Sul futuro di Medicina

È strano. Fiumi di inchiostro sono stati versati sul monologo di Scurati. Altri se ne sprecano quotidianamente per denunciare imminenti innumerevoli pericoli di ritorno del fascismo. Le frasi del generale Vannacci infiammano gli animi di tifosi e detrattori. Non passa giorno senza che si denuncino, non senza ragione, gli inaccettabili tempi di attesa del nostro sistema sanitario nazionale. Altre decine di temi, sempre quelli, occupano ripetutamente le pagine dei quotidiani.

Però c’è una questione di cui, stranamente, parliamo pochissimo, pur essendo cruciale per il futuro di tutti noi: la riforma dei criteri di ingresso a Medicina (e facoltà collegate). Se ne discute da tempo. In Commissione istruzione del Senato c’è un testo base, da cui presto dovrebbe scaturire un disegno di legge. I principali partiti hanno idee diverse. L’Associazione Nazionale Docenti Universitari (ANDU) non sposa nessuna delle proposte partitiche in campo, ed è estremamente critica con l’impostazione del testo base.

L’idea di fondo del testo base è di NON abolire il numero chiuso, che attualmente esclude circa il 70% degli aspiranti, e di sostituirlo con un sistema giudicato più equo (e da tempo usato in Francia con risultati assai controversi): tutti possono iscriversi al primo semestre del primo anno, ma proseguano solo quelli che – in quel primo semestre – hanno conseguito i risultati migliori.

Ma che significa risultati migliori?

Non è chiarissimo. Nel testo base si parla di raggiungere un determinato numero di CFU (crediti formativi universitari) nelle materie obbligatorie e caratterizzanti del primo semestre, cui però possono aggiungersi crediti acquisiti durante l’ultimo anno di scuola secondaria superiore. Se il numero di studenti a “pieni crediti” supera il numero di posti disponibili, la selezione dovrà avvenire in base a una “graduatoria di merito nazionale”, di cui tuttavia non si sa ancora come verrà costruita.

Le idee del testo base hanno sollevato diverse critiche e dubbi. C’è chi ritiene che il vero problema non sia l’accesso a medicina, ma l’accesso alle specialità post-laurea, e in particolare lo squilibrio fra struttura della domanda e dell’offerta di posti. C’è chi osserva che le università non hanno le strutture (aule e personale docente) per reggere l’urto di tutti gli aspiranti medico nel primo semestre. C’è chi ritiene che l’unico sistema di selezione equo sarebbe il sorteggio. E c’è chi, al contrario, vorrebbe eliminare il numero chiuso, come se il problema delle strutture insufficienti non esistesse. C’è chi si preoccupa del destino dei non ammessi al secondo semestre, e dell’impiego dei crediti comunque acquisti. C’è chi fa notare che, al momento, non sono previsti adeguati stanziamenti per sostenere la transizione dal vecchio al nuovo sistema. E l’elenco delle criticità potrebbe continuare a lungo.

Per quanto mi riguarda, ho letto i documenti principali prodotti dalla Commissione e dall’ANDU e l’impressione che ne ho ricavato è che l’iter della legge sarà lungo e accidentato, e difficilmente ne verrà fuori qualcosa di funzionante. A giudicare dal resoconto dei lavori, sembra che si vada avanti concedendo qualcosa a ogni forza politica coinvolta, rinunciando a un disegno organico e coerente, perché qualsiasi disegno di questo tipo scontenterebbe troppi soggetti coinvolti. Un po’ come accadde tanti anni fa (2009), quando la Lega rinunciò al suo progetto di federalismo fiscale (discutibile ma coerente) per incassare la benevolenza della sinistra, senza rendersi conto che la ricerca ossessiva del compromesso avrebbe spento ogni spinta riformatrice.

Non so come andrà a finire, ma penso che delegare completamente il tema della riforma di Medicina alle manovre dei partiti non favorirà la nascita di una legge funzionante. È vero che è un tema molto tecnico, che non consente di prendere posizione sull’asse fascismo-antifascismo che tanto appassiona gli intellettuali, ma resto dell’idea che, sulle cose che contano – ad esempio la soglia del numero chiuso e i criteri di accesso – sia meglio che anche l’opinione pubblica abbia modo di dire la sua. La libera stampa serve anche a questo.

