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Società

A proposito del caso Roccella – Sopraffazione

20 Maggio 2024 - di Luca Ricolfi

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Non è la prima volta che, in un evento pubblico, a qualcuno viene impedito di parlare, come è successo la settimana scorsa al ministro Eugenia Roccella, in occasione degli Stati Generali della Natalità. Mai, però, avevo assistito a un così vasto fuoco di sbarramento per impedire che venisse detto, o ripetuto, ciò che solo il Presidente della Repubblica ha potuto dire senza essere irriso, e cioè che il gesto delle contestatrici era stato incivile e in contrasto con la Costituzione.

Impossibile ricapitolare, nello spazio di un articolo, il profluvio di argomenti scomodati per aggirare il severo giudizio del Capo dello Stato. Ne ricordo solo alcuni: la colpa è di Roccella che ha rinunciato a parlare, anziché rassegnarsi a farlo sotto un diluvio di fischi; quello delle contestatrici era solo dissenso, e il dissenso è il sale della democrazia; impedire di parlare a un ministro è giustificato dalla eccezionale gravità delle intenzioni del governo; la Roccella non ha subito nessuna censura, perché la censura procede da chi ha il potere verso chi non ne ha, e non viceversa; la Roccella ha infiniti mezzi per far conoscere le sue opinioni, le
contestatrici no; è questo governo che esercita la censura e intimidisce privati cittadini con le querele (casi di Roberto Saviano, Luciano Canfora, Donatella Di Cesare).

Sarebbe facile, arrivati a questo punto, fare notare il doppio standard. Che cosa sarebbe successo se, in un evento pubblico, attiviste delle associazioni pro-vita avessero impedito a Elly Schlein di parlare? Che cosa fa sì che si possa lodare Laura Boldrini, Presidente della Camera, quando annuncia di volere denunciare i suoi odiatori, e deprecare Giorgia Meloni, Presidente del Consiglio, quando fa la stessa cosa? Perché lo squilibrio di potere viene invocato quando il denunciato è Roberto Saviano, che pure ha un vastissimo sistema mediatico pronto a difenderlo, e viene dimenticato quando i denunciati sono comuni cittadini, che insultano la Presidente della Camera ma non hanno (meno male…) alcuna rete protettiva?

Ma passiamo oltre. Qui vorrei solo far notare una circostanza, e sollevare un problema.
La circostanza è che nel nostro linguaggio sembra assente un termine per indicare quel che è successo al ministro Eugenia. Roccella, ma anche a tanti altri cui, specie negli ultimi tempi, è stato impedito di parlare. Su questo ha perfettamente ragione la sinistra a dire che non si tratta di censura, e ha torto la destra quando parla di violenza femminista. Ma allora di che cosa si tratta?

La sinistra risponde dissenso, contestazione. Ma anche questo è sbagliato, o meglio è riduttivo. Si può dissentire senza impedire agli altri di parlare, si può contestare ma accettare il dialogo. Lo specifico di quel che è successo con Roccella è che si è
contestato, ma lo si è fatto impedendo a un ministro di esercitare un diritto costituzionale, ovvero la libertà di manifestazione del pensiero, garantita a tutti i cittadini dall’articolo 21 della Carta: è questo che ha inquietato il Presidente della Repubblica.

Nello stesso tempo occorre dire con chiarezza che, a differenza di tante altre contestazioni, questa non è stata violenta. Fischiare, tamburellare, urlare, cantare, emettere suoni di disturbo sono atti che impediscono materialmente di parlare, ma non sono violenza. Tolgono la parola, ma non alzano le mani su nessuno.

È curioso che non esista una parola condivisa per descrivere questi atti, che producono le stesse conseguenze della censura e della violenza, ma non sono né censura né violenza. Eppure sono atti sempre più diffusi, specie nelle università straniere, dove a centinaia di professori e studiosi viene impedito di parlare dagli attivisti contrari alle loro idee (celebre il caso della professoressa britannica Cathleene Stock, addirittura costretta a dimettersi ed emigrare in America). Insomma, sarebbe bene che una parola la inventassimo, o la scegliessimo fra quelle che abbiamo.

Se non è né censura, né violenza, e tuttavia è la negazione di un diritto fondamentale, come possiamo chiamare l’atto di impedire la parola? Io suggerirei di usare il termine ‘sopraffazione’, che mi pare renda bene l’idea di una prepotenza efficace, ovvero riuscita nell’intento.

