Riflessioni su deferenza e rispetto

Mi folgora la parola deferenza. Non la incontravo da decenni e ora mi arriva da un libro di Kenneth Minogue, che mi passeggiava per casa e ho aperto per curiosità, al capitolo 2, “Il progetto di livellare il mondo”.

Il libro è uscito nel 2012 per IBL Libri, s’intitola La mente servile.

Leggo: “Il rango generava autorità e comportava deferenza. In quell’epoca (l’Europa del XV-XVI secolo) la deferenza era la chiave dei rapporti sociali perché implicava un rispetto più o meno automatico”.

La deferenza è ossequio, riverenza, rispetto. È un movimento, in un certo senso, verso il basso (de-ferre), è un abbassarsi, dovuto, doveroso, davanti a qualcuno riconosciuto come superiore.

Intanto c’è l’idea che qualcuno sia superiore. Che esista un sopra e un sotto, un alto e un basso. Può essere un grado socialmente elevato, o una funzione, un ruolo, un’autorità riconosciuta, o anche soltanto una maggiore esperienza, o l’età.

E poi c’è l’idea di un automatismo: il “rispetto automatico” è il rispetto dovuto a qualcuno a priori, non per i suoi meriti personali, ma per la sua funzione, o ruolo, o posto nella società, a cui tutti riconoscono un valore di per sé. Un anziano, un insegnante, un preside, un ufficiale dell’esercito, un vescovo, un direttore di banca.

Minogue dice che nell’Inghilterra dei secoli passati la deferenza era dovuta ai “rappresentanti di una classe che includeva non solo gli aristocratici e i nobili di campagna, ma anche i datori di lavoro, i padroni di servi, i maestri e i docenti universitari, le gentildonne, i preti, i giudici, le donne di una certa età e molti altri”.

Il rispetto non automatico sarebbe invece quello che ognuno di noi sente di dovere a qualcuno, perché gli riconosce dei meriti speciali, a esempio un talento artistico, una genialità, una grandezza d’animo, una nobiltà di sentimenti. Un rispetto che ci verrebbe naturale, e avrebbe molto a che fare con l’ammirazione, persino con la riverenza.

Molti della mia generazione provavano riverenza verso i propri insegnanti, i maestri, i grandi scrittori, artisti, scienziati, registi.

Ricordo che a vent’anni mi capitava di chiudere certe lettere (non so ora dire rivolte a chi) con l’espressione: Deferenti saluti. Mi chiedo se si usi ancora, o sia ritenuta una formula ridicola.

Deferenza oggi? Potrebbe significare non dire parole volgari, non fare gesti triviali, vestirsi in modo acconcio (non andare dal Preside con gli infradito, per esempio), usare il lei, e anche le maiuscole (tipo Professore, Ingegnere, Direttore).

Mantenere distanza. Una certa distanza.

Minogue: “La deferenza richiedeva formalità nei rapporti, il cui scopo era di mantenere la distanza tra le persone. Dietro questo formalismo c’era la convinzione che la distanza fosse una condizione necessaria del rispetto”.

Oggi non vogliamo deferenza anche perché non vogliamo distanza, ma il più possibile vicinanza, contiguità. Non facciamo altro che “abbattere le distanze”. Ci fa sentire più uniti, più fratelli.

Non vogliamo mostrare deferenza verso altri, ma non vogliamo nemmeno essere noi oggetto di deferenza. Ci metterebbe fortemente a disagio. Così come ci mette a disagio ogni forma che sia segnale di una qualche superiorità che noi attribuiamo ad altri o che altri attribuiscono a noi. Sarebbe la crisi del nostro credo egualitario.

Oggi una donna anziana potrebbe anche offendersi se un giovane sul tram le cedesse il posto. Lei sta facendo di tutto per apparire giovane, va in palestra, fa dieta, prende gli integratori giusti, si veste alla moda, e un giovane che le cedesse il posto la smaschererebbe, rendendo vano il suo duro lavoro.

Anche una donna, di fronte alla cavalleria di un uomo, oggi potrebbe sentirsi offesa. Ma come? Mi apri la portiera, mi offri il pranzo? Magari mi prendi anche in braccio, in una gita in montagna, per attraversare un torrentello, in modo che io non mi bagni le scarpe? Ma sei matto? E dove starebbe l’uguaglianza? Io sono uguale a te, quindi dividiamo il conto, io mi apro la portiera, io vado a piedi sulle pietre del ruscello perché sono perfettamente in grado di farlo, almeno quanto te. Se poi mi mandi dei fiori, attento! Ti denuncio per molestie.

Non voglio dire, con tutto ciò, che c’è un abisso tra il 1500 e oggi, o anche solo tra i nostri anni ’60 e oggi, o addirittura rispetto a quand’ero giovane io, cioè quarant’anni fa. Sarebbe piuttosto ovvio. Mi sto solo chiedendo se dobbiamo davvero, oggi, lasciar cadere tutto ciò, se davvero parole come rispetto e deferenza debbano farci venire l’orticaria e le vogliamo espellere per sempre dal nostro lessico, e soprattutto dalla nostra vita.

D’altronde, se i politici vanno in felpa, se appaiono in tivù in camicia con le maniche arrotolate e il colletto slacciato (perché è estate e sì, in estate fa caldo); se le condizioni atmosferiche dunque prevalgono sul concetto di rispetto e formalità; se odiamo la parola forma e connessi (formalità, formalismo) perché ci paiono irredimibilmente lontani da quella autenticità-spontaneità-naturalezza che è  attualmente il nostro mito da aspiranti neoselvaggi; se “mettere distanza” ci fa orrore e non facciamo altro che “ridurre le distanze”, abbracciandoci tra sconosciuti in un amplesso selfico (voglio dire “da selfie”);  se mantenere la nostra posizione eretta difronte a un bambino ci fa problema e sentiamo subito l’esigenza di metterci in ginocchio per essere alla sua altezza; se l’idea di una predella in classe, che sopraelevi la cattedra, ci fa vergognare perché ci sembrerebbe ignobile anche solo immaginarlo.

Se tutto ciò è vero, non vedo come potremmo auspicare la presenza, nella nostra vita sociale, di deferenza e rispetto.

In realtà noi usiamo molto, oggi, la parola rispetto. Aleggia ovunque. È una delle parole più gettonate. Anzi, ne abbiamo fatto una stucchevole litania. Ma è sempre e soltanto il rispetto in relazione a ciò che è diverso, straniero, in qualche modo vulnerabile. Sempre e dovunque predichiamo il rispetto per le minoranze etniche, per i migranti, i profughi, i disabili, i poveri, e ogni sorta di sventurati e svantaggiati. Sacrosanto, ci mancherebbe! Quel che però non ci viene nemmeno in mente è il rispetto per chi è di più, per chi è più in alto e sta meglio, o è più bravo in qualcosa, o ne sa di più: per chi insomma è superiore, come abbiamo detto, in grado, funzione, talento o altro. Questo non ci piace. Non ci pare dovuto. Anzi, ci pare indebito e scorretto. Perché contraddice il principio di uguaglianza. Sarebbe come ammettere che no, non siamo tutti uguali, tu sei meglio di me, o sei più in alto. Quindi, il rispetto che ti dovrei sarebbe la prova di una insopportabile, inaccettabile, disuguaglianza tra me e te.

Lo dico meglio con Minogue: “La democrazia ha concepito la deferenza come una forma di servilismo (…). Non c’è qualcosa di degradante, o di servile, nel mostrare deferenza verso un altro essere umano? Non siamo sostanzialmente tutti uguali? Non accade spesso che molti personaggi altolocati non ci siano affatto superiori per saggezza, sapere o competenza? La deferenza si potrebbe estendere al concetto di saper stare al proprio posto e saper stare al proprio posto è diventato un problema nel momento in cui la società è ormai sempre meno un insieme di posti”.

E ancora: i politologi hanno concettualizzato la deferenza “come un residuo irrazionale del feudalesimo e, di conseguenza, anche come un insulto alla democrazia”.

