A proposito di gender gap – Le ragazze e la matematica

Non è la prima volta che, da quando esistono i test internazionali PISA sul livello degli apprendimenti degli studenti, viene denunciato il gender gap in matematica, ossia il fatto che il punteggio delle ragazze sia sistematicamente inferiore a quello dei ragazzi. Una denuncia che ha preso ulteriore vigore quest’anno, quando si è appreso che in nessun altro paese avanzato il gender gap è alto come in Italia. Legioni di commentatori e soprattutto commentatrici si sono esercitate a denunciare gli stereotipi di genere, i luoghi comuni, i pregiudizi che, convincendo le ragazze di non essere portate per la matematica, alimenterebbero vissuti di insicurezza, ne aumenterebbero l’ansia di fronte ai test, le convincerebbero ad evitare le carriere scientifiche (lauree STEM), e le indirizzerebbero verso percorsi di studio svalutati e alla fine poco gratificanti, come l’insegnamento.

Io trovo tutto questo abbastanza umiliante per le studentesse, e per le donne in generale. Alla radice di queste analisi vi è, infatti, una idea della donna come soggetto passivo, condizionabile, e in definitiva privo di autonomia. Una visione non nuova nelle scienze sociali, dove un’intera disciplina (la sociologia) è cresciuta nel segno della “concezione ultrasocializzata dell’uomo”, una teoria che sottolinea il potere dei condizionamenti dell’ambiente sociale, lasciando ben pochi gradi di libertà all’agire umano. Ma una visione nuovissima nell’accanimento con cui, forse anche sotto la spinta emotiva del dibattito sui femminicidi, si ostina a descrivere le giovani donne come vittime dell’educazione (patriarcale) ricevuta, incapaci di perseguire i propri interessi e di effettuare scelte veramente libere.

Se fossi una donna, non dico che mi sentirei offeso (sono già troppe, e troppo stupide, le ragioni per cui quotidianamente ci offendiamo), ma certo mi sentirei mal descritto, e trattato con poco rispetto. E questo per diverse ragioni.

Primo, è abbastanza umiliante che, ogniqualvolta una donna compie una scelta tradizionale, come sposarsi, avere figli, fare l’insegnante, lavorare part-time o non lavorare, scatti il pregiudizio per cui tale scelta sarebbe frutto di condizionamenti, a partire dai ruoli appresi nei primi anni di vita attraverso i giochi ricevuti, gli abiti indossati, i modelli trasmessi dalla famiglia. È vero, la sociologia – maschile e conservatrice – della tradizione funzionalista la mette proprio così, ma ci sono robuste evidenze che le cose possano stare diversamente, e che certe scelte delle donne spesso riflettano le loro genuine preferenze, in parte legate a ovvi fattori biologici (segnalo in particolare i lavori della sociologa Catherine Hakim sulle preferenze femminili). Un conto è battersi per rimuovere i vincoli (ad esempio la carenza di asili nido) che limitano la libertà delle donne, un conto è rappresentare la donna come una vittima-succube-marionetta, le cui credenze, preferenze e scelte di vita avverrebbero nel segno di pesanti condizionamenti culturali. Perché non si prende mai in considerazione l’ipotesi più semplice, e cioè che a tante donne certe attività, certe professioni, certe carriere (ad esempio quella politica), interessino meno che agli uomini?

Secondo, è strano che lo stigma dell’handicap, dell’inadeguatezza, e della necessità di ri-orientamento, sia riservato alle donne, e che i maschi ne siano sostanzialmente esenti. Perché drammatizziamo il gap in matematica, sfavorevole alle ragazze, e non diciamo nulla sul gap in lettura, in cui sono i ragazzi a essere molto indietro rispetto alle ragazze?

Ma direi di più: come mai nessuno tematizza il drammatico ritardo culturale globale dei maschi, che abbandonano gli studi prima delle ragazze, faticano a laurearsi, e hanno quasi sempre risultati di apprendimento inferiori? È forse perché i maschi non sono considerati una categoria protetta?

C’è anche una terza ragione, però, per cui – se fossi una donna – sarei molto arrabbiata. Ed è che nessuno ha preso in considerazione l’ipotesi che il nostro (di noi donne) handicap in matematica sia dovuto al fatto che né i test Pisa né i test Invalsi misurano davvero la capacità matematica, che è innanzitutto capacità di astrazione e deduzione.

Basta esaminare il contenuto (e il formato a quiz!) delle batterie di domande, per rendersi conto che misurano prevalentemente altre abilità, di tipo più pratico, tecnico, calcolistico. Se misurassero davvero l’abilità matematica, forse l’handicap sparirebbe.

Forse?

No, non “forse”, ma quasi certamente. Grazie al Ministero dell’Istruzione e del Merito ho potuto analizzare i dati degli esami di 3a media, e il risultato è sconcertante per i teorici del gender gap: il gap esiste, ma è a favore delle ragazze, che vanno meglio dei ragazzi in tutte le materie, compresa la matematica. E la superiorità in matematica si ripete regione per regione, a tutti i livelli della scala sociale, fra studenti italiani e stranieri, nelle scuole pubbliche e nelle scuole paritarie, negli scrutini e nell’esame finale di licenza media.

Possibile che gli insegnanti, che conoscono i loro allievi e li seguono lungo tutto l’anno, siano giudici meno capaci di un test computerizzato somministrato una volta soltanto?




Il gender gap in matematica – Un grande abbaglio?

Fra le notizie che hanno imperversato sui media la settimana scorsa vi sono i risultati dei test internazionali PISA sui livelli di competenza degli studenti all’inizio della scuola secondaria superiore.

Prendo qualche titolo a caso: “gli studenti italiani vanno peggio in matematica”, “il Covid penalizza gli studenti”, “la scuola italiana non sa insegnare matematica alle ragazze: Italia peggiore al mondo”, “quei nostri quindicenni in una scuola mediocre”, “studenti meno preparati dopo la pandemia”.

È da diversi decenni che denuncio lo stato pietoso e la inesorabile decadenza della scuola e dell’università italiane, quindi non sono certo stupito, disturbato o irritato dal catastrofismo di simili titoli. Il problema con queste indagini periodiche, però, non è di

capire come andiamo in generale (lo sappiamo da tempo), ma che cosa sta cambiando, se ci sono smottamenti o inversioni tendenza. Insomma, che cosa di nuovo rispetto al passato c’è nell’ultima indagine, condotta nel 2022, ossia nel primo anno di (quasi) dopo-Covid.

Ebbene, i dati PISA – se analizzati con attenzione – dicono tutt’altro.  Tanto per cominciare, in 2 materie su 3 (lettura e scienze) gli studenti italiani vanno meglio che nell’ultima indagine, del 2018. Le loro prestazioni erano in declino dal 2012, ma fra il 2018 e il 2022 (in un periodo fortemente condizionato dal Covid), sono migliorate. Nello stesso tempo, la media Ocse è peggiorata in entrambe le materie. Insomma, l’Italia si è mossa in controtendenza, e in una delle due materie (lettura) fa meglio della media dei paesi Ocse.

Le dolenti note sembrano provenire dalla matematica, dove effettivamente gli studenti italiani hanno accusato una perdita di 15 punti, ma si tratta di una variazione analoga a quella della media dei paesi Ocse: con 471 punti l’Italia risulta sostanzialmente allineata alla media Ocse (472).

Quindi fin qui i dati di fondo sono tre: il livello degli apprendimenti è in calo da un decennio (dal 2012) sia a livello mondiale, sia a livello europeo; il periodo del Covid ha confermato questa tendenza; la scuola italiana si è in parte sottratta al trend generale negativo.

Ma il dato che più è stato enfatizzato nei giorni scorsi è ancora un altro: il divario in matematica fra ragazze e ragazzi, già molto ampio nell’indagine del 2018, si è ulteriormente allargato, raggiungendo i 21 punti. Nell’indagine del 2022 nessun paese Ocse ha un divario così ampio, e in 3 paesi Ocse su 37 (Finlandia, Norvegia, Slovenia) il divario è rovesciato: le ragazze vanno meglio dei ragazzi.

