COVID-19: Un’analisi del rischio di contagio nei diversi luoghi e strategie “smart” per mitigarlo

Nonostante che gli articoli scientifici sul COVID-19 pubblicati nel corso di un anno di pandemia siano ormai dell’ordine di oltre 100.000, purtroppo da un’analisi veloce di alcuni dei principali database scientifici (PubMed, medRxiv, bioRxiv, etc.) usando parole chiave tipo “Comparison risk SARS-CoV-2 Covid infection different places” – o similari – non sembrano esservi, in letteratura, studi che affrontino in maniera comparata il rischio del contagio nei vari luoghi (casa, scuola, ufficio, negozi, mezzi di trasporto, etc.) né, tantomeno, che aiutino a capire la potenziale gravità della malattia se l’infezione è contratta in un luogo piuttosto che in un altro. Infatti, l’approccio più naturale al problema è quello basato sul “contact tracing”, che avrebbe però richiesto la raccolta di una grande mole di dati (parte dei quali tramite un’app di tracciamento via GPS) e l’incrocio con una vastità di informazioni personali che nei Paesi occidentali – Italia in testa – è ostacolata dalla normativa sulla privacy. Un altro approccio al problema è quello basato sulla sieroprevalenza, che è stato usato dall’Istat e dal Ministero della Salute; ma esso fornisce informazioni solo di tipo indiretto e comunque non considera i trasporti e la scuola, né spiega le ragioni per cui si corre un rischio di contagio maggiore in un luogo piuttosto che in un altro. Il presente articolo, perciò, vuole essere un tentativo (il primo a me noto) di affrontare il problema in maniera quantitativa attraverso un semplice modello del fenomeno, che si basa sui quattro parametri davvero rilevanti: (1) il volume di un ambiente indoor, (2) il numero di persone che lo occupano, (3) il tempo che vi si trascorre, (4) il tasso di ricambio dell’aria. I risultati quantitativi e comparati ottenuti grazie all’ipotesi semplificativa che le persone indossino la mascherina (eccetto che in casa) sembrano predire in maniera molto attendibile i rischi di infezione associati, nel caso italiano, ai vari tipi di ambienti, trasporti e scuola compresi (ad es. vi è un perfetto accordo con i rapporti dell’ISS e dell’Istat per quanto riguarda i luoghi che risultano essere più a rischio). Infine, entrando nel dettaglio delle questioni chiave, il presente lavoro illustra – anche con l’aiuto della vasta letteratura sul tema e di alcune tabelle riassuntive – le varie strategie idonee nelle politiche di risposta al Covid-19 per ridurre il numero di contagi e il rischio di malattia grave, spiegando perché queste siano per il Paese preferibili a quelle che sono state adottate nel recente passato dalle Autorità. 

Il legame fra dose virale, probabilità di contagio e gravità della malattia

È più di un anno che si parla della pandemia di Covid-19, ma gli italiani continuano a chiedersi dove i contagi avvengano con maggiore probabilità, e dunque quali siano i luoghi da evitare e/o in cui occorre adottare le maggiori precauzioni. Si noti che questa è solo una “dimensione” del problema. Infatti, una seconda “dimensione” è rappresentata dalla gravità della malattia che il contagiato svilupperà, la quale è legata – a parità di altri fattori (come ad es. l’età e le condizioni della persona) – alla “dose” di virus assorbita, in particolare tramite la respirazione (la letteratura scientifica peer reviewed sul legame fra dose virale assorbita e gravità della malattia è accennata nel penultimo paragrafo del presente articolo). Ciò pone una seconda domanda chiave: dove rischio di prendermi la forma più grave?

Come ho illustrato anche in un mio precedente articolo [1], ogni virus ha la capacità di sopravvivere per un certo tempo nell’ambiente all’interno del fluido corporeo (ad esempio di una gocciolina emessa parlando), ma è necessaria la presenza di una cosiddetta “dose virale minima” per produrre realmente l’infezione, o contagio, negli esseri umani: ad es. sono sufficienti circa 100 particelle virali nel caso del norovirus [2] – il virus a RNA responsabile della diarrea – ma tale quantità minima è diversa da virus a virus. Per il SARS-CoV-2 non è nota esattamente, poiché gli esperimenti in tal senso non sono considerati eticamente accettabili.

Diversamente, la “carica virale” è un’espressione numerica della quantità di virus presente in un dato volume di fluido corporeo (ad es. l’espettorato, il plasma sanguigno, etc.). La carica virale, in pratica, si riferisce al numero di particelle virali trasportate da un individuo infetto [29]. Quando respiriamo aria infetta – ad esempio perché contenente goccioline (droplet) con il virus al loro interno – assorbiamo una certa dose di carica virale, che è data dal prodotto della carica virale assorbita nell’unità di tempo per il tempo di esposizione. Dunque, più tempo siamo esposti alla sorgente (senza adeguate protezioni e precauzioni) e maggiore è la probabilità di raggiungere la dose virale minima infettante.

Figura 1. Più tempo si trascorre in un ambiente chiuso o semichiuso con aria infetta dal virus e più grande è la dose virale assorbita da una persona sana, per cui maggiori sono le probabilità di infettarsi, a parità di altre condizioni. L’uso della mascherina, se questa è scelta e indossata correttamente, può abbattere quindi di molto la probabilità di contagio e, quando anche quest’ultimo si verificasse, la barriera costituita dalla mascherina permette comunque di assorbire una dose virale inferiore, riducendo il rischio di forme gravi di malattia, sempre naturalmente a parità di altre condizioni. (fonte: elaborazione dell’Autore)

I fattori che determinano il raggiungimento o meno della dose minima infettante – e dunque la probabilità di contagio da SARS-CoV-2 – sono però molti e includono, oltre al tempo di esposizione: (1) se il contagiante è asintomatico o se invece ha dei sintomi (come ad es. una tosse, che può diffondere una elevata quantità di goccioline infettive); (2) il comportamento dell’individuo infetto (respira solo, parla, starnutisce, tocca oggetti o superfici, etc.); (3) il comportamento della persona sana (modello di contatto con persone / cose infette, uso di dispositivi di protezione individuale, etc.); (4) i fattori ambientali (ambiente chiuso/aperto e, se è chiuso, suo volume, livello di ventilazione, di ricambio aria, di particolato, etc.).

Inoltre, come per qualsiasi altro agente patogeno (batteri, funghi, etc.) o veleno, i virus sono di solito più pericolosi quando si presentano in quantità maggiori. Sola dosis venenum facit, ovvero “è la dose che fa il veleno”, dicevano i latini e il concetto si applica, mutatis mutandis, anche ai virus. “Piccole esposizioni iniziali tendono a portare a infezioni lievi o asintomatiche, mentre dosi più grandi possono risultare letali”, come ha spiegato molto bene il professore di chimica e genomica Joshua Rabinovitz. Dunque, di quante più volte si eccede la dose infettante minima, tanto più si rischia di sviluppare una forma grave.

Pertanto, per proteggersi dal Covid-19 – sia dal punto di vista del contagiarsi o meno, sia di sviluppare una forma grave della malattia – occorre cercare di prevenire l’esposizione ad alte dosi di virus (questo secondo importante aspetto verrà discusso in modo ampio verso la fine di questo articolo sulla base della letteratura peer reviewed, quindi per il momento chiedo al lettore di darlo per acquisito). In effetti, intuiamo tutti facilmente che entrare per pochi minuti in un palazzo di uffici in cui qualcuno è stato con il coronavirus non è così pericoloso come sedersi accanto a quella persona per due ore in treno, e ciò sia dal punto di vista della probabilità di contagio che, appunto, della gravità dell’eventuale malattia. Perciò, la durata breve dell’esposizione – così come l’uso di mascherine e di guanti, il distanziamento sociale, una corretta igiene, etc. – sono tutte cose che aiutano a ridurre di molto la dose di virus che possiamo inalare.

Figura 2. Il rischio per una persona (sana e non vaccinata) di morire per COVID-19 dipende, a parità di altre condizioni, da due parametri su cui possiamo avere un certo controllo: (1) la probabilità di contrarre un’infezione e (2) la gravità della malattia, che sono entrambi legati, oltre ad altri fattori di rischio (età, comorbidità e carenza di vitamina D), alla dose virale assorbita, la quale varia da luogo a luogo frequentato e dipende da una serie di altre variabili, fra cui il comportamento della persona in questione e quello altrui (in particolare riguardo all’uso o meno di mascherine), come verrà discusso in dettaglio nella penultima sezione del presente articolo sulla base della letteratura peer reviewed. Pertanto, il rischio in questione può essere rappresentato in due dimensioni con un semplice diagramma cartesiano, in cui i luoghi con alta probabilità di contagio ed elevata gravità della malattia (ovvero con elevata dose virale assorbita) si collocheranno in alto a destra, mentre quelli con bassa probabilità di contagio e bassa gravità della malattia (ovvero con bassa dose virale assorbita) si collocheranno in basso a sinistra. Dunque, la dose virale assorbita costituisce un fattore chiave di rischio sul quale possiamo agire. (fonte: elaborazione dell’Autore)

Oltre alla dose virale assorbita, gli altri fattori di rischio noti che caratterizzano un esito infausto nel COVID-19 sono i seguenti tre: (1) l’età, dato che ben l’85% delle vittime italiane hanno più di 70 anni (e circa il 95% delle vittime ha più di 60 anni); (2) la presenza di comorbidità (anche i pochi morti italiani sotto i 40 anni – nonché le vittime per Covid-19 che si osservano fra i vaccinati secondi i dati forniti da Israele – presentano, nella maggior parte dei casi, gravi patologie preesistenti: cardiovascolari, renali, psichiatriche, diabete, obesità [3]); (3) la carenza di vitamina D (nel sangue), come evidenziato da numerosi studi nel mondo [4, 5]; l’argomento è stato largamente illustrato in un mio precedente articolo [4]. Quest’ultimo fattore e la dose virale assorbita sono dunque i soli fattori sui quali si può agire.

La domanda “da un milione di euro” sul COVID-19: quali sono i luoghi più a rischio?

Per quanto l’informazione su quali siano i luoghi più a rischio per il contagio da SARS-CoV-2 sia ovviamente preziosissima per i decisori politici e sanitari, la letteratura a riguardo è in realtà scarsissima e può essere riassunta agevolmente nelle poche righe di questa sezione. Mentre, infatti, alcuni studi hanno indagato la trasmissione del coronavirus in un particolare tipo di luogo (autobus, ristorante, etc.) ed altri hanno analizzato in modi più o meno originali i dati epidemiologici raccolti, che io sappia nessun team di ricerca si è concentrato sul confronto quantitativo del rischio di contagio nei diversi possibili luoghi (questo non vuol dire necessariamente che non esistano studi effettuati dalle Autorità sanitarie in qualche altro Paese, ma semplicemente che non ne ho trovati sui database degli articoli scientifici pubblicati e su quelli dei preprint, né ho mai letto news su pubblicazioni a riguardo – eccetto quelle che citerò in questo articolo – pur seguendole quotidianamente già da prima dell’arrivo in Italia della pandemia).

Per capire il motivo di quest’assenza (o almeno, ripeto, apparente assenza) di studi peer reviewed pubblicati, occorre comprendere come si determina in realtà il “rischio” di un luogo rispetto a un altro riguardo la possibilità di contagiarsi. Il modo più semplice può sembrare, in teoria, quello epidemiologico: osservando, cioè, quante persone si contagiano in un certo posto (ad esempio, a casa), quante in un altro, e così via. Ciò lo si potrebbe fare tramite un’app di tracciamento che sfrutti la geolocalizzazione GPS (ma l’Europa vi ha rinunciato) oppure analizzando la catena dei contagi caso per caso. In questo modo si può stilare una classifica dei posti in cui ci si contagia di più.

Questa la troviamo “abbozzata” in un rapporto del gennaio 2021 dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS), intitolato “Apertura delle scuole e andamento dei casi confermati di SARS-CoV-2: la situazione in Italia” [6]: secondo questo rapporto, i primi tre contesti di trasmissione nel nostro Paese sono, nell’ordine, il contesto familiare/domiciliare, quello sanitario/assistenziale e quello lavorativo (tradotto in luoghi: casa, ospedali/RSA e uffici). Guarda caso, si tratta proprio dei tre luoghi dove si passano grandi quantità di tempo, sebbene la casa si distingua dagli altri due perché non vi si usano le mascherine e un ospedale si distingua, invece, per il gran numero di infetti da Covid-19 di solito in esso presenti.

Tuttavia, quello dell’ISS, non fornendo informazioni quantitative ma solo una “classifica” – e non esprimendo quest’ultima la percentuale di casi di contagio rispetto alla popolazione esposta che si trova in quei luoghi, bensì solo la percentuale di contagiati totali che si sono infettati in quel determinato contesto – non è un vero e proprio confronto. In pratica, è un po’ come se dicessimo che un vaccino A è più pericoloso di un vaccino B solo confrontando il numero di morti associati e non, invece, i rispettivi tassi di mortalità ottenuti dividendo il numero di morti associati per il numero di dosi somministrate.

Con il metodo usato dall’ISS, anche lo pseudo-confronto fra luoghi diversi è, di fatto, impossibile se prendiamo in considerazione luoghi dove si trascorre un tempo relativamente ridotto, come ad esempio una farmacia in cui andiamo magari una volta al mese standovi poco più di 15 minuti: l’unico modo per poter sperare di stimare sul campo – ovvero con l’approccio epidemiologico – il numero di contagi in tutti i vari possibili luoghi è quello di usare un’app ad hoc con tracciamento GPS. In alternativa, per fare un confronto reale si possono sviluppare dei modelli (e poi fare una simulazione con il computer) che tengano conto delle principali variabili rilevanti al problema, come farò nel seguito di questo articolo.

Infine, vorrei sottolineare come il già citato rapporto di 39 pagine dell’ISS [6] giunga alla conclusione che “le scuole non rappresentano i primi tre contesti di trasmissione in Italia”. Ma ciò, sostanzialmente, nulla ci dice a livello quantitativo (cioè non dà i numeri assoluti né, ovviamente, stima il rischio di infezione nei quattro contesti in questione), e non vi è alcuna valutazione della trasmissione associata ai mezzi di trasporto o ad altri luoghi. Oltretutto, come mi ha confidato un esperto di igiene e medicina preventiva, “analisi svolte in altri Paesi hanno dimostrato che la frequenza delle infezioni è stata molto più elevata nelle scuole che non altrove; da noi essa è apparsa bassa verosimilmente per una sottostima di quanto avvenuto negli altri ambienti, in cui è stato fatto un tracciamento davvero poco rigoroso”. Non vi è quindi da meravigliarsi se le chiusure imposte in Italia nel 2020 per contenere la pandemia siano apparse a molti incomprensibili, essendo state prese sulla base di dati lacunosi e affetti da gravi bias.

Come spiega in un articolo la testata Pagella politica [50], “nel 2020 il Ministero dell’Istruzione aveva avviato un monitoraggio sui contagi nelle scuole a fine settembre, solo alcune settimane dopo l’inizio della scuola, per poi concluderlo dopo nemmeno un mese, senza comunicare pubblicamente i risultati. Successivamente, però, il monitoraggio non è più ripreso. A gennaio 2021, durante un’audizione al Comitato tecnico scientifico (CTS), il matematico Stefano Merler della Fondazione Bruno Kessler (FBK) – un ente di ricerca di interesse pubblico che collabora con l’Istituto superiore di sanità (ISS) – aveva spiegato che è di fatto impossibile quantificare l’impatto della scuola sull’epidemia e valutare la trasmissibilità del contagio perché non ci sono dati sui contagi avvenuti in classe”. Insomma, fin dall’inizio la scuola è stata, per le nostre Autorità, uno dei numerosi “talloni d’achille” nella gestione della pandemia.

