Il Covid e il clima L’Italia è veramente fra gli ultimi della classe?

Diciamoci la verità: la nostra gestione della pandemia da coronavirus non è stata impeccabile. D’accordo, il virus non è nato da noi – almeno su questo punto non ci sono obiezioni – ma che dire del fatto che, nonostante ci fossero una trentina di paesi tra noi e la Cina, come un politico sottolineò prima dello scoppio della pandemia, questa in occidente è iniziata proprio da noi? Come noi abbiamo sottovalutato l’abilità dei paesi orientali nella loro guerra al virus – ti pare che il nostro sistema sanitario, così osannato, non sappia far di meglio dei paesi orientali fino a pochi anni fa sottosviluppati? – i nostri “alleati”, a cominciare dai paesi UE hanno forse fatto lo stesso ragionamento nei nostri confronti: i soliti italiani pasticcioni. E invece, uno dopo l’altro, chi più chi meno, si sono ritrovati con gli stessi nostri problemi.
Ormai sono trascorsi ben quattro mesi dal cosiddetto caso uno di Codogno e una lettura dei dati ufficiali pubblicati dai vari paesi evidenzia delle graduatorie che andrebbero quanto meno “pesate” tenendo conto della popolazione di ciascuno. Ma è solo questa la variabile da tener presente per confrontare correttamente la bontà della risposta di ciascun paese. Anticipo la risposta: no!
Per non disperdere troppo l’analisi, concentrerò l’attenzione su due paesi che hanno un minimo di analogie con noi: il Regno Unito e la Grecia. Il primo, per dimensioni fisiche (superficie e lunghezza delle coste) e demografiche (numerosità della popolazione) è paragonabile all’Italia. Il secondo ha un clima e uno sviluppo industriale non troppo diverso dal nostro meridione, che non a caso era un tempo definito come la Magna Grecia. Inoltre, almeno in apparenza, la Grecia avrebbe avuto risultati molto migliori dei nostri e cercherò di indagarne il motivo.
Prima di passare ai numeri dei contagi e dei morti da (o con?) covid, è d’obbligo premettere, come sempre fa il prof. Ricolfi, che essi hanno un basso grado di affidabilità. Molti concordano sul fatto che i contagi effettivi siano di almeno un ordine di grandezza superiori a quelli ufficiali. In quanto ai morti, quanti sono quelli che sono deceduti senza che venisse loro mai fatto alcun tampone e, quindi, esclusi dal conteggio?
Prendo quindi per buoni i dati pubblicati dalla Johns Hopkins University e assumo che l’errore sia paragonabile per i paesi presi in esame. Trascuro anche l’influenza di altre variabili sicuramente molto importanti. Una fra tutte: il grado di socialità delle persone, specie se anziane, in quanto soggette a mortalità notevolmente più elevata.
Ecco i dati aggiornati al 25 giugno:Se ne deduce, in prima battuta, che i britannici siano stati meno abili di noi nella lotta al virus e che, al contrario, i greci siano stati dei fuoriclasse. Per questi ultimi è difficile dimostrare il contrario, ma il divario è veramente così ampio?
Proviamo a scomporre i dati dell’Italia sulla base della sua geografia e – perché no? – della sua storia. In prima approssimazione distinguiamo tra ex Regno delle due Sicilie + la Sardegna da una parte e il centro-nord dall’altra. I puristi obietteranno che parte del Lazio sud-orientale e la provincia di Rieti facevano parte del Regno delle due Sicilie: perdonatemi questa approssimazione.
La suddetta tabella, grazie ai dati della Protezione civile da me ricavati dal sito del Sole 24ore, diventa la seguente:La situazione del centro-nord Italia appare ora ribaltata rispetto al Regno Unito (la risposta al virus è stata meno efficace), mentre il sud dell’Italia mostra ora valori senz’altro molto più elevati ma dello stesso ordine di grandezza dei dati greci. Nel precedente confronto con l’Italia intera, invece, i contagi in Grecia risultavano circa 13 volte inferiori e i morti oltre 30 volte inferiori!
Come si può spiegare tutto ciò?
Consideriamo variabili nuove: quelle ambientali (clima, inquinamento e ventilazione).
Tali variabili non sono indipendenti fra loro: direi che si esaltano a vicenda, come cercherò di chiarire. Innanzitutto preciso che il clima si può ragionevolmente scomporre nelle seguenti variabili: temperatura, umidità relativa, ventilazione e soleggiamento.
È intuitivo che:
– minore è la ventilazione, maggiori sono il ristagno delle sostanze inquinanti e l’umidità relativa,
– maggiore è il soleggiamento e, quindi, l’energia presente nell’aria, maggiore è la capacità dell’ecosistema di ridurre l’umidità relativa e di degradare le sostanze inquinanti,
– maggiore è l’inquinamento, maggiori sono l’umidità relativa e la presenza di microparticelle che, a loro volta, favoriscono l’aggregazione del vapore acqueo in piccole goccioline.
Veniamo alla facilità del contagio, cioè al nocciolo del problema. Se è vero che esso avviene tramite le goccioline di alito emesse dalle persone infette, si tratta di determinare la persistenza di tali goccioline nell’aria: più a lungo tali goccioline si librano nell’aria, maggiore risulterà la probabilità che esse possano essere inalate da qualcuno. La conoscenza del diagramma di stato aria acqua (v. figura in calce) aiuta notevolmente a capire la chimica e la fisica del fenomeno. Senza scendere troppo in tecnicismi, è evidente che:
– tanto maggiore è l’umidità relativa, tanto maggiore risulta la persistenza delle goccioline nell’aria,
– la ventilazione favorisce l’evaporazione dell’acqua e tanto più la favorisce quanto più la temperatura è elevata e l’umidità relativa è bassa.

