Il termometro dell’epidemia (release 1.0)

Oggi (ultimo dato disponibile, ore 18.00 dell’11 novembre) la temperatura dell’epidemia è salita di 4.7 gradi, passando da 205.3 a 210.0 gradi pseudo-Kelvin.

Alla base del peggioramento vi sono soprattutto due fattori: l’incremento dei nuovi contagi (+238 mila nell’ultima settimana; il tasso di positività è pari al 14.6%, in diminuzione rispetto a ieri) e l’aumento dei decessi (+3.2 mila negli ultimi sette giorni). Crescono in misura più contenuta gli ingressi ospedalieri stimati.

L’aumento settimanale della temperatura è pari a +41.9 gradi.

Va ricordato, come sempre, che l’andamento della temperatura non riflette quello dei contagi attuali, ma quello dei contagi avvenuti 2-3 settimane fa.

Per maggiori dettagli si rimanda alla Nota tecnica.




Il termometro dell’epidemia (release 1.0)

Oggi (ultimo dato disponibile, ore 18.00 del 10 novembre) la temperatura dell’epidemia ha oltrepassato soglia 200, e ciò significa che il flusso stimato dei nuovi contagi è il doppio di quello registrato nella settimana di picco osservato a fine marzo. Il termometro di oggi segna 205.3 gradi pseudo-Kelvin ed è in aumento di 6.5 gradi.

Questo risultato dipende da due fattori. Il peggioramento è dovuto in misura preponderante all’aumento dei nuovi contagi (+235 mila nell’ultima settimana; il tasso di positività è pari al 16,1%, in diminuzione rispetto a ieri) e in misura più moderata dalla crescita dei decessi (+2.900 negli ultimi sette giorni). Stabili gli ingressi ospedalieri stimati.

L’aumento settimanale della temperatura è pari a +42.5 gradi.

Va ricordato, come sempre, che l’andamento della temperatura non riflette quello dei contagi attuali, ma quello dei contagi avvenuti 2-3 settimane fa.

Per maggiori dettagli si rimanda alla Nota tecnica.




Non ci resta che il tampone

Ultimamente siamo tutti quanti presi da uno spasmodico, smodato e paradossale desiderio di tampone.

Non siamo diventati di colpo stupidi o masochisti: è che il tampone è l’unica cosa che ci resta, il solo desiderio che abbia, in questa desolazione, una qualche chance di essere esaudito. Nel nostro immaginario, è diventato la manna che scende nel deserto. Il salvagente lanciato al naufrago. L’oracolo che ci dà un responso. L’amico immaginario.

È anche, bisogna dirlo meno poeticamente, il nostro scarica-coscienza. Lo è stato soprattutto quando siamo tornati dalle vacanze e, dopo bagordi, discoteche, cene, aperitivi, feste affollate, molti di noi, quelli che si erano sfrenati di più, si sono precipitati a farsi un tampone: per togliersi il pensiero, e magari andare più sereni ad altre feste. Da settembre in poi il tampone è diventato l’acqua che lava via i peccati, il gesto che ci libera dai sensi di colpa. Tampone-lavacro, tampone-panacea.

Ma ora è di più: il tampone è l’unica cosa che il cittadino ha a disposizione (seppur con enormi difficoltà) per sapere almeno se si è preso il virus o no, in uno Stato che si nega, si nasconde, fa pasticci, confonde, non risolve, non appronta nulla, non ci difende, non ci protegge!

Dove il potere abdica, regna il tampone.

Con enormi difficoltà, però! Difficilissimo avere il dono di un tampone. L’oracolo di Delfi era di gran lunga più accessibile, meno affollato: forse più oscuro, ma sicuramente più disponibile. L’immagine più dolorosa, drammatica, devastante di questi giorni, quella che non mi tolgo dagli occhi, è la gente in coda nella notte, in auto o a piedi, dalle quattro di mattina. Gente che accompagna i suoi bambini, i suoi anziani, magari febbricitanti. Scene intollerabili che non dimenticheremo.

L’aspetto per me più stupefacente è la pazienza. L’infinita sopportazione, venata di rassegnazione. La gente intervistata nella notte, chiusa nella propria auto, non si lamenta, non protesta. Non lancia sassi, non divelle alberi, non incendia palazzi, dice soltanto: Eh sì, sono qui da 7 ore, dormo un po’, mi sono portato da leggere, aspetto, e spero di arrivare a farmelo, il tampone, che mi prendano ancora, che non chiudano, altrimenti dovrò tornare domani.

Come hanno potuto i nostri governanti assistere impassibili a questo supplizio senza vergognarsi? E come abbiamo potuto noi essere così pazienti, e indulgenti?