Prima del citato rapporto dell’ISS, era stato l’Istat a fornire, nell’agosto 2020, in un proprio rapporto [58, 59] qualche dato relativo alle categorie che hanno contratto di più o di meno il Covid (anche in forma asintomatica o pauci-sintomatica, ovvero subclinica, tale cioè da sfuggire alle rilevazioni ufficiali) a seconda del settore di attività economica, avendo diffuso in quell’occasione i primi risultati (relativi a 64.660 persone residenti in Italia) sull’indagine di sieroprevalenza del SARS-CoV-2, che mirava a definire la proporzione di persone nella popolazione generale che hanno sviluppato una risposta anticorpale contro il SARS-CoV-2, attraverso la ricerca di anticorpi specifici nel sangue. Tuttavia, questo studio – i cui risultati in sostanza concordano con quelli del citato rapporto dell’ISS – non risponde se non indirettamente e molto parzialmente alla nostra domanda iniziale (non considera, ad esempio, i mezzi di trasporto, le scuole, etc.), e tanto meno spiega i motivi per cui si sono trovati valori diversi in luoghi diversi.

Una delle tabelle dello studio dell’Istat, relativa alle “Persone positive al test di sieroprevalenza SARS-CoV-2 per contatto con una persona positiva, tipologia di relazione e classe di età. Nella parte bassa della tabella, si può notare come il tasso risulti parecchio elevato per i familiari conviventi: un risultato perfettamente in linea con quanto ho trovato, relativamente al rischio di contagio nei diversi luoghi, con il mio simulatore di dose virale assorbita che verrà illustrato nel presente articolo (fonte: Tavole del Rapporto Istat [59]

Nella Sanità, secondo il rapporto Istat, si è registrata la sieroprevalenza più alta, con il 4,5% (anche questo risultato è perfettamente in linea con quelli forniti dal mio simulatore, sebbene la pericolosità di ospedali e RSA sia dipesa da una gestione errata dei malati Covid). Gli occupati in settori essenziali e attivi durante la pandemia non hanno presentano valori significativamente più elevati (2,8%) rispetto alla popolazione generale se confrontati con gli occupati in settori di attività economiche sospese (2,7%). Un dato ha riguardato i servizi di ristorazione e accoglienza, in corrispondenza dei quali la prevalenza è risultata del 3,4%. Sul versante dei non occupati il tasso medio di sieroprevalenza si è attestato al 2,1% per le casalinghe, al 2,6% per i ritirati dal lavoro, al 2,2% per gli studenti e all’1,9% per le persone in cerca di lavoro. Tuttavia, il rapporto nulla ci dice sul rischio (comparato) di contagio nelle scuole, nei trasporti, etc. Sappiamo solo che, per i bambini da 0 a 5 anni, il tasso medio è stato dell’1,3% sotto la media e per gli anziani over 85 dell’1,8% sotto la media, per il probabile effetto di protezione da parte dei familiari e per l’autotutela.

I luoghi “superdiffusori” e l’importanza di limitare l’occupazione massima

Un importante studio scientifico pubblicato a gennaio su Nature [7] ha mostrato il forte legame fra mobilità delle persone e trasmissione virale semplicemente usando, per 10 grosse aree metropolitane degli Stati Uniti, un database di dati di geolocalizzazione delle persone fornito dalle compagnie di telefonia mobile, che mappa gli spostamenti orari di circa 100 milioni di persone verso una serie di “Punti di Interesse” (ristoranti, grandi magazzini, negozi vari, etc.). Non dimentichiamo, infatti, che il virus SARS-CoV-2, da solo, non si muove certo su grandi distanze, ma viaggia lontano grazie alle nostre gambe ed ai mezzi di trasporto che ci fanno muovere rapidamente da un posto all’altro di una città o di una nazione.

Ma, soprattutto, il lavoro in questione è assai interessante in quanto mostra come certi luoghi (chiamati per l’appunto dagli autori POI, Point of Interest, o “punti di interesse”) contribuiscano assai più di altri alle infezioni totali – e dunque pongano un rischio per “(ri)apertura” più alto – perché la densità di visite in quei posti è più alta (fig.3b) e/o perché la gente vi sta più tempo (fig.3a). In pratica, i principali POI o luoghi “superspreader” (superdiffusori, per usare il termine italiano) sono: ristoranti, palestre, hotel, bar, luoghi religiosi. Fra questi, i ristoranti pongono un rischio (come intera categoria) particolarmente alto, circa 3 volte maggiore rispetto alla categoria di POI con il rischio più alto dopo i ristoranti (fig.3d).

Se però si va poi a stimare il rischio relativo del tenere aperto o del riaprire un singolo POI – ovvero i numeri di infezioni previsti sommati su tutti i POI nella categoria vengono divisi per il numero di POI presenti nelle 10 aree metropolitane considerate – i rischi relativi dopo la normalizzazione per numero di POI risultano essere sostanzialmente simili per le varie categorie (fig.3c). Inoltre, il modello prevede che il tasso di infezione sia più alto fra le persone più svantaggiate dal punto di vista socio-economico, sia perché queste riducono di meno la loro mobilità (in Italia si pensi ad es. agli immigrati) sia perché si recano più spesso in negozi di cibo e in altri posti a rischio rispetto alle persone ad alto reddito.

Figura 3. Essa mostra (a) il tempo di permanenza delle persone nei vari Punti di Interesse (POI) e (b) il numero medio di visite orarie / piede quadrato nel POI. Sono poi mostrate le infezioni aggiuntive per ogni 100.000 rispetto alla non riapertura (c) per singolo POI e (d) per la categoria merceologica del POI nel suo complesso. Ricordo che lo studio in questione si riferisce agli Stati Uniti. (fonte: Chang et al. [7])

Una scoperta rilevante dello studio è che ridurre la massima occupazione di un ambiente (mezzo di trasporto, supermercato, etc.) riduce il rischio senza ridurre la mobilità delle persone: il limitare del 20% l’occupazione massima dei “Punti di interesse” (POI) nell’area metropolitana di Chicago ha ridotto, nel modello, il numero di infezioni previste dell’80%, con una perdita del 42% delle visite complessive. Si noti che ciò è l’opposto di quanto si è fatto in Italia, dove i centri commerciali sono stati chiusi nei week-end, le corse degli autobus sono state ridotte con la chiusura delle scuole, etc., invece di ridurre al minimo il tasso di occupazione consentito al chiuso e aumentare al massimo orari di apertura e corse.

Questo risultato “evidenzia la non linearità del numero di infezioni previsto in funzione del numero di visite: si può ottenere una riduzione sproporzionatamente grande delle infezioni con una piccola riduzione delle visite. Inoltre, il ridurre l’occupazione massima consentita ha sempre portato, nel modello, a un minor numero di infezioni previste per lo stesso numero di visite totali. Ciò si verifica perché, riducendo le occupazioni massime, si sfrutta la densità di visita variabile nel tempo all’interno di ciascun POI, riducendo in modo sproporzionato le visite a questi luoghi durante i periodi ad alta densità (con il rischio più alto), mentre le visite rimangono invariate nei periodi a bassa densità (con rischi inferiori)”.

“Questi risultati” – concludono gli Autori della ricerca – “supportano i risultati precedenti che precisi interventi, come ridurre la capienza massima, possono essere più efficaci di misure meno mirate, comportando inoltre costi economici sostanzialmente inferiori” [8]. In un mio precedente articolo, intitolato “Il ‘boom’ dei prezzi e l’impatto dei lockdown: l’Italia rischia ora la ‘tempesta perfetta’”, ho mostrato come, in effetti, l’impatto economico dei lockdown in Italia sia stato devastante [9] per tutta una serie di ragioni, e come il peggio da noi non sia affatto scongiurato se si considera il contesto internazionale, con gli enormi squilibri di prezzi e di mercato innescati dalla pandemia. La strategia del limitare l’occupazione massima avrebbe consentito di mitigare quest’impatto tutt’altro che secondario e di non dover chiudere per mesi intere attività in modo indiscriminato, come invece è stato fatto.

Le modalità di trasmissione del contagio di SARS-CoV-2 fra le persone

Certamente, i fattori che rendono un luogo più a rischio di un altro sono numerosi e il tasso di occupazione è solo uno di essi. Sappiamo infatti che l’esposizione ad alte dosi di SARS-CoV-2 (che implica maggior rischio di infezione) è più probabile nelle interazioni ravvicinate fra le persone, come nel corso di riunioni o in bar affollati, o nel toccarsi il naso o la bocca dopo aver ricevuto quantità sostanziose di virus sulle mani. Le ricerche sperimentali hanno mostrato che le interazioni interpersonali sono più pericolose in spazi chiusi piccoli e a breve distanza, con un’escalation nelle dosi che aumenta con il tempo di esposizione. Ma per tradurre tutto ciò in numeri occorre sviluppare un semplice modello del fenomeno.

Prima, però, il fenomeno occorre capirlo bene. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) utilizza un diametro delle particelle di 5 μm per distinguere fra la trasmissione dei virus per via aerea (<5 μm), o aerosol, e quella tramite goccioline (>5 μm), o droplet. Alcuni studi suggeriscono che le particelle superiori a 6 μm tendono a depositarsi principalmente nelle vie aeree superiori, mentre le particelle inferiori a 2 μm si depositano principalmente nelle regioni alveolari [10]. Pertanto, le particelle inferiori a 10 μm possono penetrare più in profondità nel tratto respiratorio e hanno più probabilità di veicolare un virus nella regione polmonare inferiore, dove sappiamo che il SARS-CoV-2 può fare il maggior danno.

L’attività respiratoria comporta l’emissione di particelle di dimensioni variabili, con una distribuzione che dipende dalle condizioni di emissione. Poiché la probabilità che una gocciolina contenga virioni (cioè singole particelle virali) è, a parità di altre condizioni, legata al suo volume, ne deriva che in aria il SARS-CoV-2 può essere veicolato senz’altro attraverso “grosse goccioline” che ricadono rapidamente al suolo. Una parte delle unità virali, però, può essere emessa attraverso “goccioline medie e piccole” che, per le loro dimensioni, possono persistere in aria per un tempo prolungato, come aerosol. Queste, essendo anche assai più numerose [28], possono quindi costituire un ulteriore canale di trasmissione del contagio (che però diventa il canale di gran lunga più importante quando le persone indossano le mascherine).

Dunque, il canale di trasmissione del contagio da SARS-CoV-2 ritenuto principale è mediante droplet – ovvero goccioline di secrezioni respiratorie prodotte tossendo, starnutendo, parlando, respirando – ma il contagio può avvenire pure tramite aerosol. Un esperimento effettuato dall’Istituto per le Malattie infettive americano (NIAD) [11, 12] ha mostrato come il virus SARS-CoV-2 possa rimanere sospeso nell’aria, sotto forma di aerosol, fino a 3 ore o più; mentre, secondo un altro studio [51], può rimanervi addirittura fino a 16 ore. Tuttavia, se la persona che emette l’aerosol infetto nell’aria abbandona la stanza, la quantità di virus si dimezza nel giro di un’ora. Inoltre, le droplet depositate sulle superfici (ad es. metalliche) possono conservare il virus – in quantità sempre più ridotte – fino a 72 ore.

In pratica, la trasmissione del SARS-CoV-2 da persona a persona avviene mediante droplet in due casi [13]: (1) quando la distanza è ravvicinata (1-2 metri) e le droplet provenienti da una persona infetta vengono direttamente a contatto con le mucose (bocca, occhi, naso) di un soggetto recettivo oppure (2) indirettamente, dopo aver toccato con le mani oggetti contaminati (chiamati “fomiti”) attraverso le droplet che vi si sono depositate sopra. Tuttavia, le goccioline con diametri aerodinamici più piccoli percorrono distanze maggiori nella forma di aerosol (denominati bioaerosol) e di conseguenza questi provocano la trasmissione per via aerea della malattia se vengono inalati in quantità.

Figura 4. I due principali canali di trasmissione del virus SARS-CoV da una persona all’altra. Le mascherine fermano le droplet ma non tutte le particelle di aerosol, che dunque in tal caso diventano il principale canale di trasmissione. (fonte: elaborazione dell’Autore sulla base dei paper scientifici citati nel testo) [13].

Nel caso del Covid-19, anche sulla base di studi del passato (quando – si parla di molti decenni fa – si aveva difficoltà a rivelare strumentalmente goccioline molto piccole, cosa oggi invece fattibile ad es. grazie a laser, PC, etc.) si è all’inizio ritenuto che fossero prevalentemente le droplet a trasmettere la malattia rispetto agli aerosol. Pertanto, la ricerca si è concentrata maggiormente sul ruolo e sul meccanismo di trasmissione delle droplet. Tuttavia, recenti evidenze supportano l’ipotesi che anche gli aerosol giochino un ruolo importante nella trasmissione del SARS-CoV-2 [14, 15]. Anzi, si ritiene che gli aerosol rappresentino un rischio di infezione addirittura maggiore rispetto alle droplet per le persone suscettibili poste a più grande distanza rispetto al raggio di caduta (di circa 2 metri) delle goccioline più pesanti.

La particelle di aerosol espirate vengono trasportate (cioè spostate), in un ambiente chiuso vuoto e isolato, ma non tanto dal processo di diffusione (come quello di un profumo in una stanza), che è molto lento in quanto la velocità di diffusione è inversamente proporzionale al quadrato del diametro delle particelle, per cui una piccola particella di aerosol da 1 μm di diametro percorre 0,002 m/sec, ovvero 7 metri in un’ora. Sono le correnti d’aria, la ventilazione forzata per il ricambio d’aria con l’esterno, il ricircolo dell’aria (ove presente un sistema di climatizzazione a pompa di calore), nonché il movimento delle persone, a far sì che lo spostamento nell’aria delle particelle contenenti il virus sia assai più rapido e turbolento.

Come l’ing. Giorgio Buonanno, professore associato all’Università di Cassino, ha spiegato in un ottimo articolo dal significativo titolo Come il mito dei droplets ha sostituito (fino ad oggi) la trasmissione aerea, che peraltro trovate su questo stesso sito web [54], “l’importanza della trasmissione aerea (cioè tramite aerosol, ndr) è stata inizialmente negata con forza dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e dalla maggior parte delle organizzazioni di sanità pubblica [60]. L’OMS ha gradualmente ammorbidito la sua posizione dichiarando solo il 30 aprile 2021 che la trasmissione aerea del SARS-CoV-2 è importante [61]. La lenta risposta delle principali organizzazioni di sanità pubblica nel rivedere la comprensione della trasmissione del SARS-CoV-2 è sconcertante e tragica, poiché non c’è dubbio che questi ritardi abbiano contribuito a uno scarso controllo della pandemia e ad una crescita di contagi e di morti”.

L’articolo di Buonanno prosegue illustrando perché queste organizzazioni hanno mostrato così tanta resistenza al cambiamento, per cui ne raccomando la lettura. Ma mi si consenta di citare un altro estratto dal suo lavoro, tanto per dare il “sapore” della situazione: “[..] Negli ultimi decenni, con antibiotici, vaccini e nessuna grande pandemia, questi dettagli sulla trasmissione non hanno rappresentato una priorità. Gli esperti di droplets avevano il controllo di tutte le istituzioni chiave e potevano ignorare i pochi sostenitori della trasmissione aerea. Se ad es. un collega avesse scritto una proposta di ricerca per finanziare uno studio sulla trasmissione aerea, i revisori anonimi avrebbero rispedito la domanda al mittente perchè “la trasmissione aerea non è importante, quindi non si dovrebbero sprecare fondi per questo”.