Infatti, dal diagramma di stato aria acqua si può vedere come la capacità di far evaporare acqua nell’aria cresce in modo molto più che proporzionale con la temperatura. Si immagini di essere ad Abu Simbel (cito tale località perché ci sono stato): ammesso e non concesso che con quel clima si possa starnutire, quanto potrà sopravvivere una gocciolina nell’aria torrida? Una frazione di secondo! Viceversa, a Milano, d’inverno, quando la strada è bagnata come se piovesse ma non sta realmente piovendo . . . non c’è speranza!

Si è spesso dibattuto se il caldo favorisca oppure no la sopravvivenza del virus: dovrebbe essere chiaro, a questo punto, che il virus non muore per cottura o si indebolisce ma, semplicemente, non ha più il mezzo di trasporto e precipita a terra come una zanzara avvelenata da un insetticida.

Ritorniamo al confronto da cui siamo partiti.

La situazione della pianura padana, parte preponderante del centro-nord Italia, è senz’altro peggiore di quella inglese per mancanza di ventilazione e, anche in conseguenza di ciò, umidità relativa e inquinamento, per cui non si può certo escludere che ciò giustifichi i dati peggiori nel contrasto alla pandemia. Non è un caso che i dati della Lombardia e del Piemonte (senza accesso al mare) siano tra i peggiori anche nell’ambito delle regioni del nord Italia.

Per quanto attiene alla Grecia, possiamo spiegare i suoi dati, migliori del nostro sud, per la sua conformazione (coste più frastagliate e maggiore insularità, quindi, maggiore ventilazione) e per la inferiore latitudine media a cui si trova e, quindi, per il maggior soleggiamento.

Per concludere: non siamo stati certo un esempio da imitare ma nemmeno così sprovveduti come apparentemente si sarebbe potuto asserire sulla base di un’analisi più superficiale.




Il termometro dell’epidemia (release 1.0)

Oggi (ultimo dato disponibile, ore 18.00 del 25 giugno) la temperatura dell’epidemia è pari a 2.5 gradi pseudo-Kelvin, in diminuzione di appena 0.2 gradi rispetto al giorno precedente.