Ecco. Ma allora, se rispetto e deferenza portano in sé il virus di un’antidemocraticità, se implicano un’ammissione di non uguaglianza; se, quindi, in nome dei valori democratici, umanitari, solidali, siamo convinti che il rispetto e la deferenza siano un male, non dovremmo mai indignarci né protestare di fronte al genitore che va a picchiare l’insegnante perché ha dato un quattro a suo figlio. In fondo, sta dimostrando una condizione paritetica: lui, l’insegnante e il figlio studente sono finalmente – e a dispetto del ruolo, dell’età, dell’esperienza (e magari anche dell’intelligenza, sapienza, e altre innominabili doti) – tre entità perfettamente uguali, che non si devono niente l’un l’altro, meno che mai deferenza. Non è così?

Fine.

Era solo un inizio di riflessione, pensieri errabondi di inizio estate, su parole molto complesse, e molto desuete.

Pubblicato su Il Sole 24 Ore del 1 luglio 2019



Punire quanto ci fa soffrire!

Giorni fa (2 maggio 2019 ndr), è comparsa la notizia che si abolivano le note e le sospensioni alle scuole elementari. Pare fosse un semplice adattamento alla normativa già vigente alle superiori, ma ha scatenato un ripullulare di opinioni e dibattiti sul tema punizioni a scuola, e più in generale teorie educative. Ben venga, non mi sottraggo.

Punizione è una parola che oggi non ci piace per niente e pronunciamo malvolentieri. Bizzarro che invece la tolleriamo benissimo nel mondo calcistico: pare normale che ai giocatori l’arbitro affibbi punizioni, ad esempio in presenza di un fallo. Ma a parte lo sport che, si sa, è un altro mondo, non credo di generalizzare dicendo che la posizione della stragrande maggioranza è contraria a ogni sanzione che abbia anche il più tenue sentore punitivo. “Non credo alle punizioni” è frase consueta, ripetuta. Quante volte l’abbiamo sentita pronunciare intorno a noi?

L’ultima volta mi è capitato, appunto, pochi giorni fa proprio in riferimento all’abolizione delle note a scuola. Una mia lettrice, madre di due figli, mi comunica il suo entusiastico accordo, e scrive esattamente la frase: non credo alle punizioni. Per la prima volta mi sono fermata. Mi sono chiesta cosa vogliano dire davvero le parole non credo alle punizioni. Naturalmente è implicito un verbo, una frase subordinata, un’oggettiva: non credo che le punizioni servano a qualcosa. Ecco, così è più chiaro il senso.

Ma in che cosa dovremmo credere? E a che cosa dovrebbero servire le punizioni? Be’, è piuttosto evidente, vorremmo che si producessero due effetti. Il primo, esterno, oggettivo e immediato: che tu non ripeta il “fallo” per cui sei stato punito; il secondo, soggettivo, a lento rilascio, e pertinente alla sfera dell’anima: che dentro di te avvenga una riflessione che ti condurrà a essere una persona migliore.

A nessuno, però, piace infliggere punizioni. Punendo ci si prende un rischio, e si paga un prezzo. La persona punita infatti potrebbe arrivare a odiare il suo punitore. E la prospettiva dell’odio altrui ovviamente ci disturba.

Ogni volta che anche solo imponiamo qualcosa, o che ci imponiamo all’altro (contrapponendogli la nostra opinione, o facendo valere una regola, un diritto) ci esponiamo all’altrui disapprovazione. Diventiamo antipatici, odiosi. Creiamo fastidio.

Faccio tre esempi. Al ristorante, mandiamo indietro una bottiglia perché il vino sa di tappo. Per strada, vediamo una persona che butta una cicca in terra e le diciamo per favore di raccoglierla (possiamo anche aggiungere un rimprovero esplicito). In casa nostra, alle nove di sera ordiniamo a nostro figlio di smetterla coi videogiochi e andare a dormire.

Tre esempi in cui è chiaro che ci imponiamo. Imponiamo la nostra presenza nel mondo, la nostra azione (vorrei dire la nostra autorità, ma so che la parola creerebbe ulteriore disagio). In tutti e tre i casi dimostriamo di non essere passivi, indifferenti, apatici, sornioni, inattivi, silenti. Diciamo, facciamo. Esprimiamo con forza il nostro parere e esigiamo un certo comportamento dagli altri. Cioè, interveniamo (interferiamo?).

Opinione personale: credo che tutto ciò migliori il mondo. Ad esempio se avessimo richiesto con forza all’umanità intera (sanzionandola o anche punendola) di non buttare bottiglie di plastica in mare, adesso l’isola galleggiante d’immondizia nel Pacifico, il Pacific Trash Vortex, non esisterebbe.

Non voglio, con ciò, in nessun modo esortare alle punizioni. Direi soltanto che forse dovremmo avere il coraggio, ove occorra, di sobbarcarci l’onere di punire. In fondo non è che il gesto successivo alla esposizione di una regola, di una legge, di un divieto. Un gesto ulteriore, comparativo di oltre; o ancor meglio il suo superlativo, ultimo. La punizione come ultimo, “più lontano” gesto…

Mi spiego meglio, torniamo all’esempio del bambino a cui diciamo di andare a letto alle nove. Glielo ripetiamo una volta, due. Alla terza, se lui ancora si ostina a non obbedire (altra parola tabù), che si fa? In genere il genitore di oggi apre allo spazio di una contrattazione infinita, convinto che si debbano educare i figli attraverso l’uso della ragione e della logica più stringente (e questo è il lato positivo: stiamo insegnando ai nostri ragazzi la sublime e raffinata arte oratoria delle suasoriae e controversiae). D’accordo. Ma come ne usciamo? Il ragazzino otterrà di non andare a dormire alle nove? Molto probabilmente si concluderà con un compromesso: lui proponeva le dieci, noi le nove, dunque andrà a letto alle nove e mezza. Mezzora in più, niente di tragico. L’unico tarlo è che, così facendo, affermiamo indubitabilmente il concetto che non c’è mai legge definita, ovvero che ogni legge è discutibile, controvertibile, di fatto aggirabile. Non sarebbe meglio affermare una regola (si va a letto ogni sera alle nove), e poi applicare una (lieve) punizione (domani non andrai a giocare da Francesco) nel caso il figlio non la rispetti?

Vietando di punire, accettiamo di rinunciare alle richieste che abbiamo appena fatto, più in generale ai principi, alle regole che enunciamo e che ameremmo veder rispettate. È come dichiarare che non ci teniamo abbastanza, che forse non ci crediamo nemmeno noi: sì, figlio mio, ti ho appena detto di andare a dormire alle nove (perché è per il tuo bene, hai bisogno di dormire molto, domani ti sveglio presto perché devi andare a scuola), ma, visto che tu non sei d’accordo e non cambi idea nemmeno di fronte alle ragioni che ti espongo con rigore logico adamantino, va bene, allora recedo dalle mie convinzioni, annullo la regola che ti ho appena esposto, mi contraddico, calpesto la mia stessa autorità, vengo a compromessi, accetto il tuo punto di vista e le tue preferenze. Preferisci andare a dormire più tardi? E va bene, fai come vuoi.

Che fatica! Mi affatico anche solo a scriverla, una scena simile, figuriamoci a viverla! La punizione sarebbe anche un modo per tagliar corto: ultimo gesto, basta con le sceneggiate estenuanti: io ti punisco (non ti mando a giocare da Francesco), tu patisci questo (piccolo) dolore, ne tieni memoria, impari il concetto e non ripeti il comportamento: vai a dormire alle nove. Semplice. E riposante. Cosa c’è che non va?

C’è che punire ci fa molto soffrire. È entrare in uno stato di conflitto che non siamo capaci di sostenere. Dopo aver inflitto una punizione, siamo scontenti di noi, pensiamo a come deve sentirsi l’altro, al male che gli abbiamo fatto e ci chiediamo perché abbiamo agito così, e se non era evitabile. Sapere che il colpevole soffre a causa nostra ci è insopportabile. Non punire, dunque, è pensare (soprattutto) al nostro bene. È un gesto egoistico e salvifico, salva noi stessi da un abisso di domande, dubbi, pentimenti e insoddisfazioni.