E ancora, sempre dal suddetto articolo di Buonanno: “Nel febbraio 2020, sembrava che gli esperti di trasmissione aerea fossero molto timidi, nonostante le prove significative a favore. Nel frattempo l’OMS dichiarava con sicurezza, il 28 marzo 2020, che [62]: “FATTO: IL COVID NON È AIRBORNE, e dire che si trasmette per via aerea è DISINFORMAZIONE, aiutate @WHO a combattere! [..] La prof. Lidia Morawska ha organizzato un gruppo internazionale di scienziati, di cui faccio parte, che ha trascorso l’ultimo anno a lavorare su questo tema. Ed anche se la teoria dei droplets sta affondando, il nostro lavoro non è finito. [..] Ma oltre a cambiare la storia della scienza, la pandemia da Covid-19 può cambiare anche la nostra visione. È tempo di mettere in sicurezza l’aria che respiriamo negli ambienti chiusi”.

Verso un modello per confrontare il rischio di contagio (e la potenziale gravità del Covid) nei vari luoghi

In realtà, stimare il rischio relativo di contagio in diversi luoghi chiusi non è così difficile come potrebbe sembrare a prima vista, se si utilizza un modello semplificato appropriato. Infatti, i parametri principali da tenere in considerazione nel modello sono: (1) il numero di persone presenti nell’ambiente; (2); il volume di aria contenuto nell’ambiente; (3) il tempo trascorso in quell’ambiente; (4) il tasso di ricambio dell’aria. Di questi quattro parametri, in generale solo i primi tre possono variare in modo davvero rilevante da una situazione all’altra, e quindi colgono bene l’“essenza” del problema (non a caso sono gli stessi tre parametri usati nello studio di Nature appena illustrato, salvo l’uso della superficie al posto del volume).

Difatti, quando si modellizza un fenomeno che si ha difficoltà a osservare direttamente – al fine di comprenderlo meglio ed in maniera quantitativa, e soprattutto allo scopo di fare delle previsioni – poiché non è possibile tener conto (almeno in prima battuta) di tutte le variabili in gioco, occorre fare delle ipotesi semplificative. L’analisi successiva dei risultati ottenuti ci dice se il modello predittivo è affidabile e porta a conclusioni corrette. In caso negativo, occorre raffinare ulteriormente il modello che, una volta raggiunto il livello di affidabilità cercato, rappresenta un potente strumento a disposizione dei decisori.

Purtroppo, a guidarci e ad orientarci nella lotta alla pandemia da SARS-CoV-2 sono stati, inizialmente, teorie ed esperimenti, seppur geniali, datati 1907 e 1930. Infatti, le attuali linee guida sugli impianti di ventilazione/climatizzazione in strutture comunitarie non sanitarie e in ambienti domestici (ad es. ristoranti, scuole o teatri) in relazione alla diffusione del virus SARS-CoV-2 si basano su quei dati ed esperimenti assai vecchi. All’epoca non si riuscivano a visualizzare e monitorare le piccole particelle di aerosol; quel che si vede oggi, anche dai fotogrammi degli esperimenti e dagli attuali tracciamenti, è un pulviscolo di minuscole goccioline, che formano un aerosol. E, con i modelli e le simulazioni in corso di sviluppo, è possibile calcolare la concentrazione di aerosol a differenti distanze e in tempi diversi [31].

La principale ipotesi semplificativa adottata nel nostro modello, come accennavo, è che il tasso di ricambio dell’aria, eccetto due casi “patologici” (scuola e casa) sia simile – entro un fattore 2 o poco più – per i vari “Punti di Interesse” (POI) considerati. Ciò è verosimile poiché, salvo le citate eccezioni, si tratta di luoghi pubblici soggetti alle stringenti normative in materia (ovvero alla norma UNI 10339, in vigore dal 1995 e ora in fase di revisione), che prevedono per attività commerciali ed uffici un afflusso minimo di aria esterna (e quindi anche una corrispondente estrazione di aria dall’ambiente) compreso, a seconda dei casi (v. tabella), fra 9 e 11 x 10-3 mc/sec per persona, pari a circa 0,6 metri cubi/minuto per persona [16].

La portata di aria esterna nei vari tipi di edifici ad uso civile prevista, in Italia, dalla norma UNI 10339 [16, 17]. Si noti che 10-3 mc/s = 0,01 mc/s = 3,6 mc/h.

Mentre in alcuni mezzi di trasporto (bus, tram) vi è un’areazione naturale che avviene attraverso l’apertura delle porte alle fermate, negli edifici pubblici (negozi, cinema, etc.) il ricambio d’aria con l’esterno avviene solitamente tramite impianti di Ventilazione Meccanica Controllata (VMC) a recupero di calore e dimensionati sui valori di legge (in modo da garantire il risparmio energetico), i quali possono essere completamente indipendenti oppure integrati nell’impianto di climatizzazione. La già citata norma prevede anche una filtrazione minima dell’aria e una movimentazione dell’aria con velocità entro determinati limiti (da 5 a 15 cm/sec) [17], il tutto per mantenere adeguate caratteristiche di qualità dell’aria.

Consideriamo, a titolo di esempio, il caso di un ufficio open space di 180 mq destinato a call-center. La portata d’aria da immettere / estrarre secondo la norma UNI 10339 è 11 x 10-3 mc/s per persona, pari a 39,6 mc/h per persona. L’affollamento calcolato tramite l’indice di affollamento previsto dalla norma UNI 10339 (v. tabella) è 0,12 persone/mq x 180 mq = 22 persone. Assumendo un affollamento massimo di 25 persone, la portata di aria richiesta è di 25 pers. x  39,6 mc/(h pers.) = 990 mc/h [17]. Se il soffitto è alto 3 m, il volume dell’open space è di 180 mq x 3 m = 540 mc, per cui ho circa due ricambi d’aria all’ora, ovvero circa il doppio di quanto avviene in un’aula scolastica (aprendo le finestre a fine ora).

Indice di affollamento nei vari tipi di edifici ad uso civile previsto, in Italia, dalla norma UNI 10339.

Tuttavia, mentre in tutte le altre situazioni gestite con un impianto di Ventilazione Meccanica Controllata il ricambio d’aria è continuo – e dunque costante – nel caso di un’aula scolastica non lo è: esso avviene tipicamente solo quando cambia l’insegnante, quindi ogni ora o, a volte, ogni due ore. Anche nelle case il ricambio d’aria, specie d’inverno, avviene di solito 1 o 2 volte al giorno per tot minuti, per ovvie ragioni di climatizzazione e risparmio energetico. Dunque, sia nel caso delle scuole sia delle abitazioni si assiste a un assai rilevante accumulo nell’aria dei virioni emessi sotto forma di aerosol da un eventuale infetto presente. Pertanto, ne dovremo tenere debitamente conto nell’implementare il nostro modello.

Altre informazioni utili e strategie di difesa fornite dagli studi scientifici

La trasmissione di SARS-CoV-2 da una persona infetta avviene principalmente attraverso l’aria nella forma di droplet e particelle di aerosol (più di rado attraverso il contatto con superfici infette). Queste particelle variano nelle loro dimensioni e aerodinamica. Il tasso di trasmissione aerea del SARS-CoV-2 dipende da diversi fattori, come l’origine delle droplet e degli aerosol, la carica virale, lo stato del flusso d’aria, le condizioni ambientali, etc. [13]. I risultati degli studi effettuati negli ospedali indicano che la ventilazione di un ambiente chiuso, gli spazi aperti, la disinfezione di ambienti e superfici, nonché delle aree dei servizi igienici, possono limitare efficacemente la concentrazione di SARS-CoV-2 nell’ambiente.

Studi su pazienti con infezioni respiratorie hanno dimostrato che, quando una persona infetta starnutisce o tossisce, si forma una nuvola di droplet cariche di agenti patogeni; queste goccioline possono viaggiare fino a 7-8 m lontano dalla sorgente [13]. L’aria espulsa con un colpo di tosse viaggia a oltre 80 km/h e trasporta fino a 3.000 droplet. Uno starnuto, invece, può arrivare ad una velocità di oltre 150 km/h e può espellere fino a 40.000 droplet infette. Come detto, non si sa ancora quante particelle virali siano necessarie per dare origine ad un contagio. Nel caso della SARS del 2002-2003, uno studio aveva stimato essere inferiore a 1.000, un numero forse maggiore rispetto a quelle necessarie nel caso del SARS-CoV-2.

Non vi è infatti accordo sulla quantità o dose virale minima capace di causare il COVID-19 in persone sane. Al contrario, molti ricercatori ritengono che poche centinaia di unità, o virioni, di SARS-CoV-2 siano sufficienti per causare il COVID-19 negli ospiti sensibili [18]. Un singolo atto respiratorio rilascia alcune centinaia di particelle, e uno studio su soggetti affetti da raffreddore ha evidenziato in questi una maggiore produzione, caratterizzata da grande variabilità: il 24% dei soggetti era responsabile dell’82% di particelle [19]. Un altro studio ha evidenziato che l’80-90% delle particelle rilasciate durante la normale respirazione sono particelle di aerosol con diametri inferiori a 1 μm [20], mentre il resto sono droplet.

Da ricordare, inoltre, anche l’esistenza dei cosiddetti “super-diffusori”, di difficilissima identificazione e che rappresentano uno dei maggiori problemi nell’espansione della pandemia di Covid-19. Diversi studi hanno infatti dimostrato che, in casi estremi, una singola persona infetta può diffondere il virus a dozzine di persone. Si ritiene difatti che alcune persone infette possano avere una carica virale più elevata e quindi rilasciare più virus, come si è visto in passato con la SARS e con la MERS. Ciò significa che è probabile che la saliva e gli aerosol di alcune persone contengano una maggiore concentrazione di particelle virali, rendendo quella persona più contagiosa [23], in accordo con quanto trovato per i rinovirus.

Una ricerca cinese pubblicata a luglio 2020 dai Centers for Disease Control and Prevention (CDC) statunitensi [21] ha mostrato come un solo paziente positivo al COVID-19 sia riuscito a infettare 9 persone all’interno di un ristorante, durante un pranzo, a causa del flusso d’aria del locale. Le 9 persone erano presenti nel suo stesso tavolo o nei tavoli vicini e si trovavano tutte sottovento – e in linea – rispetto al flusso del condizionatore d’aria in una stanza senza finestre. Gli altri 73 clienti che in quel momento si trovavano nello stesso piano del locale, invece, non si sono ammalati. Come mostra la figura qui sotto, l’aria condizionata soffiava in direzione ovest verso tre tavoli, e probabilmente ha rimbalzato contro il muro tornando verso la famiglia “C”, perché gli aerosol tendono a seguire il flusso d’aria.

Figura 5. Lo studio cinese sul contagio associato all’aria condizionata in un ristorante [21]. Il tavolo della famiglia “A” è al centro tra i tavoli “B” e “C” dove stavano pranzando altre due famiglie, e comprende l’infetto (A1) e altre 9 persone di cui 4 si sono ammalate. La famiglia “B” e la famiglia “A” si sono incontrate per 53 minuti e tre dei suoi membri (una coppia e la figlia) si sono ammalati. La famiglia “C” sedeva accanto alla famiglia “A” nell’altro tavolo lungo lo stesso lato della stanza soggiornando con loro per 73 minuti: due dei suoi membri (una madre e sua figlia) si sono ammalati. I tavoli rotondi distavano un metro l’uno dall’altro. Sopra il tavolo della famiglia “C” c’era un apparecchio split di aria condizionata che soffiava in direzione ovest, ovvero verso sinistra nella figura, creando un flusso d’aria in quell’ala della stanza.

Anche uno studio su 94 casi di positività al Covid all’interno di un call center in Corea del Sud [22] – svolto grazie a un app di monitoraggio attiva in quel Paese – ha dimostrato come aumentino notevolmente i contagi se si rimane tante ore in uno stesso ambiente e sullo stesso lato della stanza, poiché la colpa è anche dei flussi d’aria, se questi si limitano a un ricircolo (come nel caso dell’aria condizionata).  Al di fuori del piano del call center, invece, si sono infettate soltanto tre persone nonostante tutti i 1.145 tra dipendenti e residenti nel palazzo abbiano usato gli stessi ascensori e gli stessi spazi pubblici. Dunque, rimanere tante ore nella stessa stanza e con un flusso d’aria “sfavorevole” diventa pericoloso, per cui è fondamentale che tutti mantengano le mascherine dentro gli uffici ed è altrettanto fondamentale, laddove si può, aerare i locali di continuo per disperdere ogni possibile gocciolina rimasta in sospensione.

Uno studio pubblicato sulla rivista Proceedings of the Royal Society A [30] ha fatto emergere come parlare a lungo possa essere pericoloso tanto quanto tossire vicino ad un’altra persona, perché le micro-particelle espulse dalla bocca rimangono sospese nell’aria. Infatti, un’ora dopo che una persona contagiata ha parlato per 30 secondi, le goccioline espulse parlando, ovvero sotto forma di aerosol, contengono molta più carica virale che se si fosse emesso un colpo di tosse. Senza ventilazione, la dose virale assorbita dopo un certo tempo potrebbe essere quindi sufficiente a trasmettere il Covid. Una scoperta che può aiutare a spiegare come mai il Covid-19 si diffonde facilmente in ambienti interni – cioè al chiuso – e che dimostra come le misure di distanziamento sociale, da sole, non forniscano una protezione adeguata dal virus.

Come evidenziato da questo lavoro di modellizzazione svolto, a partire da dati sperimentali, da Oliveira et al. [30], a causa dell’elevata massa e dose virale associata alle goccioline di grandi dimensioni o droplet (circa il 99% del valore), sia un breve colpo di tosse che la prosecuzione del parlare sono pericolosi entro 2 m da un infetto senza mascherine. Mentre il ricambio d’aria tramite VMC e la conseguente ventilazione (in termini sia di ampiezza sia di direzione) è della massima importanza per la rimozione degli aerosol – e dunque per ridurre al minimo il rischio di infezione aerea al chiuso – i dispositivi di protezione individuale sono cruciali per ridurre il rischio di contaminazione a corto raggio (<2 metri), specie in presenza di sistemi di ventilazione o riciclo che inducono flussi verso l’alto oppure da un infetto verso di noi.

Come già sottolineato dall’ing. Buonanno [24], autore di lavori di ricerca e anche divulgativi sul tema (alcuni dei quali pubblicati sul sito della Fondazione Hume), “gli aerosol carichi di virus infettano i soggetti suscettibili dove sono più concentrati, con una dinamica simile al fumo di sigaretta. In ambienti con ventilazione non ottimale, gli aerosol infettivi possono accumularsi nell’aria dell’ambiente e raggiungere concentrazioni pericolose”. Le strategie mirate a contrastare la trasmissione, come il distanziamento fisico e le mascherine, sono quindi fondamentali per abbattere il rischio di trasmissione a corto raggio tramite droplet (che precipitano in pochi istanti a terra), ma per diminuire la trasmissione a medio e lungo raggio via aerosol occorre anche un’elevata ventilazione forzata con l’esterno (e/o filtrazione dell’aria).

Figura 6. Schema delle strategie attuabili per contrastare la trasmissione del SARS-CoV-2. Si noti l’importanza di un ricambio d’aria elevato per proteggersi dalla trasmissione aerea del virus e come la strategia della riduzione dell’occupazione massima di un ambiente permetta di contrastare contemporaneamente sia il rischio di contagio tramite droplet sia quello di contagio tramite aerosol. (fonte elaborazione dell’Autore sulla base dei vari articoli scientifici peer reviewed citati nel testo) [24, 30].

