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Società

Estrema destra?

7 Maggio 2025 - di Luca Ricolfi

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L’ufficio tedesco per la protezione della Costituzione, alla fine di un’indagine durata ben quattro anni, ha stabilito che Alternative für Deutschland (AfD), primo partito tedesco (alla pari con la CDU/CSU secondo gli ultimi sondaggi), è un’organizzazione “di estrema destra acclarata” e non è “compatibile con l’ordinamento liberale e democratico” della Germania. La decisione, potenzialmente, apre la strada a decisioni drastiche, come la sospensione dei finanziamenti pubblici e lo scioglimento. Intanto autorizza i servizi segreti a infiltrare l’AfD per indagarne il funzionamento interno e scoprirne eventuali piani eversivi.

Non è la prima volta che, in Germania, si tenta di eliminare dalla competizione un partito considerato di estrema destra. Per l’esattezza, è la quarta volta. Nel 2001 e nel 2013 il tentativo fallì perché la Corte Costituzionale, pur ravvisando le ascendenze neonaziste del partito NPD, non ravvisò il concreto pericolo di un sovvertimento dell’ordine costituzionale da parte del partito incriminato. Nel 2024, grazie a una modifica costituzionale introdotta proprio per rendere sanzionabili i partiti giudicati anti-democratici, al partito di estrema destra Die Heimat (La Patria), erede dello NPD, è stato tolto il finanziamento pubblico per 6 anni. Il tentativo, a questo punto, è di ripetere l’operazione con la AfD, che con il suo 20-25% di consensi è giudicato molto più temibile di un partitino come NPD o come Die Heimat.

Ma la Germania non è l’unico paese europeo in cui si cerca di eliminare una formazione politica dalla competizione elettorale. La stessa cosa è successa pochi mesi fa con la dichiarazione di ineleggibilità di Marine Le Pen, a capo del maggiore partito francese (il Rassemblement National) e candidata favorita per la presidenza della Repubblica. E sulla medesima lunghezza d’onda si sono mosse la Corte Costituzionale della Romania, che per neutralizzare Georgescu, considerato troppo di destra e troppo antieuropeo, è arrivata ad annullare il risultato elettorale (giudicato falsato da interferenze straniere).

Apparentemente, tutti questi atti sono volti a preservare la democrazia, minacciata dalla destra anti-europea. Ma basta rivolgere lo sguardo appena più in là, in uno stato a cavallo fra Asia e Europa come la Turchia, per scoprire che il medesimo metodo viene usato non per proteggere la democrazia ma, tutto al contrario, per impedirne l’affermazione: è il caso dell’arresto preventivo di Ekrem İmamoğlu, sindaco di Istanbul e principale avversario di Erdoğan alle prossime elezioni presidenziali.

Di tutti questi casi, però, forse il più interessante è proprio quello tedesco. Qui, infatti, accade una cosa abbastanza sorprendente. Da un lato, quasi la metà dei tedeschi è a favore dello scioglimento dell’AfD, primo partito del paese, in quanto lo giudica di estrema destra. Dall’altro, i sondaggi rivelano che la stragrande maggioranza degli elettori di tale partito, giudicato (dagli altri) “di estrema destra”, non si considera affatto tale, ma si sente di centro o di destra.

Di qui un paradosso: in un mondo in cui la gente esige di essere giudicata, classificata e percepita sulla base del proprio sentiment, il diritto di autodefinirsi viene negato agli elettori del partito che riscuote i maggiori consensi.

Ma forse non è semplicemente un paradosso. Dietro l’uso dell’etichetta estrema destra, o far-right, si nasconde l’incapacità – non solo dei media, ma degli stessi scienziati politici – di concettualizzare e nominare un cluster di credenze che sono intrinsecamente non riducibili a un posizionamento sull’asse destra-sinistra: ostilità all’immigrazione irregolare, scetticismo sulla transizione green, rifiuto del follemente corretto, sfiducia nell’Europa, pacifismo anti-interventista. Tutte idee che, considerate nel loro complesso, non sono né di destra né di sinistra, tanto è vero che – in Germania – accomunano partiti etichettati di estrema destra (AfD) e partiti etichettati di estrema sinistra (BSW).

