Nelle ultime settimane dell’estate si tiene a Camogli il Festival della comunicazione, ideato da Umberto Eco e da Danco Singer. Una Valle di Giosafatte in cui ci sono tutti: scrittori, saggisti, attori, registi, giornalisti storici, psicologi, sociologi, letterati etc. etc. Non tutti, per la verità, ma quasi tutti giacché una conventio ad excludendum ne tiene fuori quanti non fanno parte del mainstream culturale – diciamo, brutalmente intellettuali vicini al o non lontani dal centrodestra. Non è casuale, del resto, che a ridosso del Festival, “Repubblica” – diretta dal liberale Maurizio Molinari – abbia distribuito, nei giorni 15 e 16 settembre due scritti di Umberto Eco, Il fascismo eterno e Migrazioni e intolleranza.
Eco è stato un benemerito degli studi semiologici in Italia, ha scritto diversi romanzi (“Il nome della rosa”, “Il pendolo di Foucault” etc.) per la verità di faticosa lettura e, soprattutto, ha coltivato il genere parodistico talora in maniera geniale. (Fu lui a far ripubblicare da Bompiani l’Antologia apocrifa di Paolo Vita-Finzi).
Le bustine di Minerva sono, sia pure per palati raffinati, una lettura divertentissima degna dei grandi umoristi della letteratura italiana. Sennonché il filosofo alessandrino – che aveva una solida formazione medievistica e una non comune competenza di storia dell’estetica – decise, a un certo punto, di diventare il maître-à-penser di un paese ormai incamminato sulla via della secolarizzazione e che del marxismo aveva rimosso i fondamenti teorici portanti ma non la rivolta contro il capitalismo e la società di mercato. Forse la vera anima del sessantottismo totalitario fu proprio Eco, con la sua dissacrazione della società borghese e della sua etica repressiva. A questo punto, però, ci si chiede: come mai della sua vasta e importante produzione intellettuale si sono scelti proprio i due discutibili volumetti sul fascismo e sull’intolleranza? La spiegazione sta nel fatto che ormai in Italia, per citare Max Weber, le parole che si pronunciano nei Festival culturali, «non sono un vomere per fecondare il terreno del pensiero contemplativo, bensì spade contro gli avversari, strumenti di lotta», sono una politica fatta con altri mezzi. Si sarebbe tentati di dire: una patetica chiamata a raccolta di un ceto intellettuale che, incontrandosi e contandosi, si compiace di essere così numeroso ed esorcizza il fantasma di un popolo che elettoralmente ha voltato le spalle alla sinistra.
L’Eco maître-à-penser rivela tutta la sua formazione cattolica: nel mondo si svolge l’eterna lotta delle forze del Bene contro quelle del Male e compito del filosofo è quello di mettere in guardia dalla lezione pluralistica di Isaiah Berlin per il quale «le peggiori catastrofi della storia nascono da contrasti tra principi buoni», come giustizia e libertà, tra valor militare e aspirazione alla pace, tra nazione e umanità.
Non meraviglia, quindi, che il fascismo diventi una sorta di Arimane che attraversa i secoli. Nella sua “brillante paranoia” – come Alfonso Berardinelli definì Il fascismo eterno – Eco lo associava a una serie di brutture (tradizionalismo, antimodernismo, culto dell’azione, criminalizzazione del disaccordo e del pacifismo, paura della differenza, appello alle classi medie frustrate, tribalismo, complottismo, invidia sociale, elitismo, militarismo, machismo, populismo qualitativo, neolingua) con le quali dovremo sempre cimentarci. Si tratta di caratteristiche presenti in molti regimi totalitari ma generosamente assegnate al solo Ur-Faschismus.
Se nichilismo significa cancellazione di un momento imprescindibile dell’umano, Eco, innegabilmente, aveva un coté nichilistico: la “comunità” (tradizione, patria, etnia, famiglia etc.) era per lui un disvalore assoluto, il cilindro da cui Satana faceva uscire i cavalieri dell’Apocalisse. In Migrazioni e tolleranza, profetizzava, non senza un sottile compiacimento, che «nel prossimo millennio l’Europa sarà un continente multirazziale o, se preferite, “colorato”. Se vi piace, sarà così; e se non vi piace, sarà così lo stesso». «L’Europa sarà come New York o come alcuni paesi dell’America latina». Diventeremo quindi una società di meticci! E sia pure ma che c’azzecca l’esempio della civiltà romana, razzialmente meticcia ma con un senso così forte dell’identità culturale e istituzionale da trovare l’ultimo cantore in Rutilio Namaziano, un gallo narbonese. «Signora, disse Fustel de Coulanges all’imperatrice Eugenia, sua allieva— noi siamo di razza celtica ma di cultura romana». Sarebbe assai difficile trovare tale orgoglio nei Black Lives Matter o nelle altre etnie che rendono le società multiculturali latino-americane (e ora anche gli Stati Uniti) così instabili e conflittuali.
Lo stesso Eco, è vero, riconosce (retoricamente) che la “tolleranza aperta” è cosa buona ma «dobbiamo nello stesso tempo riconoscere che ci sono abitudini, idee, comportamenti che sono e devono restare per noi intollerabili». Ma chi, poi, in una democrazia che si rispetti, deve stabilire cosa è da conservare se non i cittadini che non si affidano alla sofocrazia ovvero ai preti, ai dotti, agli scienziati, ma valutano l’accettabile e il non accettabile in base alle loro esigenze e al loro ideale di “vita buona”?
Per Eco, i populisti non hanno idee ma solo «pulsioni selvagge»: l’”altro” quindi non è un avversario politico ma un agente patogeno.
Non ci resta che un commento malinconico: eterno non è il fascismo ma il manicheismo, il vero, grande, nemico della civiltà liberale. Nelle scuole di una volta si insegnava che la validità di un’analisi storica, politica, sociologica si mostra in ciò che concede all’avversario: se a quest’ultimo non si riconosce nessun valore, nessuna istanza iscritta nell’umano, nessuna “ragione”, vuol dire che non abbiamo a che fare con la ricerca della verità ma con l’invettiva lanciata dal pulpito. Dal chierico traditore… anche lui “eterno”.
Pubblicato su Il Dubbio del 19 settembre 2020