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Società

Riforma della giustizia – La flebile voce dei liberali

21 Gennaio 2025 - di Luca Ricolfi

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Non succede spesso, in Parlamento, che 3 forze di opposizione su 6 votino con la maggioranza. Ma è successo pochi giorni fa alla Camera con la legge sulla separazione delle carriere dei magistrati, approvata con i voti dei tre partiti di maggioranza, ma anche grazie al voto favorevole di Azione (Carlo Calenda) e di +Europa, nonché all’astensione di Italia Viva, il partito di Renzi. Contro la legge, invece, hanno votato i partiti del “monoblocco” Pd+Cinquestelle+Avs che, a dispetto di alcune divergenze interne, quasi sempre vota compattamente contro tutto ciò che viene proposto dalla maggioranza.

Se guardiamo alla storia dei tre partitini di opposizione che hanno votato a favore della separazione delle carriere, nessuno può sorprendersi del loro comportamento. Renzi e Calenda sono sempre stati garantisti. Quanto a +Europa, è una formazione politica con ascendenze radicali: chi è sufficientemente vecchio ricorderà che più volte in passato (in particolare nel 1994 e nel 1996) i radicali sono stati alleati del centro-destra e di Silvio Berlusconi. Nessuno stupore, quindi, che – su una questione che ha a che fare con la libertà e i diritti dei cittadini – si siano trovati in sintonia con la maggioranza.

Si potrebbe pensare, dunque, che quella sulla giustizia sia una scappatella minore che – a tempo debito – non impedirà al campo
largo di ricompattarsi su tutto il resto.

Ma è così?

Nessuno può escludere l’ipotesi della semplice scappatella: la retorica antifascista e il racconto di imminenti gravissimi pericoli per la democrazia possono fare miracoli, sdoganando alleanze contro natura e la formazione (o meglio ricostituzione) di “fronti popolari” contro le destre-destre.

Ma se ragioniamo a mente fredda, e ci interroghiamo sul DNA di quei tre partitini non solo in ambito giudiziario ma anche e soprattutto sul versante della politica economico-sociale, non possiamo ignorare alcune circostanze fondamentali. Primo, tradizionalmente le proposte di politica economica dei Radicali hanno puntato sulla riduzione delle tasse e sul risanamento dei conti pubblici, non certo sull’ulteriore espansione della spesa corrente. Secondo, Renzi e Calenda hanno sempre avuto un occhio di riguardo per le istanze del mondo imprenditoriale e le esigenze della crescita. Terzo, il periodo renziano è stato l’unico, nella seconda Repubblica, che ha visto una apprezzabile riduzione della pressione fiscale.

Di qui la domanda: che succederà quando, in vista delle prossime elezioni politiche, i partiti del monoblocco dovranno spiegare dove troveranno le risorse per rafforzare sanità e scuola, e soprattutto chi (stato o imprese?) dovrà sopportare i costi del salario minimo legale.

È facile immaginare che Pd-Avs-Cinquestelle, anche senza rispolverare la vecchia campagna “anche i ricchi piangano”, non potranno esimersi dallo spiegare da dove andranno prese le risorse del loro costoso programma, e inevitabilmente si tornerà a parlare di patrimoniale (“chi più ha, più deve contribuire”), anzi di patrimoniale permanente, visto che tutti gli aumenti di spesa strutturali (ad esempio quelli per gli stipendi di insegnanti, infermieri e medici) non possono essere coperti con imposte una tantum. A quel punto, che faranno i tre partitini di matrice liberale?

Non credo che riusciranno a convincere i partiti del monoblocco a cercare le risorse con una severa spending review, e ancor meno credo che si lasceranno convincere a lasciar correre il debito pubblico, in plateale contrasto con le raccomandazioni dell’Unione Europea. In breve, i tre partitini che oggi dissentono dai maggiori partiti di opposizione solo sulla riforma della Giustizia, potrebbero domani trovarsi a dover dissentire anche sulla politica economico-sociale. E avrebbero pure tutte le ragioni per farlo. Troppo spesso ce ne dimentichiamo, ma mentre si continuano (giustamente!) a denunciare le lunghe liste d’attesa negli ospedali, le aule fatiscenti nelle scuole, il permanente rischio idrogeologico, i bassi stipendi dei dipendenti pubblici, si dimentica che tutto ciò coesiste con una pressione fiscale record non solo in Europa ma rispetto a tutti i paesi avanzati, appartenenti all’Oecd (solo Francia e Danimarca fanno peggio di noi).