È con questo cluster di idee, non con la “marea nera” neo-nazista montante in Europa, che bisognerà prima o poi fare i conti.

[articolo uscito sulla Ragione il 6 maggio 2025]

Un papa bifronte

2 Maggio 2025 - di Luca Ricolfi

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C’è qualcosa che non torna nella ricostruzione del dodicennio di papa Francesco. Una lettura filologicamente attenta non può che restituirci l’immagine di un papa bifronte.

Durante il suo papato, in innumerevoli circostanze non ha esitato a condannare il capitalismo (visto come sopraffazione dei ricchi sui più poveri) e a difendere il diritto dei migranti ad essere accolti nei paesi di arrivo. Meno frequenti, ma altrettanto nette, sono state le prese di posizione contro l’aborto, contro il controllo delle nascite, contro le rivendicazioni LGBT+ nella chiesa e fuori della chiesa. In materia di diritti civili papa Bergoglio è stato un Pontefice decisamente conservatore, se non reazionario.

Anche sul piano della gestione della Chiesa, il bilancio è tutt’altro che univoco. Come ha scritto giustamente Luca Zorloni su Wired, papa Bergoglio “non ha riformato la Chiesa dalle fondamenta come prometteva e non ha saputo combattere le battaglie contro gli abusi e gli sprechi, se non a parole”. Progressista nelle intenzioni, Francesco si è rivelato lento, se non immobilista, in materia di funzionamento della macchina ecclesiastica. Il sogno di una “Chiesa povera”, depurata dagli scandali finanziari e ripulita dai preti pedofili è rimasto lettera morta.

Naturalmente non vi è nulla di intrinsecamente contraddittorio nell’essere progressista sul piano economico-sociale e reazionario in materia di matrimoni gay e “diritti riproduttivi”. Si può benissimo essere l’uno e l’altro. In Italia abbiamo avuto un precedente illustre, quello di Pier Poalo Pasolini, che – proprio come Bergoglio – era comunista-pauperista da un lato e anti-abortista dall’altro.

La questione interessante è un’altra: come mai, nonostante questa intrinseca ambivalenza, papa Bergoglio viene quasi universalmente dipinto come pontefice progressista? E questo, notiamo bene, non da oggi, nel clima di commozione per la sua morte, ma fin dall’inizio del suo pontificato? Come mai, a dispetto delle sue posizioni tradizionaliste in tema di famiglia, matrimonio, sessualità, diritti delle minoranze sessuali, l’immagine di Francesco è sempre stata – e rimane più che mai – quella di un pontefice progressista, se non rivoluzionario?

La risposta a queste domande, a mio parere, è che il suo pontificato si è retto su un patto non dichiarato – ma solidissimo forse proprio perché non dichiarato – fra la sua persona e il sistema dei media. Papa Francesco ha capito fin da subito che la sua popolarità aveva tutto da guadagnare dal suo impegno a favore dei poveri e dei migranti, e tutto da perdere dai suoi severi richiami a un’etica sessuale meno spregiudicata e individualista. I media, a loro volta, hanno capito che la costruzione dell’immagine progressista, avanzata e innovatrice del nuovo papa richiedeva di amputarne i posizionamenti più retrogradi o – ancor meglio – di trasformarli in gesti di riconoscimento mediante operazioni più o meno sofisticate di decontestualizzazione e manipolazione. Penso, ad esempio, al sistematico fraintendimento della lettera (e cancellazione del contesto) della frase “chi sono io per giudicare?”, o dei gesti di tolleranza nei confronti delle coppie gay; al velo pietoso sulle invettive contro l’aborto e i medici che lo praticano (che Francesco considerava nientemeno che “sicari”); ai resoconti giornalistici benevoli sulla lotta contro i preti pedofili, ben meno incisiva di come è spesso stata tratteggiata.