Di qui, da parte dei commentatori, una serie di filippiche contro le (presunte) cause del divario, che dipenderebbe da ogni sorta di stereotipi e luoghi comuni, i quali – convincendo le ragazze di non essere “portate” per la matematica – ne indebolirebbero l’autostima e le incentiverebbero a investire su altre materie, in particolare quelle umanistiche.

Naturalmente, in mancanza di studi approfonditi sulle determinanti effettive del gender gap, ognuno può tenersi le opinioni che preferisce. Io mi limito ad osservare che il gap rilevato dalle indagini Ocse certamente c’è, ma non può essere un gap in matematica. E questo per almeno due buone ragioni. Primo, i test Pisa, come i “cugini” test Invalsi, sono notoriamente “gender biased”, ovvero distorti a favore dei maschi (più inclini alle domande a crocette somministrate via computer). Secondo, basta un esame attento del contenuto delle domande, per rendersi conto che l’abilità che rilevano non è certo la capacità di deduzione e astrazione tipica della matematica, ma semmai un miscuglio di abilità pratiche di calcolo, lettura di grafici, soluzione di problemi concreti.

E se fosse che le ragazze vanno male ai test invalsi proprio perché sono brave in matematica, e non nella materia-ircocervo – né statistica, né matematica – dei test PISA?

È solo un’ipotesi, ma ha un sostegno empirico potente in un dato statistico inoppugnabile: alla fine della 3° media, ovvero a un’età (14 anni) prossima quella dei test PISA (15 anni), i voti in matematica delle ragazze sono superiori a quelli dei ragazzi. Forse, è tempo di prendere congedo dalla religione dei test.




La frattura tra ragione e realtà 5 / Il Grande Spauracchio – Parte seconda: il nucleare civile

Nel precedente articolo ho cercato di dissipare le numerosissime “leggende nere” che riguardano le armi nucleari, per riportare la discussione sui rischi che esse comportano alla loro reale dimensione. Stavolta parlerò invece del nucleare nel suo uso civile, cioè finalizzato alla produzione di energia elettrica, dove le leggende nere sono, se possibile, ancor più abbondanti, benché i termini della questione siano molto più semplici (e tuttavia altrettanto gravemente fraintesi).

L’ambiguo “ritorno” al nucleare

Se le idee sballate circa le armi nucleari sono già notevoli, quelle sull’uso pacifico del nucleare per produrre energia lo sono ancor di più. Anche se (forse) qualcosa sta iniziando a cambiare, paradossalmente a causa di un clamoroso “autogol” degli ecologisti, che hanno enfatizzato a tal punto il problema del cambiamento climatico che ormai la gente pretende delle soluzioni efficaci. E, nel momento in cui hanno dovuto passare dai proclami ideologici alla realtà, i governi hanno cominciato ad accorgersi che le soluzioni che avevano fin qui sbandierato non funzionano.

Un chiaro segnale di questa controtendenza è il coraggioso documentario di Oliver Stone, Nuclear now (Nucleare subito), appena uscito e trasmesso in anteprima da LA7 lo scorso mercoledì 6 dicembre, che consiglio a tutti di guardare e far guardare il più possibile.

Ancor più importante, proprio in questi giorni alla COP 28, cioè l’annuale conferenza sul clima che fin qui aveva prodotto tante liste di obiettivi (che chiunque è capace a scrivere) e pochissime di mezzi adeguati per raggiungerli (che invece sono la cosa importante, ma anche difficile), si è finalmente preso atto di ciò che era da sempre evidente, ma che nessuno voleva prendersi la responsabilità di dire: e cioè che una riduzione delle emissioni dell’entità (enorme) che si ritiene necessaria è impossibile senza un massiccio uso del nucleare civile.

Problema risolto, allora? Niente affatto, perché il modo in cui lo si è fin qui detto è molto ambiguo, il che potrebbe causare seri problemi. Infatti, la giustificazione che viene data da tutti gli esperti è che le preoccupazioni del passato non sono più giustificate perché il “nuovo” nucleare è molto più economico e molto più sicuro. Ora, questo è certamente vero, ma, detto così, lascia intendere che il nucleare tradizionale fosse troppo caro e/o troppo pericoloso, il che invece è assolutamente falso, come gli esperti sanno benissimo.

Perché allora non lo dicono? La ragione è che in questo modo sperano di riuscire a superare le obiezioni (che sono tuttora fortissime e anzi negli ultimi anni sono perfino aumentate) aggirandole anziché affrontandole, cosa che l’esperienza ha dimostrato essere estremamente difficile, perché alla loro base c’è una paura viscerale che è più forte di qualsiasi argomento razionale.

Tuttavia, per quanto comprensibile, questa tattica comporta un grosso rischio. Il nucleare “buono”, infatti, quello cosiddetto “di quarta generazione”, per ora esiste solo in forma di progetti e (pochi) prototipi, per cui ci vorranno grandi sforzi e molti soldi perché diventi realtà in tempi brevi. Il pericolo è quindi che nel frattempo i movimenti ecologisti e i tantissimi intellettuali e politici che accettano acriticamente tutte le loro tesi pretendano che esso venga usato non solo come risorsa aggiuntiva, ma anche per sostituire le centrali già esistenti, il che renderebbe l’impresa impossibile.

E questo, in realtà, è esattamente ciò che vogliono, perché gli ecologisti hanno una devozione quasi fanatica per le rinnovabili, in particolare l’eolico e il solare. E non solo per ragioni tecnologiche, ma anche politiche, perché le considerano un modo di produrre energia più “democratico”, anche se in realtà queste tecnologie non sono certo prodotte da gruppi di attivisti che lavorano nel garage di casa, ma da grandi e potenti multinazionali, che agiscono per fare profitti e non a scopi umanitari (ma questo per un certo tipo di cultura, oggi dominante in Occidente, non ha importanza: vedi il mio articolo https://www.fondazionehume.it/politica/la-frattura-tra-ragione-e-realta-3-marx-e-vivo-e-lotta-dentro-a-noi-dodici-idee-comuniste-a-cui-credono-anche-gli-anticomunisti/). Pertanto, quasi tutti gli ecologisti vedono come il fumo negli occhi qualsiasi soluzione alternativa e, in particolare, l’odiato nucleare, compreso quello “nuovo”, di cui non si fidano affatto, anche quando non lo dicono apertamente.

Di conseguenza, se si vorrà davvero seguire questa strada (che, ripeto, è l’unica possibile, come subito spiegherò), prima o poi si dovrà comunque fare chiarezza anche sul nucleare tradizionale. Tanto vale, quindi, cominciare subito.

Una fonte energetica a basso costo

Quanto al presunto costo eccessivo, la questione è presto risolta. Anzitutto, va detto che nel valutare i costi del nucleare si tiene sempre conto di tutti i costi, non solo di costruzione, ma anche di gestione, manutenzione e smantellamento, cosa in sé giusta, ma che non viene mai fatta per nessun’altra fonte energetica, a cominciare (ovviamente) dalle rinnovabili. Come se non bastasse, questi costi sono molto superiori a quelli che dovrebbero essere, perché per la paura delle radiazioni (del tutto irrazionale, come subito vedremo) si chiedono misure di sicurezza assolutamente esagerate. Eppure, nonostante tutto ciò, in Italia, che ha abolito il nucleare nel 1988, cioè 35 anni fa, l’energia elettrica costa il 50% in più rispetto alla Francia, che è il nostro “gemello” energetico, in quanto ha all’incirca il nostro stesso livello tecnologico, la stessa popolazione e la stessa (ridotta) quantità di fonti energetiche naturali, ma produce col nucleare oltre il 70% della sua elettricità.

È davvero strano (o forse no…) che questo fattore non venga mai preso in considerazione in nessuna analisi sul nostro declino economico, che, guarda caso, è iniziato proprio pochi anni dopo che l’Italia, unico paese avanzato al mondo, ha deciso di rinunciare al nucleare. Inoltre, per aggiungere ai danni le beffe (nonché altri danni), va considerato che allora il nucleare italiano era il migliore al mondo, un pelo sopra la Francia e almeno due spanne sopra gli USA. Non per nulla, in quel momento l’Ansaldo Energia aveva commesse per costruire centrali nucleari in vari paesi esteri per ben 4000 miliardi di lire (circa 5 miliardi di euro odierni).