Basterà promettere che la lotta all’evasione fiscale risolverà tutto?

Forse sì, perché – fra le innumerevoli illusioni della politica – questa è l’illusione più dura a morire. Ma potrebbe anche succedere che i tre partitini non si scordino di un piccolo, cruciale, principio della politica economica: se non vuole innescare una drammatica implosione dell’economia, la lotta senza quartiere all’evasione fiscale deve servire ad abbassare le aliquote dell’economia legale, non certo ad alimentare una spesa pubblica corrente già largamente fuori controllo.

Insomma, la partita è incerta. Può essere che i partitini di ispirazione liberale, magari con il comprensibile obiettivo di non sparire, si lascino assorbire dalla “gioiosa macchina da guerra” del campo largo. Ma è anche possibile, e per alcuni auspicabile, che prevalga il desiderio di non sperperare un’eredità politica, e che la voce dei liberali non si estingua per sempre.

[articolo uscito sul Messaggero il 19 gennaio 2025]

Sulla svolta di Zuckerberg – Requiem per il fact checking

15 Gennaio 2025 - di Luca Ricolfi

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La marcia indietro di Zuckerberg sul fact checking e sulle politiche di assunzione pro-minoranze sessuali ha verosimilmente origine nella pavidità, o meglio nella sete di potere. Il padrone di META fa indubbiamente parte dell’establishment, e non ha laminima intenzione – ora che a comandare sono Trump & Musk – di rinunciare alla propria centralità, con i vantaggi che ne conseguono in termini di denaro, potere, prestigio. La tesi che la svolta sia maturata da una riflessione sulla libertà nella Rete, messa a repentaglio dal gigantesco apparato di algoritmi-sentinella e cacciatori di fake news, è a sua volta un tipico esempio di fake news. La libertà della Rete non c’entra nulla, e non c’è nulla di realistico nell’idea che – lasciando miliardi di utenti liberi di scorazzare e insultarsi in Rete – la verità emerga, grazie alla “mano invisibile” del web. Quel che avremo, in realtà, sarà solo un po’ più di Far West.

Detto tutto questo, però, non sono in alcun modo fra quanti rimpiangono l’era del fact checking. E non lo sono per esperienza diretta, come cittadino e come studioso.

Come cittadino, non ho apprezzato il modo in cui, durante la pandemia e la guerra in Ucraina, la macchina del fact checking – per lo più in sintonia con la grande stampa e le grandi reti tv – ha impedito ogni discussione libera, documentata e intellettualmente onesta sul vaccino e sul conflitto Russia-Ucraina. Ricordate come veniva trattato chiunque dicesse che i vaccini erano sperimentali? o chi segnalava gli effetti avversi? o chi dubitava dell’eticità delle restrizioni alla libertà di circolazione?
o chi sosteneva che i vaccinati potessero trasmettere il virus?

Non solo. Ricordate come veniva redarguito chi, a proposito di guerra in Ucraina, non iniziasse il suo intervento premettendo che c’era un aggredito e c’era un aggressore? Ricordate l’etichetta di “putinismo” appioppata a chiunque dicesse qualcosa che potesse suonare come giustificazione, o attenuazione di responsabilità, della Russia? Ricordate quante voci un tempo autorevoli sono state cancellate dal dibattito pubblico perché non sufficientemente e non abbastanza convintamente schierate con la parte giusta?

E i cosiddetti fatti? Quante ipotesi su fatti non accertati sono state bollate come bufale complottiste, salvo poi ammettere – mesi o anni dopo – che erano vere, o non del tutto destituite di fondamento?

Ma veniamo al me studioso (sociologo e analista dei dati). Per mestiere sono stato per anni un frequentatore di siti di fact checking. Ebbene, la mia esperienza è stata la seguente: quasi sempre, dopo poche righe, capivo quale era l’intenzione del fact checker, ossia qual era l’obiettivo politico del suo lavoro di smontaggio, o debunking, come ora si preferisce chiamarlo. E altrettanto quasi sempre mi rendevo conto che lo scopo del fact checking era difendere, affermare, imporre qualche variante dell’ortodossia progressista.

Non è tutto però. Qualche volta, se il fact checking era firmato, andavo a vedere quali erano le credenziali scientifiche del fact checker. E invariabilmente dovevo constatare che non avevano nulla a che fare con l’argomento affrontato. Generiche competenze
in materia di comunicazione, lauree in discipline deboli, esperienze nei campi più svariati erano alla base di analisi che, fra gli studiosi, hanno sempre richiesto competenze approfondite e specialistiche.