Inoltre punendo ci sentiamo immediatamente dalla parte sbagliata dell’umanità, gli unici che ancora persistono in questa pratica ignobile e datata. Ecco un ulteriore aspetto negativo: la punizione ai nostri occhi appartiene al passato, a un tempo remoto che viene automaticamente bollato come incivile. In effetti, noi degli anni ’50 siamo stati, a volte, puniti. Abbiamo preso qualche schiaffetto o sculacciata. Ma, a una rapida e superficiale occhiata ai miei coetanei, non mi pare che questo abbia prodotto “guasti” rilevanti, scatenato odi profondi, disagio psichico o difficoltà nelle relazioni interpersonali.

Il malessere che proviamo punendo è dunque il segno che è sbagliato punire? O è la spia che oggi rifuggiamo da tutto ciò che ci fa provare malessere?

Benessere è la parola clou dei nostri tempi. Abbiamo eretto i più svariati templi alla religione del benessere, fisico e mentale: centri massaggio, terme, palestre, corsi di meditazione, spa. Abbiamo imparato a vivere meglio pensando di più a noi stessi: lavorare meno, fare più viaggi, mangiar fuori, prendere l’aperitivo. Specularmente, sappiamo di dover evitare il male-essere, tutto ciò che ci fa vivere male: stress, ansia, superlavoro, solitudine. Il proprio piacere innanzi tutto, il dovere meno che mai. Punire è un dovere (sociale, innanzi tutto), che produce malessere.

Quand’ero insegnante ho dato poche note, direi soltanto quando mi sentivo impotente e disperata di fronte a comportamenti intollerabili dei miei allievi: sapevo che niente e nessuno sarebbe venuto in mio aiuto, quindi brandivo la spuntata arma della nota. Dare note è avvilente, e svilente: svilisce il nostro operato, intacca la nostra fiducia nel potere della parola persuasiva e nella capacità umana di capire gli sbagli. Ma è anche l’unico strumento rimasto, l’unico modo visibile di reagire, di non subire, di mostrare al resto della classe (e alle famiglie) che esiste ancora un barlume di ordine morale, con regole definite.

So che molti pensano che dare una nota sia come ammettere il proprio fallimento di educatore. Ma non sono d’accordo. Penso che dovremmo prenderla in un modo più tranquillo e sereno, più sul tecnico-oggettivo: ispirandoci davvero alla semplice chiarezza del regolamentato mondo del calcio. La nota è molto simile a una ammonizione: è il cartellino giallo mostrato al calciatore colpevole di un fallo. Gesto chiaro e immediato. Direi un rito abbreviato. E anche indolore: nessuno muore, nessuno si offende. Al massimo, se per due volte un calciatore viene ammonito, il cartellino giallo diventa rosso ed egli verrà espulso dal campo. Tutto lì, poi a un certo punto rientra… D’altronde, ce lo immaginiamo un arbitro che in piena partita, invece di ammonire, convoca il giocatore e per un quarto d’ora gli spiega dove e perché ha sbagliato?

Una volta, alle medie, mi capitò di prendere una nota. Avevo dimenticato a casa un quaderno. Uscii da scuola quel giorno provando una enorme vergogna. Mi chiedo se oggi un ragazzo che prende una nota vada a casa con un po’ di quella vergogna. Mi auguro di sì, ma non ci giurerei. Una nota oggi sortisce il seguente, unico effetto: che il genitore si precipiti immediatamente al “colloquio parenti” e, molto risentito, esiga una spiegazione dall’insegnante (non certo dal figlio). E, a meno che il suddetto allievo non prenda un numero spropositato di note, tutto finisce lì.

Alla fine, cara signora che mi scrive, la vera domanda che mi sta a cuore è la seguente: siamo sicuri di voler esimere i nostri figli dal sentimento, certo sgradevole e doloroso ma anche molto benefico, della vergogna di sé, di quella insoddisfazione del proprio operato, da cui però poi sgorga il desiderio di riscattarsi, comportarsi bene, presentare agli altri la parte buona di sé? Siamo sicuri che provare almeno un po’ questo sentimento di – come possiamo dire? – contrizione, non li potrebbe aiutare a migliorare, come studenti, come cittadini, come esseri umani nel mondo?

Non so. Per quel che mi riguarda, non sono sicura di niente. Ma se ancora facessi l’insegnante, qualche nota ogni tanto la metterei.

Pubblicato su Il Sole 24 Ore del 26 maggio 2019



Quanti sono i poveri in Italia?

Nei giorni scorsi sono stati resi noti gli ultimi dati sul reddito di cittadinanza: al 31 maggio il numero totale di domande presentate era di 1 milione e 252 mila, di cui 674 mila accolte, 277 mila respinte e il resto (301 mila) sospese o ancora da elaborare. Complessivamente le domande accolte sono circa il 71% di quelle analizzate.
Il ritmo delle domande è in netto calo: sono state 820 mila il primo mese (marzo), poi 243 mila (aprile), infine 188 mila (maggio). Il governo prevede che, alla fine, le domande accolte saranno circa 1 milione, ovvero parecchie meno di quel che si attendeva.
Poiché il numero di famiglie in condizioni di povertà assoluta, secondo l’Istat (indagine 2018), si aggira intorno al milione e 800 mila, parrebbe che i conti non tornino. Le domande già accolte (674 mila) sono poco più di 1/3 del numero di famiglie povere. Aggiungendo quelle già presentate ma non ancora valutate si arriverà intorno a 884 mila domande accolte, meno della metà (48.5%) del dato Istat. Infine, dando per buona la previsione del governo si dovrebbe arrivare a 1 milione entro fine anno, poco più della metà (54.9%) del dato Istat.
Qualcosa sembrerebbe non tornare. Possibile che a tre mesi dal varo della legge, pur includendo nel calcolo le numerose domande già presentate ma non ancora accolte, si sia sotto il 50%? Quali possono essere le ragioni di una discrepanza così macroscopica?
Una prima ragione, abbastanza ovvia, è che la definizione di povertà assoluta dell’Istat non corrisponde alla definizione implicita nella legge sul reddito di cittadinanza. Le differenze fra le due definizioni sono tantissime, ma la più importante è che la definizione Istat lavora sul potere di acquisto del reddito, e quindi tiene conto del livello dei prezzi della zona in cui la famiglia risiede, mentre la legge considera solo il reddito nominale. Questa è la ragione principale per cui, finora, le domande accolte nel Nord sono state molte di meno dei poveri assoluti residenti in tali regioni; e viceversa quelle del Mezzogiorno, che sono state molte di più. Insomma, il reddito di cittadinanza è servito ben poco ai poveri delle regioni del Nord, specie se abitanti in grandi città: chi è povero al Nord risulta tale se si tiene conto del livello dei prezzi (definizione Istat), ma cessa di esserlo se si ignora il costo della vita (definizione del governo).
C’è però anche una seconda ragione della discrepanza, una ragione che troppo spesso si dimentica. Fra i requisiti della legge vi è la residenza stabile in Italia da almeno 10 anni, un requisito che penalizza severamente sia gli stranieri, sia gli italiani senza fissa dimora. Le prime cifre circolate indicano che fra le domande accolte gli stranieri siano circa il 10%, mentre l’Istat ha stimato che le famiglie straniere in condizione di povertà assoluta siano ben il 31.1%, nonostante gli stranieri siano meno del 9% della popolazione. In altre parole: le domande sono molte meno delle attese anche perché la maggior parte degli stranieri poveri non ha fatto domanda, ben sapendo di non avere i requisiti.
Se teniamo conto di questo fattore le cifre si avvicinano. Le famiglie di italiani in condizioni di povertà assoluta sono 1 milione e 255 mila, le domande di famiglie italiane già accolte sono circa 600 mila, ma potrebbero salire a circa 900 mila entro la fine dell’anno. In questo caso lo scarto sarebbe di 3-400 mila famiglie, che risultano povere secondo l’Istat ma non richiedono il reddito di cittadinanza. In breve: fatto 100 il numero di famiglie povere Istat, solo circa 70 fanno domanda.
Che cosa ci dice un dato del genere?
Essenzialmente che non è infondato il sospetto che i poveri effettivi siano sensibilmente di meno di quello che si potrebbe dedurre dai dati Istat. E’ perfettamente possibile che diverse famiglie risultino povere semplicemente perché il lavoro in nero di alcuni membri non viene dichiarato, con conseguente sottostima del reddito familiare complessivo. E’ ragionevole pensare che il timore di sanzioni (e di perdere i redditi in nero) abbia indotto molti a non presentare domanda.
Ma è anche possibile che questo timore svanisca (forse sta già svanendo) man mano che dovesse rafforzarsi la convinzione che i controlli saranno rarissimi, che i centri per l’impiego non funzioneranno, e di conseguenza il rischio di ricevere offerte di lavoro che si preferirebbe non ricevere (ma si è tenuti ad accettare) è bassissimo. E’ possibile, in altre parole, che il trend delle domande si affievolisca ancora un po’ nei prossimi mesi, ma poi riprenda vigore ove il governo non potesse o non volesse far scattare controlli e sanzioni.
Se queste valutazioni hanno un qualche fondamento, allora sembra inevitabile trarne due conclusioni. La prima è che il problema della povertà, in Italia, riguarda soprattutto gli immigrati (sono povere più di 1 famiglia straniera su 4), e il reddito di cittadinanza lo aggrava. La seconda è che il tasso di povertà degli italiani non solo è molto minore di quello degli stranieri, ma è probabilmente sovrastimato. Per l’Istat le famiglie italiane povere sono il 5.3% (circa 1 su 20), ma le domande del reddito di cittadinanza pervenute fin qui suggeriscono che siano dell’ordine del 3.7% (1 su 27).
Sempre troppe, ovviamente, ma comunque un po’ minori delle cifre pre-crisi, e molto minori di quelle degli stranieri: il problema della povertà nel nostro paese, più che un dramma italiano, è un aspetto cruciale del problema migratorio.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 29 giugno 2019