Resta aperto un problema, però: ci sono circostanze, al di là di quelle già previste dalla legge, in cui può essere ragionevole sospendere l’articolo 21, che tutela la libertà di parola?
Per molti di coloro che hanno attaccato Roccella e giustificato le sue contestatrici, la risposta pare essere positiva, come se la giustezza (vera o presunta) della causa per cui si combatte autorizzasse a togliere la parola a chi la pensa diversamente. Per
quanto mi riguarda, invece, la risposta è negativa: ci sono diritti che non possono essere sospesi neppure in circostanze eccezionali, perché il loro esercizio non limita la libertà e la sicurezza di nessuno. Il diritto a non essere sopraffatti da chi pretende di toglierci la parola è uno di tali diritti non comprimibili. Forse non l’unico, ma certo il più importante per chi ancora desidera vivere in una società libera.

[articolo trasmesso al Messaggero il 13 maggio 2024]

Come nel ’68? Riflessioni sulla competizione vittimaria

15 Maggio 2024 - di Luca Ricolfi

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La nostalgia del passato è un sentimento potente, che si accentua con la vecchiaia.
Poco male, in fondo. Quando però si fa un lavoro intellettuale – come giornalista, studioso, scrittore – il cocktail nostalgia + vecchiaia può diventare pericoloso. Leggere la realtà di oggi con le lenti di ieri, può indebolire la nostra capacità di comprensione dell’oggi. È quel che, mi pare, sta capitando a tanti membri della mia generazione, estasiati dal dilagare – in tutto l’Occidente – delle proteste studentesche, specie nelle università.

Il vissuto dei cosiddetti baby boomers (nati nel periodo del boom demografico: 1946-1964) si può riassumere così: abbiamo passato anni a denigrare i giovani delle ultime generazioni descrivendoli come fragili, sdraiati, bamboccioni, pigri, disimpegnati ma ora – finalmente – le manifestazioni contro il “genocidio” che Israele sta perpetrando a Gaza mostrano che quella diagnosi è sbagliata. I giovani dell’occidente sono tornati a essere idealisti, proprio come lo eravamo noi sessantottini quando ci battevamo contro la guerra in Vietnam, lo sfruttamento in fabbrica, il baronato, l’autoritarismo, la repressione, eccetera: un caso da manuale di “proiezione”, direbbe forse uno psicanalista incaricato di esaminare la mente di noi ex sessantottini.

Il parallelo fra gioventù di oggi e gioventù di ieri, però, non regge a un’analisi disincantata.

Cominciamo dai numeri. Giornali e tv riportano con grande evidenza episodi di contestazione-dissenso-scontro, compresi casi del tutto marginali e minoritari come l’assalto alle transenne del Salone del libro di sabato scorso, ma quando si va a vedere chi e quanti erano i contestatori si scopre quasi sempre che si trattava di poche centinaia di persone, inclusi adulti infiltrati, o giovani chiamati a raccolta da altre regioni. In breve: siamo di due ordini di grandezza (ossia di un fattore 100) al di sotto delle mobilitazioni studentesche del decennio 1967-1977.

Quanto al consenso verso le proteste, i pochi sondaggi disponibili rivelano (specie negli Stati Uniti) che il sostegno alle occupazioni delle università è estremamente ridotto, e l’opinione pubblica è molto divisa nell’attribuzione delle responsabilità del
conflitto (in un recentissimo sondaggio americano la responsabilità è attribuita dal 34% ad Hamas, e solo dal 19% a Netanyahu). Stranamente i media, che fanno sondaggi su tutto, non sembrano nutrire il minimo interesse per quel che pensano i cittadini, e in particolare gli altri studenti, che non manifestano né partecipano a occupazioni (oltre il 99% degli studenti).

Ma non sono solo i numeri ad essere differenti rispetto a quelli degli anni della contestazione. La differenza cruciale, rispetto al ’68, è che allora non c’era competizione vittimaria, oggi sì. Anzi, oggi la competizione vittimaria è l’essenza dello scontro ideologico in atto.

Che cos’è la “competizione vittimaria”, un concetto da tempo all’attenzione di studiosi e filosofi? Fondamentalmente è quel che succede quando entrambe le parti del conflitto hanno ragioni solide, e perfettamente visibili, per autopercepirsi come vittime di oppressione, violenze, gravissimi soprusi. E utilizzano questa loro condizione per negare l’analoga condizione vissuta dalla parte avversa. Questa doppia o speculare condizione di vittime, nel ’68 semplicemente non c’era. Oggi è il nucleo del conflitto, perché sia i palestinesi sia gli israeliani hanno robuste e incontestabili ragioni per sentirsi vittime. Di qui una conseguenza logica: chi scende in piazza a sostegno di una delle due parti, e lo fa ignorando completamente le ragioni dell’altra, si macchia di disumanità. Disumano è il silenzio senza pietas dei pro-Israele sulle sofferenze inflitte ai palestinesi con l’invasione di Gaza, disumano è il silenzio senza pietas dei pro-Palestina sulle atrocità commesse da Hamas il 7 ottobre.

