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Società

Sui nuovi dati del Ministero dell’Interno – Criminalità e immigrazione irregolare

18 Dicembre 2024 - di Luca Ricolfi

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Stanno suscitando un discreto sconcerto i dati sulla criminalità che, da alcuni giorni, filtrano dal Ministero dell’Interno. Da essi, infatti, si deduce che la percentuale di reati presumibilmente commessi (persone denunciate o arrestate) da stranieri irregolari (circa il 28%), è enormemente superiore al peso degli irregolari stessi (meno dell’1% della popolazione presente in Italia). Ancora più sconcerto suscitano i dati su uno dei reati più odiosi, ossia le violenze sessuali: nei primi 9 mesi del 2024 quasi la metà (il 44%) sono state perpetrate da stranieri (regolari e non), che costituiscono appena il 10% della popolazione. E ancora più preoccupanti appaiono i dati delle violenze sessuali commesse da giovani, che vedono un’incidenza degli stranieri che sfiora il 60%, circa 6 volte il loro peso sulla popolazione.

Ci vorrà tempo e pazienza per ponderare bene questi dati, confrontandoli con quelli rilasciati in passato, anche per capire se la pericolosità relativa degli stranieri irregolari è aumentata o diminuita nel tempo (a una prima analisi pare aumentata).

Quello che per ora i dati ministeriali sembrano suggerire sono almeno due cose. Primo, la pericolosità relativa degli stranieri irregolari è circa 50 volte superiore a quella dei cittadini comunitari (italiani e stranieri). Secondo, quasi un terzo dei posti occupati in carcere è imputabile a cittadini stranieri, in buona parte irregolari (con i
dati disponibili, la percentuale esatta può solo essere stimata). Si può tranquillamente affermare che senza questi detenuti non vi sarebbe alcun sovraffollamento carcerario, anche se – ovviamente – resterebbero i gravissimi problemi di degrado, trattamenti
disumani, carenza di servizi giustamente (e inutilmente) denunciati da alcune associazioni (a partire da Antigone) e da alcune forze politiche (a partire dai Radicali).

Che fare, dunque?

Molte cose si potrebbero fare, sia di sinistra sia di destra, ma ve ne è una preliminare a qualsiasi soluzione: non negare l’esistenza del problema. Perché già lo so che, a partire dai prossimi giorni, vedremo rispolverare le due obiezioni – entrambe fallaci – che vengono sollevate ogniqualvolta il Ministero o l’Istat forniscono dati disaggregati per nazionalità degli autori di reati.

La prima è: ma la maggior parte dei reati li commettono gli italiani, non gli stranieri. Questa obiezione è ingenua, perché è ovvio che – essendo gli italiani 10 volte più numerosi degli stranieri e 100 volte più numerosi degli stranieri irregolari – il loro apporto alla criminalità complessiva non può essere trascurabile. Il punto è che, da soli, gli stranieri (regolari e non) commettono circa 1/3 dei reati, e gli stranieri irregolari, spesso concentrati in spazi circoscritti, costituiscono una minaccia intollerabile per la gente comune. E questo non perché quest’ultima sia preda di paure irrazionali, ma semplicemente perché – in certi quartieri o isolati – il rischio di aggressione per km quadrato è di 10, 100, anche 1000 volte superiore a quello di un quartiere normale. Né si trascuri il fatto, già accennato, che cancellare anche solo 1/4 o 1/3 dei reati allevierebbe in modo significativo le condizioni di vita dei detenuti.

La seconda obiezione fallace è: gli stranieri sembrano più pericolosi degli italiani perché la propensione a denunciare è maggiore, molto maggiore, quando l’autore è straniero. Detto in altre parole, il “numero oscuro” (ossia il numero di reati non denunciati) sarebbe diverso a seconda che l’autore sia italiano o straniero.

Questa obiezione è debole per due motivi distinti. Innanzitutto, ci sono reati – in particolare gli omicidi e i femminicidi – per cui il numero oscuro è vicino a zero, e ciononostante la propensione degli stranieri risulta 2 o 3 volte superiore a quella degli italiani. Tutto fa supporre che, ove disponessimo della distinzione fra stranieri regolari e irregolari, la forbice fra le propensioni degli stranieri irregolari e quella degli italiani (o degli stranieri regolari), sarebbe ancora più pronunciata.