Se avessimo proseguito su quella strada, oggi potremmo guidare il processo di ritorno al nucleare, con enormi vantaggi in termini economici e anche di peso politico. Invece, per come ci siamo ridotti (con le nostre stesse mani: qui la “cattiva” Europa non c’entra proprio niente), siamo ormai il fanalino di coda del mondo progredito e, se non vorremo rimanerlo per decenni, finiremo col dover importare dall’estero gran parte delle tecnologie necessarie a metterci al passo con gli altri, anziché essere noi a vendergliele. Insomma, un vero capolavoro di stupidità.

Una garanzia di indipendenza

In secondo  luogo, il nucleare non rischia di creare pericolose dipendenze, come il gas e il petrolio, ma anche i pannelli fotovoltaici e le mitiche auto elettriche (a cui dedicherò un articolo a parte, perché qui siamo nel campo della follia pura). Infatti, i materiali necessari per la loro costruzione sono altamente tossici e quindi difficili da estrarre (e ancor più da smaltire) in modo non inquinante. Inoltre, da noi sono quasi assenti, mentre abbondano in paesi retti da feroci dittature, come la Cina e l’Afghanistan, oppure con situazioni  molto instabili, come per esempio il Congo, dove l’estrazione del cobalto sta causando continui massacri dovuti alle guerre tra le bande che se ne contendono il monopolio. Il rischio, quindi, è di cadere dalla padella nella brace, eliminando la dipendenza dalla Russia solo per andarci a cacciare in una ancor più pericolosa dipendenza da questi paesi, che non sono certo più affidabili.

I più grandi giacimenti di uranio, invece, si trovano in paesi solidamente democratici, a cominciare dall’Australia, che possiede oltre il 30% delle riserve mondiali, il che basta e avanza per rifornire tutto l’Occidente. Se poi ci aggiungiamo Canada, USA e Germania arriviamo a sfiorare il 50%. Inoltre e soprattutto, non c’è necessità di rinnovare continuamente le scorte, dato che, una volta acquisito, un quantitativo relativamente piccolo di uranio può produrre energia in grandi quantità per decenni, il che consente di programmarne l’acquisto con calma e cercando le migliori condizioni, anche economiche.

Un fattore di stabilità

Ma il nucleare non ha solo una convenienza relativa rispetto ai combustibili fossili, ma anche una convenienza intrinseca, che, come dicevo, lo rende non solo utile, ma addirittura indispensabile se si vuole tentare seriamente di superare l’attuale sistema di produzione di energia. Infatti, al di là di altre questioni più specifiche di cui parleremo più diffusamente un’altra volta, eolico e solare presentano un problema di fondo che rende pura utopia ogni tentativo di basarsi solo su di essi: a parte alcuni luoghi molto particolari, dove vento e sole sono sempre presenti, la loro produzione è inevitabilmente incostante e difficilmente prevedibile con esattezza.

E a complicare ulteriormente le cose c’è il fatto che, se continuerà l’attuale tendenza verso la tropicalizzazione del clima alle nostre latitudini, con forte riduzione dei ghiacciai e lunghi periodi di siccità, anche l’idroelettrico, che a oggi è di gran lunga la più diffusa e la più affidabile delle rinnovabili, tenderà a produrre meno energia e con minore regolarità. Ma, ahimè, una rete elettrica ha bisogno di una grandissima stabilità, perché in ogni istante la quantità di energia in circolazione non deve mai essere inferiore a quella richiesta dal sistema, altrimenti si genera immediatamente un blackout. E i blackout nel nostro mondo non sono più solo un fastidio, ma una vera e propria minaccia.

Qualche decennio fa la mancanza di elettricità causava solo la mancanza di illuminazione notturna e il blocco di alcuni sistemi di comunicazione e di trasporto (treni, semafori, ascensori, radio, televisione e poco altro) e ciononostante già un blackout di poche ore causava seri problemi di ordine pubblico. Oggi, invece, si bloccherebbe quasi tutto (e anche il “quasi” sparirà ben presto), con effetti devastanti. Il blocco pressoché totale delle comunicazioni, impedendo alle autorità di spiegare cosa sta realmente succedendo, moltiplicherebbe in modo esponenziale il panico, sicché subito si scatenerebbe l’assalto ai negozi, per la paura di restare senza cibo, il che a sua volta innescherebbe una spirale di violenza diffusa e incontrollabile, essendo impossibile coordinare le forze dell’ordine e i soccorsi.

Un blackout su scala nazionale, anche di un solo giorno, provocherebbe effetti analoghi a quelli di una sommossa. Se dovesse prolungarsi per qualche giorno i danni sarebbero simili a quelli di una guerra. Per una durata superiore, diciamo da una settimana in su, rischieremmo il collasso dell’intero sistema sociale. Se a qualcuno sembra che stia esagerando, provi a riflettere su cosa implicherebbe una situazione del genere per lui e la sua famiglia e cambierà subito idea.

Ora, il problema è che l’affidabilità necessaria per evitare tutto questo è molto superiore a quella che istintivamente potremmo pensare. Come spiega Vaclav Smil, il più grande storico vivente dell’energia, «un sistema […] con elettricità disponibile per il 99,99% del tempo può sembrare altamente affidabile, ma l’interruzione totale annuale sarebbe di quasi 53 minuti». Per eliminare pressoché totalmente il rischio di blackout occorrerebbe un’affidabilità del 99,9999%, che porterebbe a una carenza di energia di appena 32 secondi all’anno, mentre «l’attuale performance statunitense è di circa il 99,98%», che, per quanto elevatissima, espone già al rischio di vasti blackout della durata di alcune ore, che in effetti in questi anni si sono puntualmente verificati (cfr. Energia e civiltà. Una storia, Hoepli 2017, p. 335).

Ciò significa dunque che non possiamo permetterci di diminuire l’affidabilità delle nostre reti elettriche nemmeno di una minima percentuale. Anzi, dovremmo addirittura cercare di aumentarla, soprattutto se continuerà l’attuale tendenza (la cui assurdità a questo punto dovrebbe essere palese) a elettrificare qualsiasi attività umana. E ciò non sarà assolutamente possibile se pretenderemo di basarci esclusivamente su fonti per loro natura incostanti come le rinnovabili.

Beh, ma che problema c’è?, obietterà forse qualcuno. Certo, in un sistema incostante ci saranno periodi con una produzione inferiore a quella necessaria, ma anche periodi con una produzione superiore: basterà quindi immagazzinare l’elettricità in eccesso prodotta durante questi periodi di vacche grasse per poi usarla nei momenti di scarsità. Ma purtroppo il problema c’è.

L’elettricità, infatti, è molto facile da produrre, ma molto difficile da immagazzinare, almeno in grandi quantità. Batterie capaci di contenere riserve sufficienti per un paese moderno come l’Italia o un qualsiasi altro paese europeo dovrebbero essere di dimensioni quasi inimmaginabili, oltre a presentare gli stessi problemi relativi alle materie prime che affliggono i pannelli solari e le batterie delle auto elettriche.

Ciononostante, centrali di raccolta di questo tipo si stanno già progettando, insieme ad altre dove l’energia verrà immagazzinata sotto forma di energia potenziale (per esempio usando l’elettricità in eccesso per pompare acqua in bacini posti in zone elevate o per sollevare grandi pesi in cima ad apposite torri), che poi potrà nuovamente essere trasformata in energia elettrica sfruttando l’energia cinetica liberata durante la loro caduta verso il basso.

Tuttavia la costruzione di questi impianti richiederà uno sforzo tecnologico ed economico gigantesco e la loro gestione rischia di essere molto complicata, anche a causa dei cambiamenti climatici (la siccità prolungata può prosciugare anche questi bacini e i forti venti possono far cadere i pesi al momento sbagliato). Senza contare i terremoti, che potrebbero farli crollare, mentre nessun terremoto ha mai danneggiato seriamente una centrale nucleare, nemmeno quella di Fukushima, dove l’incidente non è stato provocato dal terremoto in sé, pur essendo stato uno dei più forti della storia, ma dall’acqua penetrata a causa del successivo tsunami.