[articolo uscito su La Ragione il 30 aprile 2024]




Calabresi story e la generazione Z

Ansiosi, asociali ma anche straordinariamente benestanti rispetto a tutte le generazioni che li hanno preceduti. Ecco l’identikit degli “Zoomers”, i nati tra il 1997 e il 2012, secondo l’Economist, uno dei più importanti settimanali anglosassoni.

Gli Zoomers hanno meno di 27 anni. Che mondo lavorativo si trovano di fronte? Una vasta prateria dal punto di vista occupazionale rispetto alle generazioni che li hanno preceduti. Dal 1991 la disoccupazione giovanile nel mondo ricco non è mai stata così bassa. 

Il reddito spendibile della Generazione Z è più alto di quello delle generazioni che li hanno preceduti: l’Economist cita oltre a una marea di dati corroboranti la tesi, un esempio “pop”. Il concerto di una beniamina degli Zoomers, la 21enne Oliva Rodrigo. Non solo il costo del biglietto costava centinaia di dollari. Ma c’erano code per accaparrarsi magliette per la modica cifra di 50 dollari.

Gli Zoomers sono la generazione più ricca di sempre. Parliamo di 250 milioni di persone: stanno superando nel mondo del lavoro i baby boomers che essendo ultra sessantenni si stanno avviando verso la pensione. Sono anche la generazione a cui chi finanzia le imprese sta guardando di più. 

In una conferenza al Salone del Risparmio, l’ex direttore de La Stampa e de La Repubblica, Mario Calabresi, figlio dell’ex Commissario Luigi Calabresi ucciso da militanti di Lotta continua, lo ha candidamente confessato.

Perchè uno come lui con un lavoro sicuro lascia tutto per andare a lavorare in una start-up diventando imprenditore? Calabresi, oggi Ceo di Chora Media, la regina in Europa dei podcast, lo spiega così durante la conferenza Selfie: che investitore sei? organizzata da UBS con ospiti davvero uno più interessante dell’altro.

Dopo 10 anni passati a dirigere giornali, avevo visto molto deteriorarsi il business model dell’editoria tradizionale e soprattutto avevo visto che l’età media di chi leggeva i giornali era sempre più alta e non parlava più con chi aveva vent’anni e chi aveva trent’anni”. Insomma, di chi parla Calabresi? Degli Zoomers, gli stessi di cui parla l’Economist. E fa autocritica.

​Non puoi pensare – se sei un giornalista o il direttore di un giornale – che non stai parlando alla parte più attiva della società. “Soprattutto perché quando avevi a che fare con gli sponsor pubblicitari – ricorda Calabresi – ti chiedevano: trentenni e quarantenni quanti ne abbiamo? Io rispondevo: pochissimi, però abbiamo un sacco di settantenni e ottantenni.

Calabresi teme di essere sulla lunghezza d’onda della generazione sbagliata e a quel punto si prende un anno sabbatico. Ha cinquant’anni e ancora vent’anni prima della pensione. Viaggia in Europa e negli Stati Uniti. Cerca di capire nell’editoria cosa è in crescita, quali sono i trend di lungo periodo. Scopre che nel mondo, dalla Gran Bretagna al Brasile alla Spagna, sono i contenuti audio che stanno crescendo. In Italia però i contenuti audio non sembrano essere così popolari.

Calabresi si chiede “È un problema di domanda o di offerta?” Sono gli italiani gli unici a cui in tutto il mondo non interessano i contenuti audio o non li ascoltano perché i contenuti non sono all’altezza? Diventa imprenditore. Nel 2021 ricorda Calabresi Chora Media faceva 1 milione di ascolti, negli ultimi 12 mesi la società di cui Calabresi è diventato CEO lasciando un lavoro sicuro per fare l’imprenditore ha fatto 100 milioni di ascolti.

Chi ascolta i podcast di Chora Media? Gli Zoomers (quelli con meno di trent’anni) e i 40 enni, il pubblico per cui Calabresi voleva rendersi appetibile con contenuti editoriali.