L’importanza delle mascherine e l’accumulo nell’aria dell’aerosol infetto

L’uso delle mascherine da parte delle persone è un buon metodo per ridurre la dose virale assorbita e dunque sia la probabilità di contagio sia la gravità della malattia sviluppata. Tuttavia, esse hanno maggiore efficacia se la compliance è elevata. Sebbene le mascherine FFP2/N95 filtrino il 95% delle particelle da 3 μm garantendo una buona protezione al personale medico che sigilla lo spazio fra viso e mascherina, l’efficacia per il grande pubblico è assai inferiore, sia perché quasi sempre non vengono indossate correttamente sia perché in Italia abbondano FFP2 “tarocche”, con capacità di filtrazione fra il 10% e il 50%. Perciò le persone che le usano sono abbastanza protette dalle goccioline infette ma non dagli aerosol infetti.

In realtà, le mascherine sono più utili se indossate dalle persone infette che non dalle persone che si vogliono proteggere, come dimostrato in modo quantitativo da un esperimento cinese di Chan J. et al. [32] svolto sui criceti. Il team di scienziati asiatici ha diviso 52 criceti in due categorie: sani e contagiati con il SARS-CoV-2. I differenti gruppi sono stati messi ciascuno all’interno di gabbie, alcune delle quali schermate da mascherine posizionate in modo da regolare i flussi d’aria degli infetti verso i sani. Dopo circa una settimana di osservazione, è emerso che il 66,7 dei criceti, quelli mancanti di protezione, avevano contratto il Covid. Di contro, il tasso di infezione è stato di poco più del 16% quando le mascherine chirurgiche sono state messe sulla gabbia degli animali infetti e di circa il 25% quando sono state collocate sulla struttura contenente i criceti sani, confermando quanto suggerito dall’intuizione.

Pertanto, la seconda ipotesi semplificativa del nostro modello di base è che tutte le persone indossino le mascherine quando si trovano in un ambiente indoor (edifici o mezzi di trasporto), mentre non prevede che si adottino i famosi 2 metri di distanziamento sociale (peraltro ben di rado osservati). Il fatto che anche mascherine male indossate o “tarocche” di pessima qualità impediscano la trasmissione del SARS-CoV-2 tramite droplet (che vengono assorbite soprattutto dalla mascherina della persona infetta che le emette), fa sì che il canale di trasmissione rimanente – dando per scontata una corretta igiene delle mani – sia quello degli aerosol, per il quale sono importanti il tempo di esposizione e la dose assorbita.

Va sottolineato che, poiché le goccioline contengono una quantità di virus proporzionale al proprio volume, mentre con quelle grandi che in breve tempo cadono a terra a poca distanza (le droplet) ci si può infettare subito se si è nel raggio di un paio di metri da un infetto privo di mascherina che parla, con quelle piccole (cioè con l’aerosol) per raggiungere la medesima dose virale minima infettante basta essere esposti (anche a vari metri di distanza) per un tempo sufficientemente più lungo. Dato che con le mascherine è attivo solo questo canale di trasmissione aerea, il nostro modello – essendo quantitativo – aiuterà anche a capire in quali luoghi/tempi si può più verosimilmente raggiungere la dose minima infettante.

Come accennato in precedenza, la norma UNI 10339 prevede una movimentazione dell’aria con velocità dell’ordine di 10 cm/sec, equivalenti a 6 metri al minuto (ad es. per una particella di aerosol). D’altra parte, se abbiamo due ricambi d’aria all’ora – come nel caso di studio illustrato in precedenza e ottemperante alla medesima norma – vuol dire che ogni minuto verrà sostituita con aria esterna al più 1/30 dell’aria presente nell’ambiente. Pertanto, l’aerosol infetto emesso in un singolo atto respiratorio da una persona infetta, in un ambiente soggetto alla norma UNI 10339 verrà gradualmente eliminato nel corso del tempo, e si può stimare che venga quasi totalmente eliminato in un tempo scala dell’ordine di mezz’ora.

Tuttavia, gli atti respiratori di una persona, in un adulto sano a riposo, sono fra i 12 ed i 16 al minuto (è bene comunque precisare che la frequenza respiratoria è legata, oltre che all’attività svolta in quel momento, anche all’età e alla frequenza cardiaca) [25]. Pertanto, come illustrato in modo assai semplice dalla figura qui sotto, quando una persona entra in un ambiente chiuso soggetto alla norma UNI 10339, la quantità di aerosol infetto aumenta gradualmente nel tempo, raggiungendo un plateau dopo circa una mezz’oretta. Se poi l’infetto abbandona l’ambiente, si verifica il fenomeno inverso, cioè dal livello di aerosol infetto raggiunto si ridiscende gradualmente fino a circa zero in una mezz’oretta.

Figura 7. Come cresce la curva che esprime l’accumulo, nell’arco di mezz’ora di tempo, degli aerosol infetti emessi dai vari atti respiratori di un soggetto infetto. Come si vede, senza un ricambio d’aria (retta rossa), la crescita è lineare, mentre se c’è un ricambio d’aria ogni mezz’ora la curva (di colore azzurro) tende a un plateau sito a poco più della metà (precisamente al 55%) del valore che si ha nell’altro caso. Il primo caso, senza ricambio d’aria, è quello tipico di un’aula scolastica, mentre il secondo è quello del già citato ambiente (ad es. un call center) soggetto alla norma UNI 10339. (fonte: elaborazione dell’Autore)

Noi inspiriamo ogni ora circa 600 litri d’aria (e durante l’attività sportiva oltre 5 volte di più), pari a 10 litri al minuto [26]. Poiché in una tipica aula di scuola di 137 mc vi sono 300.000 litri d’aria, se ad es. nella classe vi sono 26 studenti l’aria totale da essi respirata fra un cambio d’aria orario e l’altro è di 300 litri x 26 = 7.800 litri, pari al 2,6% dell’aria totale ivi presente. Oltre all’accumulo di aerosol infetto (se è presente un infetto), si assiste quindi, parallelamente, anche ad un accumulo di anidride carbonica (CO2) – misurabile anche con un monitor low cost – rispetto al valore di fondo atmosferico di 400 ppm (parti per milione). Pertanto, si potrebbe in teoria usare a posteriori il livello di CO2 misurato per una precisa calibrazione del ns. modello.

Infatti, solo circa lo 0,04% dell’aria inspirata è anidride carbonica (CO2), mentre nell’aria espirata dai nostri polmoni la percentuale di CO2 aumenta al 4% [26]. Dunque, nell’esempio appena fatto, inizialmente nell’aula sono presenti lo 0,04% di 300.000 litri d’aria, ovvero 120 litri, di CO2. Ma i 26 studenti in un’ora emetteranno il 4% di 7800 litri, ovvero 312 litri, di CO2. Pertanto, dopo un’ora nell’aula il livello di CO2 sarà salito a 120 + 312 = 432 litri, ovvero a 432 / 120 = 3,6 volte il livello iniziale, e dunque a 3,6 x 360 = 1.296 ppm. Quando si supera 1.500 ppm, si inizia ad avvertire il disagio di respirare “aria viziata” [27]. Anche in casa i livelli di CO2 possono variare tanto, ed essere compresi fra 500 e 2.000 ppm (di notte).

Secondo lo studio di De Oliveira et al. [30], l’aerosol sospeso emesso parlando ininterrottamente per 1 ora in una stanza scarsamente ventilata fornisce lo 0,1-11% di rischio di infezione per le cariche virali iniziali di 108-1010 virioni/ml, rispettivamente; diminuendo allo 0,03-3% per 10 ricambi d’aria all’ora tramite la ventilazione forzata con l’esterno. Questi risultati forniscono stime quantitative utili per lo sviluppo del distanziamento fisico e di una Ventilazione Meccanica Controllata efficace. La misurazione dei livelli di CO2 in un ambiente può essere usata come facile e utile indicatore indiretto del livello di ricambio d’aria attuale (baseline) e per un confronto con i valori di CO2 attesi se viene rispettata la norma UNI 10339 (non è infatti difficile realizzare un algoritmo che consente di fare questo calcolo – tenendo conto naturalmente del tipo di attività svolta delle persone – per un confronto con i valori effettivamente misurati).

Il modello implementato nel calcolatore di dose virale assorbita

A questo punto, capito anche quantitativamente il fenomeno, risulta molto facile implementare il modello, cosa che faremo tramite un “calcolatore di dose virale assorbita” realizzato con un foglio di calcolo Excel, di cui la Tabella 1 qui sotto mostra il pannello con i parametri generali da fornire in ingresso. Dato che non ci interessa la dose virale assoluta – bensì solo quella relativa – per poter confrontare tra loro i vari Punti di Interesse (POI), ne consegue che in realtà i valori di questi parametri generali (caselle verdi) non sono decisivi. In pratica, anche se ad es. li raddoppiassi, la graduatoria finale dei POI per dose assorbita non cambierebbe affatto; ad ogni modo, ho adottato valori realistici.

Tabella 1. Alcuni parametri generali, già illustrati nel testo, da fornire in ingresso (caselle verdi) al calcolatore di dose virale assorbita e primi semplici risultati dei calcoli (caselle rosse).

Un’altra conseguenza del fatto che non ci interessano i valori assoluti ma solo quelli relativi è che, per quanto riguarda la dose di aria infetta assorbita da una persona nei vari ambienti (POI) considerati,  non occorre ragionare in termini “particellari” (cioè da fisici) bensì si può considerare infetta tutta l’aria espirata da una persona contagiosa, misurata in litri/minuto. Questo è un approccio più pratico, che ci semplifica non poco la vita senza però alterare il risultato finale (la suddetta graduatoria finale dei POI per dose assorbita). Insomma, è un po’ come se alla fine di un’escursione di trekking dicessimo: “oggi mi sono bevuto 1 litro di acqua”, anziché dire “oggi mi sono bevuto 3,3 x 1025 molecole di H2O”.

A questo punto possiamo passare a illustrare la Tabella 2, che è la parte principale del nostro calcolatore di dose virale assorbita. La parte sopra e la parte sotto della Tabella 2 vanno immaginate come poste su un’unica riga del foglio di calcolo Excel; qui sono riportate staccate solo perché altrimenti la figura risulterebbe troppo larga e quindi illeggibile. Anche qui nelle caselle verdi vengono immessi i valori di vari parametri rilevanti al problema: lunghezza, larghezza e altezza di un ambiente (ipotizzato avere la forma di un parallelepipedo); numero di persone che lo occupano; tempo di permanenza di queste persone nell’ambiente (dunque equivalente al tempo di esposizione, se è presente almeno 1 infetto).

Tabella 2. Il calcolatore di dose virale assorbita che ho sviluppato per confrontare il rischio di contagio da SARS-CoV-2 in vari comuni luoghi frequentati dalle persone. La parte alta e quella bassa della figura vanno immaginate allineate in un’unica lunga tabella. Al solito, le caselle verdi rappresentano dati in ingresso e quelle rosse dati in uscita, ovvero frutto di calcoli.

Come risultato di semplicissimi calcoli, otteniamo in altre colonne della tabella: il volume (in metri cubi) dell’ambiente; il volume e lo spazio medio a disposizione per ogni persona (per il confronto con i requisiti di legge); il numero di infetti presenti. Quest’ultimo viene stimato grazie alla percentuale di persone infette fra quelle presenti nel POI, un parametro immesso nella Tabella 1. Qui ho adottato una percentuale del 4%, come in prossimità del picco della terza ondata di Covid in Italia nel marzo 2021. Se dunque un “marziano” fosse arrivato all’epoca in uno dei POI italiani, avrebbe trovato – a parità di altre condizioni! – in media più infetti presenti in un luogo affollato (ad es. metropolitana, cinema, etc.) che in uno poco affollato.

Proprio per tener conto del fatto che nei luoghi affollati si possono trovare più infetti – e quindi si può avere per i sani una dose virale assorbita maggiore – i calcoli nelle colonne successive sono stati effettuati considerando sempre presente nell’ambiente preso in esame almeno 1 persona infetta (dato che un valore inferiore a 1 non avrebbe evidentemente alcun senso se si ragiona, come stiamo facendo, sul singolo POI), salvo che nel caso della metropolitana (dove adottiamo il numero trovato di 8,0 infetti), del cinema (8,0 infetti) e del supermercato (4,0 infetti). Ciò per rendere il più possibile omogeneo e sensato il confronto fra i vari POI. Ma si noti che, se raddoppiassimo il parametro “percentuale di persone infette”, la graduatoria finale dei POI, al solito, non cambierebbe.

La colonna successiva della Tabella 2, quella relativa all’“aria infetta espirata”, è dunque data dal prodotto fra l’aria emessa da una persona contagiosa (10 litri al minuto, come da Tabella 1) per il numero di minuti in cui questa è presente nell’ambiente (si ipotizza che l’infetto entri nell’ambiente al tempo t = 0, cioè possiamo immaginare che entri contemporaneamente a noi). Le due colonne successive, “concentrazione dell’aria infetta” e “aria infetta inspirata”, hanno semplicemente lo scopo di calcolare la quantità di aria infetta respirata da una persona sana presente nell’ambiente, che dipende dalla sua concentrazione, che a sua volta è inversamente proporzionale al volume dell’ambiente in metri cubi.

Infine, l’ultima colonna calcola la dose virale totale inspirata da una persona che permane nel POI per il tempo considerato come realistico per ciascun POI. Calcolare questa dose equivale, dal punto di vista matematico, a calcolare – con riferimento alla Fig. 7 illustrata in precedenza – l’area sotto la retta rossa per i POI senza ricambio d’aria continuo (casa e aula di scuola) e, invece, l’area sotto la curva azzurra per tutti gli altri POI. Si noti che, dopo mezz’ora (quando cioè viene raggiunto il plateau), l’area sotto la curva azzurra è pari al 74% dell’area sotto la retta rossa. Dunque, la dose virale assorbita in assenza di ricambio d’aria è (a parità di altre condizioni) maggiore e il divario cresce molto di più nei minuti successivi al plateau.

Le prime stime relative ottenute e un piccolo raffinamento del modello

In realtà, anche se all’apparenza abbiamo finito, nel modello occorre tener conto di alcuni aspetti ulteriori, che ho riportato nella Tabella 3 qui sotto forma di tre colonne azzurre con dei fattori moltiplicativi. La prima colonna (“No mask”) serve a tenere conto del fatto che, a casa, non si indossano mascherine, per cui la dose viene assorbita verosimilmente soprattutto attraverso le droplet, che hanno un volume notevole; pertanto, si deve considerare una dose realistica di almeno 10 volte maggiore rispetto a quella stimata sotto l’ipotesi semplificativa (valida per gli altri POI) che tutti indossino le mascherine. Si noti che le mascherine FFP2, se ben indossate, assorbono il 95% delle particelle, giustificando il fattore 10 introdotto per la differenza fra l’assenza di mascherine e l’uso sia da parte degli infetti che dei sani.

Tabella 3. Alcuni possibili raffinamenti del calcolatore di dose assorbita, implementati sotto forma di fattori correttivi moltiplicativi, come illustrato nel testo. Si noti come l’unico fattore correttivo realmente importante (in quanto è l’unico che altera la graduatoria del rischio nei vari luoghi, o POI, considerati) risulti essere rappresentato dalle mascherine, la cui importanza è sottolineata anche nel seguito di questo articolo.

La terza colonna azzurra (“Fomiti”) tiene conto del fatto che in ben tre POI (casa, metropolitana e autobus) fra quelli considerati e, più in generale, sui mezzi di trasporto il canale di trasmissione attraverso il contatto con superfici infette (perché vi si sono depositate delle goccioline) non è necessariamente trascurabile, sebbene in questo caso non sia ovvio quale fattore moltiplicativo minimo si dovrebbe adottare (ho scelto perciò, alquanto arbitrariamente, un fattore 2, il più piccolo possibile). Infine, la seconda colonna azzurra (“Extra time”) tiene conto del fatto che, in casa e in un’aula di scuola, si sta più dei 180 minuti di tempo considerati dal calcolatore. Ma allora perché non si è messo direttamente il tempo giusto?