Inoltre, se l’instabilità del sistema diventasse troppo grande potrebbe essere molto difficile calibrare esattamente l’entrata in funzione degli impianti di emergenza, dato il ridottissimo margine che abbiamo per evitare disastrosi black out seriali. Infine e soprattutto, per quanto accuratamente possiamo tentare di stimare quante riserve ci potranno servire, nel momento in cui tutta o quasi tutta la nostra energia dipendesse da un sistema intrinsecamente imprevedibile su tempi lunghi come il clima non potremo mai essere certi di averne abbastanza.

Nei sistemi classici, infatti, l’improbabilità di un qualsiasi evento è direttamente proporzionale alla sua grandezza, sicché oltre un certo limite essi sono di fatto impossibili. Ma ciò non è più vero nei sistemi non lineari, detti anche “caotici” o “complessi” (in questo senso tecnico, che non coincide con la semplice “complicazione”), come è appunto il clima (ma anche la Borsa: ne parleremo presto). Un periodo di siccità o un cambiamento nell’intensità dei venti o la nascita di un microclima con cielo costantemente nuvoloso (come per esempio succede a Lima in inverno) hanno sempre una probabilità non trascurabile di verificarsi, indipendentemente dalla loro entità. E questo è un rischio che non possiamo assolutamente permetterci, perché, come abbiamo visto, anche un blackout di pochi giorni avrebbe conseguenze devastanti.

Che, nonostante tutto ciò, queste centrali di emergenza si stiano comunque progettando significa che, al di là dei proclami ideologici, gli addetti ai lavori sono coscienti che una rete elettrica troppo basata sulle rinnovabili sarebbe insostenibile. E questa è una buona notizia. Che però lo si stia facendo in forma quasi clandestina (alzi la mano chi ha assistito a un solo dibattito televisivo dedicato a questo problema) significa che non si vuole far sapere all’opinione pubblica che anche le mitiche rinnovabili non sono quella bacchetta magica che si crede. E questa, invece, è una pessima notizia, soprattutto perché non è limitata a questo specifico problema, ma è una tendenza generale, quando si tratta di questioni ecologiche.

Le radici del pregiudizio antinucleare

Uno dei motivi di tale reticenza è proprio la paura che il nucleare possa essere preso in considerazione come integrazione o, peggio ancora, come alternativa alle fonti rinnovabili, una volta compreso che garantirebbe un flusso costante e regolare di energia, a basso costo, senza produrre emissioni nocive e senza metterci nelle mani di cinesi, talebani e tagliagole assortiti. Ma se il nucleare è così conveniente, allora da dove nasce questa violenta ostilità nei suoi confronti?

In parte si tratta di un atteggiamento puramente ideologico. I movimenti ecologisti, infatti, hanno certamente il merito di avere denunciato con molto anticipo dei problemi reali ed estremamente seri, della cui gravità ci stiamo rendendo conto solo adesso. Tuttavia, essendo figli del Sessantotto e della sua rivolta contro ogni tipo di autorità, compresa quella degli scienziati, hanno sempre avuto la tendenza a incolpare dei danni inflitti all’ambiente la scienza e la tecnologia in quanto tali e non solo il cattivo uso che spesso (ma non sempre) ne facciamo.

Negli ultimi anni questo atteggiamento almeno in parte è cambiato, perché proprio il fatto che finalmente si sia iniziato a prendere sul serio i problemi ecologici ha reso evidente che non sarà possibile risolverli senza il contributo essenziale della scienza. Anzi, semmai ora si esagera nel senso opposto, aspettandosi che la soluzione possa venire solo dalla scienza, senza bisogno di cambiare davvero il nostro modo di vivere (i cambiamenti nei comportamenti individuali che ci vengono continuamente suggeriti sono in realtà molto superficiali e hanno un’utilità inversamente proporzionale all’ossessività con cui ci vengono proposti e ai grandi disagi che causerebbero: anche di questo riparleremo presto).

Ciononostante, come ormai un po’ dovunque, anche in questo campo si tende a ragionare per categorie ideologiche stabilite a priori in modo del tutto irrazionale, per cui ci sono delle tecnologie che sono considerate per definizione “buone” e altre “cattive”. L’idroelettrico, l’eolico e il fotovoltaico appartengono alle prime, perché usano forze della natura come l’acqua, il vento e il sole, che ci sono familiari e sono chiaramente utili alla nostra vita. Il nucleare, invece, è classificato tra le seconde, benché la radioattività giochi anch’essa un ruolo fondamentale a favore della vita, perché senza di essa il nucleo terrestre non sarebbe fluido e quindi non avremmo la tettonica a placche e, di conseguenza, la terraferma, ma un unico oceano che ricoprirebbe tutto il pianeta, per di più perennemente ghiacciato, perché la temperatura della Terra sarebbe più bassa di una quindicina di gradi.

Ma questi influssi benefici della radioattività sono troppo indiretti e non abbastanza visibili per rendercela “simpatica”, considerando che il “biglietto da visita” (questo sì visibilissimo) con cui essa si è presentata al mondo è purtroppo rappresentato dalle atomiche di Hiroshima e Nagasaki. Per questo anche molte persone che riconoscono i vantaggi del nucleare civile lo considerano troppo pericoloso. Tuttavia, come ora vedremo, non solo esso non ha nulla a che vedere con la bomba atomica, ma è anzi una delle tecnologie più sicure che siano mai state create, sicuramente molto più sicura dell’idroelettrico, di cui nessuno si sogna di chiedere l’abolizione.

Nucleare e metodo scientifico

Prima di discutere il merito del problema sarà però utile una premessa metodologica. Come cerco sempre di spiegare (temo con non troppo successo), non esiste “la” scienza, ma “le” scienze. Infatti, anche se tutte le scienze naturali usano lo stesso metodo, quello sperimentale, genialmente scoperto e magistralmente definito da Galileo Galilei quattro secoli fa, la sua efficacia può variare di molto a seconda del tipo di oggetti a cui viene applicato.

Senza entrare in troppi dettagli tecnici (a chi volesse approfondire consiglio sempre il mio La scienza e l’idea di ragione, 2a ed. ampliata, Mimesis 2019), il punto fondamentale del metodo galileiano, che lo ha reso così efficace, è l’idea di studiare i fenomeni naturali non nella loro globalità, bensì un pezzetto alla volta, il che è fra l’altro determinante perché gli esperimenti siano ripetibili e quindi controllabili da tutti. Infatti, se consideriamo tutti i fattori in gioco nessunfenomeno naturale si ripete mai perfettamente identico, mentre ciò diventa possibile se di esso consideriamo solo alcune proprietà.

Ciò però significa che l’efficacia di questo metodo dipende in maniera cruciale dalla possibilità di isolare le proprietà che intendiamo studiare senza che ciò le alteri in modo significativo. Ora, da qualche decennio sappiamo che ciò è possibile solo per alcuni fenomeni, quelli cosiddetti “lineari”, mentre per i fenomeni non lineari, a cui ho già accennato prima, il metodo funziona solo entro certi limiti, che sono estremamente variabili a seconda dell’oggetto. Di conseguenza, le varie scienze non differiscono solo per il diverso modo di “incarnare” in strumenti ed esperimenti specifici i principi generali del metodo galileiano, ma anche per il diverso grado di certezza che possono raggiungere, non solo in pratica, ma anche in linea di principio.

La scienza naturale che ha, in media, il grado più basso di certezza è senza dubbio la medicina. È per questo che ho giudicato molto grave l’ingiustificata e irresponsabile sicumera con cui all’epoca del Covid molti esperti hanno presentato come verità indiscutibili quelle che erano semplici ipotesi ancora tutte da verificare, quando non addirittura teorie palesemente sbagliate, come quella del contagio attraverso le superfici infette o la necessità delle mascherine all’aperto.