Ma, sia ben chiaro, non si è trattato in alcun modo di un’opera di deformazione del “vero” messaggio di Francesco. In questi anni papa Bergoglio e i media dominanti sono stati perlopiù in perfetta sintonia. Il fraintendimento parziale dei propri messaggi è stato quasi sempre assecondato dal Pontefice, che evidentemente ne comprendeva il potenziale di legittimazione della propria figura di paladino degli ultimi: altrimenti avremmo assistito a continue smentite, precisazioni, e soprattutto a ben più frequenti (e chiari) interventi riguardo alla morale sessuale e familiare. La realtà è che papa Bergoglio considerava il suo messaggio verso gli ultimi (poveri, migranti, emarginati, “scarti” della società) infinitamente più importante di qualsiasi esortazione in materia di comportamenti sessuali, ambito nel quale raramente è andato oltre il “minimo sindacale” per un capo della Chiesa Cattolica.

La controprova? Tutti, in occasione dell’incontro con il vicepresidente statunitense J.D. Vance, hanno giustamente notato il contrasto fra fede cattolica e crudeltà delle politiche verso i migranti. Ma non si ha notizia di analoghe riflessioni in occasione dell’incontro fra papa Bergoglio e Emma Bonino, come se le posizioni (e le azioni) di quest’ultima in materia di aborto non esistessero e non fossero mai esistite. Un segno difficilmente fraintendibile di che cosa Francesco considerasse importante e che cosa invece no.

[articolo uscito sulla Ragione il 29 aprile 2025]

Il Papa anti-occidentale

28 Aprile 2025 - di Luca Ricolfi

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Chi è stato Papa Francesco? La domanda si è imposta in questi giorni nelle riflessioni di tutti, ma ben pochi hanno resistito alla tentazione di scambiare la parte per il tutto. Era inevitabile: per descrivere il Pontefice scomparso come fonte di ispirazione, è giocoforza amputare porzioni significative del suo pontificato. Certo tutti abbiamo notato, e in molti apprezzato, la sua informalità, quel suo parlare e interagire in modo semplice, deponendo o celando i simboli del potere e della Grazia: quel suo “buonasera” inaugurale, quelle espressioni familiari o di senso comune nei discorsi, quei gesti di rinuncia al lusso in materia di spostamenti (utilitaria) e di residenza (Santa Marta). Ma al di là di questo, resta il fatto che nessuno – proprio nessuno – fra gli attori grandi e piccini della politica può plausibilmente rivendicarne l’eredità. E se qualcuno cionondimeno ci prova, è a prezzo di clamorose omissioni.

La destra, tutta la destra, è costretta a omettere le ripetute prese di posizione di Francesco a favore dei migranti, di tutti i migranti, regolari e irregolari, sospinti non solo dalle persecuzioni e dalle guerre ma dal legittimo desiderio di sfuggire alla povertà. La sinistra, tutta la sinistra, è costretta a omettere le chiare prese di posizione contro l’aborto e i medici che lo praticano, bollati come “sicari”; a dimenticare le critiche alla cosiddetta teoria gender, definita “il pericolo più brutto”; a sorvolare sulla demonizzazione dei contraccettivi, paragonati alle armi che uccidono.

Quanto alla cultura laica e liberale, che vede nel capitalismo uno strumento di uscita dalla miseria e di emancipazione dalle costrizioni del passato, è costretta a dimenticare le severe parole del Papa: “Il problema del nostro mondo (…) sono l’egoismo, il consumismo e l’individualismo, che rendono le persone sazie, sole e infelici”.

Questo vuol dire che la visione del mondo di Bergoglio era eclettica, confusa o contradditoria?