Si tratta di un aspetto alquanto più difficile da spiegare in un articolo divulgativo, ma ci proverò. Nel nostro modello, vi sono essenzialmente tre diversi tempi-scala: i 3 secondi fra un atto respiratorio e un altro di qualsiasi persona (sana o infetta); i 30 minuti che caratterizzano un ricambio d’aria (teoricamente) completo negli ambienti chiusi soggetti alla norma UNI 10339; i 180 minuti (3 ore) legati al decadimento esponenziale del numero di particelle infettanti nell’aria presente nell’ambiente considerato [30, 31]. Mentre negli ambienti chiusi soggetti alla norma UNI 10339 le particelle infettanti non permangono nell’aria così a lungo perché dopo mezz’ora ho – se la norma è rispettata – un ricambio d’aria completo, negli altri Punti di Interesse (POI) sì, e occorre tenerne conto.

Pertanto, per stimare la dose virale totale assorbita negli ambienti chiusi tenendo conto del fatto che comunque entro 180 minuti le particelle non sono più infettanti, occorre procedere in due step: (1) dapprima occorre calcolare la dose virale assorbita in 180 minuti e poi (2) occorre moltiplicare tale valore per un fattore correttivo, in modo da tener conto di eventuali minuti di permanenza nell’ambiente oltre i 180 già considerati. Si noti, comunque, che anche se NON si usassero i fattori correttivi delle ultime due colonne azzurre, la graduatoria finale dei POI per dose assorbita NON cambierebbe affatto! Dunque, di fatto, l’unico fattore correttivo davvero importante (ai fini della graduatoria) è quello “no mask”.

Perciò, come a questo punto dovrebbe risultare chiaro al lettore, i valori da inserire nel calcolatore di dose che occorre scegliere con cura sono quelli che si riferiscono ai singoli POI considerati: dimensioni fisiche dell’ambiente e occupazione massima consentita. Per tale motivo, i valori adottati nelle tabelle mostrate sono frutto di alcune ricerche di informazioni specifiche, così da adattare al meglio il calcolatore alla realtà italiana. Per esempio, il D.M. 18/12/1975 prevede che le aule scolastiche siano di altezza non minore a 3 metri e che la superficie per alunno sia di 1,80 mq/alunno nelle scuole materne, elementari, medie e 1,96 mq/alunno nelle scuole superiori [33]. Quindi, in una classe con 25 alunni, essendo l’indice minimo per alunno di 1,80 mq, la superficie minima necessaria dovrebbe essere di almeno 45 mq. Pertanto, nel nostro calcolatore abbiamo ipotizzato una superficie di 45,5 mq e la presenza di 26 alunni.

Nel caso della metropolitana, invece, da una fonte considerata attendibile [34] sappiamo che le vetture hanno mediamente le seguenti dimensioni: larghezza 2,4-3,1 metri; lunghezza 15-20 metri; altezza 3-3,6 metri. Mentre la capacità di trasporto di una singola vettura è di 100-200 passeggeri. Pertanto, nel nostro calcolatore abbiamo ipotizzato una lunghezza di 18 metri, una larghezza di 3 metri e un’altezza di 3,2 metri, con una presenza di 200 persone. Nel caso degli ospedali, invece, si è considerata una camera con 4 malati Covid, ma non appartenente a un reparto di malattie infettive. Questi ultimi, infatti, sono di solito soggetti ad elevato ricambio d’aria ed a pressione dell’aria negativa (almeno nei migliori ospedali, nei peggiori solo alcune camere sono a pressione negativa), per cui in generale rappresentano un caso a sé.

A questo proposito, è interessante notare come a volte dei risultati che sembrano essere, diciamo, tecnicamente “dubbi” siano accettati dai media senza alcuno spirito critico. In una ricerca – di cui il prof. Bassetti parlò in un’intervista [35] – effettuata all’Ospedale San Martino di Genova (e realizzata con l’ausilio di un gorgogliatore per trasferire in acqua l’aria contenente l’aerosol di un malato Covid presente nella stanza) non è stata rilevata – secondo il pezzo giornalistico – la presenza del virus. Ciò, però, non stupisce affatto, poiché qualsiasi esperto di fisica-chimica sa che non è pensabile di estrarre dall’aria particelle così piccole usando un semplice gorgogliatore (se fosse così facile, avremmo risolto il problema dell’inquinamento da particolato in ambiente indoor!), bensì bisogna usare sistemi ben più complessi (come peraltro vedremo fra poco). In altre parole, probabilmente a Genova non hanno trovato nulla nell’acqua del gorgogliatore solo perché hanno misurato… “il nulla”!

Ciò non toglie, comunque, che negli ospedali con un buon ricambio d’aria la presenza del virus sia più contenuta. La cosa è stata confermata anche da una ricerca dell’ARPA Piemonte svolta in collaborazione con il Laboratorio di virologia molecolare e ricerca antivirale del Polo universitario San Luigi Gonzaga di Orbassano i cui risultati, già anticipati a gennaio dai media [72], sono stati pubblicati in questi giorni [73]. Lo studio in questione ha confermato una minore presenza del virus negli ospedali e nei luoghi al chiuso dove il sistema di areazione funziona alla perfezione. I reparti di terapia intensiva, nonostante la presenza di pazienti con Covid-19, sono risultati essere quelli dove il virus circola meno nell’aria. Nelle abitazioni private, al contrario, le concentrazioni di SARS-Cov-2 si sono rivelate più consistenti: fino a 40-50 copie genomiche del virus per metro cubo di aria; e tali valori risultano fortemente influenzabili dalle frequenze di ricambio d’aria e dal numero di soggetti positivi presenti nelle abitazioni, oltreché dallo sviluppo dei sintomi più comuni della malattia (tra cui principalmente la tosse secca).

Le ricerche, svolte a campione sul territorio piemontese, hanno analizzato le emissioni nell’aria del virus SARS Cov-2 da parte di pazienti con una carica virale nota. Le persone contagiate si sono esercitate a respirare, parlare o leggere a una distanza di un metro e mezzo da un apparecchio di rilevazione. L’esperimento ha evidenziato che il virus si può diffondere nell’aria, tramite le goccioline di saliva, le secrezioni respiratorie e salivari ben oltre lo spazio di sicurezza indicato dagli esperti. Per il campionamento del virus non sono stati usati metodi semplicistici, bensì: un impattatore centrifugo in grado di accelerare il flusso d’aria aspirato alla velocità del suono, minimizzare le perdite per evaporazione, mantenere l’infettività e l’integrità delle particelle virali trasferendole direttamente in una soluzione di trasporto adeguata; un campionatore a basso volume per la filtrazione dell’aria su filtri in PTFE, materiale che garantisce la massima capacità di cattura delle particelle virali di dimensioni comprese tra 10 e 900 nanometri;  un campionatore ad alto volume per la filtrazione dell’aria su filtri in fibra di vetro o quarzo, in grado di aspirare l’intero volume di una stanza in meno di un’ora.

Analisi dei risultati ottenuti: cosa abbiamo imparato ai fini del controllo della pandemia?

Se si va ad analizzare la graduatoria finale dei POI per dose virale assorbita, si vede che nettamente ai primi due posti si trovano la casa (in quanto lì non si usano le mascherine) e l’ospedale (in quanto vi è un’alta densità di infetti Covid, spesso anche quando fuori di esso il numero è basso), in perfetto accordo con quanto trovato dal rapporto dell’ISS e da quello dell’Istat citati all’inizio di questo articolo; ma va ricordato che, se nell’ospedale c’è un tasso di ricambio d’aria elevato, il virus circola meno. La dose virale assorbita in un’aula scolastica o in qualsiasi altro POI – mezzi di trasporti compresi – risulta essere oltre 10 volte più bassa, il che spiega molto bene non solo perché a casa o in ospedale una persona sana si contagi più facilmente, ma anche perché spesso le conseguenze su intere famiglie siano letali. In questi ambienti, si ha infatti il cosiddetto “reinoculo” del virus, che ne facilita il prevalere sul sistema immunitario.

Figura 8. La “guerra” di un organismo contro il COVID-19 è, inizialmente, una battaglia fra la replicazione virale del SARS-CoV-2 e la produzione di anticorpi neutralizzanti queste particelle virali. Per questo alcuni integratori (ad es. vitamina D, lattoferrina, etc.), grazie alla loro azione antivirale e immunomodulante, se presi quotidianamente come forma di prevenzione della progressione della malattia verso stadi più gravi, in caso di contagio rallentano la moltiplicazione delle particelle di virus e aiutano le difese immunitarie. Invece, il reinoculo del virus – ad es. attraverso l’aria – va esattamente nella direzione opposta: facilita la “vittoria” della replicazione virale, esponendo le persone a un maggior rischio di esito infausto.

La dose virale assorbita in un’aula di scuola, tuttavia, risulta a sua volta circa 10 volte maggiore dei POI che la seguono in graduatoria, eccezion fatta per la metropolitana. In altre parole, è una dose piuttosto elevata a causa dell’assenza di ricambio d’aria continuo. Donde la necessità di avere, in ogni aula scolastica, un sistema di Ventilazione Meccanica Controllata (VMC), non solo per ovvi motivi di prevenzione del contagio (come si vede dalla tabella, in un’aula con VMC si ha una dose assorbita almeno 10 volte inferiore), ma anche per il benessere di tutti gli occupanti, essendo la concentrazione di CO2 che si raggiunge dopo 2 ore superiore a quella tollerabile (si veda l’ultima figura di questo articolo relativa a soli 45 minuti di misurazione della CO2 in un’aula scolastica), con ripercussioni anche sulle prestazioni cognitive [42].

Si noti che, quando in questo articolo si parla di ricambio d’aria, si intende sempre che esso sia fatto tramite una circolazione dell’aria con l’esterno (outdoor). Infatti, il semplice ricircolo dell’aria, quand’anche con filtraggio della stessa effettuato con filtri HEPA o altri filtri economici, purtroppo non garantisce affatto l’eliminazione del virus dall’aria, in quanto questi filtri sono fatti per fermare particelle superiori a 0,3 µm, come quelle che creano problemi alle persone allergiche. Inoltre, mi è capitato di testare dei purificatori d’aria che abbattevano il particolato in una stanza, mentre altri della stessa marca e modello no, in quanto il filtro non era aderente. Insomma, con la Ventilazione Meccanica Controllata si va sul sicuro, mentre il semplice ricircolo e filtraggio dell’aria lo sconsiglio decisamente. Eppure, i treni italiani ad alta velocità si vantano nella pubblicità di filtrare l’aria, anziché – come dovrebbero – di cambiarla spesso!

In mancanza di Ventilazione Meccanica Controllata, l’aerazione degli edifici scolastici è dunque uno dei migliori modi per ridurre la diffusione del virus. Infatti, un recente studio [49] ha stimato che le finestre aperte nelle aule possono ridurre fino a 14 volte la trasmissione del virus. L’apertura delle finestre in inverno ha addirittura un impatto doppio rispetto all’apertura durante l’estate. Tuttavia, considerato il dispendio energetico aggiuntivo che si ha in questo modo, facendo due conti si scopre che con la spesa per il combustibile (quest’anno peraltro ancora più caro) ci si sarebbe potuto pagare una buona quota dell’impianto VMC, che per il resto si sarebbe ripagato da solo in 2-3 anni grazie al risparmio energetico che garantisce. Naturalmente, per le scuole si sarebbe potuto lavorare anche sui turni scolastici, sugli scaglionamenti di orari, etc. per ridurre – al tempo stesso – l’occupazione massima effettiva delle aule.

La metropolitana, invece, presenta nel mio calcolatore una dose assorbita teorica relativamente bassa rispetto a quanto forse ci si sarebbe potuto attendere, tuttavia vanno sottolineati due aspetti molto importanti che chiariscono la situazione reale. Il primo è che nelle tratte sotterranee delle metropolitane italiane il livello di particolato (PM10 e PM2.5) è fra i più alti se confrontato con altre metro di tutto il mondo, Cina compresa: fino a 5 volte i limiti di legge che esistono per l’esterno [36]; ora, proprio il particolato può essere, secondo un’idea proposta dai ricercatori Setti et al. [37], un possibile vettore virale (almeno per gli ambienti indoor, poiché outdoor si è trovato meno di 1 virione per particella di PM10 in ciascuno dei 12 intervalli di diametro esaminati, dalle nanoparticelle fino a quelle più grandi [39]), per cui la dose virale assorbita fornita dal nostro calcolatore potrebbe essere – per le metro italiane – alquanto sottostimata (più realistica, invece, appare la dose assorbita ottenuta per gli autobus).

Secondo aspetto: vi è una differenza fondamentale fra la metropolitana ed i due precedenti POI rilevanti (casa ed aula di scuola). Ogni persona frequenta, nella vita quotidiana, una ristretta cerchia di persone – che sono, quindi, sempre le stesse – eccetto che quando si reca sui mezzi di trasporto oppure in cinema, negozi, supermercati, etc. Dunque, è verosimile che il ruolo principale della metropolitana nel diffondere i contagi non sia tanto nel numero di contagi che vi avvengono a bordo (che, come visto, potrebbe non essere così elevato), quanto per il fatto che quei “pochi” contagi mettono in contatto cerchie in cui il virus era presente con cerchie in cui non lo era ancora, con il risultato di accelerarne di molto la diffusione (il che spiega anche perché la curva di crescita dei contagi, in Italia, è assai più ripida nelle Province con una metropolitana). Del resto, è noto dalla letteratura [65] che il trasporto pubblico (treni, autobus ed aerei) è importante nella diffusione del virus, specie quando si tratta di trasporti a lunga distanza.

Figura 9. Le metropolitane hanno un forte effetto moltiplicatore nella diffusione dell’epidemia di SARS-CoV-2, poiché in poco tempo mettono in contatto il virus con un gran numero di cerchie di persone diverse, molte delle quali in precedenza “vergini” e collocate in località periferiche o di provincia. È un po’ come se, appiccato il fuoco in un punto del bosco, il vento spargesse dei tizzoni ardenti in giro ed a grande distanza, per cui il fuoco divampa poi parallelamente in vari punti, bruciando più rapidamente il bosco. Nella figura qui mostrata (o grafo), i punti neri rappresentano le persone infette, i punti rosa quelle con malattia in incubazione (e quindi non contagiose), mentre i punti verdi rappresentano le persone sane.

L’importanza del trasporto pubblico nella diffusione dell’epidemia di Covid è confermata dalla letteratura scientifica. Come scoperto dagli studiosi del Centro per la pianificazione urbana dello Zhejiang, in Cina, che hanno di recente pubblicato i risultati del loro lavoro relativo a 30 città europee (fra cui Milano, Torino e Genova) [76], vi sono aspetti che agevolerebbero la violenta diffusione del contagio in determinate città (come ad es. Milano, dove più del 40% degli spostamenti avviene mediante il trasporto pubblico) a discapito di altre. La diversità riscontrata nelle caratteristiche urbane è infatti risultata in larga misura correlata alla loro vulnerabilità: in pratica, al numero di infezioni registrate. La connettività intracity (cioè nell’ambito urbano e interurbano) attraverso il trasporto pubblico è risultata essere il possibile fattore principale di tale vulnerabilità, seguita dalla dimensione della popolazione, dalla densità e dalla connettività intercity, cioè fra città. Anche la morfologia urbana sembra contribuire all’epidemia: sia le città radiali che quelle a griglia sono associate a tassi di infezione più elevati rispetto alle città lineari. E sappiamo da altri studi che, durante i primi mesi della pandemia, l’utilizzo dei suddetti mezzi di trasporto è stato uno dei fattori che più ha inciso sulla diffusione del coronavirus: non tanto perché sia più facile infettarsi al loro interno, ma proprio per l’incessante movimento di ingenti quantità di persone.