La seconda debolezza sta nel fatto che, anche ammettendo che la propensione alla denuncia possa essere più alta quando l’autore è straniero (ipotesi più che ragionevole), non vi è alcuna prova che la differenza fra le due propensioni possa essere così ampia da spiegare l’enorme gap che separa i tassi di criminalità degli stranieri irregolari da quelli di tutti gli altri (italiani e stranieri regolari). L’unica stima fornita a sostegno dell’ipotesi di tassi di denuncia differenziati si basa su una ricerca vecchia, che riguarda solo le violenze sessuali, e ignora il fatto che i tassi di denuncia delle giovani generazioni sono presumibilmente assai più alti e allineati (ossia indipendenti dalla nazionalità dell’autore) di quelli delle generazioni precedenti.

In conclusione. I nuovi dati del Ministero dell’Interno gettano luce su un problema drammatico. Ci sarà modo di analizzarli, discuterli, forse anche criticarli o richiedere chiarimenti. Ma la cosa peggiore che potremmo fare è rispolverare l’armamentario
negazionista con cui, ogni volta che vengono fuori numeri e statistiche, più o meno improvvisati fact-checker cercano di occultare l’amara realtà dell’immigrazione irregolare.

[articolo uscito sul Messaggero il 17 dicembre 2024]

In margine alla festa di Atreju – Elettori oltre la destra e la sinistra

18 Dicembre 2024 - di Luca Ricolfi

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Forse è un po’ presto per fantasticare di nuove creature politiche, visto che – salvo incidenti – si voterà nel 2027. Però è quello che sta succedendo nelle ultime settimane, prima con la cacciata di Beppe Grillo e la “contizzazione totale” dei Cinque Stelle, poi con le manovre al centro per la dar vita a un partito liberal-democratico, o con quelle per la (ri)nascita di un partito cattolico di sinistra, sulla scia della Margherita di rutelliana memoria. Per non parlare degli smottamenti interni a Forza Italia, sempre più tentata di accentuare i suoi tratti moderati, se non di “partito di destra che guarda a sinistra”, cavalcando alcuni temi indigesti per la destra-destra: ius scholae, diritti delle minoranze sessuali, multe ai No Vax.

Quello che accomuna tutti questi sommovimenti è lo sforzo di aggirare la dicotomia secca destra-sinistra, in cui tanti non riescono più a riconoscersi. In effetti, a giudicare dai sondaggi (penso in particolare a una recente indagine di Renato Mannheimer) gli
elettori che non se la sentono né di dichiararsi di destra né di dichiararsi di sinistra non sono certo pochi: il 33% dell’elettorato, ossia 1 elettore su 3, rifiuta entrambe le etichette.

Allora è vero che una forza di centro, né di destra né di sinistra, avrebbe a disposizione praterie di potenziali elettori?

No, è un’illusione. Se infatti andiamo a vedere come è composto l’insieme degli elettori che non si riconoscono né nella destra né nella sinistra, scopriamo che solo il 9.1% dell’elettorato si autodefinisce di centro. È una percentuale di poco superiore a quella che, prima del divorzio fra Renzi e Calenda, dava il suo voto al cosiddetto Terzo Polo. Nulla suggerisce che siano più del 10% gli italiani disposti a dare fiducia a un partito che non dichiara se, dopo il voto, si alleerà con la destra-destra o con la sinistra-sinistra. Sono invece il 20-25%, cioè circa 1 su 4, gli italiani che non si riconoscono né nell’attuale sinistra, né nell’attuale destra, né in un generico partito di centro, o partito dei moderati.

Ma perché sono così tanti? E che cosa pensano? Che cosa li trattiene dall’auto-collocarsi a destra o a sinistra?

Una ragione può essere lo scarso interesse per la politica, o l’insoddisfazione per le politiche di entrambi gli schieramenti. Ma una ragione alternativa, a mio parere più importante, è che – non solo in Italia – sono sempre più numerosi i cittadini che esprimono istanze che, lungi dall’essere né di destra né di sinistra, sono sia di destra sia di sinistra.