Un crollo dei crimini? E quale è la causa?

Il Governo italiano, nel maggio 2019, ha diffuso dati che mostrano una forte diminuzione dei crimini registrati nel primo trimestre 2019 rispetto a quelli registrati nel trimestre corrispondente dell’anno precedente, ossia prima della entrata in servizio dell’attuale Governo. La notizia ha suscitato vivo interesse. Si tratta certamente di una diminuzione di notevole ampiezza: i reati diminuiscono nel complesso del 15%, e il calo è generalizzato; diminuiscono gli omicidi, già peraltro in calo negli ultimi anni, i furti (15%), le rapine (21%), le lesioni dolose (22%), i reati di droga (10%); ancora più vasto il calo dei reati di violenza sessuale ( 32%), di ricettazione e contrabbando. Solo gli incendi dolosi sembrano contraddire la tendenza alla riduzione.

Si può senza dubbio esprimere un apprezzamento per la proclamata intenzione del Governo di impegnarsi in modo incisivo nell’azione di contrasto nei confronti del crimine e più in generale dell’illegalità. Crimine e illegalità sono contrari agli interessi di tutti i cittadini che rispettano le regole della convivenza civile, e, paradossalmente, anche contrari agli interessi di coloro che commettono crimini, nella misura in cui essi possono essere le vittime del crimine, piuttosto che gli autori: non per nulla, i ladri sono recisamente ostili al furto, quando si scoprono derubati; i violentatori, ostili alla violenza, quando la subiscono. La sicurezza generale è in effetti la ragione per la quale gli individui rinunciano ad una parte delle loro libertà a favore dello Stato e concedono a questo ultimo una posizione di superiorità rispetto a se stessi. E, in definitiva, se lo Stato non assicura la sicurezza, la sua stessa ragione di esistere viene a cadere e, insieme, viene a cadere la ragione di esistere dei politici.

L’interesse mostrato nei confronti dei recenti dati sull’andamento della criminalità è pertanto del tutto giustificato. La pubblicazione dei dati in questione ha comunque suscitato anche accese polemiche: polemiche peraltro tendenzialmente più centrate su posizioni preconcette, a favore o contro il Governo, piuttosto che su analisi più oggettive. È difficile del resto produrre analisi oggettive quando le informazioni fornite dalle istituzioni pubbliche italiane sulla sicurezza e il controllo sociale sono da molti anni caratterizzate da ritardi e lacune, tanto che la distanza rispetto a quanto fatto negli altri Paesi avanzati è divenuta sempre più grande.

Le ragioni di questa situazione sono almeno duplici. Da una parte, esse attengono ad una concezione strutturalmente illiberale dello Stato italiano, che si è interessato alla sicurezza soprattutto nella misura in cui questo aspetto ha riguardato il Palazzo del potere. Da questo, tutta una serie di conseguenze coerenti con quanto precede: dalla noncuranza, da parte dello Stato, per il problema prioritario del controllo del territorio, all’abbandono di vaste regioni periferiche nelle mani della criminalità organizzata, all’uso di auto blu che si muovono sulle strade italiane con modalità confacenti a una forza di occupazione straniera, al disinteresse abitualmente mostrato dallo Stato italiano nei confronti dei comuni cittadini vittime di crimini, e, non ultimo, al fatto che le istituzioni hanno considerato finora come tutt’altro che prioritario informare i cittadini su come i soldi delle tasse sono spesi per assicurare loro il fondamentale requisito della sicurezza. In secondo luogo, le ragioni di questa situazione attengono alla diffusione di una concezione che ha integralmente contestato non solo la natura oggettiva e universale del crimine comune ma anche la validità di qualsivoglia misura della criminalità. Questa concezione, frutto di un radicalismo antiscientifico di matrice neomarxista, sviluppatasi negli anni 1960 e sopravvissuta in Italia malgrado la implosione del modello politico-economico del socialismo reale, ha considerato il crimine come una costruzione sociale del potere capitalistico e, conseguentemente, le stesse misure del crimine come un mero sottoprodotto di tale potere. Tutto ciò con scarsa considerazione per alcuni fatti basilari. In primo luogo, il fatto che, come aveva già intuito Giambattista Vico prima della metà del ’700, vi è una comune natura delle nazioni, originata dal fatto che esse sono tutte accomunate dall’essere società umane: cosicché, esse non solo hanno, tutte, una forma di religione, contraggono matrimoni solenni, e seppelliscono i loro morti – come dice Vico – ma puniscono anche, tutte, gli omicidi e le violenze, i furti e le rapine. In secondo luogo, il fatto che la grandissima parte delle notizie sui crimini commessi deriva dalle denunce da parte dei comuni cittadini, vittime dei criminali, e non dalle cosiddette agenzie del controllo sociale (magistratura e forze dell’ordine), alle quali i fautori della costruzione sociale del crimine attribuiscono una arbitraria selezione, e dei crimini commessi, e dei loro autori.

Tra Scilla e Cariddi, ossia tra la tradizione illiberale dello Stato italiano e il radicalismo antiscientifico, lo spazio per la misura e l’analisi della criminalità – premessa per qualsiasi più efficace politica di contrasto – non poteva che uscirne pregiudicato. Gli esempi di tutto ciò sono numerosi e non difficili da rinvenire.

Per quanto riguarda il Ministero della Giustizia, il suo sito on-line è ricco di informazioni sul Ministro, i Sotto-Segretari e i vari concorsi per il personale del ministero; per avere informazioni sulla giustizia – che, ingenuamente, si presumerebbe essere l’interesse principale del Ministero della Giustizia – si deve faticare di più, e infine si scopre che, al momento in cui scriviamo, maggio 2019, i dati più recenti sulla attività delle procure e dei tribunali risalgono al 2012 e in molti casi ad anni ancora precedenti. Se vogliamo avere informazioni sulla giustizia meno obsolete, dobbiamo rivolgersi al sito dell’Istat, dove comunque i dati sulla giustizia si fermano al 2016, e le informazioni sono comunque lacunose. Mancano del tutto, ad esempio, le informazioni sulle caratteristiche dei soggetti imputati – ossia i soggetti per i quali le procure hanno deciso la continuazione dell’azione penale –, mancano perfino le informazioni su aspetti intorno ai quali vi è oggi un acceso dibattito, anche politico, come la nazionalità straniera di imputati e condannati.