Alla base di questa leggera diminuzione vi sono tre diversi fattori: da un lato vi è una riduzione dei decessi giornalieri, dall’altro vi è un aumento degli ingressi ospedalieri stimati. mentre i nuovi contagi rimangono sostanzialmente stabili

La diminuzione settimanale della temperatura è di 2.2 gradi.

Va ricordato, come sempre, che l’andamento della temperatura non riflette quello dei contagi attuali, ma quello dei contagi avvenuti 2-3 settimane fa.

Per maggiori dettagli si rimanda alla nota tecnica




La lezione di Weber anti ideologie: c’è il vero senza dover essere né bello né sacro né buono

Se Alexis de Tocqueville, stando a Raymond Aron è, il più grande pensatore politico del XIX secolo, Max Weber – di cui quest’anno ricorre il centenario della morte – sicuramente lo è del Novecento. Morti entrambi in età non certo avanzata (a 54 anni il primo, a 56 il secondo) hanno lasciato un’impronta decisiva sul loro tempo come sul nostro. L’uno col suo concetto di “democrazia” – non un regime politico ma uno stato sociale caratterizzato dall’eguaglianza delle condizioni ovvero da diritti non ascritti in virtù della nascita, del ceto, dell’ufficio – l’altro con la sua tesi della burocratizzazione dell’esistenza – la “gabbia d’acciaio” in cui il processo di razionalizzazione, innescato dall’economia capitalistica, dal prodigioso sviluppo delle tecnica e della scienza, ha imprigionato l’uomo contemporaneo – hanno messo a fuoco l’architrave della società moderna. A Weber, tuttavia, va riconosciuta un’ampiezza di interessi culturali ben diversa da Tocqueville. Non c’è quasi grande tema della modernità che egli non abbia trattato e su cui non abbia lasciato analisi profonde tutt’ora al centro del dibattito teorico. A cominciare da quello – spesso frainteso – dei nessi tra etica protestante e spirito del capitalismo. Weber non disse mai che il protestantesimo è il padre del capitalismo: il suo intento non era quello di stabilire l’efficacia causale delle idee religiose quanto la loro indipendenza analitica. Questo significa che, nella ricostruzione della genesi del capitalismo, ci si deve chiedere perché fattori materiali che si ritrovano nell’antichità classica come nelle civiltà orientali – economia monetaria, crescita della popolazione, aumento dei metalli preziosi, mobilità occupazionale, libertà di commercio  – non abbiano prodotto dovunque la moderna società di mercato. La risposta, per Weber, andava ricercata nei fattori attitudinali (industriosità e spirito acquisitivo): «La smodata sete di guadagno degli asiatici in generale non trova, notoriamente, eguali nel resto del mondo. Tuttavia si tratta di una “spinta al guadagno” perseguita con ogni possibile mezzo, inclusa la magia universale. Ciò che manca è proprio quel che è stato decisivo per lo sviluppo economico dell’Occidente: la traduzione e l’immersione razionale della spinta al guadagno economico e dei suoi corollari, in un sistema di etica del comportamento, mondana e razionale – ad es: “l’ascetismo mondano” del Protestantesimo in Occidente».

La costruzione dello Stato, il diritto moderno, il disincanto del mondo, il pluralismo dei valori, il nesso tra religione e civiltà, il futuro del capitalismo, il carisma politico e il destino della democrazia nella società di massa, la distinzione tra etica dell’intenzione (quella del fiat justitia pereat mundus) ed etica della responsabilità (che calcola le conseguenze dell’agire), la dialettica tra movimenti sociali e istituzioni politiche, il processo di secolarizzazione, la metodologia delle scienze storico-sociali: sfido a trovare un libro rilevante su ciascuno di questi argomenti che non si confronti con l’autore del Lavoro intellettuale come professione (1919).