Ecco perché vedere nella protesta di oggi pro-Gaza una riedizione del più o meno ingenuo (e più o meno fazioso) idealismo di ieri è sostanzialmente errato. Ai tempi del Vietnam non c’erano due “vittime assolute” in competizione fra loro per il sostegno delle opinioni pubbliche. C’era una guerra, e si poteva plausibilmente prendere posizione pro o contro l’intervento americano, così come si può, ai giorni nostri, prendere posizione pro o contro il sostegno all’Ucraina. Oggi è diverso. Il dramma di entrambi i popoli che si contendono la terra di Palestina è così vasto e profondo che diventa immorale difendere le ragioni dell’uno senza vedere quelle dell’altro. Non è l’idealismo, ma il venir meno di ogni senso di umanità, che pervade le manifestazioni che vedono solo vittime innocenti da una parte, e solo brutali oppressori dall’altra.

[articolo uscito su La Ragione il 14 maggio 2024]

Rifondazione democratica – La forza del passato

10 Maggio 2024 - di Luca Ricolfi

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Ha suscitato qualche sconcerto la notizia che, vincendo l’iniziale esitazione, la segretaria del Pd Elly Schlein si sia infine risolta a firmare il referendum contro il Jobs Act, promosso dalla Cgil. Prima di lei avevano già firmato i dioscuri Bonelli e Fratoianni, leader dell’Alleanza Verdi-Sinistra, e prima ancora l’astuto Giuseppe Conte, che con questa mossa ha segnato un punto nella corsa alla guida del centro-sinistra. Non si sa ancora quanti, fra gli innumerevoli esponenti del Pd che a suo tempo (2014-2016) avevano entusiasticamente appoggiato il Jobs Act e i suoi decreti legislativi, metteranno a loro volta la firma sul referendum di Landini.

La scelta di Elly Schlein è perfettamente comprensibile, viste le posizioni su cui si è candidata alla segreteria del Pd. E non mi stupirei che, in un impeto di coerenza, domani promuovesse una qualche iniziativa contro l’altra bestia nera del nuovo Pd,
ovvero la politica migratoria dell’era Renzi-Minniti. Come se, dopo gli anni di “Rifondazione comunista”, reazione nostalgica alla dissoluzione del PCI, agli eredi di quel partito toccasse ora promuovere una sorta di “Rifondazione democratica”, nel
segno di una sinistra più “vera” e della memoria di Enrico Berlinguer.

Difficile non vedere, tuttavia, le conseguenze che questa deriva politica inevitabilmente implacabilmente porta con sé. La prima è una sorta di rimodulazione radicale della geometria interna del centro sinistra: mai come oggi sono state grandi le distanze fra il Pd e il trio riformista Azione-Italia Viva-Più Europa, e mai come oggi sono state piccole, per non dire inesistenti, le distanze programmatiche fra Pd, Cinque Stelle, Verdi e Sinistra Italiana. Mai come oggi, soprattutto, è stata evidente la sudditanza del Pd al Movimento Cinque Stelle e a Giuseppe Conte, che non perde occasione per mettere in imbarazzo la leader del Pd, oggi sulla politica economico-sociale, con la tempestiva firma del referendum contro il Jobs Act, ieri sulla questione morale, lucrando sugli scandali che hanno coinvolto il Pd a Bari e Torino.

C’è anche un’altra conseguenza, però. La scelta di rinnegare il passato del Pd, rende ancora più difficile un’alleanza strategica con la sinistra riformista, che ora – grazie all’involuzione massimalista e giustizialista del Pd – non include solo i partiti di Renzi e Calenda, ma anche quello di Emma Bonino. L’ultima super-media dei sondaggi rivela che Pd e alleati sono fermi al 40%, mentre i tre partitini riformisti sono vicini al 9%. Difficile pensare che, alle prossime elezioni, quel 40% del “campo giusto” possa miracolosamente tramutarsi in un 50%, necessario per competere vittoriosamente con il centro-destra.