Le informazioni sulla criminalità che discendono dall’attività del Ministero dell’Interno sono anche esse limitate. In effetti, la fonte migliore di informazioni anche per quanto riguarda l’azione di contrasto alla criminalità da parte delle forze di polizia – e quindi anche del Ministero dell’Interno – è l’Istat, nel cui sito troviamo, con maggiore dettaglio, dati sulle denunce penali; ma anche qui ci fermiamo al 2017. Sul sito on-line del Ministero dell’Interno, dopo le usuali, ampie informazioni sulle strutture interne e i personaggi che ne sono alla guida, vi è una promettente sezione intitolata “Territorio”: ma, dove ci aspetteremmo di trovare una descrizione della situazione riguardante l’azione dello Stato per assicurare la legalità sul territorio – e magari qualche considerazione autocritica sugli evidenti insuccessi in varie parti del Paese – troviamo notizie sui movimenti dei prefetti. La sezione “Sicurezza” contiene molti importanti argomenti, da “Lotta alle mafie” a “Vittime del dovere”, ma per ciascuno di essi vi sono solo poche righe e, sostanzialmente, nessun dato. Per avere migliori informazioni si deve andare altrove – sezione “Dati e statistiche” – dove tuttavia possiamo avere solo la Relazione al Parlamento sulle attività delle Forze di Polizia etc. Questa ultima ha carattere sommario e si ferma per giunta al 2017, non permettendo quindi né di confermare né di contestare la bontà delle cifre fornite recentemente dal Ministero dell’Interno, dal momento che queste cifre si basano su una comparazione tra i dati sulla criminalità più recenti e quelli del primo trimestre 2018. Ancora meno aggiornati i dati – in altra sezione – riguardanti delitti e persone denunciate, per i quali ci si ferma al 2016. I dati in questione, così come quelli delle procure e dei tribunali, sono del resto sempre annuali, e non si è provveduto sinora ad organizzare la presentazione di dati trimestrali: questi ultimi sarebbero di grande utilità per il monitoraggio continuo della situazione della sicurezza, e permetterebbero anche, incidentalmente, di meglio valutare quella riduzione dei crimini nel primo trimestre del 2019 su cui oggi si discute. In conclusione, anche per quanto riguarda il Ministero dell’Interno, poche, limitate e non-aggiornate informazioni: e se qualcuno avesse dubbi su quanto potrebbe e dovrebbe essere fatto, consigliamo di visitare il sito dell’Home Office del Regno Unito (che corrisponde al Ministero dell’Interno italiano), dove – mentre scriviamo – è possibile consultare 630 rapporti statistici sulle attività dell’Home Office in materia di sicurezza e criminalità (https://www.gov.uk/government/statistics?departments%5B%5D=home-office&parent=home-office).

Le carenze peggiori sono comunque altre: il distacco più significativo rispetto ad altri Paesi avanzati si riscontra nella mancata raccolta di dati micro (ossia individuali) in materia di criminalità e controllo sociale. L’Italia è l’unico tra i Paesi avanzati – o meglio tra quelli che si ritengono tali – a non avere mai condotto una indagine sistematica sul recidivismo, malgrado la estrema rilevanza del tema e i solleciti fatti in proposito, anche da chi scrive. Cosicché in Italia non è stato mai possibile, né per le istituzioni né per gli esperti della materia, avviare una riflessione oggettivamente fondata sulla efficacia delle pene, sui risultati delle misure alternative alla detenzione, sui percorsi criminali dei delinquenti abituali e di quelli professionali, sulle probabilità di commettere nuovi reati per i pedofili e gli stalkers, gli sfruttatori di prostituzione e gli autori di violenze sessuali, per limitarci a qualche esempio soltanto.

Parallelamente, il Servizio Sociale del Ministero della Giustizia non ha provveduto ad organizzare una raccolta sistematica a livello nazionale delle caratteristiche e dei problemi dei condannati e degli ex-detenuti trattati dagli operatori del Servizio, e dell’esito del trattamento a distanza di tempo. La situazione del settore minorile, a sua volta, è da sempre caratterizzata da grande carenza di informazioni, forse anche per un malinteso senso della privacy. Pertanto non è possibile in Italia indagare aspetti fondamentali per quanto riguarda la devianza minorile, come, per limitarci ad un esempio, il rapporto tra percorso scolastico, abbandono precoce della scuola e devianza, per il semplice fatto che le istituzioni non hanno provveduto ad una raccolta sistematica e continua nel tempo di queste informazioni. Informazioni, cioè, necessarie a qualsivoglia politica di prevenzione della devianza e criminalità minorili. E, sempre in materia di prevenzione, appare stupefacente che le istituzioni non si sono mai preoccupate di organizzare, accanto alle specifiche politiche assistenziali a favore di gruppi marginali, come i nomadi, anche una raccolta sistematica di informazioni sulle loro condizioni sociali e culturali. Cosicché si può tranquillamente continuare a discutere inutilmente sulla loro presunta malintegrazione e propensione alla criminalità, mancando qualsiasi oggettiva informazione sulla realtà dei fatti.

Alla luce di tutto ciò, non deve stupire che la politica del controllo sociale e della sicurezza è stata portata avanti in Italia all’insegna della gestione del quotidiano piuttosto che della programmazione di lungo periodo; le riforme eventualmente adottate non hanno mai potuto poggiare su una sistematica e continua produzione di informazioni quantitative; e non è stato possibile analizzare gli esiti delle riforme per le medesime ragioni, ossia per la mancata predisposizione di dati che potessero essere utili ad una successiva comparazione rispetto ai risultati ottenuti.

Queste premesse dovrebbero dare un’idea di quanto sia difficile una valutazione sul calo nei crimini commessi – o meglio, denunciati – in Italia, che è stato l’oggetto del comunicato stampa del Ministero dell’Interno del 5 maggio 2019. Al tempo stesso, è anche certo che il periodo cui si riferisce la diminuzione dei crimini è contenuto (un trimestre), e pertanto è presto per concludere che si tratta di una svolta nella lotta alla criminalità. Del resto, le istituzioni italiane – come già rilevato – non rendono pubbliche le serie storiche dei dati trimestrali della criminalità: e questo implica l’impossibilità di un’analisi più approfondita.

Al di là di quanto appena detto, i dati pubblicati suscitano interrogativi per quanto riguarda le possibili cause del brusco calo dei crimini. Possiamo utilizzare come punto di partenza per l’individuazione di queste possibili cause lo schema di tipo economico (costi contro benefici del crimine, dal punto di vista di un individuo tentato dall’idea di violare le norme del codice penale), introdotto a suo tempo da Cesare Beccaria. Uno studioso – detto incidentalmente – che il mondo invidia all’Italia e che questa ultima sostanzialmente ignora per quanto riguarda la politica di contrasto alla criminalità, mentre in altri Paesi, e specialmente negli Stati Uniti, la sua eredità intellettuale è alla base di importanti correnti di pensiero nel campo della criminologia, come la economic rational choice theory. Ora, lo schema interpretativo di cui siamo debitori a Beccaria suggerisce che una diminuzione effettiva del numero dei delitti può essere ottenuta tramite un aumento della certezza del diritto (e della pena), o (subordinatamente) un aumento della pena, a parità di certezza del diritto.