Eppure nonostante questa presenza mai venuta meno Weber è uno dei pensatori più lontani dal Weltgeist del XXI secolo. E per due ordini di ragioni. La prima sta nell’obbligo imposto allo studioso di conoscere i fatti in maniera wertfrei (avalutativa) “sine ira ac studio”. Scrive in una straordinaria pagina de La scienza come professione. «Quando uno parla sulla democrazia in una riunione popolare» ha il dovere di «prendere partito in modo chiaramente riconoscibile. Le parole di cui ci si serve non sono in questo caso mezzi per l’analisi scientifica, bensì di propaganda per trar dalla nostra parte gli altri. Quelle parole non sono un vomere per fecondare il terreno del pensiero contemplativo, bensì spade contro gli avversari, strumenti di lotta. Ma in una lezione o in un’aula un simile uso della parola sarebbe sacrilego. Se vi si parlerà di “democrazia”, se ne osserveranno le diverse forme, se ne analizzerà il modo in cui esse funzionano, si stabilirà quali siano le singole conseguenze dell’una o dell’altra nella vita pratica, e poi vi si contrapporranno le altre forme non democratiche dell’organizzazione politica e si cercherà di giungere fino al punto in cui l’ascoltatore sia in grado di poter prendere posizione secondo i propri supremi ideali. Ma il vero maestro si guarderà bene dal sospingerlo, dall’alto della cattedra, a prendere un qualsiasi atteggiamento, sia esplicitamente sia con suggerimenti: giacché è il metodo più sleale, quello di «far parlare i fatti». In un paese, come il nostro, intossicato dall’ideologia – che chiede alla cattedra non di far conoscere il fascismo (o il comunismo) ma di inculcare l’odio per il fascismo (o per il comunismo) – sono parole di colore oscuro.

La seconda ragione sta nella “classicità” di Weber, nel sentimento tragico della vita che abbiamo oggi del tutto rimosso. Per noi, i “cattivi” sono ineliminabili ma è rassicurante che la nostra intelligenza – razionalista e universalista – sappia individuarli con certezza. Per Weber, invece, i valori sono spesso conflittuali e incompatibili. Come scriveva nel 1919 «Oggi riconosciamo che qualcosa può essere sacro non solo malgrado il fatto che non sia bello ma perché e in quanto non è bello (ne trovate le prove nel capitolo 53 d’Isaia e nel salmo 21); e che qualcosa può essere sacro non solo malgrado il fatto di non essere buono, ma proprio perché non lo è, così come c’informa di nuovo Nietzsche, e nel modo che voi già trovate illustrato nei Fiori del male, come Baudelaire chiamò la sua raccolta di poesie; ed appartiene al buon senso di tutti i giorni riconoscere che qualcosa può essere vero sebbene non sia ed anzi perché non è né bello né sacro né buono».

E’ un discorso non certo congeniale a un’epoca come la nostra in cui il “buono” cancella tutte le altre virtù antiche e moderne e la statua di Cristoforo Colombo viene fatta a pezzi.

Pubblicato su Il Dubbio del 20 giugno 2020




L’Italia e gli altri

L’epidemia nei paesi avanzati

1. A che punto sono gli altri paesi?

Continua a scendere il numero di morti in Italia, anche se ad un ritmo lento.
Se compariamo l’andamento della curva epidemica dell’Italia con quella di altri paesi avanzati la situazione è la seguente.
In soli 3 paesi, su un totale di 29, la curva del tasso di mortalità, a parità di anzianità epidemica, è sistematicamente più elevata (ovvero: più grave) di quella dell’Italia. Si tratta di Belgio, Regno Unito e Spagna.
I dati della Spagna devono però essere interpretati con cautela perché presentano interruzioni di serie dovute ad un ricalcolo della mortalità.
La Francia, che nel primo mese circa dell’epidemia aveva una curva epidemica simile a quella del nostro paese, ora presenta un tasso di mortalità inferiore.
Poco rassicuranti sono anche le curve di Svezia, Stati Uniti, Paesi Bassi, Irlanda, Svizzera e Canada, ma queste, sono sempre state sistematicamente più basse di quella dell’Italia.

Se poi si calcolano il numero dei nuovi decessi avvenuti in periodo di tempo medio-breve (variazioni tri-giornaliere), si vede come l’Italia abbia un profilo molto simile a quello di Regno Unito, Svezia e, nell’ultimo periodo, anche a quello di Stati Uniti e Belgio (e Francia).