La fascia di lavoratori, la generazione Z, che in America sta diventando come abbiamo visto più numerosa. Quella con il reddito spendibile più alto di tutte le generazioni che l’hanno preceduta. E quella con lo stipendio più in crescita ricorda l’Economist: “in America la crescita della retribuzione oraria tra i giovani di età compresa tra i 16 e i 24 anni ha recentemente raggiunto il 13% su base annua” racconta il quotidiano anglosassone “rispetto al 6% per i lavoratori di età compresa tra 25 e 54 anni.

La generazione Z è anche quella più richiesta dal mondo del lavoro come racconta il settimanale Economist parlandoci della Grecia “Il tasso di disoccupazione giovanile della Grecia è diminuito della metà rispetto al suo picco. Gli albergatori di Kalamata, destinazione turistica, lamentano una carenza di manodopera, qualcosa di impensabile solo pochi anni fa.”

Certo anche questa generazione ha i suoi problemi: asociali e ansiosi, secondo Jonathan Haidt, uno psicologo sociale della New York University, che ha dedicato loro un libro in cui li ha dipinti come una generazione un po’ triste, mi verrebbe da dire. “I giovani di oggi hanno meno probabilità di formare relazioni rispetto a quelli di ieri – scrive Haidt nel libro “The Anxious Generation” – Hanno maggiori probabilità di essere depressi o di dire che alla nascita gli è stato assegnato il sesso sbagliato. Hanno meno probabilità di bere, fare sesso, avere una relazione, anzi, di fare qualcosa di eccitante e trascorrono in media solo 38 minuti al giorno a socializzare di persona.”​

Però, hanno un sacco di soldi, di possibilità di lavoro e sono così potenti da convincere un professionista “arrivato” come l’ex direttore de La Stampa e Repubblica Mario Calabresi a confezionare qualcosa di “adatto” per loro.

Può essere che qualcosa, in pochi anni, sia cambiato così velocemente e non ce ne siamo accorti?

Se avete figli o nipoti di 12, 14, 16, 20, 25 anni pensate a cosa possono permettersi loro e quale capacità di spesa hanno, a quali consumi attingono e fate un confronto con i soldi, i consumi e le cose che noi cinquantenni, sessantenni e settantenni ci permettevamo alla loro stessa età.

È un confronto impietoso.




Il 25 aprile e del perché a scuola in Italia si fanno 3 volte i Sumeri ma mai la Seconda Guerra Mondiale

In questi giorni, mentre leggevo i resoconti della manifestazione del 25 aprile a Milano, ho avuto come una presa di coscienza.

Mi sono infatti sempre chiesto, prima da studente e poi da genitore, per quale motivo nelle scuole italiane di ogni ordine e grado viene fatta studiare la storia antica – vale per i Sumeri come per l’antico Egitto – sia alle elementari che alle medie che nelle superiori, mentre, più ci si avvicina alla contemporaneità, lo zelo degli insegnanti si affievolisce e gli avvenimenti del ’900 non sono oggetto di uno studio altrettanto serrato e scandito.

In particolare, poi, la Seconda Guerra Mondiale rappresenta una specie di tabù: al massimo si arriva ai cosiddetti suoi prodromi, e difficilmente lo studente medio italiano sa come è andata realmente a finire.

Sarà colpa dei programmi, dipenderà dagli insegnanti, a cui manca il tempo necessario alla fine dell’anno scolastico, pensavo.

Ma poi, leggevo che alle manifestazioni per il 25 aprile in tutta Italia le piazze sono state egemonizzate o comunque pesantemente condizionate da chi chiedeva il cessate il fuoco ovunque, in Ucraina come a Gaza, denigrando gli americani, la NATO, gli ebrei e la brigata ebraica; ed assistevo ai distinguo, ai complicati giochi verbali di chi in questo paese – compreso chi ci governa – non riesce a dirsi antifascista.

Ecco, allora ho, per la prima volta, nitidamente capito che la moratoria sulla Seconda Guerra Mondiale, la circostanza che la guerra di liberazione dal nazifascismo e la resistenza in Italia non venga studiata a scuola, non è affatto casuale: il tacito patto di non affrontare quelle pagine di storia – che dovrebbero costituire invece il fondamento della nostra comunità nazionale – è funzionale affinché ogni parte politica, ogni fazione possa sostenerne la sua versione, in una logica da tifosi, senza il fastidio di dover tenere in conto la realtà.