All’estremo opposto sta invece proprio la fisica nucleare, che ha ormai raggiunto una precisione quasi disumana, con un margine di errore di circa una parte su un miliardo, di fatto coincidente, a tutti gli effetti pratici, con quella della matematica pura. Così stando le cose, diversamente da quanto accade in medicina e in molte altre scienze, in fisica nucleare contestare la validità di quanto affermato dagli esperti non ha molto più senso che sostenere che 2+2 potrebbe anche non fare 4. E questo è ancor più vero se consideriamo che le leggi fisiche rilevanti per il problema della sicurezza degli impianti nucleari sono estremamente semplici.

Il nucleare è (almeno) cento volte più sicuro dell’idroelettrico

Anzitutto, le centrali nucleari non producono nessun aumento significativo della radioattività al loro esterno. Per capire che questo è impossibile non occorrono studi complessi: basta riflettere sulla legge fondamentale della radioattività, che dice che essa si attenua in proporzione al quadrato della distanza. Ciò significa infatti che, se appena fuori dalla centrale, cioè a una distanza suppergiù di un chilometro dal reattore (dato che si tratta di impianti di grandi dimensioni), vi fosse una radioattività abbastanza forte da poter causare danni significativi alla salute, a 100 metri dal reattore la radioattività sarebbe 100 volte maggiore e a 10 metri 10.000 volte maggiore, cosicché i tecnici che ci lavorano morirebbero tutti nel giro di poche ore. Poiché ciò non accade, è inevitabile concludere che la presenza di una centrale nucleare non è pericolosa per la nostra salute.

In secondo luogo, le centrali nucleari non esplodono, per la semplice ragione che non sono bombe. Sia le bombe che le centrali hanno infatti bisogno di un particolare isotopo dell’uranio, l’uranio 235, che in natura è sempre mescolato con l’uranio 238 (e a tracce insignificanti del rarissimo 234) nella percentuale di appena lo 0,7%, che non è sufficiente a innescare la reazione a catena (come è logico, altrimenti tutti i giacimenti di uranio del mondo si sarebbero già autodistrutti non appena formatisi). Per entrambi gli usi è quindi necessario aumentare la percentuale di uranio 235, attraverso un processo piuttosto complesso detto “arricchimento”. Tuttavia, per le centrali nucleari, che devono produrre una reazione a catena controllata, cioè non esplosiva, la percentuale necessaria va dal 3% al 5%, mentre per le bombe atomiche dev’essere molto superiore, tra il 90% e il 97%. Se così non fosse, del resto, l’accordo con l’Iran sul nucleare civile non avrebbe avuto alcun senso.

Con questo non sto dicendo che sia stato una buona idea, perché è sempre possibile aumentare ulteriormente la percentuale di uranio 235 contenuto nel combustibile delle centrali nucleari in modo da poterlo poi usare per farci delle bombe atomiche. Pertanto, aver permesso all’Iran di costruire liberamente le prime l’ha avvicinato anche alla costruzione delle seconde (che è palesemente il suo vero obiettivo, perché delle centrali nucleari l’Iran non ha alcun bisogno, dato che naviga su un mare di petrolio). Ma questo è un problema politico, non tecnologico. La trasformazione dell’uranio per uso civile in quello necessario per una bomba, infatti, non può assolutamente verificarsi spontaneamente: occorre prima tirar fuori l’uranio dalla centrale e poi sottoporlo di nuovo al processo di arricchimento in un apposito impianto. Quindi, che una centrale nucleare esploda non è solo improbabile: è proprio fisicamente impossibile.

Tra parentesi, questo dimostra quanto assurde fossero le affermazioni fatte dai russi nella prima fase della guerra (e scelleratamente prese sul serio anche da alcuni commentatori occidentali) secondo cui avrebbero occupato le centrali nucleari ucraine perché in esse si stava usando il loro uranio per costruire bombe atomiche. Peccato solo che degli impianti necessari a eseguire una tale trasformazione in Ucraina non vi sia traccia e che in ogni caso, se anche esistessero, non si troverebbero certo nelle centrali nucleari, che non sono state costruite a tale scopo e quindi non hanno al loro interno né gli spazi né gli strumenti che servirebbero. Dunque, non è per questo che i russi le hanno occupate, ma (ovviamente) per avere il controllo dell’energia elettrica da esse prodotta.

Ma, obietterà qualcuno, la centrale di Chernobyl non è forse esplosa? Ebbene, mi spiace deludervi, ma la risposta è no: quello che è esploso a Chernobyl è stato solo il sistema di raffreddamento della centrale, costituito da un impianto di tubature che riversano costantemente acqua sul nocciolo di uranio per evitare che si scaldi troppo e portano via il gas che si forma quando l’acqua evapora per il contatto con l’uranio rovente. Quando, nella notte del 26 aprile 1986, per un difetto congenito di progettazione seguito da un’incredibile serie di errori umani, la pressione salì troppo, i tubi esplosero e il vapore si disperse nell’atmosfera. Ovviamente ho un po’ semplificato, ma la sostanza è questa. Non si trattò quindi affatto di un’esplosione atomica, tant’è vero che in essa morirono appena due persone.

Naturalmente, a causa dei ripetuti passaggi sul nucleo di uranio il vapor d’acqua era fortemente radioattivo e a peggiorare le cose si aggiunse il fatto che l’esplosione fece crollare il tetto del reattore, lasciando quindi allo scoperto il nocciolo. Ciò provocò un’ulteriore dispersione di polveri radioattive che si mescolarono al vapore generando la mitica “nube di Chernobyl”, che era certamente pericolosa, ma neanche lontanamente quanto lo sarebbe stato se si fosse trattato del “fungo” prodotto da una vera esplosione atomica.

E infatti i decessi che si possono collegare con certezza al disastro di Chernobyl sono appena qualche decina (65 secondo il calcolo più pessimistico). Altre 4000 persone si stima siano morte in seguito a causa di tumori causati dalla nube, ma tutte si trovavano nelle immediate vicinanze dell’epicentro. Che la nube di Chernobyl abbia contaminato l’intera Europa, causando decine di migliaia o addirittura milioni di morti, è una pura e semplice idiozia, che oggi in tutto il mondo è sostenuta, con ostinazione degna di miglior causa, esclusivamente da Greenpace, un’organizzazione che da sempre promuove un ecologismo molto radicale e ideologico.

A dare una parvenza di verosimiglianza a questa assurda teoria c’è il fatto che Chernobyl causò effettivamente morti accertate in ben tre nazioni: Ucraina (dove il reattore era ubicato), Russia e Bielorussia. Ma questo fu dovuto al fatto che il sito era (ed è tuttora) molto vicino al confine tra l’Ucraina e i due paesi suddetti, che anch’essi furono colpiti solo nella zona vicina all’epicentro, mentre la gran parte del loro territorio non riportò alcun danno.

In realtà, come ho spiegato nell’articolo precedente (https://www.fondazionehume.it/societa/la-frattura-tra-ragione-e-realta-4-il-grande-spauracchio-parte-prima-il-nucleare-bellico/), nemmeno la più potente bomba nucleare del mondo potrebbe causare un significativo aumento di radioattività a più di un centinaio di chilometri di distanza. E, di fatto, nessuna delle oltre 600 esplosioni nucleari effettuate nell’atmosfera come test dal 1945 a oggi ha mai causato danni significativi alla salute della popolazione mondiale. L’idea che possa averlo fatto l’esplosione di Chernobyl, che era molto ma molto meno potente e meno radioattiva perfino della più debole di esse, è quindi puro delirio.

E puro delirio è anche il timore che un disastro nella centrale nucleare di Zaporizhzhia possa “contaminare l’intero continente”, come abbiamo sentito ripetere ossessivamente soprattutto nelle prime fasi del conflitto (ma anche adesso, ogni volta che se ne parla, il ritornello ricomincia). Si può capire e perdonare che lo facciano gli ucraini, che hanno bisogno di attaccarsi a tutto per tenere desta l’attenzione dei loro distratti e indolenti alleati europei. Non si può invece capire e meno ancora perdonare che continuino a ripetere questa scemenza anche i nostri commentatori.