Prendiamo, a titolo di esempio, la classica frattura fra ceti medi e ceti popolari. Nell’universo politico classico un operaio votava a sinistra, un impiegato o libero professionista votavano a destra. Oggi, invece, può capitare che un operaio guardi a destra perché vede il degrado delle periferie indotto dalla presenza degli immigrati, o semplicemente perché non capisce l’ostinazione del mondo progressista nella difesa delle minoranze sessuali, o nel sostegno alle politiche green, o nella promozione del linguaggio “follemente corretto”. Simmetricamente, un insegnante, un magistrato, un impiegato può guardare a sinistra semplicemente perché la sua condizione è abbastanza agiata da consentirgli il lusso di pensare ai diritti civili piuttosto che ai diritti sociali, o di occuparsi del futuro del pianeta anziché del bilancio famigliare.

Di qui il dilemma di tanti elettori, che si sentono di sinistra su certi temi, e di destra su altri. Di qui, anche, lo spazio che (in teoria) si sta aprendo ai Cinque Stelle, che sono l’unica formazione politica che è strutturalmente sia di sinistra (in economia) sia
di destra (in materia di immigrazione). È quello che, neanche tanto fra le righe, è andato a dire Conte ad Atreju, la festa di Fratelli d’Italia, quando ha affermato di essere progressista, ma non di sinistra: “se sinistra significa contrastare il governo attuale solo nel segno dell’antifascismo, io non ci sto”; “se sinistra significa accogliere tutti indiscriminatamente, io non ci sto”; “se sinistra significa occuparsi solo di quelli nei quartieri residenziali, nelle Ztl, io non ci sto”.

Applausi, ogni volta, degli spettatori presenti. Tutti di destra.

[articolo uscito sulla Ragione il 17 dicembre 2024]

La nuova crociata contro gli affitti brevi

18 Dicembre 2024 - di Matteo Repetti

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Ovvero: se l’economia si muove, tassala. Se continua a muoversi,
regolamentala. Se smette di muoversi, sussidiala (Ronald Reagan)

Il Rapporto Censis 2024 presentato qualche giorno fa fotografa un Paese, il nostro, che si limita a galleggiare, in cui dal 2003 al 2023 il reddito disponibile lordo pro-capite si è ridotto in termini reali addirittura del 7 per cento. Stando così le cose, si legge nel Rapporto, il tema della crescita economica diventa centrale e il nodo di come sostenere il progresso della società italiana non può più essere rinviato.

Siamo intrappolati – continua il Censis – nella sindrome italiana, ripiegati su noi stessi, in un mondo in cui sempre meno famiglie e imprese competono, mentre lo sviluppo economico e sociale è possibile solo nelle società capaci di aprirsi al nuovo e di correre dei rischi. Difficile non convenire.

Tutti d’accordo? Non proprio. Esattamente negli stessi giorni in cui è uscito il Rapporto Censis, il Governo ha previsto regole più restrittive per i cd. affitti brevi in nome della sicurezza. In particolare, è stato disposto che in Italia non si potranno più identificare da remoto gli ospiti di una struttura ricettiva. I titolari, o chi per loro, saranno tenuti a identificare di persona gli ospiti, e non più solo con documenti inviati per via telematica. Quindi addio alle ormai famigerate keybox, la cui comparsa
ha accompagnato l’arrivo nelle nostre città delle piattaforme di affitto online come Airbnb.

La giustificazione? La sicurezza. Spiega in una circolare il Capo della Polizia alle Prefetture che “alla luce dell’intensificazione del fenomeno locazioni brevi, legate ai numerosi eventi politici, culturali e religiosi in programma nel paese, anche in vista del Giubileo a Roma a partire dal 24 dicembre, e tenuto conto dell’evoluzione della difficile situazione internazionale, emerge la necessità di attuare stringenti misure per prevenire rischi per l’ordine e la sicurezza pubblica in relazione all’eventuale
alloggiamento di persone pericolose, legate ad organizzazioni criminali o terroristiche”. Niente di meno.

Sembra di essere su Scherzi a parte ma è invece tutto drammaticamente vero.

E’ appena il caso di sottolineare come i sistemi di identificazione da remoto che vengono sorprendentemente banditi utilizzino tecnologie di riconoscimento degli ospiti con tracciamento biometrico e codici OTP (con password da utilizzare una sola volta) del tutto analoghe allo Spid, agli accessi agli autonoleggi e ai conti correnti bancari: di fatto, le nuove anacronistiche disposizioni riportano le lancette indietro di vent’anni.