Non direi. Certo, agli occhi di qualsiasi scienziato sociale non accecato dall’ideologia le idee di Bergoglio in materia di economia appaiono quantomeno ingenue (l’economia non è un gioco a somma zero), quelle in materia demografica appaiono potenzialmente catastrofiche (in tanti paesi è precisamente l’assenza di controllo demografico che provoca miseria e morti premature). Ma se dal prosaico mondo delle scienze sociali ci volgiamo al fantasioso mondo delle ideologie, quelle idee non sono poi così strane o incoerenti. Perché un’idea unitaria, un pensiero di base, o se preferite un’ossessione di fondo, nel pensiero del Papa scomparso esiste eccome. E ha pure un nome: si chiama anti-occidentalismo. Nelle esternazioni di Bergoglio sono confluiti un po’ tutti i motivi della critica alla civiltà occidentale: condanna del colonialismo (il “singhiozzo dell’uomo bianco”, per dirla con Pascal Bruckner), critica dell’economia capitalistica (“l’economia che uccide”), riserve sulle politiche dell’Alleanza Atlantica, deplorazione del consumismo, difesa della famiglia tradizionale, attacco all’aborto e al controllo delle nascite, presa di distanza dalla cultura woke. L’unico elemento non criticato, e in parte ascrivibile alla cultura occidentale (almeno fino a ieri), è stata l’apertura delle frontiere ai migranti, un tipo di politica che Papa Bergoglio, come molti capitalisti in cerca di manodopera a basso costo, giudicava insufficiente.

Possiamo concludere che la cifra del pontificato di papa Francesco è stato il ripudio dei valori della società occidentale?

Sì e no. Sì, perché quello dell’anti-occidentalismo pare l’unico denominatore comune delle sue esternazioni. No, perché in realtà, dopo i rivolgimenti degli ultimi anni, non sappiamo più che cosa siano i valori dell’occidente. Le guerre in Ucraina e in Palestina hanno fatto riemergere in tutta la sua forza il fiume carsico dell’anti-occidentalismo dentro l’occidente stesso. L’ascesa e il declino dell’ideologia woke, il capovolgimento delle politiche di accoglienza in politiche di espulsione, le accuse all’Europa di avere tradito i valori occidentali, la guerra dei dazi, le divergenze su come porre fine alle guerre in Ucraina e a Gaza, hanno riproposto in termini drammatici l’interrogativo: chi siamo, noi occidentali?

Forse, più che affannarci a rivendicare improbabili sintonie con il pensiero del Papa scomparso, personaggio unico e difficilmente ripetibile, dovremmo provare a interrogarci su noi stessi.

[articolo uscito sul Messaggero il 26 aprile 2025]

La Suprema Corte di Londra come Gertrude Stein – Una donna è una donna è una donna è una donna

23 Aprile 2025 - di Luca Ricolfi

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Raramente mi è capitato di assistere a tanti e tali contorsionismi logico-filosofici-linguistici quanti ne ho incontrati in questi giorni a proposito della sentenza della Corte Suprema Britannica che ha stabilito che donna è chi è biologicamente tale. Estrarre una argomentazione razionale da tanto furore ideologico è molto arduo, ma ci provo lo stesso: sfrondato dai voli pindarici, il nucleo del discorso è che anche il sesso biologico è un costrutto culturale (idea copiata a Judith Butler), e comunque ogni persona avrebbe sia tratti maschili sia tratti femminili.

Questo genere di osservazioni, sfortunatamente, eludono la vera questione. Che non è affatto che cosa dobbiamo intendere con il termine ‘donna’, una questione cui –ovviamente – si possono fornire infinite risposte diverse, tutte almeno in parte arbitrarie. La vera questione è un’altra. La vera questione è di natura giuridico-sociologica. E può essere messa così: posto che in tutte le società occidentali esistono spazi e prerogative riservate alle donne, e quasi nessuno ne mette in discussione la legittimità e l’opportunità, dobbiamo continuare a riservare tali spazi e prerogative alle donne biologicamente tali, o dobbiamo estenderne l’accesso ai maschi biologici transitati a donne, o autopercepiti come tali?

Questa è la questione. Una questione molto pratica e concreta che riguarda, ad esempio: bagni, spogliatoi, gare sportive, reparti ospedalieri, centri anti-violenza, sezioni delle carceri, quote rosa, esenzione dal servizio militare, età della pensione, per non parlare delle numerose norme a tutela delle donne in materia di assunzione, condizioni di lavoro, interazione con le forze dell’ordine (perquisizioni).