Un discorso simile (quello cioè del mettere in contatto persone di cerchie diverse) non si applica invece al call center, né ad altri uffici (purché, naturalmente, abbiano un ricambio d’aria che rispetta la norma di legge, cosa non sempre così scontata, donde la necessità di verifiche a campione); mentre si applica senza dubbio al cinema, al piccolo negozio, al supermercato, etc., dove la maggior parte dei presenti sono evidentemente sconosciuti. Per tale motivo, il ridurre in questi luoghi l’occupazione massima consentita appare una buona misura – come suggerito dallo studio USA citato in precedenza – e, soprattutto quando l’impatto economico della pandemia è rilevante (come nel caso italiano per il lockdown prima [9] e ora per il Green Pass, che restringe gli accessi a molti luoghi), dovrebbe essere senz’altro preferito alla riduzione della mobilità delle persone. Per ragioni analoghe, si dovrebbero aumentare le corse delle metro e ridurne l’occupazione massima a favore di mezzi di superficie (bus, tram, etc.).

Si noti che, in Italia, si è andati invece addirittura nella direzione opposta, poiché con il coprifuoco praticato nel periodo più critico della pandemia si è spinto al massimo il tasso di occupazione delle metro nelle fasce orarie serali, dato che le persone dopo cena dovevano rincasare presto per poter evitare la multa. Inoltre so da amici che, con la chiusura nelle scuole, in Lombardia (e probabilmente anche altrove) si è passati per gli autobus all’orario estivo, con forte riduzione del numero di corse. Tutto ciò dimostra come la questione dei trasporti sia stata gestita non meno peggio di quella della scuola. Per non parlare delle mascherine, di cui nessuno spot del Ministero della Salute ha mostrato l’uso corretto. Insomma, il lockdown poteva essere in gran parte evitato anche da noi, se solo i Ministeri avessero dato le direttive giuste anche in relazione a numerosi altri aspetti che non sono oggetto del presente articolo (vedi [69] e [63]), ed averlo usato è stato un po’ come distruggere un alveare di vespe su una casa usando un cannone: le vespe così le elimini, d’accordo; ma distruggi mezza casa, ovvero nel nostro caso il tessuto economico.

La nostra Tabella 3 mostra, infine, come quello del contagio outdoor sia un problema trascurabile (con una dose assorbita circa 50 volte inferiore) rispetto a quello indoor, a conferma di una meta-analisi [38] che ha trovato la probabilità di trasmissione indoor circa 20 volte maggiore rispetto a quella outdoor, per cui all’aperto si può stare senza mascherina senza correre rischi particolari, se si sta a qualche metro da altri (ma il Governo italiano, anche in questo caso, è andato proprio nella direzione opposta!). Infine, l’elevato rischio che si corre con i contagi in ambito domestico per via del reinoculo imporrebbe l’uso di Covid hotel, che sono stati assai utilizzati in Cina ma non da noi. Se quindi siamo stati uno dei Paesi con più alta mortalità da Covid del mondo, beh credo di avere fornito una serie abbastanza lunga di possibili ragioni…

Tabella 4. Le misure adottate in Italia nei vari luoghi e quelle che sarebbero state corrette alla luce di quanto abbiamo imparato in questo articolo. Si noti che il lockdown può ottenere un effetto almeno pari alle misure qui suggerite per quanto riguarda la riduzione delle ospedalizzazioni, ma con un impatto sul tessuto economico e sociale enorme, pertanto non può essere impiegato che per pochi giorni. Risulta evidente, quindi, come la strategia attuata dal Governo italiano sia stata poco equilibrata (eccetto che per bar, ristoranti e palestre, dove per l’impossibilità di usare la mascherina qualche restrizione in più era doverosa), puntando troppo su riduzione totale (con il lockdown) o parziale (con il Green Pass) della mobilità e chiusure di attività, attuandole peraltro con tempistiche sbagliate e, soprattutto, senza una visione globale ed a lungo termine del problema. Altrettanto poco logiche appaiono le multe fatte a persone ed attività, relative al rispetto delle misure della colonna rossa e non per imporre le misure, dal punto di vista dell’interesse generale del Paese ben più raccomandabili, della colonna verde, fermo restando che si sarebbe potuto convincere le persone usando anche altre “armi”: spot informativi, meccanismi premianti, etc.

In conclusione, il simulatore di dose virale assorbita da me sviluppato e illustrato in questo articolo non solo conferma quanto trovato dai rapporti dell’ISS e dell’Istat – e cioè il fatto che il contesto familiare / domiciliare e quello sanitario / assistenziale sono quelli di gran lunga più a rischio di contagio – ma in più: (1) permette di capire come essi siano anche i contesti più a rischio di forme gravi della malattia, poiché vi è associata una dose virale assorbita assai maggiore rispetto a tutti gli altri luoghi considerati nella mia analisi; (2) permette di stimare, comparativamente, il rischio di contagio (e di potenziale gravità della malattia sviluppata) in luoghi come i trasporti, la scuola, etc. non considerati dai citati rapporti ISS e Istat; (3) l’algoritmo da me messo a punto può essere facilmente esteso per la stima del rischio di contagio in altri luoghi specifici, e quindi rappresenta una buona base di partenza per studi più raffinati e dettagliati.

Due misure sottovalutate: il contact tracing digitale e la verifica del tasso di ricambio d’aria

Come mi è stato fatto notare dal dr. Giuseppe Imbalzano, già Direttore Sanitario di numerose ASL lombarde (Milano, Bergamo, Lodi, etc.), “dai dati dell’indagine di sieroprevalenza dell’Istat svolta nell’estate del 2020 [58] emerge che circa l’85% dei malati Covid è stato infettato in ambienti confinati (in particolare, in quello domestico), non nella comunità. Tuttavia, nei periodi iniziali dell’epidemia la graduatoria dei luoghi di contagio numericamente più rilevanti è stata certamente rovesciata, con gli ambulatori medici e gli ambienti ospedalieri come primi luoghi di infezione, mentre le strutture sanitarie per anziani (le famose RSA) lo sono state successivamente (in quanto là sono stati ricoverati pazienti dimessi dagli ospedali o gli ospiti della struttura sono stati infettati dai propri parenti o da operatori presenti a loro volta infettati da terzi). In quella fase, l’ambito familiare è stato soltanto la terza fonte di propagazione epidemica, con cluster familiari piccoli ma molto numerosi (sia per i dimessi dall’ospedale rientrati al proprio domicilio che per i malati non ricoverati, nonché per i soggetti in quarantena e in attesa di evoluzione)”.

Naturalmente, l’importanza della trasmissione virale associata a diversi luoghi / tipologie di POI dipende sia dalla probabilità che la trasmissione avvenga entro un ambiente particolare sia dalla frequenza con cui le persone visitano quell’ambiente. E, come sottolinea il già citato studio americano apparso su Nature [7], “i luoghi associati a fattori di rischio di contagio più elevati e visitati frequentemente da molte persone è probabile che abbiano un impatto molto maggiore di quelli che hanno un rischio maggiore ma sono visitati raramente e da un numero inferiore di persone”. Anche di questo aspetto fondamentale della questione non sembra che sia stato tenuto conto nella strategia italiana. Né vi sono stati tentativi – almeno, pubblicamente noti – di affrontare tale problema da parte delle Autorità preposte, forse anche per la scarsa qualità dei dati forniti dal contact tracing, che da noi è stato fatto manualmente (per cui l’efficacia è necessariamente limitata [75]) e/o per l’incapacità di svolgere analisi così sui generis.

Sebbene il mio algoritmo permetta di capire in quali luoghi una persona abbia maggior rischio di infettarsi, la sorgente principale per sapere dove la gente realmente si infetta nel corso dell’epidemia rimane il contact tracing. Secondo analisi basate sul contact tracing effettuate nel Regno Unito [75], le attività collegate allo shopping e all’assembramento in ristoranti e pub generano la maggior parte delle infezioni (per cui la trasmissione – come del resto avvenuto in molti Paesi – è soprattutto comunitaria), ma a causa delle limitazioni dei dati queste conclusioni vanno prese con cautela. Naturalmente, il contact tracing è efficace anche per controllare la trasmissione del virus quando i tassi di infezione sono bassi, come mostrato dai successi conseguiti in molte nazioni asiatiche. Per tale motivo – e anche nell’ottica di future pandemie – è auspicabile che l’Italia adotti quanto prima un sistema di tracciamento digitale basato sulla tecnologia GPS (più che sul Bluetooth), giacché le motivazioni addotte per non farlo, relative alla privacy, sono risibili (la maggior parte di voi è già tracciata da Google, Facebook, etc.).

Il contact tracing nella sanità pubblica è – come ben noto – il processo di identificazione delle persone che possono essere venute in contatto con una persona infetta (“contatti”) e successiva raccolta di ulteriori informazioni su questi contatti. Il contact tracing è stato un pilastro del controllo delle malattie trasmissibili nella salute pubblica da decenni. L’eradicazione del vaiolo, ad esempio, è stata ottenuta non solo con l’immunizzazione universale tramite i vaccini, ma anche attraverso un tracciamento completo dei contatti per trovare tutte le persone infette [64]. Con l’introduzione della vaccinazione per la protezione contro l’infezione da SARS-CoV-2 e l’aumentata copertura vaccinale nei prossimi anni, la possibilità di pulire le sacche di infezione e di spegnere sul nascere i piccoli focolai dipenderà proprio da questo approccio [75], non certo dall’impiego del Green Pass (che va, anzi, esattamente nella direzione opposta!).

Il “testa, traccia e isola” è una delle pietre angolari della gestione di un’epidemia di Covid-19, e l’avere un tracciamento digitale via app è ancora più importante con varianti come la Delta, che presentano un elevato numero di potenziali casi secondari, difficilmente gestibile con il metodo manuale (occorre infatti tenere presente che una semplice elaborazione dei recenti dati grezzi provenienti da Islanda, Israele e Stati Uniti suggerisce che almeno l’80% dei vaccinati possono a loro volta trasmettere l’infezione se si contagiano, sebbene gli studi pubblicati – relativi a dati più vecchi – parlino ancora di numeri più bassi). Il sistema di tracciamento inglese fin dall’inizio registrava informazioni sui luoghi e sulle attività segnalate dalle persone, facilitando l’individuazione di quelli a maggior rischio. Naturalmente, i contatti segnalati dall’app sono tutti poi da verificare nei tempi e nei modi corretti, cosa che in Italia è stata fatta (e viene fatta ancora oggi) “alla carlona”, ovvero in modo molto superficiale.

Un recente articolo pubblicato ad agosto sul New England Journal of Medicine [68] sottolinea come, “se le app per il contact tracing digitale venissero affiancate alle altre misure di mitigazione, l’epidemia di Covid-19 potrebbe essere rallentata e virtualmente vi potrebbe essere posta la parola fine. Si possono trarre importanti lezioni dall’impiego di tecnologie digitali per aumentare la tracciabilità dei contatti durante questa pandemia. [..] I paesi che hanno avuto a livello mondiale il maggior successo nel combattere l’epidemia di Covid-19 sono stati quelli che hanno integrato con successo una capacità diagnostica scalata rapidamente e un sistema digitale di contact tracing con misure di isolamento e quarantena efficaci”. Lì opportuni cambiamenti legislativi (in fondo non molto diversi da quelli che da noi hanno reso – e renderanno – possibile il Green Pass) hanno fornito alle autorità sanitarie una base legale per l’utilizzo dei dati di geolocalizzazione per il tracciamento dei contatti fin dall’inizio dell’epidemia.

In taluni paesi asiatici, i dati del sistema di posizionamento globale (GPS) dei telefoni cellulari sono stati utilizzati per creare un database centralizzato dei movimenti delle persone con Covid-19 accessibile online. L’app ha utilizzato questi dati per avvisare gli utenti quando si trovavano vicino a un luogo visitato da una persona infetta. Questo intervento ha interferito con la privacy e la protezione dei dati delle persone infette (sebbene non molto più di quanto non facciano già le grandi multinazionali senza che noi neanche ce ne accorgiamo; si legga in proposito il libro Il capitalismo della sorveglianza [67]); tuttavia mirava a interrompere le catene di trasmissione per proteggere i membri più vulnerabili della società. Nella maggior parte dei paesi occidentali, all’inizio dell’epidemia non è stato attuato alcuno sforzo per migliorare la tracciabilità dei contatti utilizzando l’automazione, ed i risultati (pessimi) si sono visti [69].

Come spiega ancora l’articolo apparso sul NEJM [68], “senza una precedente esperienza nella risposta alle epidemie in questo modo, molti leader e cittadini hanno ritenuto inconcepibile che i diritti alla privacy e alla protezione dei dati personali potessero essere ceduti alla protezione della salute. Tuttavia, il fatto che molte persone nei paesi occidentali permettano già la raccolta di dati di geolocalizzazione da parte di altre app che forniscono scarsi benefici personali suggerisce che la resistenza a farlo per la protezione della salute, sebbene ben intenzionata, potrebbe essere stata fuorviante. Inoltre, oggi stanno emergendo prove del fatto che questi sistemi di contact tracing digitale, se correttamente implementati, sono stati utili nell’identificare un numero maggiore di contatti per caso rispetto al tradizionale contact tracing manuale”.

Insomma, gli autori dello studio in questione osservano che si dovrebbe puntare anche sull’“inoculazione digitale”, che peraltro sarebbe pure un’assicurazione contro nuove varianti del virus che aggirassero all’improvviso i vaccini e, contribuendo non poco ad abbassare l’Rt, ci permetterebbe maggiori libertà, come del resto sta avvenendo nel Regno Unito, dove non ci sono particolari restrizioni né, naturalmente, Green Pass. In effetti in Inghilterra, dopo il fallimento della prima app di contact tracing sviluppata nell’ambito del progetto “Test and Trace” del National Health Service (NHS), non si sono affatto scoraggiati – come invece ha fatto inspiegabilmente l’Italia – e una seconda app [71, 74], chiamata “NHS Covid-19” e rilasciata il 24 settembre 2020, ha funzionato così bene (fra l’altro a luglio di quest’anno risultava essere stata scaricata da ben 26 milioni di persone) da produrre il fenomeno della “pingdemic”, o pingdemia [70], così detto per le centinaia di migliaia di persone che sono state allertate per essere venute a contatto con un positivo e che, quindi, sono dovute rimanere in isolamento.

Figura 10. L’app di contact tracing inglese. Il telefono dell’utente dell’app rileva gli altri nelle vicinanze, utilizzando il Bluetooth. Le persone che in seguito risultano positive al Covid possono condividere in modo anonimo il risultato del test, attivando avvisi per tutti coloro contrassegnati come contatti stretti nei giorni precedenti il test: in pratica, si tratta di tutti i dispositivi altrui venuti a una distanza di 2 m o meno, per un minimo di 15 minuti. L’app è stata fatta scaricare alla gente facendone capire l’utilità, non rendendola obbligatoria o usando metodi coercitivi (esattamente l’opposto di quanto ha fatto l’Italia con i vaccini), ed in effetti questo approccio si è dimostrato un successo per l’elevatissimo numero di download.