La verità dei fatti, per chi la vuole intendere, è d’altra parte ormai piuttosto nota.

Il ventennio fascista ha rappresentato un regime orribile, fatto di oppressione, di violenza, in cui è stata conculcata ogni più elementare forma di libertà: ed è bene sapere che oltre alla pizza, al bel canto, alla moda e al made in Italy, nel mondo la stessa parola fascismo ha purtroppo il nostro copyright.

Così com’è ormai storiograficamente accertato che il regime nazifascista è stato sconfitto in Italia dalle forze alleate, dagli angloamericani. Si calcola che siano morti in Italia per liberarci poco meno di 100.000 soldati americani, e complessivamente gli alleati (tra cui americani e britannici, ma anche polacchi, brasiliani, neozelandesi, ecc.) ebbero circa 313.000 “casualties” (tra morti, feriti, dispersi o prigionieri): si tratta di numeri di molto superiori alle forze e alle perdite partigiane, che militarmente ebbero un ruolo residuale.

In altre parole, e per essere chiari: senza i partigiani, gli alleati ci avrebbero messo un po’ di mesi in più a risolvere la guerra in Italia. Ma senza gli alleati, la resistenza non avrebbe potuto neanche cominciare.

D’altra parte, come ebbe a dire Churchill: “Bizzarro popolo gli italiani. Un giorno 45 milioni di fascisti. Il giorno dopo 45 milioni tra antifascisti e partigiani. Eppure, questi 90 milioni di italiani non risultano dai censimenti”. Insomma, è ormai acclarato che la resistenza non fu affatto un movimento di popolo, ma interessò una porzione molto limitata della popolazione al Nord del paese, e fu un fenomeno eterogeneo, in cui spinte ideali si mischiarono a regolamenti di conti, condotta da chi voleva fare la rivoluzione anche in Italia e quanti volevano invece semplicemente tornare a fare una vita normale.

Di certo ci fu anche un senso di riscatto civile e morale: ma l’Italia democratica e la Costituzione più bella del mondo furono anche frutto di contingenze geopolitiche.

Non sarebbe l’ora che queste cose, per come sono effettivamente andate, iniziassimo finalmente a dircele e a farle studiare ai nostri ragazzi? (con buona pace dei Sumeri, di cui sappiamo già tutto)




Protesta studentesca e libertà di parola – Davide contro Golia?

Diversi osservatori si sono compiaciuti delle mobilitazioni studentesche pro-Gaza, perché esse mostrerebbero che i giovani non sono apatici e indifferenti come talora vengono dipinti, bensì impegnati e sensibili ai destini del mondo. Qualcuno ha pure evocato una sorta di nuovo ’68, come se l’idealismo della gioventù pacifista di oggi fosse una riedizione di quello di ieri contro la guerra del Vietnam.

Nessuno può sapere come le cose evolveranno, ma per ora – a mio parere – le differenze prevalgono sulle analogie. La differenza più evidente è che, per ora, le proteste degli studenti sono molto circoscritte e, anche per questo, significativamente infiltrate da soggetti esterni, sia negli Stati Uniti sia in Italia. Ma esiste anche un’altra differenza, di cui si parla poco: la complessità ideologica dell’oggetto del contendere.

Negli anni ’60 il nucleo della protesta, specie negli Stati Uniti, era l’opposizione a una guerra che coinvolgeva direttamente gli Stati Uniti, e che rischiava di ripercuotersi sugli studenti universitari, in quanto potenzialmente arruolabili. Sul piano politico, l’alternativa era relativamente semplice: si potevano condividere o viceversa contestare le ragioni dell’intervento americano nel sud-est asiatico. Due posizioni chiare e ben difendibili, da entrambe le parti.

Oggi le cose sono molto più complicate. Il conflitto che scalda gli animi dura da quasi 80 anni, ossia dalla nascita dello stato di Israele nel 1948. Nel tempo ha coinvolto direttamente o indirettamente numerosi stati e popolazioni, dando luogo a una catena di guerre più o meno esplicitamente dichiarate, con alleanze variabili fra i soggetti coinvolti. Come non bastasse, al centro del conflitto si sono trovati gli ebrei, ovvero le vittime principali del nazismo, e diverse popolazioni di fede musulmana, ostili alla nascita di uno stato ebraico in Palestina. Un vero groviglio, che ha dato luogo a una lunghissima partita, suddivisa in una decina di “tempi”, di cui quello iniziato il 7 ottobre 2023 è solo l’ultimo.