Dovrebbe poi entrare in vigore a breve l’obbligo per i proprietari di immobili da utilizzare per gli affitti brevi di dotarsi del fantomatico CIN (Codice Identificativo Nazionale), anche se a fronte della estrema farraginosità burocratica e delle inefficienze degli ultimi mesi (tra portali dedicati, differenti regolamentazioni regionali, doppie procedure, ecc.) l’obbligo in questione è ora slittato al prossimo 1° gennaio.

Insomma, destreggiarsi nel nuovo settore degli affitti brevi sta diventando sempre più complicato.

Questo, quando in Italia ci sono quasi 10 milioni di case sfitte, e poco più di 500 mila immobili adibiti ad affitti brevi. Se mancano le abitazioni per i residenti probabilmente la responsabilità non è da imputare ad Airbnb e al nuovo settore degli affitti brevi, quanto semmai alla normativa vincolistica in materia di locazioni urbane e a un ordinamento incapace di garantire il rispetto dei contratti. Nel nostro Paese, è bene ricordarlo, per riottenere la disponibilità del proprio immobile occupato da un inquilino moroso sono necessari, se tutto va bene, sfinenti procedure in giudizio e almeno due o tre anni. Piuttosto che aggiungere ulteriore burocrazia e nuove limitazioni con finalità evidentemente ostruzionistiche, si dovrebbe invece agevolare un sistema che rispetti il diritto di proprietà e valorizzi le nuove forme di utilizzo degli immobili. In altre parole, sarebbero auspicabili soluzioni innovative, non la caccia alle streghe.

La proprietà immobiliare intesa in senso tradizionale è infatti per diversi aspetti superata: è cambiata la struttura della famiglia; il mondo va più veloce, e ci si sposta molto di più che in passato per lavoro o per turismo; e anche le esigenze per l’utilizzo degli immobili urbani sono cambiate: servono meno metri quadri ma più servizi.

Se viene generalmente invocata l’introduzione di limitazioni normative da introdurre per contenere i ritenuti effetti negativi del fenomeno degli affitti brevi – tra tutti l’aumento del prezzo degli immobili e il progressivo allontanamento da parte dei
residenti dai centri urbani – appare invece ragionevole ipotizzare che lo sviluppo di piattaforme come Airbnb abbia apportato benefici, sia dal punto di vista dell’utilizzo e della remuneratività delle proprietà immobiliari, che per quanto riguarda la
differenziazione dell’offerta turistica; oltre che dal punto di vista fiscale, contribuendo alla visibilità e tracciabilità di transazioni che diversamente cadrebbero facilmente nell’irregolarità.

Il settore degli affitti brevi può poi rappresentare un laboratorio di idee nuove anche sul tema della cd. rigenerazione urbana (senza oneri a carico del contribuente e della fiscalità generale).

Il nostro patrimonio immobiliare è vecchio e ha bisogno di essere riqualificato e riconvertito, in base alle nuove esigenze. E ci sono soggetti imprenditoriali che hanno l’interesse a recuperare e ristrutturare complessi immobiliari sottoutilizzati, copiando
l’esperienza di altri Paesi. La remuneratività che gli affitti brevi e le nuove forme di utilizzo degli immobili urbani garantiscono possono contribuire ad una riqualificazione intelligente delle nostre città.

Ma, come sottolineato dal Censis, lo sviluppo economico e sociale è possibile solo nelle società capaci di aprirsi al nuovo e di correre dei rischi.

L’alternativa è rappresentata dalla logica assistenziale del superbonus edilizio e della difesa corporativa di interessi e settori che rifiutano la competizione e la concorrenza, a scapito della crescita economica e del progresso civile.

Genova, 11 dicembre 2024

Destra e sinistra – Chi è maggioranza nel paese?

11 Dicembre 2024 - di Luca Ricolfi

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Qualche tempo fa, in un’intervista alla Stampa, l’inossidabile e sempre tagliente Massimo D’Alema è stato perentorio: “questa destra non è maggioranza nel paese: lo dicono i numeri”.

Sicuro?