Dire che i concetti di uomo e donna sono sfumati, perché sono astrazioni sotto le quali sta l’infinita varietà del mondo, non risolve minimamente la questione di che cosa ne facciamo del pacchetto di prerogative attualmente riservate alle donne. La definizione giuridica di donna serve a risolvere in modo chiaro e univoco una questione che non può essere lasciata in sospeso. E chi pretende di adottare una definizione diversa (includendo le donne trans) ha l’onere di dimostrare che i problemi che deriverebbero dalla nuova definizione sarebbero meno gravi di quelli che derivano dalla definizione tradizionale, che la Suprema Corte Britannica ha ribadito.

Sotto il profilo giuridico-sociologico la binarietà (o sei donna o non lo sei) è inevitabile, perché riflette il problema di individuare le condizioni di accesso (sì o no) a un insieme di prerogative, non certo la pretesa di stabilire il significato di un termine, che ognuno – come già succede – continuerà a usare come vuole.

Ma perché siamo precipitati in un simile stato di confusione?

Fondamentalmente per due motivi distinti. Il primo è che in diversi paesi la difesa dei diritti trans è andata ben oltre le conquiste originarie, ovvero la possibilità di cambiare il genere sulla carta di identità in seguito a un’operazione chirurgica o comunque alla fine di un percorso giudiziario. Il cosiddetto self-id, vigente in Spagna da un paio di anni (Ley Trans) e in Germania dal novembre scorso, sancisce il diritto di cambiare genere (anche più di una volta, nel caso tedesco) con un semplice passaggio all’anagrafe. Di qui la possibilità di usare tale diritto in modo opportunistico (ad esempio per sfruttare le quote rosa, o evitare il servizio militare), o pericoloso per le donne-donne (reparti femminili delle carceri), o semplicemente iniquo (accesso alle gare femminili).

Il secondo motivo che ci ha portati alla babele attuale è una credenza errata, ma più volte ribadita dall’attivismo trans e dalle cosiddette transfemministe: ovvero che l’estensione dei diritti non abbia costi, non discrimini, e non tolga nulla a nessuno. È vero esattamente il contrario. A differenza di conquiste come il diritto di voto o il diritto al divorzio, la maggior parte delle rivendicazioni trans o hanno un costo per la collettività (benefici economici), o mettono a repentaglio la sicurezza delle donne (spazi nelle carceri), o tolgono possibilità alle donne (quote rosa, gare sportive).

La soddisfazione delle femministe gender-critical, che hanno festeggiato la sentenza della Suprema Corte Britannica, è più che comprensibile.

[articolo uscito sulla Ragione il 22 aprile 2025]

A proposito delle ingerenze di Trump – Harvard e la libertà accademica

22 Aprile 2025 - di Luca Ricolfi

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Antefatto. L’università di Harvard, una delle più prestigiose del mondo, è un ente privato che, per il proprio funzionamento, usufruisce di cospicui finanziamenti pubblici. Una settimana fa l’amministrazione Trump ha inviato ai vertici dell’università una lettera in cui ricorda che ricevere il finanziamento pubblico non è un diritto, e che d’ora in poi i fondi federali continueranno ad essere erogati solo a determinate condizioni. Alcune di tali condizioni sono sicuramente discutibili, ad esempio la richiesta di non ammettere studenti “ostili ai valori e alle istituzioni americane” (che cosa sono i valori americani?). Altre sono ragionevoli ma difficili da applicare, come la richiesta di combattere le discriminazioni contro gli studenti ebrei o israeliani, o evitare vessazioni anti-semite e programmi ideologizzati.

Ma le condizioni più interessanti sono quelle che appaiono decisamente ovvie o scontate. Due su tutte. Primo, Harvard dovrà abbandonare politiche di reclutamento che discriminano in base a “razza, colore della pelle, religione, sesso, origine nazionale”. Secondo, Harvard dovrà rinunciare alle politiche di ammissione (degli studenti) e di assunzione (dei docenti) che discriminano sulla base dell’orientamento politico-ideologico, e dovrà cercare di promuovere il pluralismo delle idee (viewpoint diversity).