Queste peculiarità della questione palestinese rendono terribilmente difficile dipanare la matassa ideologica del conflitto. Se si parla tra persone informate e non troppo faziose, nessuno si sente di schierarsi nettamente da una delle parti in conflitto, perché è impossibile non vedere la sequenza di tragici errori compiuti da entrambi i lati. Si può, più o meno istintivamente, sentirsi più solidali con gli uni o con gli altri, ma è difficile non vedere le immani responsabilità della parte per cui si parteggia.

Non così a livello di massa. A livello di massa prevalgono le semplificazioni manichee proprio perché la vicenda è troppo intricata. Il bisogno di prender posizione, ammirevole in quanto rifiuto di ogni indifferenza e apatia, si scontra con l’impossibilità di farlo senza cancellare ingenti porzioni della storia reale del conflitto. Ed ecco la soluzione: costruire un racconto a senso unico giocando sulla asimmetria fondamentale del conflitto, che vede da una parte uno dei popoli più martoriati della terra, dall’altro una delle nazioni più ricche e potenti dell’occidente. Una sorta di riedizione della sfida fra Davide e Golia, con Israele nella inedita parte del cattivo gigante Golia, e il popolo palestinese in quella del buono e coraggioso pastorello Davide.

Questo racconto partigiano, naturalmente, non ha alcuna possibilità di uscire indenne da un confronto storico-critico informato, che consideri tutta la storia del conflitto, e non nasconda le spaventose responsabilità delle classi dirigenti arabe (specie nei primi 20 anni del conflitto) e israeliane (specie negli ultimi 20 anni). Ed ecco spiegato come mai non accade quel che recentemente ha auspicato Massimo Cacciari: ossia che le università diventino luoghi di confronto, riflessione e dialogo nei modi ad esse appropriati, ossia con seminari, convegni, dibattiti, corsi di studio sulla storia del conflitto. La ragione per cui tutto ciò non accade, né potrà mai accadere, è che un dialogo aperto e senza censure farebbe sciogliere come neve al sole il rozzo racconto degli attivisti anti-Israele, per questo fermamente decisi a non fare i conti con tutta la complessità del groviglio medio-orientale.

Ma la debolezza storico-ideologica del racconto degli attivisti studenteschi spiega anche un altro tratto della protesta attuale: la sua vocazione intimidatoria, che si è manifestata in tanti episodi recenti, come le contestazioni degli ebrei David Parenzo e Maurizio Molinari, o l’espulsione dal corteo del’8 marzo della ragazza che ricordava gli stupri di Hamas. L’attivismo studentesco di oggi, a differenza di quello di ieri, ha assoluto bisogno di limitare la libertà di parola altrui, perché quella libertà ne metterebbe a repentaglio il racconto. In un confronto aperto non tutte le ragioni starebbero dalla parte dei palestinesi, e non tutti i torti dalla parte degli israeliani. È questo che impedisce agli studenti di lasciare il comodo terreno dei cortei e delle piazze per avventurarsi in mare aperto, dove l’unica forza che conta è quella delle idee.

(uscito sul Messaggero il 25 aprile 2024)




Il Monologo del secolo – Talleyrand, Pollyanna, Barbra Streisand e la censura del compitino di Scurati

La difesa pavloviana dal fascismo immaginario ha raggiunto l’apice con il caso del bestsellerista cui si negano milleottocento euro per una comparsata tv. Sabato di resistenza di neostaffette partigiane, e un glorioso cinque per cento di telespettatori (con risposta tombale di Meloni)

Non ricordo qual è stata la prima o la centesima volta che l’ho pensato, in questo lungo weekend in cui i retweet venivano spacciati come lotta partigiana sulle montagne, in cui il senso del ridicolo era più stramorto del solito, in cui è stato chiaro che la curva d’apprendimento è vieppiù piatta. Non ricordo quand’è che ho pensato per la prima o centesima volta: io a vedere la sinistra schiantarsi sempre negli stessi modi non ce la faccio.