Allora vediamoli questi numeri. Ovviamente D’Alema non poteva riferirsi al numero assoluto di voti, perché – da questo punto di vista – nessuno schieramento o coalizione, per quanto allargata, potrà mai avere il sostegno di 26 milioni di elettori (la maggioranza degli aventi diritto). L’astensione, ormai prossima al 50% del corpo elettorale, fa sì che i votanti siano circa 30 milioni, se non qualcuno di meno. Alle politiche del 2022 furono 29 milioni e mezzo, di cui solo 28 espressero un voto valido. Dunque: per essere maggioranza, l’obiettivo è avere almeno 14 milioni di voti.

Quanto sono vicini a questo obiettivo i due schieramenti?

Se stiamo agli ultimi sondaggi la destra, nell’assetto attuale, è vicinissima all’obiettivo: l’ultima super-media di Youtrend la colloca al 48.4%, sommando i voti di Fratelli d’Italia, Forza Italia, Lega, Noi Moderati. Con il tasso di partecipazione elettorale del 2022 fanno circa 13.5 milioni di voti, a un soffio dall’obiettivo dei 14 milioni di voti.

E la sinistra?

Qui occorre fare attenzione. La sinistra vera e propria è costituita solo dal Pd (23.2%), e dall’alleanza Verdi-Sinistra (6.3), che insieme totalizzano il 29.5% dei consensi. Trascurando le differenze politico culturali possiamo aggiungere Italia Viva (2.3%), e arrivare al 31.8% dei consensi. Trascurando le differenze programmatiche in campo economico (liberismo versus statalismo), possiamo aggiungere +Europa (2%), e arrivare al 33.8% dei consensi. Trascurando quasi tutte le differenze – politiche, economiche, giudiziarie – possiamo aggiungere Azione (2.7%) e arrivare al 36.5%: circa 10 milioni di voti, ovvero 4 milioni in meno di quelli necessari per conquistare la maggioranza dei votanti. In breve: alla sinistra, sia pure allargata ai “cespugli” di Azione, Italia Viva, +Europa, mancano pur sempre 12 punti percentuali per raggiungere il centro-destra, e 14 per superare il 50% dei consensi.

E i Cinque Stelle?

Qui sta il problema. Che però ha due facce. Prima faccia: allo stato attuale dei consensi, anche se Conte si accodasse alla “gioiosa macchina da guerra” di Elly Schlein, anche se questa scelta non provocasse l’uscita di Calenda e/o Renzi dall’alleanza, anche se nessun elettore rinunciasse a votare a sinistra per insuperabile antipatia verso uno o più alleati, il consenso totale resterebbe non solo al di sotto del 50%, ma anche – sia pur di poco – al di sotto del consenso di cui attualmente gode il centro-destra (47.9% contro 48.4%).

Seconda faccia: il Movimento Cinque Stelle non è mai stato, e presumibilmente mai sarà, una forza politica di sinistra, almeno fino a che il volto della sinistra sarà quello globalista, europeista, atlantista sperimentato negli ultimi anni. Certo la distinzione,
brandita da Conte negli ultimi giorni, fra essere “di sinistra” ed essere “progressista” suona capziosa a azzeccagarbugliesca. Qualcuno, come fa Piero Sansonetti da anni, potrebbe persino argomentare che il Movimento Cinque Stelle non solo non è di
sinistra, ma è pure reazionario, ossia l’esatto contrario di progressista. Ma, al di là della diatriba terminologica, resta il fatto che, fin da quando è nato il movimento, i sondaggi hanno sempre rilevato che una parte non trascurabile del suo elettorato o
respinge la dicotomia destra-sinistra, o si colloca più a destra che a sinistra. Il che è culturalmente comprensibilissimo: una parte del movimento è semplicemente qualunquista, un’altra è anti-europea, un’altra è anti-migranti irregolari, e nessuno di questi segmenti più o meno sovrapposti è genuinamente di sinistra nell’accezione corrente del termine. Del resto, per certificarlo, basterebbero le recenti manovre di avvicinamento dei Cinque Stelle al partito tedesco BSW di Sahra Wagenknecht, una
formazione “sia di sinistra sia di destra”.