Si potrebbe obiettare che la forza del fronte progressista (e anti-riformista) sta nella correttezza della sua analisi sociale, e che con il tempo l’elettorato capirà. In effetti ci sono parecchie cose che non vanno bene in Italia, dalla sanità alla scuola, dai bassi
salari alla precarietà di tanti contratti, dal ristagno della produttività all’immane peso del debito pubblico, dai morti sul lavoro ai suicidi in carcere. Il problema, però, è che molto di quel che non va ha radici nel passato, e in questo passato ci sono tutti:
governi politici e governi tecnici, governi di destra e governi di sinistra, governi con i Cinque Stelle e governi senza i Cinque Stelle.
Il debito pubblico è una voragine con cui nessun governo ha mai avuto la forza di fare davvero i conti. I bassi salari sono la conseguenza della stagnazione trentennale della produttività, frutto di decenni di riforme mancate. La distruzione della scuola è
un’impresa comune, cui hanno contribuito tutti, governanti e cittadini. L’indebolimento del sistema sanitario nazionale è iniziato una quindicina di anni fa, ben prima del Covid. Quanto allo stato penoso della finanza pubblica, che rende
difficilissimo fronteggiare le innumerevoli emergenze del paese, come non vedere che è anche il risultato del super-bonus, una misura voluta dagli stessi partiti che oggi denunciano la drammaticità di quelle emergenze?

In queste condizioni, una politica economico-sociale credibile non può cavarsela ripartendo le colpe fra il presunto liberismo dei governi riformisti passati e il presunto fascismo del governo in carica. È la forza del passato, con i suoi errori e le sue
avventatezze, il vero macigno che pesa su chiunque si proponga di cambiare l’Italia. Chi è al governo lo sa, perché lo sperimenta a proprie spese. Chi al governo spera di arrivarci con le prossime elezioni politiche, non può far finta di non saperlo, se vuole portare dalla propria parte la maggioranza dei cittadini.

Luca Ricolfi

[articolo uscito sul Messaggero il 10 maggio 2024]

Doccia scozzese

8 Maggio 2024 - di fondazioneHume

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Che in materia di diritti l’Europa sia un ginepraio si vede a occhio nudo. Che si parli di aborto, matrimonio gay, identità di genere, cambio di sesso, eutanasia, le differenze sono abissali. Ma come dobbiamo leggere questa diversità?

Una lettura molto comune è che i vari paesi si trovino in stadi diversi del cammino che li condurrà tutti, prima o poi, a riconoscere determinati diritti fondamentali, visti come mete di imprescindibili battaglie di civiltà. Un’altra lettura, vede il medesimo processo come una pericolosa deriva, che non afferma affatto la civiltà ma ne scandisce il declino. Quel che accomuna le due letture è l’idea che, comunque, la freccia del tempo punti in una direzione precisa, quella dell’espansione dei diritti. E che, essenzialmente, i vari paesi differiscano solo per la velocità con cui progrediscono (o regrediscono, a detta dei conservatori).

Ma siamo sicuri che la freccia del tempo punti in una direzione sola, quella dell’espansione dei diritti?

Fino a qualche anno fa lo si poteva ragionevolmente pensare, oggi molto più difficile. Segnali di rallentamento, o di vere e proprie inversioni di tendenza, si osservano in più di un paese, sia a livello legislativo, sia a livello di opinione pubblica. Il caso più clamoroso, probabilmente, è quello della Scozia, governata dal (progressista) Scottish National Party, prima con la carismatica leader Nicola Sturgeon (in carica per 10 anni), poi con il suo successore, l’ultra-progressista musulmano Humza Yousaf. Ebbene, nel giro di 15 mesi la situazione è completamente cambiata.

Alla fine del 2022 la Scozia aveva approvato il Gender Recognition Act, una legge che consente il cambiamento di genere (self-id) già a 16 anni, e senza pareri medici o legali. All’inizio di aprile di quest’anno è stato approvato lo Hate Crime Act, una legge che – sulla carta – punisce chi non riconosce come donne i maschi transitati a femmine (Mtf trans). Inoltre, da tempo veniva ventilata la possibilità di varare una legge molto permissiva sul suicidio assistito.