I fatti, se beati voi vivete nella capanna di Unabomber e domenica mattina non avete cliccato sulla app di Repubblica trovandoci in apertura quindici tra pezzi, video, ritratti, editoriali, retroscena, su Scurati, di Scurati, per Scurati, tra Scurati. (Il Corriere più moderato solo perché Scurati non è più editorialista suo. Non che nessuno si fosse in questi mesi accorto che era passato dal Corriere a Repubblica, ma non divaghiamo).

Serena Bortone, conduttrice d’un programma da quattro per cento del sabato sera su Rai 3, chiede ad Antonio Scurati – premio Strega, bestsellerista, professionista dell’antifascismo – un monologo da declamare in trasmissione. Lui scrive una paginetta di compitino su Matteotti, e qualcosa va storto.

C’entrano Calboni e Talleyrand? Luca Bizzarri, comico, ha detto che questa è una di quelle occasioni in cui il funzionario Rai smanioso di compiacere il potere eccede in prudenze. Andrea Malaguti, direttore della Stampa, ha ricordato che Talleyrand raccomandava: surtout, pas trop de zèle. Che anche a me pare un buon motto per sintetizzare queste due giornate di resistenza immaginaria, temo per ragioni diverse da quelle per cui lo evoca Malaguti.

Fatto sta che all’autrice e conduttrice di “Chesarà…” viene comunicato l’annullamento della prevista ospitata scuratiana, e lei fa ciò che hanno fatto tutti i Santoro del mondo in questi venticinque anni del format «Censura, puntesclamativo»: invece di risolvere la questione, arma un casino garantendosi un posto fisso nel martirologio (posto già prenotato mesi fa, quando percependosi eroica disse in trasmissione d’essere fiera d’essere antifascista, e il Twitter di Pavlov la acclamò come fosse stata una staffetta partigiana e non una conduttrice fin lì invisibile che aveva trovato il modo di diventare, scusate la parola, virale).

Naturalmente, poiché siamo bravissime a lamentare che ci siano poche donne di potere, ma sia mai che una donna di potere sia disposta a posizionarsi come donna di potere e non come Pollyanna che sbatte le ciglia travolta da una realtà più grande di lei, Serena Bortone – oltretutto protetta dall’essere una giornalista assunta dalla Rai a tempo indeterminato, non un Santoro collaboratore in balìa dei rinnovi contrattuali – scrive su Instagram che lei ha «appreso con sgomento, e per puro caso, che il contratto di Scurati era stato annullato».

Non è quello il momento in cui penso che non ce la faccio; lo so per certo, perché ricordo bene che quello è il momento in cui penso a Corrado Guzzanti che fa Rutelli («a’ Sere’, me fai ammazza’ dalle risate»), e in cui penso: ah, quindi la Bortone ora prende atto di venir trattata come il due di coppe quando briscola è a danari, e dice beh, se neanche mi dicono quando saltano gli ospiti e devo scoprirlo per caso, il programma ve lo fate voi e io torno dignitosamente a lavorare in redazione. Lo so: sono tenerissima.

Bortone, che è più sveglia di me, fa il suo apparentemente sprovveduto post dopo aver scartato l’alternativa che non avrebbe portato gloria a nessuno: far andare Scurati a Roma, insistere coi funzionari Rai, o convincere lui a fare ciò che ha poi fatto lo stesso (rinunciare a fatturare) e, nel caso assai improbabile che venisse messo il veto sulla sua presenza in studio a titolo gratuito, solo a quel punto piantare un casino – mica dodici ore prima, rendendo chiaro che è al casino che miri e non alla soluzione.

Breve inciso. Domenica Il manifesto riportava come non fosse la prima volta che la Bortone fa scrivere un monologo e la Rai le risponde «col cazzo»: sarebbe già accaduto mesi fa con Nadia Terranova, che aveva scritto un monologo mai andato in onda sugli studenti manganellati dalla polizia. Non ricordo, all’epoca, stuporoni pubblici della Bortone e conseguente indignazione dei social e dei giornali. Sarà perché Terranova è meno Strega e meno bestsellerista, o perché la puntata era meno adiacente al 25 aprile e all’antifascismo di Pavlov. Sarà che quel giorno a Bortone non funzionava Instagram. Surtout, sapere in quali casi vale la pena giocarsi la carta dell’indignazione per raccogliere il maggior consenso possibile.