E’ curioso che, anziché apprezzare gli intenti egualitari e anti-discriminazione delle raccomandazioni di Trump, la maggior parte dei media italiani abbia interpretato tali raccomandazioni come un attacco “senza precedenti” alla libertà accademica, un’intromissione indebita della politica nel mondo della cultura, una prepotenza rispetto a cui Harvard e le altre università minacciate da Trump avevano non solo il diritto ma il dovere di opporre “resistenza” (termine evocativo della lotta al nazi-fascismo).

Come mai questa reazione della maggior parte dei nostri media?

Credo che la risposta sia che pochi conoscono la vera storia delle università americane, e in particolare di quel che è capitato dal 2013 in poi, ossia da quando la cultura woke e l’ossessione per il politicamente corretto si sono saldamente installate nei campus e nelle redazioni dei giornali.

Difficile riassumere, nello spazio di un articolo, quel che è successo nel corso di un decennio, ma ci provo lo stesso elencando alcuni dei cambiamenti (o delle radicalizzazioni) che più hanno messo a soqquadro la vita universitaria.

Uno. I criteri di reclutamento di studenti e professori sono diventati sempre più politici e meno meritocratici, con l’adozione di politiche esplicitamente discriminatorie verso bianchi, maschi, eterosessuali, studenti conservatori o non impegnati.

Due. Sono stati aperti appositi sportelli (BRT, o Bias Response Teams) per permettere non solo la denuncia (sacrosanta) di abusi, violenze, intimidazioni, ma anche quella di qualsiasi violazione dei codici woke in materia di linguaggio o espressione delle proprie idee e sentimenti. Qualsiasi situazione fonte di disagio per qualcuno è stata ricodificata come micro-aggressione, con conseguente instaurazione di un clima di paura e di autocensura (chilling effect). Il numero delle prescrizioni e dei divieti del galateo woke è enormemente cresciuto, non solo nelle università ma più in generale nei media, nella vita sociale e nel mondo del lavoro.

Tre. Si sono diffuse e ampliate le pratiche volte a togliere la parola agli studiosi considerati politicamente scorretti o portatori di idee non gradite all’establishment progressista, con campagne di delegittimazione o boicottaggio, con pressioni a non concedere la parola a determinati relatori (deplatforming), con cancellazioni di inviti  (disinvitation), con azioni collettive volte a impedire materialmente di parlare a ospiti sgraditi per le loro opinioni.

Quattro. Si sono moltiplicati i tentativi (per lo più riusciti) di ottenere licenziamenti e sanzioni nei confronti di professori per le idee che avevano espresso. Greg Lukianoff, presidente della Fondazione FIRE, che si occupa di difendere i diritti individuali e la libertà di espressione, ne ha contati centinaia in pochi anni, e ha osservato – a partire dal 2015 – un ritmo di crescita superiore al 30% all’anno.

Tutto questo fin dai primi anni ’10, ben prima dell’inasprirsi della situazione con le proteste studentesche seguite all’intervento israeliano a Gaza.

Morale. Può darsi che l’intervento di Trump, alla fine, non riesca a ristabilire la libertà accademica, che per definizione richiede l’astensione della politica. Ma quel che è certo è che nel decennio precedente la libertà accademica era stata distrutta dall’attivismo woke, che aveva reso irrespirabile la vita nei campus. L’intervento di Trump, sicuramente ruvido e sgradevole nei modi, è stato dettato dalla necessità di ristabilire la libertà accademica, non certo di sopprimerla. La domanda quindi non è “riuscirà Harvard a resistere alle ingerenze di Trump?”, bensì: riuscirà Harvard a tornare un’università normale, in cui chiunque possa sentirsi libero di esprimere il suo pensiero, anche se contrasta con l’ortodossia woke?

[articolo uscito sul Messaggero il 20 aprile 2025]

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