Apparentemente, una marcia trionfale per le battaglie di civiltà dei progressisti. In realtà le tappe di una vera débâcle. La legge sul self-id ha provocato una vivacissima reazione delle donne, compresa Joanne Rowling (l’inventrice di Harry Potter), preoccupate per l’invasione degli spazi femminili (comprese le carceri) da maschi auto-identificati come femmine. Di qui le repentine dimissioni della Sturgeon, benevolmente interpretate dai nostri media come sagge decisioni di una donna sopraffatta dalle fatiche del potere (la medesima interpretazione data per le dimissioni della Ardern in Nuova Zelanda e di Sanna Marin in Finlandia). Passa un anno, il Gender Recognition Act viene bocciato dal governo centrale britannico, e il successore della Sturgeon, Humza Yousaf, è costretto a sua volta alle dimissioni, travolto dall’ondata di critiche, ancora una volta guidate da Joanne Rowling, contro il potenziale liberticida dello Hate Crime Act, una legge in base alla quale – secondo alcuni attivisti trans – avrebbero dovuto finire in carcere quanti la pensassero come la Rowling, e – secondo altri – pure il premier Yousaf, che in passato si era prodotto in discorsi d’odio contro i bianchi (anche qui, l’interpretazione benevola è che il governo sarebbe caduto per dissensi con il partito dei Verdi sulla politica ambientale). Nel medesimo periodo, anche la Scozia, sulla scia dell’Inghilterra – deve frenare sulla somministrazione di bloccanti e ormoni ai minorenni, mentre i sondaggi rivelano che l’opinione pubblica è sempre più scettica sulla proposta di legge per facilitare il suicidio assistito.

Di qui due domande. Primo, siamo sicuri che, sul terreno dei diritti civili, la freccia del tempo punti ancora al loro ampliamento? Secondo, siamo sicuri che i leader progressisti abbiano il polso delle loro opinioni pubbliche?

L’impressione è che, per molti politici di sinistra, gli attivisti e le lobby LGBT+ contino di più dei rispettivi elettorati, e che questa distorsione percettiva li renda ciechi e potenzialmente autolesionisti. È successo con Sturgeon e Yousaf in Scozia. Ma era già successo in Italia con Enrico Letta e la battaglia perduta sul ddl Zan. E potrebbe risuccedere con Joe Biden fra qualche mese, alle elezioni presidenziali americane.

 [articolo uscito su La Ragione il 7 maggio 2024]

Cacciari filosofo superiore?

6 Maggio 2024 - di Alfonso Berardinelli

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Vogliono mettersi fuori di sé stessi e allontanarsi dall’umano. La loro è una follia; invece di trasformarsi in angeli, si trasformano in bestie, invece di innalzarsi si abbassano (…) Abbiamo un bel montare sui trampoli, ma anche sui trampoli bisogna camminare con le nostre gambe. Anche sul più alto trono del mondo, non siamo seduti che sul nostro culo

Montaigne

Con quell’empirica saggezza inglese detta anche common sense, il poeta Wystan H. Auden ha detto una volta che quando ci si dedica alla critica si dovrebbe, per onestà e chiarezza, dichiarare le proprie personali preferenze a proposito del mondo nel quale si vorrebbe vivere. Il critico dovrebbe dirci quale tipo di paesaggio, di clima, di governo, di architettura, di mezzi di trasporto e di comunicazione vorrebbe nel suo mondo ideale. Auden umoristicamente eccede per quantità di dettagli richiesti. Eppure la sua britannica stravaganza ha qualche utilità.

Avendo deciso di dedicarmi a giudicare Metafisica concreta di Massimo Cacciari, pubblicato nella Biblioteca Filosofica Adelphi (che contiene quaranta volumi di cui ben ventiquattro solo di Heidegger e Severino) sento il concreto bisogno di adottare almeno in parte il metodo di Auden. L’eventuale lettore di questo articolo potrà perciò farsi un’idea della distanza che c’è fra le singolari predilezioni filosofiche di Cacciari, professore e cultore della materia, e le mie preferenze filosofiche di dilettante. Mentre il professor Cacciari, ex sindaco di Venezia e ex deputato del Partito Comunista Italiano, ha una passione per la metafisica più astratta e per una politica personale piuttosto concreta, i miei saltuari e non professionali interessi vanno invece alla filosofia della conoscenza o gnoseologia, e alla filosofia morale, o teoria delle virtù e studio dei comportamenti. In fondo, più che la filosofia pura, mi attira la storia delle idee, meglio se un po’ mescolata con la storia sociale. La metafisica, intesa come “filosofia prima”, la considero viceversa una filosofia seconda o secondaria, che rischia sempre di trasformarsi in una illusoria immaginazione o in una truffa verbale, dato che si sottrae all’uso di concetti empirici. Della metafisica, in particolare quella eventualmente praticata oggi a imitazione degli antichi, credo che si debba diffidare fortemente a causa dei problemi gnoseologici e morali che crea, o dovrebbe presupporre. Che genere di conoscenza è quella proposta dal discorso metafisico? Su quale esperienza si fonda? Esiste, è possibile una conoscenza metafisica in forma filosofica? O invece la sola via di accesso alla metafisica è una via puramente contemplativa, più precisamente una gnosi supermentale e sovrasensibile?