Ma il tampone è soprattutto ciò che “tampona” la ferita più grande, che sostituisce il Grande Assente, colui che ora più che mai ci manca: il nostro medico curante. La corsa ai tamponi è la risposta, patetica, alla latitanza dei nostri medici. Latitanza non colpevole, intendiamoci, non voluta, anch’essa in qualche modo imposta: il medico di base non può visitarci e non può curarci. Noi lo chiamiamo, gli elenchiamo i sintomi al telefono, e lui ci dice che né potremo noi andare da lui in ambulatorio, né potrà lui venire a visitare noi. Logico, correrebbe il rischio di infettarsi e di infettare tutti i pazienti successivi; si dovrebbe proteggere, ma non gli è stato fornito nessun mezzo di protezione. Quindi ci dice gentilmente di prendere una tachipirina e di aspettare; oppure, se ritiene che i sintomi siano chiari, trasmette una segnalazione alla ASL.

Cioè, ci abbandona! Il nostro medico amato, il medico che ci cura da trent’anni, che conosce ogni nostro minimo acciacco, che è corso al nostro capezzale a ogni nostra febbre o mal di pancia, ora non può che negarsi e abbandonarci: trasmette la segnalazione all’Asl! Aiuto, nulla potrebbe farci più orrore, nulla gettarci di più nello sconforto totale! Di colpo, al suono ASL, abbiamo la percezione netta del tritacarne burocratico in cui finiremo, noi e i nostri poveri sintomi, semplici nomi buttati nella rete, dispersi, maciullati… Di colpo ci sentiamo soli. Forse malati, e irrimediabilmente soli. Perduti nel vuoto.

Mi viene in mente Major Tom. La splendida e tragica canzone di David Bowie dove l’astronauta si perde nello spazio, vi ricordate? Ground Control to Major Tom… Can you hear me, Major Tom…? No, nessuno ci ascolta. La nostra astronave è rotta e non sa da che parte andare. Questa insensata corsa al tampone è il segno della confusione e solitudine in cui ci hanno lasciati. Noi andiamo dal tampone perché è l’unica entità esistente da cui andare! È “lui” il nostro nuovo medico. Un medico impalpabile e impotente, un medico che non ci cura e non si cura di noi. Ma almeno ci solleva l’anima per un po’, ci placa l’ansia.

C’è qualcosa di sinistramente assurdo in tutto ciò, qualcosa di (inconsapevolmente?) perverso e anche un po’ sadico. Possibile che, proprio in epoca di pandemia, la gente perda i suoi medici?

Per questo adesso siamo tutti idealmente dentro quelle auto in coda. Uniti, partecipi, addolorati, sconcertati: siamo lì in piena notte, pieni di freddo e ansia, preoccupati e confusi. In fila al buio per ore.

È l’abbandono, che più ci tormenta. L’essere lasciati in un mare immenso carico di nubi tempestose, senza nemmeno il miraggio di una barchetta, le luci di un elicottero che si avvicina, una corda che ci viene lanciata, una torcia, una coperta di lana…

La legge del mare impone di salvare i naufraghi. Quale legge salverà noi, naufraghi nel mare dell’inefficienza e della cieca, impietosa disorganizzazione?

Pubblicato su La Stampa del 27 ottobre 2020




COVID-19: prevenire e vigilare in famiglia

La pandemia ha mostrato che il diritto alla tutela della salute dipende dal rispetto di ciascuno per la salute di tutti e in concreto dai comportamenti individuali i cui effetti vengono amplificati dalla interazione con quelli degli altri. Forse mai come in tempi di pandemia diventa evidente che il benessere di ciascuno è al tempo stesso reso possibile e condizionato dalla cura di quello altrui.

Ci siamo così persuasi che l’obbligo della mascherina e del distanziamento fisico sono restrizioni delle libertà individuali necessarie, tanto più efficaci quando rappresentano autolimitazioni volontarie di responsabilità civile a tutela della salute di tutti.

La paura, l’angoscia ed il sospetto, d’altro canto, hanno mostrato quanto possa essere messa a dura prova la solidarietà familiare e intergenerazionale nel momento in cui la famiglia è indicata come il luogo a più alta densità di relazioni e dove maggiori sono i rischi di trasmissione del contagio.

Di fatto ciascun membro porta in famiglia tutti i rischi delle sue relazioni ed è inevitabile che questi vengano amplificati dalle maggiori vicinanza e condivisione della vita familiare. Si sta insieme, si usano le stesse stoviglie e gli stessi sanitari, si respira la stessa aria.

Soprattutto nella famiglia, mentre ciascun membro è un potenziale portatore e diffusore, interdipendenza e reciprocità possono divenire moltiplicatori e detonatori imprevedibili dei rischi e della malattia. Soprattutto nella famiglia, d’altro canto, è difficile osservare le precauzioni che si possono applicare all’esterno, come la mascherina, il distanziamento (come rispettarlo se si è in più di tre in una casa di 60 mq?) o lavarsi le mani (quante volte?).

Ma è proprio ineluttabile guardare alla famiglia come ad un potenziale focolaio, piuttosto che ritrovare in essa il focolare di accoglienza, attenzione e cura reciproca che si è sempre desiderato?