C’è una questione di soldi, a margine della questione Scurati, che dovrebbe costituire come minimo un paio di capitoli nella nuova edizione del manuale delle malattie psichiatriche. Vediamo se riesco a riassumerla.

Il compenso per il compitino su Matteotti sarebbe stato di milleottocento euro. Pochi? Tanti? Medi, direi. La Rai li avrebbe ritenuti tanti e l’ufficio scritture avrebbe quindi bloccato il contratto. L’ufficio scritture della Rai, per capirci, è quello che venticinque anni fa offrì a un premio Nobel trecentomila lire a puntata per presentare Sanremo, giacché per l’ufficio scritture della Rai il Nobel non conta granché, se non hai «il precedente». Cioè un precedente contratto con la Rai che stabilisca il tuo valore monetario. Qual è il precedente di Scurati? Non lo sapremo mai, giacché come tutte le storie italiane anche questa è rapidamente diventata “Rashomon”.

Repubblica sabato pubblica una foto d’una schermata Rai in cui si dice che l’ospitata di Scurati è annullata per «motivi editoriali». Facciamo che ci fidiamo, e che quella è la vera comunicazione interna: servono, a voler fare una lettura non tifosa, i codici per decrittarla. Esiste la possibilità che in una comunicazione interna Rai qualcuno lasci scritto «è troppo esoso»? «Motivi editoriali» è una formula standard come «motivi di famiglia» nelle giustificazioni quando non ci andava di andare a scuola? Dipende da a chi chiedi, come in ogni rashomon.

Nel frattempo, però, sui social succede una cosa stupenda. Poiché il posizionamento antifascista richiede di stare con Scurati senza se e senza ma, il paese che strepita per il danaro altrui sempre e che normalmente non vede l’ora d’indignarsi se qualcuno è pagato coi-nostri-soldi, quel paese lì quei milleottocento euro per il compitino su Matteotti li difende come fossero il salario minimo d’un metallurgico. La gamma di zelanti motivazioni va da «il lavoro va pagato» a «non sono milleottocento per un minuto, sono milleottocento per una vita di studi per arrivare a quel minuto» (no, giuro: sono proprio milleottocento per un minuto, lo so che se lo ammettete vi si rivoltano contro i lavoratori culturali ai quali nessuno dà non dico milleottocento ma neanche centottanta euro al minuto come premio per una vita di dottorati, ma è una buona occasione educativa per ribadire che «quelli capaci la fila non la fanno»).

L’inevitabile protagonista del sabato pomeriggio è l’effetto Barbra Streisand di quando cerchi di occultare qualcosa e finisci per moltiplicare l’attenzione. Scurati dà il testo del suo monologo ai giornali, quelli ovviamente lo pubblicano, le autopercepite staffette partigiane twittano cose come «Linkiamolo tutti, facciamogli vedere che non si può silenziare l’antifascismo», sempre nei toni sobri che hanno generazioni che non hanno mai avuto a che fare con una dittatura e quindi si concedono il lusso di vederne di immaginarie ovunque.

A un certo punto mi appare persino un tweet di Giuliano Ferrara con scritto «La Rai ha pestato una cacca. Viva Scurati e il suo monologo», e piangendo mi viene da ridere. Qual è la differenza tra quando Santoro non doveva rompere i coglioni perché un editore aveva diritto di fare l’editore – cioè di dire: questo va in onda, questo no – e questa bega del 2024? Che la Meloni è meno simpatica a Ferrara di quanto lo fosse Berlusconi e la Bortone gli è meno antipatica di quanto lo fosse Santoro, d’accordo: ma può essere l’unico criterio, superata la quinta ginnasio?

Comunque. Il risultato barbrastreisandizzato è che il monologo è ovunque. Il compitino riassumibile in «Matteotti ucciso, Meloni fascista» – compitino che sarebbe scomparso, morto d’irrilevanza, in un programma televisivo di cui normalmente non s’accorge nessuno – viene diffuso come fosse un gol dei mondiali; finché succedono due cose.