Quanto alla filosofia politica, non ha o non dovrebbe avere nessuna autonomia, ma essere considerata solo un ramo e uno sviluppo della filosofia morale. Una vita politica giusta è concepibile solo come risultato di comportamenti individuali moralmente giusti. Le cosiddette virtù politiche, una volta separate dalle virtù morali, producono soltanto astuzie e sopraffazioni, passione per il comando e inganni. Personalmente diffido del tipo umano del politico. Non pochi geniali politici sono stati dei dittatori, dopo essere stati leader carismatici.

Volendo essere precisi, una metafisica può e dovrebbe essere considerata reale, più che concreta. Un principio metafisico può avere, in quanto causa, degli effetti concreti, ma non è concreto, trascende le dimensioni spazio-temporali e sensibili: può essere razionalmente, ma non empiricamente concepibile. Cacciari e la Biblioteca Filosofica Adelphi hanno scelto di ignorare la tradizione della filosofia inglese e americana, cioè l’illuminismo empirista di Locke e Hume, l’utilitarismo di Mill e il pragmatismo di James e Dewey. Come si fa a essere “concreti” se si cancellano i pensatori morali da Montaigne in poi e i filosofi che hanno studiato forme e limiti sia dell’intelletto umano che della natura umana? L’ontologia del “Dasein” di Heidegger è una filosofia di fantasmi inventata per eludere l’esistenza come esperienza conoscitiva e attiva.

Interessante, per chi fosse interessato alla carriera del Cacciari filosofo, è il suo punto di partenza, il cosiddetto “pensiero negativo” degli antihegeliani Schopenhauer, Kierkegaard, Nietzsche, nonché il suo punto di arrivo teologico-metafisico. La passione di Cacciari per il lessico greco e tedesco infesta e polverizza il suo linguaggio rendendolo lessicalmente asfittico. Da grandi saggisti come Schopenhauer, Kierkegaard e Nietzsche e dal loro antihegelismo non ha imparato niente. In ognuno di loro sono chiare le ragioni personali del filosofare. Ma del perché Cacciari ci parli di metafisica non si viene a sapere niente. La sua non è una prosa filosofica vera e propria. Mentre i tre suddetti pensatori negativi erano anzitutto filosofi morali e per loro Hegel e Schelling erano ipocriti sofisti e impostori, Cacciari ha per la filosofia morale una specie di fobia, teme il moralista proprio perché potrebbe smascherare il suo filosofismo. Evidente è in lui la miseria linguistica della filosofia, usata come una solenne maschera geroglifica che nasconde il puro esibizionismo, l’inconsistenza argomentativa e l’ingorgo citazionistico. La sua prosa è senza forma né misura né ritmo né tono.

Una citazione a caso anche se esemplare (il libro infatti procede a caso): “Il Logos che parla in verità e che perciò ci è dato comprendere e comunicare senza tradirlo, questo è il Logos dell’Età presente, di questa Ora che non sa concepirsi come destinata a passare, Aiòn, Età che sempre più dichiara insuperabili e fino alla fine del tempo stesso, forme e significati della propria vita. Questo è Logos giudicante poiché esso discrimina chi sa da chi ignora, poiché a Lui, fin dall’origine, che lo si intenda trascendente, en archei, o immanente e agente in ogni momento del cosmo, tutto il Divino è stato comunicato. Senza il suo manifestarsi, il Divino continuerebbe a restarci ignoto, mentre ora possiamo goderne in verità. Gaudio, letizia che possono venire soltanto dal saperci nella sequela del Logos, dal sentircene membri, espressione necessaria della sua stessa sostanza, ‘guariti’ dal dubbio, forti di un credere inconfutabile, un credere che diviene irresistibilmente fede riposta nella potenza dello stesso sapere (…) È intorno a questo problema, più che a qualsiasi altro, che occorre intendere il dramma del nesso tra Atene e l’Europa o Cristianità” (pp. 12-13).

Qual è il problema? Il problema non è uno, sono almeno due: 1) il modo di scrivere di Cacciari, fatto per ostacolare se non impedire la lettura, e 2) la scelta della metafisica come tema inesauribile perché inaccessibile. Proprio quello che Cacciari cerca per non darsi una regola espositiva e una misura.