Possiamo cominciare prendendo in considerazione l’ipotesi che la diminuzione dei delitti annunciata dal Governo sia avvenuta a causa di un aumento della certezza del diritto e quindi della pena. Questo aumento della certezza potrebbe in linea di principio avere riguardato il lato magistratura, e lo spazio disponibile sembrerebbe essere amplissimo, dal momento che le organizzazioni internazionali che si occupano di valutare la certezza del diritto (World Bank: Governance Indicators 2017; Rule of Law) collocano il sistema della giustizia italiano al 79mo posto tra quelli di tutti i Paesi del mondo, e più precisamente tra la Repubblica della Georgia e il Regno di Tonga. Un risultato, questo, di cui Governo e istituzioni di un Paese che si vanta spesso di essere la patria del diritto, oltre che di Cesare Beccaria, non sembra si siano mai interessati, e che del resto è costantemente ignorato anche dalle principali fonti di informazioni. Tuttavia, non si ha notizia di un aumento della certezza nel sistema della giustizia penale italiana, e le rilevazioni statistiche internazionali non indicano che vi sia in atto un miglioramento del quadro.

L’aumento della certezza potrebbe però essere stato ottenuto dal lato forze dell’ordine, piuttosto che da quello della magistratura. Potremmo infatti immaginare che la diminuzione dei delitti sia avvenuta in conseguenza di un aumento del numero dei delitti denunciati dalle forze dell’ordine rispetto al numero dei delitti commessi, e che questo abbia avuto un effetto deterrente, anche quando la denuncia di un delitto non ha implicato l’identificazione del suo autore. Questo ragionamento urta però contro due generi di considerazioni. La prima – di massima rilevanza e peraltro ignorata dai più – riguarda l’origine delle denunce. Come già accennato, queste ultime discendono in grandissima parte dalla iniziativa delle vittime dei delitti, e il ruolo delle forze dell’ordine si limita a registrare queste denunce. Se, ad esempio, le violenze sessuali non fossero denunciate dalle vittime, il numero dei casi conosciuti sarebbe irrisorio. Pertanto, è difficile immaginare che la riduzione nel numero delle violenze sessuali sia avvenuta per effetto di una maggiore impegno delle forze dell’ordine nel denunciare questi delitti. E quanto detto per le violenze vale per molti altri delitti. Le forze dell’ordine giocano un ruolo più incisivo solo nelle denunce riguardanti alcune fattispecie ben specifiche: i delitti cosiddetti senza vittima, come in particolare i reati di droga; i delitti in cui la prima vittima è lo Stato, come ad esempio i reati di terrorismo; e pochi altri delitti, come la ricettazione, in cui la vittima è piuttosto remota rispetto all’evento delittuoso, e pertanto ignara di esso. Per tutti questi delitti, comunque, sembra evidente che un maggiore impegno delle forze dell’ordine nello scoprire i delitti in questione comporterebbe innanzitutto un aumento delle denunce e di conseguenza un aumento dei delitti registrati, e non già una loro diminuzione, come invece sembrerebbe essere avvenuto. Solo a distanza di tempo ci aspetteremmo una certa diminuzione dei delitti, come conseguenza dell’effetto deterrente del maggiore impegno delle forze dell’ordine.

Si deve comunque notare che la diminuzione dei delitti potrebbe essere stata determinata non tanto da un iniziale aumento delle denunce penali e del parallelo effetto deterrente, bensì da una riduzione del numero dei delitti attribuiti ad ignoti. In altre parole, avremmo una riduzione dei delitti come conseguenza della maggiore deterrenza associata con un maggiore rischio, per l’autore di crimini, di essere identificato. L’effetto deterrente che deriva da una diminuzione della percentuale dei delitti attribuiti ad ignoti dovrebbe essere realisticamente maggiore dell’effetto di un semplice aumento dei crimini emersi rispetto a quelli commessi. Quando pensiamo alla concezione della certezza del diritto come chiave di volta della sicurezza pubblica e del controllo sociale, così come in Beccaria e nei suoi seguaci di tutti i tempi, pensiamo precisamente all’effetto deterrente che una riduzione della percentuale di delitti attribuiti ad ignoti avrebbe sul potenziale infrattore della legge penale.

Tuttavia, l’effetto deterrente derivante da una diminuzione dei delitti attribuiti ad ignoti sarebbe comunque ritardato. Per un periodo di tempo abbastanza lungo, il numero delle denunce e quindi dei delitti registrati dovrebbe, a rigore di logica, rimanere invariato, e non diminuire, come invece sembra essere avvenuto. In ogni caso, se vi è stato un aumento della deterrenza nelle forme appena descritte, questo aumento deve risultare da un cambiamento significativo nel rapporto tra delitti denunciati e delitti attribuiti ad ignoti. Negli ultimi anni, fino al 2017, il clearance rate, ossia la percentuale dei delitti di cui si è identificato l’autore, è rimasto molto basso in Italia. Per il totale reati, il clearance rate ha oscillato tra 18,4 e 19,4%; per gli omicidi volontari, ossia per il delitto utilizzato per le comparazioni internazionali tra i vari Paesi, la percentuale è stata in media del 67,5%; ciò significa che in Italia non si è riusciti a identificare l’autore di circa il 32,5% degli omicidi volontari; per un paragone, si tenga presente che le stime corrispondenti sono di circa il 20% per Svezia e Olanda, del 15% per  Inghilterra e Galles, di 13% per la Svizzera, di circa 9% per la Germania. Negli ultimi anni, vi è stata, nel complesso, una lieve riduzione dei reati attribuiti ad ignoti, ma non tale da fare prevedere, come conseguenza, un significativo decremento dei crimini. Per il periodo più recente – ossia per quello cui si riferiscono le odierne notizie diffuse dal Governo – non risultano informazioni su una diminuzione della percentuale di delitti attribuiti ad ignoti, anche se proprio una diminuzione in questo senso costituirebbe motivo di legittimo vanto per il Governo. Non ci rimane, quindi, che attendere informazioni dal Governo su questo punto fondamentale.

Come abbiamo detto in precedenza, la diminuzione dei delitti potrebbe essere avvenuta a causa di un aumento delle pene, piuttosto che di un aumento della certezza delle stesse pene. Le pene irrogate dalla giustizia italiana non sono certo tali da escludere l’opportunità di un loro aumento. Per quanto riguarda la pena del carcere – l’unica con capacità di deterrenza nei confronti di tutti i potenziali criminali, a prescindere dalle loro condizioni sociali ed economiche – un rapido calcolo sui dati disponibili (2010-2017) ci dice che, in media, un condannato per omicidio volontario rimane in carcere per 9 anni; un condannato per violenza sessuale 24 mesi; uno per rapina, 26 mesi; uno per furto, 4 mesi. Come già notato, non abbiamo dati recenti (2018) sull’operato della magistratura penale: ma negli ultimi anni per i quali disponiamo dati, vi è stato una diminuzione e non un aumento delle pene detentive mediamente subite dai condannati. E non risultano neppure modifiche legislative recenti che abbiano implicato un aumento delle pene applicabili. Il cosiddetto decreto-sicurezza del 4 ottobre 2018 contiene certamente modifiche legislative che, oltre ad andare nel senso di un sostegno alle vittime di particolari crimini (delitti di mafia, estorsione e usura), prevedono maggiore controllo e maggiore repressione di alcuni specifici comportamenti antisociali. Tuttavia, l’introduzione o reintroduzione di alcune fattispecie penali, o l’espansione dei casi di una loro applicazione, come le previsioni in materia di attività di parcheggiatore abusivo, di accattonaggio molesto con o senza uso di bambini, di occupazione arbitraria di immobili e di blocco stradale, avrebbero dovuto, a rigore di logica, produrre un aumento dei delitti e delle contravvenzioni registrati, e non una loro stabilità e ancora meno una loro diminuzione. A condizione, ovviamente, che queste nuove previsioni penali siano state effettivamente applicate in un numero consistente di casi rispetto alle violazioni messe in atto, e non siano quindi rimaste lettera morta, come peraltro si potrebbe sospettare. Crediamo, a questo proposito, che molti Italiani sono curiosi di sapere quanti parcheggiatori abusivi in Italia hanno effettivamente pagato la somma da 771 a 3101 Euro, come previsto dal nuovo decreto, e quanti, tra coloro che hanno effettuato un blocco stradale, sono finiti in carcere. D’altra parte, l’aumento delle sanzioni previste dal c.d. decreto-sicurezza non è tale – né sotto il profilo della gravità e neppure sotto quello della numerosità delle fattispecie penali previste – da immaginare che esso possa avere provocato un significativo aumento della deterrenza e, conseguentemente, una diminuzione dei delitti registrati. Il decreto-sicurezza non contiene nessuna previsione dalla quale fare discendere realisticamente una diminuzione rilevante dei delitti registrati. Ad esempio, il decreto-sicurezza non ha introdotto una qualche previsione come l’obbligo per il magistrato penale di imporre sempre un significativo e predeterminato aumento della sanzione detentiva in caso di recidiva. Una previsione, questa sì, che avrebbe avuto un sicuro impatto sulle cifre complessive della criminalità in Italia, riducendole corrispondentemente, dal momento che questa criminalità è in larga parte costituita da reati come i furti, le ricettazioni, le rapine, le estorsioni, le truffe: tutti reati dove la percentuale di delinquenti abituali e professionali è altissima. Per un’idea di quanto appena detto, si noti che circa due terzi dei condannati per rapina, per truffa, per furto in abitazione e per furto con strappo ha precedenti penali.