Dunque, un’app di contact tracing sarebbe per l’Italia un ausilio prezioso per abbassare la circolazione virale, in quanto faciliterebbe l’individuazione dei positivi (cosa di grande importanza, perché ora la maggior parte di essi non li “vediamo”); e questo è il primo passo per far sì che essi poi non la trasmettano ad altri. Come segnalatomi dal dr. Imbalzano, “ridurre il numero di casi di Covid è fondamentale, e un’azione di mitigazione del rischio è essenziale per non creare una recrudescenza delle infezioni (che sono comunque largamente sottostimate nella gestione quotidiana delle Regioni) e costringere a chiusure più rigide. Infatti, le prime chiusure delle scuole a pochi giorni dall’apertura dell’anno scolastico mostrano che un gran numero di positivi non sono stati identificati per un tracciamento molto claudicante delle Regioni, che vogliono minimizzare la presenza di casi di infezione e lasciare aperte le attività commerciali, che generano nuovi casi alimentando ricoveri e decessi, in particolare in Sicilia, che ha una mortalità molto significativa (non a caso, si tratta della regione d’Italia con il tasso di vaccinazione più basso)”.

Infine, nella puntata della trasmissione Di Martedì del 4 maggio 2021 (minuti 36-38), è stata mostrata la misurazione, fatta con un misuratore di anidride carbonica (CO2) commerciale, del livello di CO2 in alcuni luoghi pubblici indoor. Ebbene, i valori mostrati erano dell’ordine di 3600 ppm in un bagno pubblico e di 6300 ppm in un autogrill autostradale, ovvero altissimi e quasi certamente non in linea con quelli che la norma UNI 10339 di fatto comporterebbe (essa, infatti, non norma direttamente questo parametro, bensì soprattutto il tasso di ricambio d’aria e l’occupazione massima di un ambiente, due parametri che, insieme, determinano evidentemente un valore di CO2 massimo atteso, o meglio un intervallo di valori di CO2 attesi, poiché la CO2 prodotta dalle persone dipende in misura abbastanza rilevante dall’attività svolta). Pertanto, il mio sospetto è che questa norma in Italia sia stata largamente disattesa, per cui sarebbe opportuno procedere a misurazioni a campione in vari luoghi pubblici indoor – e in vari periodi dell’anno – per verificare il corretto ricambio d’aria, cosa mai fatta in un anno e mezzo di pandemia!

La triplice utilità della mascherina (e di un costante ricambio d’aria) in ambienti indoor

L’importanza del ricambio d’aria per ridurre sia la probabilità di infezione sia la dose virale assorbita è ancora più importante con la variante Delta, come dimostrato da quanto avvenuto (ed è stato documentato da telecamere) questa primavera in un supermercato di Sidney, in Australia, dove c’è stato un contagio fra due persone senza mascherina, nonostante queste si siano semplicemente incrociate in una corsia dello stesso senza che avessero parlato né emesso droplet [45]. Inoltre, la carica virale delle infezioni con la variante Delta è circa 1.000 volte superiore rispetto a quelle con la variante originale di Wuhan [48]. Donde l’importanza ancora più grande dell’uso di mascherine in ambienti indoor e del ricambio d’aria con l’esterno, dato che gli aerosol respiratori al chiuso si accumulano, un po’ come fa il fumo di sigaretta. E, come con il fumo, dobbiamo rimediare aerando costantemente l’ambiente, ad esempio aprendo le finestre, ma meglio ancora usando dei sistemi di ventilazione automatici con l’esterno.

Come spiegano due esperti di alto livello – un noto epidemiologo americano e il Vice Direttore delle Malattie Infettive dei CDC statunitensi – sulla nota rivista medica JAMA [52], “dati convincenti ora dimostrano che l’indossare la mascherina in pubblico è un intervento non farmacologico efficace per ridurre la diffusione di quest’infezione, soprattutto come controllo della sorgente per prevenire la diffusione da persone infette, ma anche come protezione per ridurre l’esposizione di chi la indossa alle infezioni. L’uso di mascherine in pubblico riduce sostanzialmente la trasmissione del SARS-CoV-2 in 2 modi:

  1. Innanzitutto, le mascherine impediscono alle persone infette di esporre gli altri al SARS-CoV-2 bloccando l’esalazione di goccioline contenenti virus nell’aria. Questo aspetto dell’uso della mascherina (che si chiama in gergo “controllo della fonte”) è particolarmente importante perché si stima che almeno il 50% o più delle trasmissioni provenga da persone che non hanno sviluppato disturbi o che sono nella fase presintomatica della malattia da COVID-19. In recenti esperimenti di laboratorio, le mascherine di stoffa multistrato si sono dimostrare più efficaci di quelle a strato singolo, bloccando dal 50% al 70% delle piccole goccioline e particelle espirate.
  2. Secondo, le mascherine proteggono i non infetti che le usano. Esse formano una barriera alle grandi vie respiratorie per le goccioline che potrebbero atterrare sulle mucose esposte di naso e bocca. Le mascherine possono anche filtrare parzialmente le piccole goccioline e particelle dall’aria inalata, proteggendo chi le indossa dall’infezione, come dimostrato in passato per altri virus respiratori [55]. Più strati di tessuto migliorano la filtrazione. Tuttavia, l’efficacia osservata delle mascherine in tessuto per proteggere chi lo indossa è inferiore alla loro efficacia per il controllo della fonte, e la capacità di filtrazione delle mascherine in tessuto può essere altamente dipendente dal design, dalla vestibilità e dai materiali utilizzati”. Ed, ovviamente, è importante che siano certificate.

Pertanto, il semplice obbligo di indossare le mascherine in ambiente indoor contribuisce a proteggere i non immunizzati (cioè sia i non vaccinati sia la percentuale di vaccinati che non è protetta dal vaccino). Inoltre, le mascherine (quelle certificate!) contribuiscono in modo rilevante ad abbassare il valore dell’Rt: indagini epidemiologiche condotte in tutto il mondo, specialmente nei paesi asiatici che si sono abituati al mascheramento di tutta la popolazione durante la pandemia di SARS del 2003, hanno suggerito che esiste una forte relazione tra il mascheramento pubblico e il controllo della pandemia [55]. Per cui le mascherine sono un po’ come le barre di grafite in un reattore nucleare: aiutano a impedire una reazione (nel nostro caso una diffusione) incontrollata. Un discorso simile, peraltro, si può fare per il ricambio d’aria negli ambienti indoor. Dunque, le mascherine esercitano una duplice funzione; anzi, in realtà triplice.

Infatti le mascherine, dal momento che riducono la dose virale assorbita, possono ridurre anche (oltre al rischio di infezione) la gravità della malattia sviluppata nel caso in cui la mascherina non sia sufficiente a impedire il contagio; per cui questi dispositivi di protezione individuale dovrebbero contribuire anche ad aumentare l’immunità della popolazione. Difatti, come ha spiegato il prof. Hassan Vally, epidemiologo a La Trobe University (Australia), “sappiamo che le mascherine proteggono le persone dall’infezione, ma anche se non si impedisce completamente che ciò accada – quindi se si lascia entrare solo un piccolo numero di particelle di virus – allora potenzialmente ci si espone a una quantità sufficiente di virus affinché tu possa organizzare una risposta immunitaria che ti proteggerà in futuro” [53].

L’uso di massa delle mascherine in ambiente indoor può anche aiutare a ridurre la gravità della malattia (oltre a garantire, come appena visto, che una percentuale maggiore di nuove infezioni sia asintomatica).  Come spiegano infatti altri due esperti sul New England Journal of Medicine [55], “ciò è diventato evidente a marzo 2020, quando hanno iniziato a circolare rapporti che descrivevano gli alti tassi di diffusione virale di SARS-CoV-2 dal naso e dalla bocca di pazienti presintomatici o asintomatici: tassi di diffusione equivalenti a quelli tra pazienti sintomatici. Il mascheramento facciale di massa sembrava essere un modo possibile per prevenire la trasmissione da persone infette asintomatiche. Il 3 aprile 2020 i Centri per il controllo e la prevenzione delle malattie (CDC) statunitensi hanno quindi raccomandato al pubblico di indossare rivestimenti per il viso in tessuto nelle aree con alti tassi di trasmissione comunitaria”.

In effetti, il SARS-CoV-2 ha la capacità proteiforme di causare una miriade di manifestazioni cliniche, che vanno dalla completa assenza di sintomi alla polmonite, alla sindrome da distress respiratorio acuto e alla morte. A portare al’ipotesi che il mascheramento facciale possa anche ridurre la gravità della malattia tra le persone che vengono infettate sono stati dati virologici, epidemiologici ed ecologici recenti [56]. Questa possibilità è coerente con una teoria di vecchia data sulla patogenesi virale, che sostiene che la gravità della malattia è proporzionale all’inoculo virale ricevuto. Dal 1938, i ricercatori hanno esplorato, principalmente in modelli animali, il concetto di dose letale di un virus, ovvero la dose alla quale muore il 50% degli ospiti esposti (LD50). Con le infezioni virali in cui le risposte immunitarie dell’ospite svolgono un ruolo predominante nella patogenesi virale – come nel caso del SARS-CoV-2 – alte dosi di inoculo virale possono sopraffare e disregolare le difese immunitarie innate, aumentando la gravità della malattia [55].

Come prova del concetto di inoculi virali che influenzano le manifestazioni della malattia, dosi più elevate di virus somministrato hanno portato a delle manifestazioni più gravi di Covid-19 in un modello di criceto siriano di infezione da SARS-CoV-2 [57]. Se l’inoculo virale è importante nel determinare la gravità dell’infezione da SARS-CoV-2, un’ulteriore ragione importante per indossare mascherine facciali in ambiente indoor sarebbe quella di ridurre l’inoculo virale a cui è esposto chi le indossa e il successivo impatto clinico della malattia. Poiché le mascherine possono filtrare alcune goccioline contenenti virus (con capacità di filtraggio determinata dal tipo di mascherina), il mascheramento potrebbe ridurre l’inoculo inalato da una persona esposta. Di conseguenza, l’uso delle mascherine potrebbe contribuire ad aumentare la percentuale di infezioni da SARS-CoV-2 che sono asintomatiche [55].

Non a caso, il tasso tipico di infezione asintomatica con SARS-CoV-2 è stato stimato dal CDC a luglio 2020 del 40%, ma è stato riportato che i tassi di infezione asintomatica sono superiori all’80% in ambienti con mascheramento facciale [55]. I paesi che hanno adottato il mascheramento a livello di popolazione sono andati meglio in termini di tassi di gravi malattie e decessi legati al Covid, il che, in ambienti con disponibilità di test/tamponi limitati (come alcuni Paesi più poveri), suggerisce un passaggio da infezioni sintomatiche ad asintomatiche. Un altro esperimento nel modello del criceto siriano ha simulato il mascheramento chirurgico degli animali e ha mostrato che, con il mascheramento simulato, i criceti avevano meno probabilità di essere infettati e, se si infettavano, erano asintomatici o avevano sintomi più lievi rispetto ai criceti non mascherati [55]. In definitiva, combattere la pandemia comporterà sia la riduzione dei tassi di trasmissione che quella della gravità della malattia.

Tabella 5. I principali fattori di rischio noti per esito infausto del Covid-19 (o comunque per lo sviluppo di forme più gravi della malattia Covid-19). Si noti come si possa agire solo su quattro di essi, ma le Autorità sanitarie ed i decisori politici italiani poco o nulla hanno fatto (e tuttora poco o nulla fanno) per agire su di essi, nonostante l’enorme impatto in termini di morti aggiuntivi che l’averli trascurati ha comportato e comporta ancora. Al contrario, nella gestione della pandemia in Italia sono state prese molte decisioni che contrastano con quello che ci insegnano gli studi in materia (basti pensare a quando, all’inizio della pandemia, i “medici da salotto televisivo” ci dicevano con grande sicurezza che “le mascherine sono inutili”) e sono in disaccordo anche con le più semplici simulazioni numeriche, i due principali strumenti che ci aiutano a capire a fondo il problema in modo da poter indirizzare le scelte verso strategie mirate. La dose virale assorbita si può ridurre, in particolare, con l’uso delle mascherine e con il ricambio d’aria; ovviamente, essi contribuiscono anche a ridurre il rischio di infezione e il famoso Rt , da cui la loro azione “triplice”.

Non rimane che il fai-da-te: la verifica del grado di ricambio d’aria e un semplice sistema VMC

La verifica del corretto ricambio d’aria in un qualsivoglia ambiente indoor non è affatto una scienza complicata, come forse le Autorità sanitarie ed i decisori politici italiani pensano, dato che, anziché ammettere i propri errori sull’aver trascurato la scuola (con il risultato che sono almeno già migliaia gli studenti costretti di nuovo alle lezioni a distanza), ammassano gli studenti nelle aule con un distanziamento di appena un metro e neppure obbligatorio [44], e pensano solo a vaccinare i bambini. Cosa che ha un rapporto rischi/benefici sfavorevole, come ben noto anche all’estero (dove non a caso molti esperti invitano alla cautela), oltre a essere una scelta secondo alcuni non lungimirante, poiché come ha spiegato ad es. il prof. Giancarlo Zuccotti, preside della Facoltà di Medicina all’Università Statale di Milano e responsabile della Pediatria all’Ospedale Sacco: “Fra i banchi l’infezione da Covid va trattata come l’influenza. Anzi, tenendo in circolazione il virus i più piccoli aiutano a renderlo endemico” [40, 41]. In effetti, secondo un recente studio, l’immunità guadagnata dopo il recupero dal Covid-19 (variante Delta) è circa 13 volte più forte di quella ottenuta con due dosi del vaccino Pfizer [46].

Ciò premesso, se aspettiamo che siano le nostre Autorità politiche e sanitarie a fare controlli per capire in quali posti il ricambio d’aria è insufficiente e andrebbe quindi adeguato, o decidere di dotare le aule scolastiche dei sistemi di Ventilazione Meccanica Controllata (VMC), allora “campa cavallo…”. Perciò, ecco come possiamo procedere da soli intanto alla stima del grado di ricambio d’aria (a casa, a scuola, in ufficio o in altri ambienti indoor) in maniera indiretta: tramite la semplice misurazione del livello di anidride carbonica (CO2) nell’aria, fatta attraverso un misuratore commerciale low-cost. Naturalmente, i valori così trovati non hanno alcun valore probatorio (né, tanto meno, squisitamente legale se la misurazione viene effettuata con tali apparecchi in ambiente di lavoro); in particolare, più che per avere valori assoluti, gli strumenti low cost sono in generale utili per effettuare misurazioni relative, cioè per confrontare il livello di CO2 in diversi ambienti indoor (quelli in cui risulterà più alto, naturalmente, sono più pericolosi a parità di altre condizioni, perché vuol dire che in essi c’è un minor ricambio d’aria).

Il livello della CO2 all’esterno (outdoor), cioè atmosferico, è arrivato oggi al valore di 400 ppm (come ben sa chi conosce il grafico che spesso si mostra quando si parla del riscaldamento globale). Tuttavia, si tratta di un livello medio, e nella realtà varia – a seconda dei giorni – grosso modo fra 350 e 450 ppm; per cui, se acquistate un misuratore di CO2 low-cost, non taratelo con il livello di CO2 esterno (sebbene ve ne sia in genere la possibilità), poiché questi apparecchi sono già tarati in fabbrica usando un metodo più preciso. Un livello tipico di CO2 negli ambienti con un buon ricambio d’aria è di 450-1000 ppm (personalmente, a casa cerco di non superare i 600 ppm). La figura qui sotto mostra l’impatto, tratta da un documento di esperti del settore [42], del livello di CO2 sulle prestazioni cognitive umane. Come si vede, le prestazioni specifiche influenzate sono parecchie e, a causa della correlazione inversa fra il livello di CO2 e le prestazioni in questione, è preferibile mantenere livelli di CO2 il più bassi possibile. A prescindere dal Covid!