Ci sono poi paesi come Finlandia, Islanda, Lussemburgo, Estonia e Slovenia dove da qualche giorno (in base ai dati aggiornati a domenica 21 giugno) non si registrano decessi.

Oggi in Italia si contano circa 280 nuovi decessi settimanali (in base ai dati aggiornati al 21 giugno). Un numero decisamente più basso di quello registrato durante il picco dell’emergenza sanitaria, ma tuttora più alto di quello toccato ad inizio epidemia.
Se consideriamo come soglia quella osservata nei primi giorni di marzo (circa 35 nuovi decessi settimanali, ovvero 0,06 casi per 100.000 abitanti), l’Italia dovrebbe fare ancora circa l’80% di strada per raggiungere un livello di mortalità simile.
Sotto questo punto di vista, ci sono però paesi che presentano una situazione più preoccupante di quella italiana come Spagna, Svezia, Regno Unito, Stati Uniti e Canada. Qui il numero di nuovi decessi settimanali supera l’1 su 100.000 abitanti (ad eccezione del Canada, che si attesta a 0.70, contro lo 0.48 dell’Italia). Per arrivare a registrare circa 0,06 nuovi decessi (come l’Italia ad inizio marzo) per 100.000 abitanti dovrebbero ridurre il tasso di mortalità di circa il 90%.

La maggior parte dei paesi è però molto più vicina alla meta rispetto al nostro paese. Ben 13 paesi (Ungheria, Israele, Grecia, Repubblica Ceca, Danimarca, Norvegia e Lituania, Estonia, Finlandia, Islanda, Lussemburgo, Slovacchia e Slovenia) l’hanno raggiunta o ne sono vicini.

2. Quanto è stata grave l’epidemia negli altri paesi?

Per rispondere a questa domanda conviene usare i dati della mortalità, perché sono i più comparabili fra paesi diversi (i dati del numero di contagiati risentono pesantemente della politica dei tamponi).
Occorre inoltre scegliere un periodo omogeneo, dal momento che l’epidemia è esplosa in tempi diversi nei vari paesi. Una scelta ragionevole, che consente di includere quasi tutti i paesi avanzati (Oecd e/o Unione europea), è di valutare la mortalità totale dopo il medesimo numero di giorni (60) dal momento dello scoppio dell’epidemia, convenzionalmente posto nel giorno in cui nel paese il numero totale di morti ha superato il livello di 1 morto ogni 100 mila abitanti (questa soglia corrisponde, in Italia, a 600 morti).

***

Nota tecnica
I dati utilizzati provengono dai database dalla Johns Hopkins University aggiornati al 21 giugno 2020.

I dati della Spagna devono essere interpretati cautela perché presentano interruzioni di serie: i primi giorni di giugno le autorità spagnole hanno sospeso l’aggiornamento delle serie per effettuare un ricalcolo della mortalità.

I paesi considerati sono tutti i paesi avanzati in cui il numero di decessi ha superato l’1 per 100.000 abitanti.

Per anzianità epidemica di un paese intendiamo il numero di giorni trascorsi dal momento in cui il numero di decessi ha superato l’1 per 100.000 abitanti.

 




Il termometro dell’epidemia (release 1.0)

Oggi (ultimo dato disponibile, ore 18.00 del 24 giugno) la temperatura dell’epidemia è pari a 2.7 gradi pseudo-Kelvin, in diminuzione di 0.3 gradi rispetto al giorno precedente.

Questo leggero miglioramento è dovuto essenzialmente al calo degli ingressi ospedalieri stimati. Più lieve è il ritmo di discesa dei decessi giornalieri e dei nuovi contagi.

La diminuzione settimanale della temperatura è di 2.1 gradi.

Va ricordato, come sempre, che l’andamento della temperatura non riflette quello dei contagi attuali, ma quello dei contagi avvenuti 2-3 settimane fa.

Per maggiori dettagli si rimanda alla nota tecnica