Se non vi sono prove evidenti di un aumento della certezza del diritto e se, contemporaneamente, non vi sono stati aumenti nelle pene tali da fare ritenere realistica una diminuzione dei delitti, non ci resta che ipotizzare un ultimo scenario: la diminuzione dei delitti sarebbe allora avvenuta in seguito ad un incremento nella prevenzione della criminalità, ossia in seguito ad un incremento di iniziative e controlli, sul territorio e sugli individui, volte a diminuire la probabilità che i delitti siano commessi (prevenzione ante-delictum) o che individui che già hanno commesso delitti ne commettano altri (prevenzione post-delictum). Si deve tenere presente che, in senso lato, la prevenzione del crimine abbraccia una grande varietà di possibili iniziative, da un welfare a sostegno delle fasce di popolazione più marginali, ad iniziative di rafforzamento della solidarietà sociale, al reinserimento sociale del condannato tramite un suo impegno in attività a favore della comunità locale. Alcune di queste iniziative, pur essendo altamente auspicabili per l’intera società, e potenzialmente di grande impatto sulla criminalità, hanno un carattere generico, e presentano quindi difficoltà per quanto riguarda una valutazione empirica di tale impatto, perché i loro effetti sono prevalentemente indiretti. Altre iniziative di prevenzione sono invece specifiche, e di regola più facilmente misurabili. Alcune iniziative prese dal Governo potrebbero rientrare nel quadro delle attività specifiche di prevenzione. La previsione dell’espulsione in tempi brevi degli immigrati che hanno subito condanne penali e la parallela previsione del rimpatrio degli immigrati in condizione di irregolarità fanno parte di queste iniziative. Poiché individui già autori di reati hanno maggiori probabilità di ricommetterne, la loro espulsione dal Paese ospitante dovrebbe diminuire il numero futuro dei delitti. Qualcosa di simile potrebbe accadere nel caso di immigrati in condizione di irregolarità. Infatti, anche se – come già sottolineato – le istituzioni italiane non hanno mai provveduto a fornire dati certi in materia, è opinione comune tra gli operatori del controllo sociale, in Italia come altrove, che la stessa condizione di irregolarità aumenti la probabilità di commettere crimini. Si deve notare, tuttavia, che i numeri dei rimpatri sono piccoli. Nel 2017, l’Italia ha rimpatriato circa 7400 immigrati. L’attuale Governo aveva espresso l’intenzione di rimpatriarne molti di più, anche tramite uno spostamento di fondi pubblici dall’accoglienza ai rimpatri; ma i rimpatri sono operazione difficile, anche perché necessitano dell’accordo del Paese di origine, che non sempre si rende disponibile; in conclusione, nel 2018 sono stati rimpatriati circa 8000 immigrati. Malgrado qualche incertezza sulle cifre esatte, chiaramente le differenze non sono tali da spiegare il calo rilevante dei delitti nei primi mesi del 2019. La mancanza di un più marcato incremento nei rimpatri nell’anno 2018 è in parte attribuibile anche al contemporaneo, forte calo degli ingressi di immigrati in Italia. Nel 2016, gli ingressi registrati erano stati circa 181 mila; nel 2017, 119 mila; nel 2018, solo 23 mila (Ministero dell’Interno, Cruscotto Statistico 31-12-2018). Questa netta diminuzione degli ingressi nel 2018 potrebbe essersi riflessa sull’andamento della criminalità in Italia. Le condizioni di marginalità sociale e economica di molti dei nuovi immigrati sono tali da fare ritenere che le loro probabilità di commettere crimini siano decisamente più alte. Mancano anche qui dati più precisi, ma vi è una concordanza tra gli esperti su questo punto. È opportuno comunque provare a fare qualche calcolo sul possibile impatto sulla criminalità derivante da questa diminuzione degli ingressi. Nel 2018, vi sono stati circa 96 mila ingressi in meno rispetto al 2017 (119.000 23.000 = 96.000); possiamo ipotizzare che questa popolazione, per le sue specifiche condizioni di marginalità, avrebbe potuto dare alla criminalità in Italia un contributo pari a 10 volte il suo peso sulla popolazione totale residente, compresi in questa ultima anche gli arrivi degli anni precedenti. Ebbene, anche ipotizzando tutto ciò, tale loro contributo sarebbe stato pari all’1,6% del totale crimini in Italia: troppo poco per spiegare il decremento della criminalità all’inizio del 2019, che – secondo le cifre fornite dal Ministero dell’Interno – è circa dieci volte più grande (15% per il totale delitti).

Anche il forte decremento degli ingressi di immigrati nel 2018, pertanto, non sembra potere essere stata la ragione sufficiente del decremento dei delitti registrati. Si deve però considerare che l’aumento della prevenzione potrebbe avere riguardato anche altri aspetti, oltre quelli del rimpatrio degli immigrati e della forte riduzione dei nuovi ingressi. Questi ulteriori aspetti potrebbero avere riguardato il rafforzamento del controllo del territorio in una prospettiva precisamente di prevenzione dei reati. Negli ultimi decenni, negli Stati Uniti e poi in altri Paesi, sono state sperimentate nuove politiche di prevenzione della criminalità basate precisamente su un maggiore controllo del territorio urbano tramite maggiore presenza fisica delle forze di polizia e azioni di contrasto nei confronti anche di manifestazioni minori di illegalità e antisocialità, dalla ubriachezza molesta ai graffiti, dal non-pagamento del biglietto sui mezzi di trasporto pubblici all’abbandono di rifiuti in strada, ai piccoli atti vandalici (cosiddetta politica di lotta alle broken windows, ossia alle finestre rotte). L’applicazione di queste nuove politiche è stata seguita da una riduzione anche della criminalità maggiore. In Italia, queste politiche sono state sinora ignorate. Una forma di prevenzione non lontana da queste politiche – il cosiddetto poliziotto di quartiere – è stata più volte promessa da varie forze politiche ma mai realizzata. Alcune delle modifiche legislative recenti del decreto-sicurezza – repressione della occupazione arbitraria di immobili, dell’accattonaggio molesto, dei blocchi stradali etc. – sembrerebbero andare nella direzione indicata a suo tempo da questa politica della lotta alle finestre rotte. Come peraltro già accennato, sembra tuttavia poco realistico collegare queste recenti e limitate modifiche con l’annunciato forte calo dei crimini. Comunque, per convincere il pubblico che la riduzione della criminalità è merito di un aumento significativo della prevenzione – e in definitiva delle autorità e delle forze politiche che l’hanno favorito – basterebbero dati affidabili che mostrassero un incremento rilevante e statisticamente significativo nelle attività di prevenzione, sia in quelle genericamente sociali, sia in quelle specifiche, di diretta competenza delle forze dell’ordine e più facilmente misurabili: ad esempio, un incremento nel numero delle persone identificate nel corso di controlli, nel numero dei profili (fingerprinting) genetici rilevati, nel numero degli autoveicoli (autocarri, automobili, motocicli) fermati e controllati, nella percentuale di forze di polizia presenti fisicamente e visibilmente sul territorio, nel numero delle perquisizioni effettuate, delle imprese monitorate, degli impianti di videosorveglianza utilizzati, e così via.

