il primo grado di giudizio, chiesta dal ministro Alfonso Bonafede, ma rievocare Hitler rivela una preoccupante nostalgia delle crociate e dello scontro all’ultimo sangue nonché una ferrea determinazione a ripulire il mondo, in nome dell’universalismo paolino—v. il saggio di Alain Badiou, Saint Paul. La fondation de l’universalisme, Puf 1997—di tutto il male che vi alberga e che Papa Bergoglio individua, a livello internazionale, nel capitalismo e nella finanza apolide e, a livello locale, nella guerra pro aris et focis combattuta dai sovranisti.

Personalmente un movimento assistenzialista, giustizialista, populista, fautore della decrescita felice come quello fondato da Beppe Grillo è l’antitesi di tutto ciò in cui credo ma Hitler (e con lui Stalin, però non nominato) «che c’azzecca», come direbbe il padre spirituale dei pentastellati? No, il terrorismo del piano inclinato è la morte della democrazia liberale. E definire razzista chi, ad esempio, ha paura a vivere accanto a un campo rom ottiene solo l’effetto di renderlo razzista sul serio. Stiamo bene attenti: quanti, nati tanti anni dopo il crollo del fascismo, vengono giudicati fascisti per opinioni che ad essi sembrano del tutto ragionevoli potrebbero essere indotti a pensare: «ma se il fascismo era questo, non era meglio di questa nostra scarcagnata democrazia?».

Pubblicato su L’Atlantico