Dunque, il fact checking è stato, in questi anni, fondamentalmente privo dei due requisiti che, soli, lo legittimerebbero: l’imparzialità e la competenza. Più che fact checking, è stato fake checking. Un disastro frutto di due grandi processi storici: da un lato, il “tradimento dei chierici”, che negli anni ’20 del secolo scorso – come spiegò a suo tempo Julien Benda – condusse gli intellettuali a schierarsi acriticamente con i fascismi e i nazionalismi, e negli anni ’20 del nostro secolo li vede compattamente schierati con il pensiero unico progressista; dall’altro, lo sdoganamento – in nome della democrazia – di tutte le opinioni e di tutte le fonti, un processo culminato con l’ascesa dei movimenti populisti e qualunquisti.

E ora?

Ora il quadro è in rapido cambiamento: stiamo passando da un Far West in cui gli sceriffi sono quasi tutti corrotti, a un Far West senza sceriffi.

Voi che cosa preferireste?

[articolo uscito sulla Ragione il 14 gennaio 2025]

Molestie di Capodanno – Dire la verità senza incitare all’odio

13 Gennaio 2025 - di Luca Ricolfi

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Fino a pochi giorni fa quasi nessuno, in Italia ma anche in Europa, aveva mai sentito espressioni come Taharrush Gamea (o Taharrush Jama’i) e Taharrush Jinsi, che si possono tradurre – rispettivamente – come molestie di gruppo e molestie sessuali. Da
qualche giorno se ne parla perché, secondo diversi osservatori, gli episodi che nella notte di Capodanno a Milano hanno investito quattro turiste del Belgio (e forse anche un’italiana e un’inglese) andrebbero ricondotti a pratiche collettive di origine egiziana, che in quel paese vengono indicate con quei termini. Tali pratiche, messe in atto in occasione di raduni di piazza con grandi folle, consistono nel circondare gruppi di donne mediante anelli concentrici di maschi, in modo che non possano fuggire, per poi aggredirle sessualmente con molestie, palpeggiamenti, e talora veri e propri stupri. Episodi simili, sempre a Milano, erano già avvenuti nel Capodanno 2021-2022, ed erano stati portati anche all’attenzione delle autorità europee per iniziativa della parlamentare europea Silvia Sardone. Ma i primi casi risalgono al 2005 in Egitto (per opera delle forze dell’ordine) e al 2011-2013, sempre in Egitto durante le cosiddette primavere arabe.

Vedremo nei giorni prossimi che cosa esattamente sia successo a Milano, e se i colpevoli, o almeno alcuni di essi, saranno identificati, rintracciati, denunciati (e magari puniti). Quello su cui qui vorrei soffermarmi, però, non è il caso italiano, ma il più vasto problema europeo delle violenze sessuali organizzate. Se l’opinione pubblica italiana non ha quasi mai sentito parlare di Taharrush Gamea (d’ora in poi TJ, per brevità) e di altre pratiche organizzate di sottomissione delle donne, lo stesso non si può dire di altre opinioni pubbliche, in particolare di quella tedesca e di quella inglese. Grazie al lavoro di un manipolo di giornalisti e studiosi (in Italia il sociologo Alberto Baldissera) le opinioni pubbliche europee sono sempre più informate (e preoccupate) per gli episodi di violenza collettiva, quasi sempre organizzata, subiti da donne per opera di gruppi di stranieri.

Ma è bene non confondere. Quel che è accaduto in alcuni paesi europei e nel Regno Unito è molto peggio (e in parte diverso) rispetto a quel che – finora – pare essere capitato in Italia. Due sono i fenomeni più macroscopici a livello europeo. Il primo possiamo definirlo “modello Colonia”, ed è comparso nel Capodanno 2015-2016 non solo nella città tedesca di Colonia, ma in numerose altre città europee come Amburgo, Salisburgo, Zurigo, Helsinky, Stoccolma. In sostanza si è trattato di una TJ rafforzata, per la quantità di donne coinvolte (molte migliaia) e per la gravità degli episodi denunciati.