Un altro fattore che contribuisce molto a confondere le idee è l’uso di parole che istintivamente impressionano, senza che nessuno spieghi cosa significano in realtà. Per esempio, chiedetevi se sareste disposti a tuffarvi in una piscina in cui sia stata versata una tonnellata d’acqua marina prelevata davanti a Fukushima subito dopo l’incidente, quando aveva un livello di radioattività circa mille volte superiore a quello naturale. Detto così fa impressione ed è facile prevedere che rispondereste tutti di no. Ma proviamo a ragionare.

Un litro d’acqua (ce l’hanno insegnato a scuola) pesa un chilo e ha un volume di un decimetro cubo, per cui una tonnellata d’acqua equivale a un metro cubo. Detto così fa già meno impressione, non è vero? Eppure è esattamente la stessa cosa! Ma la parola “tonnellata” ci dà istintivamente la sensazione di una cosa enorme, mentre la parola “metro” (ancorché cubo) ci dà invece l’impressione di una cosa relativamente piccola. Il motivo, però, è esclusivamente psicologico: tutti, infatti, siamo più alti di un metro, mentre nessuno di noi si avvicina neanche lontanamente a pesare una tonnellata.

E ora proseguiamo. Secondo le norme FINA, una piscina olimpionica è lunga 50 metri, larga 25 e profonda non meno di 2: contiene dunque almeno 2500 metri cubi, ovvero 2500 tonnellate, di acqua non radioattiva (essendo di origine piovana non contiene infatti uranio disciolto, come quella marina). Di conseguenza, la tonnellata d’acqua radioattiva risulta diluita a tal punto che nell’insieme la piscina ha un livello di radioattività addirittura 2,5 volte inferiore a quello del mare della vostra località balneare preferita. Ciononostante, credo di non sbagliare se dico che anche dopo questa spiegazione nessuno di voi sarebbe disposto a tuffarcisi: tanto può la forza della paura suscitata dalle parole usate male.

Per dare l’idea del livello di mistificazione che spesso si raggiunge sul nucleare farò solo un altro esempio, ma particolarmente significativo, poiché si riferisce a un giornalista che molti (non io) ritenevano serio e affidabile, ovvero Andrea Purgatori, da poco deceduto. Ebbene, durante una puntata del suo programma Atlantide su LA7 (credo quella del 29 marzo 2022, ma non sono sicuro), Purgatori ha prima trasmesso un documentario in cui si ripeteva per ben due volte l’assurda affermazione che a Chernobyl si era verificata un’esplosione atomica e poi, come conclusione della puntata, ha fatto un elenco di tutti i disastri nucleari della storia.

Ora, a parte che erano in tutto e per tutto appena quattro (Chernobyl, ovviamente, poi Three Mile Islands, Fukushima e un altro di minore entità che ora non ricordo), Purgatori si è ben guardato dal dire quante persone erano morte in ciascuno di essi. E comprensibilmente, anche se disonestamente. Se l’avesse detto, infatti, la gente avrebbe scoperto che, a parte Chernobyl, il numero di morti per ciascuno dei suddetti “disastri” era zero. Sì, avete capito bene: a parte Chernobyl, di nucleare fino ad oggi non è mai morto nessuno.

E oltretutto Chernobyl è stato un caso più unico che raro: basti dire che l’incidente è classificato allo stesso livello di gravità di quello di Fukushima, in cui non è morta neanche una persona. Come è possibile, allora, che a Chernobyl siano morti così in tanti? La risposta è che la stragrande maggioranza dei decessi furono dovuti all’ostinato rifiuto del regime sovietico di ammettere l’incidente e, quindi, di evacuare immediatamente la popolazione, nonché alla totale impreparazione tecnica per un’emergenza simile.

Tra l’altro, il difetto di progettazione era stato notato già nel 1971 durante un congresso internazionale da un gruppo di ingegneri italiani, tra cui mio padre, che diresse il piano nucleare italiano da allora fino al 1988, quando venne sciaguratamente chiuso. Ma il loro aiuto per sistemare le cose, che i tecnici russi avevano volentieri accettato, venne sprezzantemente rifiutato dal regime sovietico, che poi respinse allo stesso modo anche le offerte di aiuto dell’Occidente successive al disastro. Non è quindi esagerato dire che a Chernobyl più che di nucleare si morì di comunismo.

Eppure niente: tutti continuano imperterriti a parlare di “disastri nucleari”, non solo per Chernobyl, ma anche per gli altri, che semplicemente non furono disastri, in nessun senso sensato della parola “disastro”. Addirittura, pur di addossare qualche cadavere all’atomo, qualche bello spirito è arrivato a inventarsi il concetto di “morte per stress da evacuazione”, sostenendo che l’incidente di Fukushima ne avrebbe causate circa 400.

Non mi soffermo a commentare questa assurdità priva di qualsiasi fondamento scientifico e di cui in ogni caso non sarebbe responsabile il nucleare, ma semmai la cattiva gestione dell’evacuazione. Vorrei invece far notare che il terremoto di Fukushima fu uno dei più terribili della storia, eppure la centrale nucleare rimase in piedi (in effetti, fu l’unica cosa che rimase in piedi) e non uccise nessuno, mentre 400 persone rimasero vittime del crollo della diga di un vicino impianto idroelettrico. Eppure, nessuno parla mai di queste autentiche morti, mentre tutti continuano a parlare e straparlare di quelle immaginarie di Fukushima.

Ma non è tutto. Questo, infatti, non è per nulla un caso isolato. Solo il disastro del Vajont, come ben sappiamo, ha causato 1917 morti: circa la metà di quelli attribuiti a Chernobyl. Ma già nel 1923 erano morte 356 persone nel crollo della diga del Gleno e altre 115 morirono nel 1935 nel crollo della diga del Molare, col che siamo già a 2388. E questo solo in Italia.

Ho cercato insistentemente notizie relative alla situazione a livello mondiale, ma anche sui siti di statistiche più noti e affidabili sembra impossibile trovare dati completi e ancor più difficile è distinguere tra i crolli di dighe di impianti idroelettrici e quelli di dighe destinati ad altri usi (principalmente irrigazione e attività mineraria). Perfino il loro numero è incerto, perché molti studi considerano solo dighe superiori a una certa altezza, che, essendo scelta arbitrariamente, ogni volta porta a risultati diversi. Calcolandole tutte, è probabile che il numero di dighe di qualsiasi altezza e destinazione d’uso già costruite o in fase di costruzione in tutto il mondo sia vicino al milione. Ma alla fine non ha molta importanza.

Se si pensa infatti che solo nel crollo della diga della centrale idroelettrica di Banqiao, situata 300 km a nord-ovest di Shangai e distrutta nel 1975 dal tifone Nina, morirono 171.000 persone e che nell’insieme i crolli di dighe nell’ultimo secolo hanno sicuramente ucciso centinaia di migliaia di persone, forse addirittura milioni, anche se il numero esatto non è determinabile e non tutte le dighe crollate erano destinate alla produzione di elettricità, è comunque evidente che la “buona” energia idroelettrica è in realtà almeno cento volte più pericolosa della “cattiva” energia nucleare.

E in futuro la situazione è destinata a peggiorare ulteriormente, sia per l’invecchiamento delle dighe (secondo alcune stime, senza urgenti interventi di manutenzione, per cui spesso non ci sono i soldi, oltre il 50% sarebbe già ora a rischio), sia per l’aumentare della violenza delle piogge. Senza contare poi l’impatto ambientale, spesso molto pesante, dei grandi bacini idroelettrici e l’enorme numero di persone (sicuramente alcune decine di milioni) che per permetterne la costruzione sono state costrette a lasciare per sempre le loro case, destinate a finire sommerse dall’acqua.

Eppure, nessuno si sogna di chiedere la chiusura degli impianti idroelettrici. E giustamente, perché farlo causerebbe conseguenze ben peggiori. Ma allora perché rifiutare il nucleare, che è (letteralmente) cento volte più sicuro?

Il falso problema delle scorie

Beh, un momento, mi direte: hai dimenticato il problema delle scorie. Non vorrai mica dirci che neanche quello è così grave come sembra? Ebbene, non ve lo dico, ma solo perché il problema delle scorie semplicemente non esiste: il problema delle scorie, infatti è stato creato dalla paura del problema delle scorie.