In mancanza di tutto ciò, e augurandoci comunque che i dati sulla criminalità nei primi mesi del 2019 siano confermati nel prossimo futuro, ci limiteremmo a pensare che l’annunciata riduzione della criminalità sia frutto di un miglioramento complessivo della società italiana. Pensiamo però, anche, che si tratta di qualcosa che è più facile desiderare che dimostrare vera.




Dimenticare Tienanmen!

L’anniversario della strage di Tienanmen non ha dato la stura ai fiumi di retorica che, soprattutto nel nostro paese, sono lo scotto da pagare in queste ricorrenze. Ci sono diverse buone ragioni che spiegano il ricordo sobrio e quasi in sordina della rivolta contro il Rosso Impero di Mao Tse Tung, il cui ritratto campeggia ancora nella piazza più importante di Pechino. Innanzitutto la Cina è una grande potenza industriale e finanziaria, che suscita ammirazione e che viene, per le sue imponenti realizzazioni, trattata con rispetto. Sta comprando mezza Africa e, in Europa, i suoi investimenti massicci, che rappresentano per alcuni il nuovo “pericolo giallo”, sono per altri una risorsa insperata per imprese (e persino per società sportive) decotte. L’Unione Sovietica pregorbaceviana, in quanto  realtà economica lontana ed estranea all’Europa, suscitava uno sdegno e una indignazione per le sue politiche repressive incomparabilmente ben maggiori di quelli suscitati  dai carri armati di Deng e dei suoi successori in doppio petto: il suo tasso di totalitarismo non era affatto superiore a quello cinese (chi parla mai delle stragi di Mao e delle violenze della rivoluzione culturale?) ma, ciononostante, tuttora in letteratura gli studiosi del totalitarismo continuano a citare, insieme a Hitler, Stalin ma raramente il “Grande Timoniere”. Diciamoci la verità, in una società come quella in cui viviamo, per la quale esistono ormai solo gli interessi economici, da un lato, e i diritti, dall’altro, e in cui l’universalismo individualista del mercato fa a gara con l’universalismo individualista dei diritti nell’eliminare come tertium incomodo la dimensione della politica, dello Stato, delle identità culturali, delle tradizioni etc., affidando beni e valori esistenziali nel primo caso, al Mercato Globale e, nel secondo a corti giudiziarie sovranazionali, la Cina non può in alcun modo rientrare nella categoria degli “stati canaglia”. A destra come a sinistra.

A destra (mi riferisco a una destra che non è poi tanto destra, quella iperliberista) perché è difficile, in realtà, avercela con un sistema politico che, grazie a dosi massicce di capitalismo, sta facendo registrare a un popolo asiatico, che, a differenza di quello giapponese, sembrava refrattario alle “benedizioni della modernità”, un progresso tecnologico gigantesco quale non si era mai visto nel corso della sua storia millenaria. A molti liberali questo basta—in fondo odiavano l’URSS più per il suo collettivismo che per la sua mancanza di libertà attribuita esclusivamente al controllo statale dell’economia—e se pure ammettono che, per Pechino, il cammino verso la “società aperta” è lontano (manca, ad es., la libertà sindacale ma i lettori di Ludwig von Mises sanno bene che per il loro Maestro non era poi così indispensabile ed anzi poteva essere nociva alla libertà imprenditoriale), vedono con soddisfazione nel modello cinese la riprova dei miracoli che può fare il mercato (sia pure con tutti i vincoli che ancora lo impacciano e che, secondo loro, verranno rimossi dalla logica delle cose). A loro modo, sono dei “materialisti storici”: è la “struttura”, sono i rapporti di produzione, che determina la “sovrastruttura”, lo Stato con i suoi apparati, i suoi simboli, il suo diritto etc.

A sinistra per motivi forse molto più complessi. Se si parla con qualche reduce del ’68, ci si sente dire della Cina di Xi Jinping: “ma che è socialismo questo?”. E tuttavia come i nostalgici del fascismo—non certo grati a Franco per non essersi associato alla guerra dell’Asse ma costretti a riconoscere che “elementi di fascismo” non potevano essere negati, se non al franchismo reale, ai crociati di “Arriba Epagna” —anche i delusi dal comunismo reale e dal tramonto delle idealità della “Lunga Marcia” non possono far finta che a Piazza Tienanmen non ci sia ancora il ritratto di Mao. I nuovi dirigenti della Repubblica Popolare saranno membri degeneri ma conservano un posto incontestabile nell’ “album di famiglia”.

Divenute pacifiste e non violente, le sinistre oggi riconoscono senza esitazione che la repressione degli studenti cinesi, che chiedevano libertà e democrazia, è ingiustificabile ma, ad attenuare l’indignazione, è il morbo totalitario di cui stentano a guarire. “Si, ammettono in molti, la restaurazione dell’ordine affidata ai carri armati fu crudele e disumana, ma gli stati capitalisti non hanno fatto di peggio? Condannare Pechino significa vedere l’albero (comunista) e non accorgersi della foresta (capitalista)”.

Ebbene la mens totalitaria consiste proprio in questo: nell’attaccare a un robusto chiodo piantato sul muro di una storia immaginata, tutta la rete dei rapporti sociali e degli eventi tragici che ne conseguono (il monocausalismo). E’ il trionfo della sineddoche: ciò che fa parte di un insieme (gli ebrei, i capitalisti, le etnie culturali, i retrogradi, i progressisti) viene reso responsabile del tutto ovvero di tutte le tempeste che su quell’insieme si sono abbattute e si abbattono. Le guerre? Le colonizzazioni? Le politiche di potenza? Per la  sinistra, che ancora non si è liberata del tutto del virus totalitario,  non sono fenomeni che dipendono da una serie sterminata e complessa di cause che avrebbero potuto anche combinarsi diversamente (ad es., l’industria metalmeccanica avrebbe potuto far valere il suo europeismo e il suo interesse all’apertura dei mercati contro l’industria metallurgica, legata a logiche protezionistiche e potenzialmente guerrafondaie) ma sono il prodotto di un “Capitalismo”—sempre identico pur nelle sue forme proteiche— abile nel rivestire ideologicamente i suoi biechi interessi con idealità superiori (la “guerra di civiltà”, la “missione dell’uomo bianco” etc.). Se, come ho rilevato altre volte, l’azzeramento della complessità è il segno equivocabile della sindrome totalitaria, tale azzeramento porta a porre sullo stesso piano, Portello della Ginestra e la rivolta di Budapest,  Tienanmen e Piazza della Loggia: in ognuno di questi casi, il “sistema” semina morte.

Eh no, va ricordato ai protagonisti degli “anni ruggenti” di ieri, divenuti oggi scettici e antipolitici, le violenze comuniste (e fasciste) nascono da una volontà precisa, da un programma, da un potere politico ben determinato che controlla la società civile e la tiene prigioniera; le violenze che costellano la storia dei regimi liberali e democratici dove il governo è un attore tra gli altri sono il risultato (spiacevole quanto si vuole) di un interagire tra gruppi sociali, associazioni, località, chiese, istituzioni culturali, stampa, scuola, i cui interessi diversi e intrecciati determinano spesso “conseguenze inintenzionali”.

Dire pertanto: “neppure a me piace quanto è avvenuto a Tienanmen ma pensate al Vietnam e alle altre guerre “capitalistiche””, significa, ahimè, restare prigionieri di un’ideologia che continua a rendere difficili i nostri rapporti con la civiltà liberale.

Articolo inviato a Il Dubbio