Il secondo fenomeno, nettamente distinto, è quello delle “grooming gangs” (bande di adescatori, d’ora in poi GG), che da diversi decenni operano in tutto il Regno Unito adescando, insidiando, trasformando in schiave sessuali o costringendo alla prostituzione ragazze minorenni, per lo più bianche, spesso fragili o di umile condizione. Possiamo chiamarlo “modello Rotherham” dal nome della città dello Yorkshire dove lo scandalo è venuto alla luce per la prima volta nel 2011, salvo poi rivelare il suo radicamento in decine di città inglesi, comprese Oxford, Bristol, Newcastle, Halifax, Brighton.

Ciò che i modelli, tra loro piuttosto diversi, di Colonia (TJ) e Rotherham (GG), hanno in comune è quella che potremmo chiamare la “doppia tipicità” delle vittime e degli autori dei crimini sessuali. Le prime sono, tipicamente, donne europee bianche, non di rado minorenni. I secondi, altrettanto tipicamente, sono maschi non europei, spesso giovani, quasi sempre appartenenti a gruppi etnici o religiosi specifici (pakistani, islamici, nord-africani). Di qui l’esplosività della questione per l’opinione pubblica, e l’imbarazzo delle autorità politiche. Perché – non possiamo nascondercelo – il tratto comune di questa lunga storia è stato, in tutti questi anni, il disperato e spesso maldestro tentativo delle autorità (soprattutto tedesche e inglesi) di occultare il contenuto etnico delle migliaia di episodi venuti alla luce. In tanti casi, per evitare l’accusa di razzismo, funzionari pubblici e autorità di polizia hanno preferito nascondere, minimizzare, travisare il corso effettivo delle cose.

Si può ben comprendere la ragione ultima di tanti silenzi, tante reticenze, tanti depistaggi: impedire che l’ira dell’opinione pubblica si indirizzasse su interi gruppi etnici anziché sui singoli autori di reati. E, sul piano politico, evitare che risentimento e odio verso gli stranieri portassero consensi ai partiti di estrema destra, per lo più vissuti come reincarnazioni del fascismo e del nazismo.

E tuttavia, come non vedere l’ingenuità e la supponenza di questa linea di condotta?

Ingenuità, perché non ci si è resi conto che se l’estrema destra avanza un po’ dappertutto in Europa è anche perché, per troppi anni, su vicende di questo genere si è sorvolato, i colpevoli non sono stati individuati, né condannati, né messi in condizione di non nuocere. Supponenza perché addomesticare i fatti, o oscurare la nazionalità e la religione degli autori di crimini sessuali, non è solo un’offesa nei confronti delle donne assalite o sfruttate, ma è un segnale di sfiducia – di profonda sfiducia – nelle capacità di giudizio dei cittadini, trattati come persone incapaci di ragionare, distinguere, capire i nessi fra le cose.

Ai quali cittadini, certo, è sempre bene ricordare che la responsabilità è individuale, e che ogni generalizzazione a partire da casi particolari è arbitraria. Purché, al contempo, non si rinunci al primo dovere di ogni onesto politico, funzionario, studioso o cronista: cercare la verità, non nascondere i fatti.

[articolo uscito sul Messaggero il 12 gennaio 2025]

Abbagli statistici – Sul gender gap

8 Gennaio 2025 - di Luca Ricolfi

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L’altra sera, parlando in un talk show, un autorevole (e consueto) ospite informava, in polemica con la destra, che l’Italia – in un solo anno, fra il 2023 e il 2024, aveva perso ben 9 posizioni (su 146) nella classifica generale che il World Economic Forum stila ogni anno per misurare i progressi delle donne nella parità di genere: una chiara dimostrazione del fatto che il governo Meloni, il primo guidato da una donna, stava facendo arretrare la condizione delle donne.

L’episodio è interessante perché illustra bene, oltre alla faziosità di tanti commentatori, la loro dabbenaggine in materia statistica. Mi sono preso la briga di controllare come viene costruito l’indice di parità di genere (il cosiddetto GGG, o Global Gender Gap index), che dovrebbe misurare quanto un paese si avvicina a una situazione di completa parità di genere, ed ho potuto constatare alcune cose ben note agli analisti dei dati, ma quasi sempre ignorate dagli opinionisti.

Primo, l’indice è costruito combinando in modo largamente arbitrario alcune decine di indicatori più semplici. In assenza di una teoria e di una definizione solida di parità di genere non può che essere così, ma sarebbe meglio non dimenticare mai questo limite costitutivo.