Cominciamo da un dato di fatto incontestabile: a oggi, nessuna persona al mondo ha riportato danni a causa delle scorie delle centrali nucleari, mentre le scorie di praticamente qualsiasi altra industria almeno qualche morto l’hanno causato e in molti casi anche più di qualcuno.

Di fatto, per neutralizzarle completamente basta seppellirle a qualche decina di metri di profondità, come si sta facendo attualmente. Che questo sia sicuro è provato dal fatto che vivere sopra un giacimento di uranio non comporta nessun rischio significativo per la salute. Se così non fosse, le compagnie minerarie userebbero le statistiche sul cancro per rintracciare i giacimenti, invece di ricorrere a complicate e costosissime tecnologie di prospezione.

Ma per stare del tutto tranquilli si potrebbe ricorrere a una delle tante miniere abbandonate: a un migliaio di metri di profondità, infatti, perfino se un terremoto dovesse aprire in due la miniera la quantità di radiazioni che riuscirebbe a raggiungere la superficie sarebbe trascurabile (a parte poi che dopo un terremoto di quella potenza questo sarebbe l’ultimo dei nostri problemi, in quanto non resterebbe più nessuno in grado di preoccuparsene).

Ma la soluzione più efficace sarebbe semplicemente affondarle in mare, purché ovviamente a profondità adeguata e non sotto costa, ma nelle grandi fosse oceaniche. Siccome già sento gli strilli inorriditi dei più davanti a questa proposta, vorrei far presente a chi non lo sapesse che, come ho accennato prima, l’acqua di mare è radioattiva già di suo, giacché contiene uranio nella percentuale di 3,4 tonnellate per chilometro cubo: eppure uno può andare al mare anche tutti i giorni senza subirne il minimo danno.

Ora, negli oceani del mondo ci sono circa 1400 milioni di chilometri cubi d’acqua, il che significa che in totale essi contengono la bellezza di quasi 5 miliardi di tonnellate di uranio. E poiché il totale delle scorie prodotte finora (in circa 50 anni) è stimato intorno alle 250.000 tonnellate, cioè 5000 all’anno, ne segue che anche buttandole in mare così come sono ci vorrebbe un milione di anni solo per raddoppiare la radioattività naturale degli oceani, il che a prima vista può sembrare una prospettiva spaventosa, ma in realtà non avrebbe la minima conseguenza pratica. Se così non fosse, infatti, uno che va al mare il doppio di un altro dovrebbe avere una probabilità doppia di prendersi il cancro, per non parlare di uno che ci vive stabilmente, che dovrebbe beccarselo con certezza matematica nel giro di pochi mesi.

La realtà dei fatti è che raddoppiare la radioattività naturale dei mari comporterebbe meno rischi per la nostra salute che farci una banale radiografia. Ancora una volta, siamo vittime dell’illusione delle parole: 5 miliardi di tonnellate di uranio ci sembrano infatti una quantità enorme, e di per sé lo sono, ma il fatto è che non ci rendiamo conto di quanto grande sia il mare, per cui anche una quantità del genere risulta in realtà irrisoria (in effetti, equivale a meno di 4 milionesimi di grammo per metro cubo). Il vero rischio di prenderci il cancro quando andiamo al mare sta nel passare troppo tempo al sole ad abbronzarci, che è molto ma molto più pericoloso che vivere vicino a un deposito di scorie nucleari: eppure, di questo non ci preoccupiamo minimamente.

Peraltro, si tratta di un’ipotesi puramente teorica, giacché le scorte di uranio esistenti nel mondo possono bastare al massimo per qualche migliaio di anni (durante i quali si spera che avremo trovato altre soluzioni, per esempio la fusione nucleare). Quindi anche se tutte le scorie di tutte le centrali nucleari passate, presenti e future della storia dell’umanità venissero buttate in mare così come sono, l’irrisorio livello di radioattività naturale degli oceani verrebbe aumentato al massimo di un ancor più irrisorio 1%. E non basta, perché in realtà nessuno ha mai pensato di buttarle davvero così come sono.

Le scorie, infatti, vengono prima inglobate nel vetro fuso e poi l’impasto viene versato in contenitori di acciaio e cemento a tenuta stagna, che affonderebbero ben presto nel fango dei fondali oceanici, per decine o anche centinaia di metri, col che l’impatto ambientale sarebbe nullo a tutti gli effetti pratici. Infine, non dimentichiamo che, contrariamente a ciò che sempre si dice, solo una minima percentuale delle scorie nucleari conserva una forte radioattività per diverse migliaia di anni, mentre la maggior parte diventa innocua nel giro di qualche decennio.

Conoscere la realtà per non temerla

L’unica cosa di cui dobbiamo avere paura è la paura stessa.

(Franklin Delano Roosevelt)

Ma queste soluzioni, perfettamente sicure, ragionevoli e a basso costo, non sono mai state adottate, perché la gente le rifiuta in nome dell’assurda pretesa del “rischio zero”, di cui ho già più volte parlato su questo sito (si veda in particolare https://www.fondazionehume.it/societa/la-frattura-tra-ragione-e-realta/), a cui in questo caso si aggiunge una paura viscerale più forte di qualsiasi ragionamento, dovuta al ricordo delle atomiche di Hiroshima e Nagasaki, peraltro anch’esso in gran parte mitizzato e che in ogni caso col nucleare civile non c’entra nulla.

Di conseguenza, per compiacere gli elettori i vari governi hanno adottato standard di sicurezza così irragionevolmente esigenti che è diventato impossibile trovare un qualsiasi luogo sulla Terra che li soddisfi, col paradossale risultato che continuiamo a tenere le scorie radioattive in depositi in teoria “provvisori”, ma che stanno di fatto diventando definitivi, benché siano molto più costosi e molto meno sicuri di quelli che potremmo usare senza problemi se solo la smettessimo di aver paura.

Ma per non aver paura della realtà bisogna innanzitutto conoscerla. E questo oggi non sembra uno sport molto di moda.




Infanticidi contro femminicidi?

Non mi è piaciuto per niente, qualche sera fa in tv, il discorso che ho sentito fare da Vittorio Feltri sugli infanticidi, quando – in una discussione che aveva per oggetto i femminicidi – ha voluto ricordare che “le femministe italiane non parlano mai di infanticidi”, che pure sono “abbastanza numerosi” e tutti commessi da donne. Non mi è piaciuto perché trovo macabro (e del tutto improprio) contrapporre a una tragedia, quella dei femminicidi, una tragedia a prima vista di segno contrario, quella degli infanticidi: come se l’una potesse neutralizzare l’altra, o come se le malefatte delle donne potessero attenuare quelle degli uomini.

L’uscita di Feltri, provocatoria come nel suo stile, non mi è piaciuta anche per ragioni più tecniche. Intanto non è esatto che tutti gli infanticidi siano commessi da donne, come non è esatto che tutte le uccisioni di donne siano commesse da uomini: ci sono infanti uccisi da uomini, e maschi uccisi da donne.

Ma il vero motivo per cui non mi è piaciuto il discorso di Feltri, né mi piace il dibattito attuale sui femminicidi, è che entrambi mancano quello che, a mio parere, è il punto fondamentale di entrambi i fenomeni, e cioè che i loro numeri sono esigui, estremamente esigui (avvertenza per i lettori più ideologizzati: sto esprimendo un giudizio statistico, non una valutazione morale). Il che ha conseguenze sulla loro interpretazione.

Vediamoli, questi numeri. Secondo un recente rapporto Eures, i figlicidi sono poco più di 20 l’anno, di cui circa 3 infanticidi. Quanto ai femminicidi, dipende dalla definizione: secondo quella prevalente (uccisioni di donne in ambito affettivo o familiare), nel 2023 sono state finora 83, di cui 58 da parte del partner/marito (o ex), a loro volta suddivise fra 20 anziane (over 60), 18 nella fascia 40-59, 20 nella fascia 10-39 anni, la stessa di Giulia Cecchettin (ricavo i dati da un database meritoriamente costruito dall’associazione Non Una Di Meno).