Poco rispettoso della filosofia accademica e del suo rimuginare su una tradizione plurisecolare, una volta Max Horkheimer disse che la metafisica è come il chewing-gum, che si può masticare all’infinito senza ricavarne né sapore né nutrimento. Nel caso di Cacciari c’è poi il fatto che il parlare di metafisica permette di non costruire una sintassi di concetti e di argomentazioni. La prosa dell’intero libro non è neppure una prosa, tantomeno una prosa filosofica. Oltre a essere una modalità del pensiero e della conoscenza (non l’unica), la filosofia è anche un genere letterario. In Italia se ne accorse e se ne fece un dovere Giacomo Leopardi all’inizio dell’Ottocento, curando la sua Crestomazia della prosa italiana e scrivendo le Operette morali. Antimetafisico e antiplatonico come era, nella sua affinità con David Hume, il più radicale degli empiristi, Leopardi vedeva e praticava la filosofia in forma di filosofia morale, di riflessione sulla forma del vivere individuale e sociale. Secondo lui la cultura italiana aveva bisogno di una buona e nuova prosa filosofica, senza la quale è impossibile una buona filosofia. Per Schopenhauer era metafisica niente di meno che la volontà di vivere, il rapporto con il proprio corpo e la sua energia cieca. Per Kierkegaard erano filosofici anche il suo amore per Regina Olsen e il suo disprezzo per il vescovo Mynster. Nel suo frullato di autori, di problemi, argomenti e terminologie, Cacciari tira avanti il libro per più di quattrocento pagine senza fare un passo né avanti (si può fare a meno della metafisica?) né indietro (dobbiamo tornare alla mistica?). Il suo solito metodo è evitare di fare citazioni abbastanza ampie da commentare e su cui riflettere: le sue sono soprattutto criptocitazioni da tutto e da chiunque. Riscrive e si appropria, non permettendo a chi legge di distinguere tra quello che Cacciari pensa e quello che cita o ruba, spezzetta e riusa. La sua è una specie di dislessia citazionistica che continuamente echeggia gran parte dell’intera tradizione filosofica: escludendo naturalmente gli ultimi secoli di pensiero antimetafisico, dall’umanesimo scettico all’illuminismo empiristico e materialistico, alle vere filosofie dell’esistenza e dell’esperienza, di cui Heidegger si è appropriato svuotandole di contenuto reale con i mantra del suo gergo ontologico. Metafisica concreta è un tentativo non riuscito di prendersi e tenersi tutto, l’astratto e il concreto, l’intuizione ontologica e una impropria teologia razionale, o meglio sonoramente raziocinante. Secondo il metodo di Socrate, si dovrebbe exetazein ton logon, cioè esaminare il discorso, il linguaggio di chi parla, come Cacciari, di un oggetto paradossale e insieme inconsistente come una metafisica che sia fuori di spazio e tempo, come ogni metafisica, ma nello stesso tempo sia dotata di contingenza e di attributi accessibili all’esperienza. Ma questo può accadere solo nella mistica, in cui un’esperienza concreta supermentale della metafisica la fa non essere più metafisica.

Cacciari punta tutto su una inguaribile dissipazione parafilosofica. Quando parla di politica, per quel tanto che conta, Cacciari si fa capire abbastanza. Quando entra invece nell’habitat filosofico perde la testa, si inebria, non connette più, o connette tutto con tutto, cita ed esalta perfino, non so perché, i Cantos di Ezra Pound, il più clamoroso e penoso fallimento poetico del secolo scorso. Più che un mistico in estasi sembra un professore intossicato di lessico filosofico. Mastica e rimastica ciò che cerca di dire e non dice. Ma l’indicibile è impossibile dirlo, si può solo sperimentarlo e non comunicarlo attraverso le parole.