Conclusione. Se prendiamo atto che una parte dei Cinque Stelle (almeno 1 su 4) sono più vicini alla destra che alla sinistra, non possiamo che rovesciare la conclusione di d’Alema: la destra (per ora) è maggioranza nel paese, è la sinistra che non lo è. Lo
dicono i numeri.

[articolo uscito sulla Ragione il 10 dicembre 2024]

Verso una sinistra comunitaria?

4 Dicembre 2024 - di Luca Ricolfi

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Qualche giorno fa, sul quotidiano “La Stampa”, è uscita una intervista di Michael Sandel, uno dei più noti filosofi americani, probabilmente oggi il principale rappresentante della corrente dei “comunitari”, ostili all’individualismo e assai critici verso la cultura dei diritti, tipica dei partiti progressisti. Per i comunitari il legame sociale non può che poggiare sulla comunità e sulla tradizione, e la patria non è un concetto vuoto, superato dalla unificazione del mondo.

Questa linea di pensiero, da noi, trova una certa eco quasi esclusivamente a destra, sia a livello intellettuale (ad esempio con Marcelo Veneziani), sia a livello politico (soprattutto con Fratelli d’Italia). La sinistra, tendenzialmente, è globalista, cosmopolita, individualista, più attenta ai processi di emancipazione individuali che alle radici comunitarie dell’identità.

La cosa interessante dell’intervista di Sandel è che, anziché rivolgersi alla destra, si rivolge alla sinistra (tramortita dalla vittoria di Trump), auspicando un recupero del concetto di patria, l’abbandono della meritocrazia, una postura critica verso la globalizzazione, un ritorno ai ceti popolari, fin qui dimenticati a favore dell’élite e dei ceti istruiti. In breve: Sandel sogna una sinistra comunitaria, che scalzi la sinistra liberal fin qui egemone, negli Stati Uniti come in Europa.

È un pensiero isolato?

Direi proprio di no. La realtà è che la sinistra è in movimento, non solo in America ma anche da noi. In Danimarca già da qualche anno i socialdemocratici hanno imboccato una linea di arroccamento comunitario nei confronti dell’immigrazione, una linea che ha permesso alla premier Mette Frederiksen di restare al potere. In Germania da un anno è nata una nuova forza politica di sinistra, la BSW di Sahra Wagenknecht, ostile all’immigrazione, agli eccessi della cultura dei diritti, al primato delle istanze europee su quelle nazionali: se il socialdemocratico Scholz vuole restare cancelliere, non può evitare l’alleanza con la sinistra comunitaria di Wagenknecht.

E da noi?

Da noi i grandi media fanno in modo di non parlarne, ma la tentazione di rifondare la sinistra in chiave comunitaria sta facendo capolino. Non che sia la prima volta, perché anche in passato i tentativi comunitari e anti-mondialisti non sono mancati: a
livello intellettuale, con il filosofo Costantino Preve (il maestro di Diego Fusaro); a livello partitico con il Partito Comunista di Marco Rizzo, e le sue varie reincarnazioni sovraniste; a livello politico-culturale, con l’associazione Patria e Costituzione (PeC),
fondata dall’economista (ed ex PD) Stefano Fassina.

Solo ora, però, queste tentazioni sembrano aver trovato un canale di espressione non periferico: il nuovo movimento Cinque Stelle, che sta prendendo forma in queste settimane. Alla Assemblea costituente del nuovo soggetto, l’unica forza politica
invitata è stata la BSW, che con la sua leader – Sahra Wagenknecht – ha avuto modo di esporre la linea del neo-nato partito tedesco: sovranista, popolare, anti-migranti, scettico sulla guerra in Ucraina.

Conte si è ben guardato dal sottoscrivere in toto il discorso di Wagenknecht, ma il messaggio è stato chiaro lo stesso: il nuovo movimento Cinque Stelle dialoga con la BSW, una formazione che – culturalmente – è agli antipodi rispetto al PD. A prenderne atto in modo lucido è stato il solo Stefano Fassina, che tuttavia – per esprimersi – si è dovuto rifugiare su due quotidiani eretici, il Fatto Quotidiano e la Verità.

Ci sono cose, evidentemente, delle quali sulla grande stampa si preferisce non parlare e dibattere. Un vero peccato…

[articolo trasmesso alla Ragione il 1° dicembre 2024]

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