Perché è importante il fatto che i numeri siano piccolissimi?

È semplice: perché rende quasi superfluo il lavoro dei sociologi come me. Quando un fatto drammatico ed estremo, generato da un comportamento umano, si presenta con una frequenza così bassa, tutte le nostre spiegazioni standard vacillano. È inutile, al limite del ridicolo, invocare le solite possibili determinanti: povertà, disoccupazione, emarginazione, bassa istruzione, territori degradati. Perché se fossero queste le fonti primarie di quei comportamenti, avremmo legioni di donne e infanti uccisi. E noteremmo, fra gli autori di tali gesti estremi, una netta sovra-rappresentazione di determinate condizioni sociali, eventualità che si presenta invece assai raramente (con un’unica, parziale, eccezione: quella degli stranieri).

Quello cui dobbiamo rivolgerci, semmai, è l’esperienza degli psichiatri, dei romanzieri, dei drammaturghi. Quando i comportamenti sono estremi e rarissimi, alla base c’è quasi sempre una catastrofe esistenziale, ossia una concatenazione di storie familiari drammatiche, eventi singolari più o meno accidentali, esperienze personali in qualche modo irreplicabili: insomma, il tragico che fa irruzione nella vita dell’individuo e lo acceca.

Lo testimoniano, in modo indiretto ma difficilmente controvertibile, i dati delle principali ricerche effettuate su questo genere di comportamenti sia all’estero sia in Italia. Da esse risulta, ad esempio, che 3 autrici di figlicidi su 4 sono affette da gravi disturbi psicologici, e dopo il delitto spesso finiscono in ospedali psichiatrici giudiziari. E che metà degli autori di femminicidi si suicidano o comunque provengono da condizioni di devianza nel senso tecnico del termine (precedenti penali, prostituzione, problemi psichiatrici, eccetera).

Ecco perché è ingenuo cercare cause sociali generalizzate, in particolare per i femminicidi. Rimuovere o attenuare determinate fonti di violenza, prima fra tutte la drammatica incompetenza sentimentale di tanti giovani e meno giovani, può essere importantissimo, perché – verosimilmente – permetterà di ridurre stupri e violenze sessuali (decine di migliaia di casi ogni anno!), ma difficilmente porterà molto più prossimi a zero i numeri dei delitti estremi. È, del resto, la consueta lezione della sociologia, da Merton in poi: le conseguenze dell’agire umano raramente sono quelle che gli uomini si aspettano.




Femminicidi, un problema degli anziani?

A mia memoria, non era mai successo che un problema sociale attirasse un’attenzione così enorme come quella suscitata dal dramma di Giulia Cecchettin, e al tempo stesso fosse così poco studiato, almeno in Italia. Il fatto che quasi tutti abbiano un’opinione sulle cause e sui rimedi, non deve ingannarci: in realtà non sappiamo quasi nulla, se per “sapere” intendiamo conoscere chi sono le vittime, quali sono le cause, quali possono essere i rimedi efficaci.

Finora, quasi tutte le analisi del fenomeno si sono basate su dati molto aggregati, senza riuscire a scendere nel dettaglio – caso per caso, individuo per individuo – come sarebbe necessario se vogliamo cominciare a capire. Per questo meritano una speciale riconoscenza le donne dell’associazione Non Una Di Meno (NUDM), che da alcuni anni raccolgono in un database tutte le informazioni disponibili su ogni evento in cui una donna viene uccisa, indipendentemente dal fatto che l’omicidio possa essere classificato come femminicidio oppure no (al momento non esiste una definizione statistica condivisa e facile da applicare).

Sono andato a curiosare nel database, che descrive i 110 casi del 2023, e ho provato a fare alcuni calcoli, confrontando i profili di tre insiemi: le donne uccise, i loro uccisori, la popolazione italiana di almeno 10 anni. Ed ecco alcuni risultati.

Cominciamo da quella che considero la maggiore sorpresa: l’età media. Come la maggior parte delle persone che – a titolo di curiosità – ho interrogato in questi giorni, pensavo che le fasce di età a maggiore rischio fossero quelle intorno ai 20-30 anni, o tutt’al più fino ai 40. Ebbene, niente di più sbagliato. Nella fascia 20-40 anni rientra solo 1 donna uccisa su 4. La fascia a maggiore rischio è la fascia delle donne con almeno 60 anni, e il rischio aumenta passando alla fascia delle ultra-70enni. E infatti l’età media di tutte le donne uccise è 53 anni, e quella dei loro assassini (quasi tutti maschi) è 54 anni, entrambe maggiori dell’età media degli italiani  che è di 46 anni (50 se escludiamo i bambini).

In concreto, questo significa che il rischio di essere uccisa di una donna anziana è maggiore di quello di una donna giovane o adulta. Si potrebbe pensare che questo sia dovuto al fatto che, nelle uccisioni di donne, rientrano anche i casi che non configurano un femminicidio. Ma ripetendo il calcolo per i soli femminicidi in base a due definizioni e a due dataset diversi (è stato pubblicato anche un secondo dataset, molto meno ricco), il risultato non cambia, anzi si rafforza: il rischio di essere uccisa di una anziana di almeno 60 anni è del 46% più alto di quello di una donna sotto i 60, e quello di una donna di almeno 70 anni è del 69% più alto di quello di una donna sotto i 70. In breve: il caso di Giulia non è in nessun modo tipico.

Ma questa non è l’unica sorpresa. Nel database di NUDM ci sono molte altre informazioni che, in teoria, potrebbero aiutarci a costruire un profilo tipico delle vittime e dei loro assassini. Ebbene, quel che si scopre facendo i confronti con la popolazione, è che un tale profilo non c’è, anche se – su alcune variabili – emerge una qualche specificità del campione dei femminicidi (lo chiamo così per brevità). I 108 casi registrati sono avvenuti in quasi tutte le regioni; in comuni piccoli, medi e grandi; gli autori del delitto sono operai, impiegati, dirigenti, commercianti, pensionati, disoccupati, tutti in proporzioni comparabili a quelle della popolazione maschile generale.

Solo su alcuni particolari aspetti, è possibile rintracciare scostamenti – talora grandi, talora al limite della significatività statistica – fra il campione e la popolazione. Uno scostamento macroscopico, ma forse non sorprendente, è che metà degli aggressori o si suicida (oltre 1 su 3) o è comunque in una condizione di devianza nel senso tecnico del termine (precedenti penali, prostituzione, problemi psichiatrici, vagabondaggio, eccetera). Un secondo scostamento riguarda la nazionalità delle vittime e degli aggressori. In entrambi i casi sono sovrarappresentate le persone di nazionalità straniera, ma con una importante asimmetria: nel campione il rischio che una donna italiana sia uccisa da uno straniero è quasi 7 volte più alto del rischio opposto, ossia che una donna straniera sia uccisa da un italiano.

Prendere spunto da questi dati per fare affermazioni generali sulle radici dei femminicidi sarebbe una mossa avventata. Però, forse, una piccola considerazione possiamo farla: la visione che abbiamo dei femminicidi è molto stereotipata. Il caso della giovane donna vittima di un partner possessivo, ma per il resto “normale”, è decisamente minoritario. Le donne di meno di 40 anni uccise dal partner o dall’ex sono 20 su 110, e scendono a 16 se trascuriamo i casi in cui l’aggressore è un deviante o si suicida. In altre parole: i casi analoghi a quelli di Giulia e Filippo, anche a voler considerare tutta la fascia di età fino ai 40 anni, riguardano circa il 15% delle uccisioni di donne. E tutto il resto?

Sul resto dobbiamo indagare e riflettere, sapendo però che – al centro – ci sono le donne che attraversano “il terzo tempo” della loro vita, come lo ha chiamato Lidia Ravera in un suo libro recente sulla vecchiaia. Un gruppo sociale al quale, notava fin dagli anni ’80 un’altra scrittrice – Natalia Ginzburg – la nostra società riserva una sola, ipocrita, cortesia, quella di chiamarle anziane anziché vecchie.