Secondo, alcuni indicatori cruciali (ad esempio il gap salariale) mancano per parecchi paesi, o sono calcolati su sottoinsiemi di paesi privilegiati (paesi Oecd), anziché rispetto a tutti i paesi presi in considerazione.

Terzo, e questo è il vero colpo di scena, se si vanno a vedere le cifre inserite nelle schede di ogni paese si scopre quel che dovrebbe essere ovvio a priori, ma che nessuno pensa mai: se un report, come quello sul GGG index, esce a giugno di un dato anno, è impossibile che abbia i dati dell’anno corrente, che è tuttora in corso, è difficile che abbia i dati dell’anno prima, che usciranno poco per volta nell’anno in corso, è verosimile che per buona parte degli indicatori abbia solo i dati di due anni prima. Dunque il confronto tra 2023 e 2024 di cui abbiamo letto sui media quest’estate, e che il nostro incauto opinionista ha tardivamente ripetuto in tv, è in realtà – essenzialmente – un confronto fra 2021 e 2022, ossia fra il primo e il secondo anno del governo Draghi. Se proprio vogliamo fidarci dei calcoli del World Economic Forum quel che dobbiamo concludere non è che con Meloni le cose si sono messe peggio per le donne, ma che – dal punto di vista della parità di genere – il secondo anno di Draghi è stato peggiore del primo.

Dunque assolta Meloni, e sotto accusa Draghi?

Neanche per sogno. O meglio sì, se ci piace credere ai giochetti statistici del World Economic Forum, ni se ne dubitiamo.

Per parte mia non vi credo per niente, non solo per ragioni matematico-statistiche (l’arbitrarietà della formula che combina gli indicatori), ma per la graduatoria che ne vien fuori. Stiamo alla classifica 2024, in realtà per lo più relativa al 2022. Fra i 10 paesi più virtuosi, oltre a vai paesi europei del Nord, troviamo Namibia e Nicaragua, ma non Danimarca, Regno Unito, Svizzera. L’Albania occupa il 23° posto, non solo davanti all’Italia (che è addirittura 87-esima), ma davanti a paesi come Australia, Canada, Stati Uniti. L’Italia, in Europa, è preceduta da quasi tutti i paesi UE, ma anche da Serbia, Montenegro, Bosnia-Erzegovina, Moldova, Macedonia del Nord, oltreché – come già ricordato – dall’Albania. Quanto al continente africano, ci superano di decine di posizioni paesi come Mozambico, Burundi, Rwanda, Liberia, Swaziland, Zimbabwe, Tanzania, Botswana.

Ok, può darsi che Draghi ci abbia portato un po’ giù, ma mi sembra poco verosimile che in soli 2 anni, dal 2020 (report 2022) al 2022 (report 2024) l’Italia abbia perso ben 24 posizioni (dal 63° all’87° posto, 4 posizioni più in basso dell’Uganda). Più ragionevole è prendere atto che il GGG index e i molti (costosissimi) indici costruiti con il medesimo approccio pasticciato ed empirista siano come il film La corazzata Potëmkin: “una boiata pazzesca”.

[articolo uscito sulla Ragione il 7 gennaio 2025]

Rubrica A4 – Sentire le due campane sì, ma che non siano stonate

7 Gennaio 2025 - di Dino Cofrancesco

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In Italia si assiste a una proliferazione di talk show, di dibattiti televisivi sulle questioni politiche interne e internazionali che fanno pensare a una maturità civica e a un interesse per la cosa pubblica invidiabili. In qualche canale, dopo il tg, finita una tavola rotonda, ne comincia subito un’altra, spesso con gli stessi attori protagonisti. In genere, la formula ‘vincente’ (sic!) è: ‘tutte le ragioni, tutte le opinioni’ ma a, ben riflettere, si dovrebbe dire: “tutte le opinioni, tutte le fazioni”. E’ un notevole passo avanti che vengano invitati tutti, in omaggio al dovere di ‘sentire sempre le due campane’, senonché quel principio finisce spesso per diventare l’occasione di risse da bar insopportabili. Ciò dipende dal fatto che, in mancanza dei grandi intrattenitori e comici televisivi   d’antan, gli insulti, le accuse di malafede, le insinuazioni sul piano personale degli attori in  scena ‘fanno spettacolo’, indipendentemente da quel che dicono o si dicono. Il curatore della trasmissione, onestamente, non nasconde affatto da che parte sta ma questo finisce per essere irrilevante. Ciò che conta, invece, è che politici e giornalisti, quasi sempre incompetenti, grazie alla comparsata televisiva ottengono visibilità e ..’prestigio’ (chiamiamolo così). Quanto dicono sono fesserie per chi non condivide le loro opinioni ma sono perle di saggezza per gli altri. E alla fine—ed è ciò che davvero importa—, per citare Mcluhan,”il medium è il messaggio”, e il contenuto del messaggio non è l’elemento decisivo nella comunicazione. Chi prenderebbe in considerazione certe Erinni della carta stampata o certe passionarie della politica o certi residuati bellici del 68, se non comparissero regolarmente sul teleschermo? “Con quella bocca possono dire tutto ciò che vogliono” giacché ogni scarafone ha diritto a dire la sua e l’importante, poi, è che milioni di telespettatori stiano lì a sentirlo (il fatto che il conduttore della trasmissione tv mostri il suo  disaccordo è ininfluente).