Il problema è qui uno solo: perché il professor Cacciari sceglie la metafisica per fare filosofia? Perché si presenta come chi va oltre i confini della filosofia? Vorrebbe essere o apparire una mente così superiore da non poter abitare se non in un linguaggio che sfugga alla comprensione? La passione predominante di Cacciari è per la “filosofia prima”, teologia nonché escatologia o dottrina delle cose ultime. Si tratta insomma di quel forsennato e ridicolo snobismo culturalistico che aspira solo a frequentare i piani più alti e inaccessibili della realtà e del pensiero, lì dove abita solo Dio. Purtroppo però Cacciari non parla mai della sua fede in Dio e neppure del nesso che c’è fra metafisica e gnosi mistica. Quello della metafisica è un sapere assolutamente speciale che si fonda non sulla logica e sul discorso ma su un’esperienza supermentale. Si tratta di un sapere supremo raggiungibile solo da individui sommamente dotati di virtù contemplativa. Una filosofia dell’essere puro in quanto essere non è più una filosofia logica, ma il culmine di una filosofia morale, moralmente ascetica. Per “toccare” mentalmente l’essere, che non è un concetto ma una super-realtà, c’è almeno bisogno di essere onesti. Invece Cacciari manca proprio di onestà filosofica. In Occidente la metafisica è stata messa in discussione e onestamente respinta dai filosofi dell’Illuminismo, soprattutto da quello empiristico inglese, e infine da Kant. Se il termine “metafisica” viene da Aristotele, la sua origine concreta non è filosofica, è (come ha spiegato Giorgio Colli) dei “sapienti” presocratici, in particolare Parmenide, al quale il professor Emanuele Severino, rivale e simile di Cacciari, ripeteva che fosse necessario tornare, allo scopo di salvare l’Occidente dalla sua “follia”, la fede nel divenire. Solo che il divenire non è una fede, come diceva Severino, è un’esperienza.

Come si può intuire dagli stessi titoli dei suoi tre libri più ambiziosi, Dell’inizio (1990), Della cosa ultima (2004) e questo conclusivo Metafisica concreta, le ambizioni di Cacciari sono sia smisurate che vane. Il suo stile dell’eccesso copre un vuoto, una “vanità” filosofica, dato che presuppone un sapere dell’alfa e dell’omega, una conoscenza assoluta di un oggetto assoluto: l’impensabile essere in quanto essere. Dell’inizio e della cosa ultima, di una metafisica che sia anche concreta, non sapremo filosoficamente mai nulla, e la pretesa di farne una filosofia dell’impossibile peggiora ulteriormente la situazione di Cacciari. Il quale ha da giocare una sola carta: il mito di sé stesso come filosofo superiore e in quanto tale non socializzabile. Ecco, questo dell’essere o sentirsi o mostrarsi superiore è la caratteristica che lo accomunò a Roberto Calasso e gli aprì le porte della Adelphi, trasformando il seguace dell’operaista gentiliano Mario Tronti in una specie di allievo di Elémire Zolla. Cosa che mi fa pensare non tanto a grandi metafisici o a mistici dell’antichità e del Rinascimento, ma piuttosto a un intellettuale del Novecento che Cacciari ha molto caro, cioè Carl Schmitt, giurista nazista, o per essere più concreti presidente dell’associazione dei giuristi del Terzo Reich. Dopo la caduta del regime hitleriano, Schmitt fu arrestato, processato e assolto, ma comunque costretto a ritirarsi a vita privata. Il fatto che avesse teorizzato come fondamento della Costituzione il Fuhrer lo rendeva infatti sospetto anche come eventuale docente di diritto e dottrina dello Stato. Quando Schmitt, al processo di Norimberga, fu interrogato come testimone dalla Pubblica Accusa, si espresse così:

“Sentendomi superiore, intendevo dare un senso mio personale al termine nazionalsocialismo”.

Pubblica Accusa: “Hitler aveva un nazionalsocialismo e lei ne aveva un altro?”.

Schmitt: “Mi sentivo superiore”.

Pubblica Accusa: “Si sentiva superiore ad Adolf Hitler?”.

Schmitt: “Infinitamente, dal punto di vista intellettuale. Il personaggio è così privo di interesse che preferisco non parlarne”.

Dire che Hitler è il fondamento dello Stato e dire nello stesso tempo che di Hitler è preferibile non parlare, ritrae alla perfezione l’ipocrita “uomo superiore” Carl Schmitt. Lo fa anche assomigliare molto a un altro idolo filosofico di Cacciari e della Adelphi: Martin Heidegger. Il quale, sentendosi anche lui superiore, si rifiutò sempre di nominare il nazismo e Hitler, pur avendolo fin dall’inizio esaltato come fondamentale evento storico nel destino della Germania. Schmitt e Heidegger sono le ombre sinistre che sembrano avere insegnato la superiorità a Cacciari; una superiorità astratta, vuota, metafisica e pure concreta. Altro che maestri del “pensiero negativo” come Schopenhauer, Kierkegaard e Nietzsche, filosofi passionalmente autobiografici e in quanto tali ben presenti nelle loro opere. Nei libri di Cacciari l’autore pensante, l’io Massimo, non c’è, è assente e mai concreto. Troppo oltre per essere presente. Invece di essere onestamente presente nelle pagine della propria filosofia preferisce recitare da impaziente uomo superiore nei talk show.

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