La seconda è che la sera, come fosse appunto un gol dei mondiali, il compitino va a reti unificate, tutti a leggere quel passaggio sulla parola «antifascismo» che «palpiterà sulle labbra riconoscenti», giacché non c’è più differenza di lessico tra vibranti monologhi politici e “50 sfumature” (d’altra parte, se il registro abituale degli intellettuali all’opposizione è «bastardi» e «mentecatta», «palpiterà» è in effetti retorica sofisticata). Gramellini e Vecchioni lo leggono su La7 (almeno così mi dicono: far funzionare la app di La7 è impossibile a me come a chiunque); Serena Bortone lo legge su Rai 3.

Ribadendosi ingenua ragazza senza potere («Ho scoperto del tutto casualmente», «pur avendo passato tutta la sera a telefonare, mandare messaggi, mandare mail, non sono riuscita a ottenere alcuna spiegazione»); non presentando però di conseguenza le proprie dimissioni; ma soprattutto premettendo che «ho letto ricostruzioni fantasiose e offensive, qualche giornale ha scritto addirittura che ci sarebbe stata una questione di soldi, preciso che la reazione di Scurati è stata di regalarmi il testo».

Surtout, ribadire che il denaro è lo sterco del demonio e noialtri lavoriamo per la sola vocazione democratica. Surtout, omettere che milleottocento euro Scurati li incassa con seicento copie di “M.”, e insomma ecco è un sacrificio minore, considerato quante centinaia di migliaia di copie ha venduto quella trilogia (e l’anno prossimo arriva la serie Sky e altro che milleottocento). Ma scusate, non vorrei far sempre la parte della volgare capitalista, mentre scrittori e attori e sindaci e antifascisti tutti declamano in ogni dove il compitino su Matteotti sentendosi parte della resistenza – a titolo gratuito.

Io non ce la posso fare con una sinistra per cui le questioni di soldi sono «offensive», ma questo è un problema mio. Il problema di logica è invece: prerequisito per l’antifascismo è dunque lodare la generosità di Scurati per non essersi fatto pagare dalla Rai un testo che nel frattempo aveva lasciato pubblicare gratuitamente ai cani, ai porci, alle VongolaPartigiana75? (Testo e polemica non sono comunque riusciti a far arrivare Bortone al cinque per cento, d’altra parte era la milionesima replica dello stesso compitino).

La prima cosa che succede nel bel mezzo dell’effetto Barbra Streisand è che a un certo punto del sabato pomeriggio Giorgia Meloni pensa: vi faccio vedere come la gestisce una che ci sa fare con la comunicazione (mi scuso per tutte le volte in cui ho scritto che Meloni era una Ferragni della politica: è evidente che Ferragni ha moltissimo da imparare da lei nella gestione degli inciampi, è evidente che è Ferragni a essere una Meloni d’insuccesso).

Il suo «vi faccio vedere come posta un’italiana» comincia dalla sinistra che monta un caso invece di pensare ai veri problemi del paese, passa per una spruzzata di populismo sui milleottocento euro che un dipendente prende in un mese, plana su lei ostracizzata per una vita che mai chiederà «la censura di nessuno. Neanche di chi pensa che si debba pagare la propria propaganda contro il governo coi soldi dei cittadini».

Surtout, io non ce la posso fare a vedere la Meloni vincere per i prossimi trecento anni, e la sinistra incartarsi sempre negli stessi modi.

La domenica mattina Antonio Scurati le risponde su Repubblica, straparlando della violenza che gli sarebbe stata fatta con un post su Facebook (come sopra: a non avere mai un problema vero, se ne proiettano di immaginari ovunque; è una buona notizia: siamo satolli e sereni, e possiamo dedicarci a usare parole serie per questioni poco serie).

Nella sua risposta, parlando di sé stesso in terza persona, Scurati si definisce «un privato cittadino e scrittore suo connazionale tradotto e letto in tutto il mondo». Ora, non voglio accanirmi sulla costruzione in cui sembra voglia dire che lo scrittore è connazionale del privato cittadino invece che della Meloni; non voglio neanche soffermarmi sul dirsi da soli che ti leggono in tutto il mondo, ché poi si nota che sono invidiosa; voglio solo dire che io non ce la posso fare. È un limite mio, scusate.

[articolo uscito su Linkiesta il 22 Aprile 2024]

Link: https://www.linkiesta.it/