Siamo seri, almeno con l’anno nuovo! Meno politica spettacolo e più informazione attendibile e controllata. Si riducano, una buona volta, gli spazi del battibecco politico e, anche se al di fuori delle opere di maggiore ascolto, si faccia conoscere quanto sta avvenendo in Ucraina, nel Medio Oriente, a Gaza, nelle città europee e americane vittime del terrorismo islamico.  Specialmente in area anglosassone, non mancano riviste di relazioni internazionali che mostrano la realtà prismatica di quanto accade nel mondo, nè mancano studiosi (di diverse aree politiche e culturali) che si sono dedicati alla ricerca e che possono dire cose interessanti sulla politica, sull’economia, sulla cultura dei paesi in guerra. Non dico di stare a sentire ‘soltanto’ John J. Mearsheimer (rimasto dopo la morte di Samuel P. Huntington il più prestigioso political scientist degli Stati Uniti) : le sue idee, infatti, fanno a pezzi le interpretazioni dei conflitti in corso riportate dai grandi quotidiani nazionali; si invitino anche quegli storici e quegli scienziati politica che non la pensano come lui ma che hanno scritto articoli e saggi notevoli, in grado di mostrarci ogni volta ‘l’altra faccia della medaglia’.

 Non è possibile che quando, per caso, sul piccolo schermo appare un sociologo come Marzio Barbagli—o  un giurista del prestigio di Sabino Cassese- si debba pensare: ”finalmente il parere  di un esperto!”. Nelle trasmissioni dedicate alla politica, infatti, dovremmo sempre ascoltare i ‘compe-tenti’, affiancati da giornalisti seri, in grado di porre domande intelligenti e pertinenti. E, nel caso delle guerre in corso, occorrerebbero documentari (anche storici) delle due parti che ci aiutino a capire, da angolazioni diverse, quanto sta accadendo nel mondo e le cause alle origini dei vari conflitti.

Conoscere le opinioni politiche dei direttori dei grandi quotidiani o dei loro vice o caporedattori può avere qualche interesse ma quale contributo conoscitivo reale possono dare, ad es., al problema dell’Azerbaigian o della Georgia? All’estero i direttori—di Le Monde, del NYT, di Die Zeit etc.- intervistano (e con indubbia professionalità) ma non vengono intervistati giacché, nei paesi avanzati dell’Occidente, la divisione del lavoro rimane una regola inviolabile.

Un tempo, per farci conoscere il bel paese, la RAI produceva inchieste affidate a scrittori come Mario Soldati o a grandi giornalisti come Sergio Zavoli che rappresentano, tuttora ,documenti di straordinaria utilità  per chi intenda studiare il nostro recente passato. Non si potrebbe pensare, dove è possibile, a fare la stessa cosa per le guerre in corso, organizzando una bella scuola di documentaristi e di corrispondenti di guerra, diretta semmai, da vecchi, rispettabili, giornalisti come Domenico Quirico? E se non se ne hanno i mezzi, non si potrebbero acquistare dagli Stati Uniti filmati che non siamo in grado di produrre noi? In tal modo, non sentiremmo più l’intervistato del Bar di Casal di Principe che vorrebbe annullare la sentenza palermitana che ha assolto Matteo Salvini per ‘conflitto di interessi’ (l’avv. Bongiorno milita nella Lega, il partito dell’imputato!). ‘Tutte le ragioni, tutte le opinioni!” Ma possiamo risparmiarci almeno quelle degli imbecilli? O meglio, per essere politicamente corretti, quelle dei ‘diversamente intelligenti”?

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