In realtà credo che la famiglia potrebbe e dovrebbe svolgere un ruolo centrale in qualsiasi strategia di prevenzione e controllo dei disagi da COVID-19.

La famiglia (quella ristretta), infatti, potrebbe rappresentare un presidio di protezione e di vigilanza se i suoi membri venissero aiutati ad avere una percezione corretta del rischio e a contrastare con maggiore efficacia il contagio.

Per questo mi parrebbe opportuno che ciascun membro, periodicamente e in alternanza con gli altri membri del suo stesso nucleo famigliare, si sottoponesse ad un test/tampone in grado di escluderne la positività. Se ne ho capito le proprietà credo che sarebbe sufficiente un test antigenico. Se in una famiglia di quattro membri ciascun membro si sottoponesse al test una volta al mese, cosi che venisse fatto un tampone a settimana per nucleo famigliare, la famiglia potrebbe disporre di un sistema-sentinella di vigilanza non del tutto sicuro, ma comunque tale da assicurare un tempestivo intervento nel caso di esito al test positivo. Non disporremmo di una diagnosi ottimale, ma moltiplicata per il numero dei membri della famiglia, sufficientemente buona per estendere il test e alzare la guardia.

Il quadro che prospetto, evidentemente, è del tutto ipotetico e sarebbe raccomandabile se fossimo in grado di stimare:

a) in quale grado la diagnosi di positività a livello individuale è un indicatore della vulnerabilità del nucleo familiare e quindi della probabilità di estensione del contagio agli altri membri;

b) i tempi e la rapidità della trasmissione familiare e quindi i periodi di maggior rischio di contagio e gli intervalli ottimali per l’esecuzione dei test.

Il costo del test “rapido” in laboratori privati sarebbe oggi di 88 euro (22 x 4). Non poco per tutti e inaccessibile per molti. Se si impegnasse un maggior numero di laboratori di analisi privati i costi potrebbero essere molto più economici e la platea di fruitori molto più ampia.

I vantaggi potrebbero essere notevoli in termini di: prevenzione, educazione della cittadinanza alla tutela della salute, tempestività della diagnosi, alleggerimento della pressione diagnostica sulle strutture ospedaliere.

L’efficacia della diagnostica familiare potrebbe avere un valore aggiunto sul piano preventivo ed epidemiologico se i casi accertati di positività col test antigenico venissero tempestivamente sottoposti a convalida con tampone molecolare. Permetterebbe inoltre di approfondire le nostre conoscenze sulla trasmissione del virus a livello familiare da e tra soggetti sintomatici e asintomatici, più o meno vulnerabili e tra generazioni.

Non si dovrebbero tuttavia sottovalutare i rischi di esiti imprevisti ed indesiderabili.

È verosimile che la diagnostica familiare porterebbe alla luce prima e in misura maggiore casi (asintomatici) che resterebbero altrimenti sconosciuti. Sarebbe perciò necessario assicurare che, dove venisse diagnosticato un caso positivo, anche tutti gli altri membri dello stesso nucleo familiare venissero tempestivamente sottoposti a tampone e quindi messi nella condizione di evitare di contagiare altri senza saperlo.

Verosimilmente ne risulterebbe un sostanziale incremento della richiesta di tamponi molecolari che potrebbe rappresentare un ulteriore stress per sistemi sanitari non preparati e già gravemente provati.

Poiché sarebbe disastroso se le attese delle famiglie non venissero prontamente corrisposte, nuovamente si riproporrebbe il dilemma se dire e fare o piuttosto non dire e non fare sperando in bene.

Fatti i debiti calcoli (vedi sopra a, b) ritengo che sia sempre meglio affrontare i rischi che la conoscenza dei fatti comporta.

Sono infine convinto che un cambiamento di prospettiva sia necessario per quanto concerne i destinatari della comunicazione e gli attori delle strategie di prevenzione e intervento. La famiglia, come e al di là dei singoli individui, potrebbe e dovrebbe assumere un ruolo centrale.




Il termometro dell’epidemia (release 1.0)

Oggi (ultimo dato disponibile, ore 18.00 del 9 novembre) la temperatura dell’epidemia è salita di circa 4 gradi, passando da 194.6 a 198.8 gradi pseudo-Kelvin.

Questo peggioramento è il risultato della stessa dinamica osservata ieri: la crescita dei nuovi contagi (+228 mila nell’ultima settimana; il tasso di positività è pari al 17,1%, stabile rispetto a ieri) e degli ingressi ospedalieri stimati (+8.623 negli ultimi sette giorni) sono i due fattori principali alla base dell’aumento della temperatura. Più contenuto il contributo dei decessi (+2.691 nell’ultima settimana).

L’aumento settimanale della temperatura è pari a +42.6 gradi.

Va ricordato, come sempre, che l’andamento della temperatura non riflette quello dei contagi attuali, ma quello dei contagi avvenuti 2-3 settimane fa.

Per maggiori dettagli si rimanda alla Nota tecnica.