Figura 11. L’impatto del livello di anidride carbonica sulle prestazioni cognitive umane. Osservando la figura in dettaglio, si può capire bene l’importanza di avere un buon ricambio d’aria in un’aula scolastica, o sull’ambiente di lavoro, anche a prescindere dal discorso del Covid. Eppure le Autorità sanitarie ed i decisori politici italiani sembrano ignorare tutto ciò, come se vivessero su un altro pianeta. (fonte: Fisk et al. [42])

Un misuratore low-cost di CO2 può costare tipicamente fra 50 e 100 euro, a seconda del portale di e-commerce presso cui lo si acquista, ma è utile anche a prescindere dal discorso del Covid, in quanto se usato in una casa o in un ufficio ci dice non soltanto quando l’aria ha raggiunto livelli assai elevati di CO2 (che percepiamo da soli come “aria viziata”, ad esempio in un classe con le finestre chiuse per 2 ore di seguito), ma ci dice anche quando i livelli di CO2 raggiunti sono comunque più alti di quelli desiderabili, ovvero non tanto alti da essere percepibili come “aria viziata” dal nostro olfatto, ma abbastanza alti da incidere tuttavia sulle capacità cognitive di una persona. Non a caso, la CO2 è comunemente inclusa nel monitoraggio della qualità dell’aria in ambiente indoor, e un misuratore di CO2 ci aiuterà a capire – d’inverno come d’estate – quando è il momento di aprire (o chiudere) le finestre, in modo da massimizzare il livello di qualità dell’aria e da minimizzare il dispendio energetico.

Infatti, quando la differenza di temperatura fra l’interno e l’esterno della casa è elevato, come ad es. d’inverno, possono bastare pochi minuti con le finestre aperte per garantire un efficace ricambio dell’aria, mentre durante le mezze stagioni occorrerà tenere le finestre aperte molto più a lungo. Per evitare il conseguente dispendio energetico se non possiamo stare ogni volta a misurare il livello di CO2 per ottimizzare il tempo di ricambio dell’aria, si può realizzare un sistema di Ventilazione Meccanica Controllata praticando (o facendo praticare) un foro nel muro perimetrale della casa (c’è già se la caldaia a gas è interna) e applicando poi nel foro un cosiddetto “estrattore d’aria a recupero di calore”: in pratica, una ventola con in più uno speciale materiale ceramico che funge da scambiatore di calore. Questi apparecchi trattengono almeno il 90% del calore quando l’aria passa, ed effettuano il ricambio d’aria h24 (o nella fascia oraria da voi scelta), per cui garantiscono una costante ed eccellente qualità dell’aria facendo risparmiare circa il 20% sulla bolletta energetica per riscaldamento e raffrescamento della casa (o dell’aula).

Un apparecchio di questo tipo costa circa 300 €, ed oggi ve ne è una vasta scelta di marche e modelli, perché il brevetto (tedesco) dello scambiatore di calore ceramico è ormai scaduto da alcuni anni. Quindi, se si vanno a fare dei semplici conti tenendo presente la spesa per la climatizzazione annua di una casa italiana tipica o di un’aula scolastica, si scopre che il tempo di rientro dell’investimento è brevissimo: di circa 2-3 anni se siete alle latitudini del Nord Italia. Si noti che la maggior parte degli estrattori d’aria sono monodirezionali, per cui in tal caso serviranno due buchi nel muro (tipicamente in parti opposte della casa, ad es. cucina e camera da letto). Ma esistono anche apparecchi (come ad es. il Ventolino) che all’incirca ogni 3 minuti invertono il movimento della ventola, per cui un solo buco è sufficiente. Se non vi interessa il recupero del calore, potete anche semplicemente usare – come ho fatto a casa mia – 2 ventole per il bagno (una per buco), dimmerarle per ridurre quasi a zero il rumore, e infine aggiungere un temporizzatore meccanico programmabile per impostare la fascia oraria in cui cambiare l’aria. Costo totale: 100 €!

Infine, come pubblicato nelle scorse settimane dai media (ad es. nell’articolo “Contenere il Covid misurando la CO2 nell’aria: test in due scuole” [43]), un sistema per il controllo della qualità dell’aria dal costo di 50 €, progettato specificamente per contenere il contagio da Covid-19 con un metodo messo a punto dall’ing. Buonanno (Università di Cassino) e promosso dall’Associazione nazionale tutela energie rinnovabili (Anter), sarà sperimentato a breve in due scuole: l’Istituto comprensivo di Praia a Mare (Cosenza) e il 2° Istituto Comprensivo di Ferentino (Frosinone). In realtà, ora sapete come effettuare da soli le misurazioni con un misuratore commerciale di CO2 e perfino come fare un sistema di Ventilazione Meccanica Controllata con una spesa irrisoria; ma la novità di Buonanno (come pure del presente articolo, del resto) è l’aver fornito un algoritmo che consente una valutazione del rischio. In realtà, già anni fa il fisico Alessandro Ciucci, docente in una scuola superiore di Livorno, aveva misurato (v. figura qui sotto) l’aumento del livello di CO2 in una classe con un sensore di CO2 commerciale accoppiato a una scheda Arduino. Insomma, si può fare!

Figura 12. L’aumento del livello di CO2 in una classe con 16 persone (15 studenti e l’insegnante) realizzato usando un sensore NIR interfacciato con una scheda Arduino Nano (per l’acquisizione dei dati sul PC). Il sistema è stato acceso alle ore 9:00 del 3 maggio 2017, quando sono state aperte per 15 minuti le finestre e la porta per garantire un ricambio d’aria (dopo 5 minuti dall’accensione è stata eseguita la procedura di calibrazione interna del sensore). Alle 9:15, chiuse le porte e le finestre, gli studenti sono stati invitati a non uscire ed è iniziata la registrazione della misura della concentrazione di CO2 mostrata dal grafico (al ritmo di una misura al secondo). Alle 10:00 sono state aperte nuovamente le finestre e la porta ed è stato osservato che la concentrazione di CO2 è tornata ai livelli dell’ora precedente. Si riporta in figura il grafico dei primi 45 minuti di misura, cioè mentre le porte e le finestre erano chiuse. L’aula ha un volume complessivo di 201 metri cubi, ed il trend di aumento della CO2 è risultato essere di 17,7 ppm/min (o, per essere più precisi, ppmv/min, solo per ricordare che sono parti per milione in volume). (fonte: Alessandro Ciucci)

RINGRAZIAMENTI. Vorrei esprimere la mia profonda gratitudine al prof. Giorgio Vassallo, fisico e docente presso il Dipartimento dell’Innovazione industriale e Digitale dell’Università di Palermo, e al dr. Giuseppe Imbalzano, noto medico specializzato in Igiene e Medicina Preventiva, per la disponibilità alla lettura critica del manoscritto. Naturalmente, la responsabilità di eventuali inesattezze residue, nonché delle valutazioni espresse, è solo ed esclusivamente dell’Autore. Desidero inoltre ringraziare, per alcuni commenti sul presente articolo e per le utili discussioni precedenti avute su alcuni temi in esso contenuti, Valerio Cinti, fisico con un solido background chimico e tecnologico, che ha lavorato alla “Divisione Innovazione e Ricerca” presso il Centro ricerche dell’ENEL di Pisa. Infine, ringrazio il fisico Alessandro Ciucci per aver condiviso la sua interessante esperienza nella misurazione dell’aumento dei livelli di CO2 in un’aula scolastica, che peraltro ha confermato in maniera lampante l’importanza del ricambio d’aria in quel tipo di ambiente.

 

Riferimenti bibliografici

[1]  Menichella M., “ ‘Pillole’ anti-COVID: quelle che non vi hanno mai dato”, Fondazione David Hume, 25 marzo 2021.

[2]  Robilotti E. et al., “Norovirus”, Clinical Microbiology Reviews, 2015.

[3]  Istituto Superiore di Sanità, “Caratteristiche dei pazienti deceduti positivi all’infezione da SARS-CoV-2 in Italia – Dati al 1° marzo 2021”, EpiCentro, marzo 2020.

[4]  Menichella M., “Vitamina D e minore mortalità per COVID: le evidenze e il suo uso per prevenzione e cura”, Fondazione David Hume, 23 febbraio 2021.

[5]  Infante M. et al., “Low Vitamin D Status at Admission as a Risk Factor for Poor Survival in Hospitalized Patients With COVID-19: An Italian Retrospective Study”, J. Am. Coll. Nutr., Febbraio 2021.

[6]  Rapporto ISS COVID-19 n. 63/2020: “Apertura delle scuole e andamento dei casi confermati di SARS-CoV-2: la situazione in Italia”, ISS.it, versione del 30 dicembre 2020.

[7]  Chang S. et al., “Mobility network models of COVID-19 explain inequities and inform reopening”, Nature, 10 novembre 2020.

[8]  Birge, J. et al., “Controlling epidemic spread: reducing economic losses with targeted closures”, BFI Working Paper No. 2020-57, 8 May 2020.

[9]  Menichella M., “Il ‘boom’ dei prezzi e l’impatto del lockdown: l’Italia rischia ora la ‘tempesta perfetta’ ”, Fondazione David Hume, 21 aprile 2021.

[10]  Fernstrom A., “Aerobiology and Its Role in the Transmission of Infectious Diseases”, Journal of Path

[11]  Doremalen N. et al., “Aerosol and Surface Stability of SARS-CoV-2 as Compared with SARS-CoV-1”, Letter, The New England Journal of Medicine, Aprile 2020.

[12]  Doremalen N. et al., “Aerosol and Surface Stability of SARS-CoV-2 as Compared with SARS-CoV-1”, Lettera all’Editore, The New England Journal of Medicine, 16 aprile 2020.

[13]  Rabaan A. et al., “Airborne transmission of SARS-CoV-2 is the dominant route of transmission: droplets and aerosols”, Le Infezioni in Medicina, n°1, 2021.

[14]  Wang J. & Du G., “COVID-19 may transmit through aerosol”, Irish Journal of Medical Science, 2020.

[15]  Morawska L & Cao J., “Airborne transmission of SARSCoV-2: the world should face the reality”, Environment International, 2020.

[16]  ExpoClima, “La UNI 10339, il ricambio dell’aria negli impianti aeraulici”, ExpoClima.net. https://www.expoclima.net/dossier/33/la_uni_10339_il_ricambio_dell_aria_negli_impianti_aeraulici.htm

[17]  Sola P., “Lezione sugli impianti di ventilazione meccanica”, salesianilombriasco.it. http://www.salesianilombriasco.it/public/20150206714164164146331003588441881539407353264463234553.pdf

[18]  Beggs C.B., “Is there an airborne component to the transmission of COVID-19?: a quantitative analysis study”, medRxiv, maggio 2020.

[19]  Fabian P. et al, “Origin of Exhaled Breath Particles from Healthy and Human Rhinovirus-Infected Subjects”, J. Aerosol Med. Pulm. Drug Deliv., 2011.

[20]  Papineni R.S. & Rosenthal F.S., “The size distribution of droplets in the exhaled breath of healthy human subjects”, J. Aerosol Med., 1997.

[21]  Lu J. et al., “COVID-19 Outbreak Associated with Air Conditioning in Restaurant, Guangzhou, China, 2020”, Emerging Infectious Diseases Journal, luglio 2020.

[22]  Park S.Y. et al., “Coronavirus Disease Outbreak in Call Center, South Korea”, Emerging Infectious Diseases Journal, agosto 2020.

[23]  Contini C. & Fadiga L., “Modalità di contagio di COVID-19”, unife.it, 7 dicembre 2020.

[24]  Buonanno G., “La trasmissione aerea del COVID19: il grande errore commesso”, Fondazione David Hume, 9 marzo 2021. https://www.fondazionehume.it/in-primo-piano/la-trasmissione-aerea-del-covid19-il-grande-errore-commesso/

[25]  Redazione MyPersonal, “Frequenza respiratoria – Respiri al minuto”, my-personaltrainer.it.

[26]  Redazione Lega Polmonare, “I Polmoni – l’organo essenziale per la nostra respirazione”, legapolmonare.ch.

[27]  Redazione Indire, “I rischi posti dalla contaminazione indoor di Anidride Carbonica, forum.indire.it.

[28]  Han z.Y., “Characterizations of particle size distribution of the droplets exhaled by sneeze”, Journal of the Royal Society Interface, 2013.

[29]  Geddes L., “Does a high viral load or infectious dose make Covid-19 worse?”, New Scientist, 27 marzo 2020.

[30]  De Oliveira P.M. et al., “Evolution of spray and aerosol from respiratory releases: theoretical estimates for insight on viral transmission”, Proceedings of the Royal Society A, 20 gennaio 2021.

[31]  Balachandar S. et al., “Host-to-host airborne transmission as a multiphase flow problem for science-based social distance guidelines”, Int. J. of Multiphase Flow, novembre 2020.

[32]  Chan J. et al., “Surgical mask partition reduces the risk of non-contact transmission in a golden Syrian hamster model for Coronavirus Disease 2019 (COVID-19)”, Clin. Infect. Dis., 30 maggio 2020.

[33]  Regis A., “I limiti e le responsabilità imposti dalla normativa scolastica ai dirigenti scolastici nella formazione delle classi”, ReteScuole, 28 luglio 2007.

[34]  Paola A., “Metropolitane: Sicurezza e rischi”, Obiettivo Sicurezza, vigilfuoco.it.

[35]  Redazione Italian Tribune, “Matteo Bassetti: Nelle stanze dei malati Covid nessuna traccia di virus nell’aria”, theitaliantribune.it, 6 maggio 2021.

[36]  Da Rold C., “Che aria si respira in metropolitana?”, rivistamicron.it, 23 lugio 2017.

[37]  Setti L., “Potential role of particulate matter in the spreading of COVID-19 in Northern Italy: first observational study based on initial epidemic diffusion”, British Medical Journal, 2020.

[38]  Bulfone T.C. et al., “Outdoor Transmission of SARS-CoV-2 and Other Respiratory Viruses: A Systematic Review”, The Journal of Infectious Diseases, 15 febbraio 2021.

[39]  Chirizzi D. et al., “SARS-CoV-2 concentrations and virus-laden aerosol size distributions in outdoor air in north and south of Italy”, Environment International, gennaio 2021.

[40]  “Il pediatra Zuccotti: ‘Basta quarantene per le scuole. Trattiamo il Covid nei bambini come se fosse un’influenza’ ”, OrizzonteScuola.it, 19 settembre 2021.

[41]  Floder Reitter P., “Lasciate in classe gli asintomatici. Non rischiano e fanno gli anticorpi”, La Verità, 21 settembre 2021.

[42]  Fisk W.J. et al., “Is CO2 an indoor pollutant?”, REHVA (Federation of European Heating, Ventilation, and Air Conditioning Associations), 2013.

[43]  Battaglia A., “Contenere il Covid misurando la CO2 nell’aria: test in due scuole”, Wall Street Italia, 17 settembre 2021.

[44]  Ricolfi L., “Studenti allo sbaraglio”, da Il Messaggero su Fondazione David Hume, 14 settembre 2021.

[45]  Lu D., “Covid Delta variant is ‘in the air you breathe’: what you need to know about Sydney outbreak strain”, The Guardian, 29 giugno 2021.

[46]  Solis-Moreira J., “L’immunità naturale di infezione SARS-CoV-2 protegge meglio dalla variante Delta che la vaccinazione?”, News Medical, 30 agosto 2021.

[47]  Menichella M., “Tutto quello che non vi dicono sulle cure domiciliari precoci per il Covid-19 (e perché lo fanno)”, Fondazione David Hume, 14 settembre 2021.

[48]  Reardon S., “How the Delta variant achieves its ultrafast spread”, Nature, 21 luglio 2021.

[49]  Villers J. et al., “SARS-CoV-2 aerosol transmission in schools: the effectiveness of different interventions”, preprint, medRxiv, 20 agosto 2021.

[50]  “Per la scienza i contagi a scuola sono pochi, ma in Italia non ci sono dati per dirlo”, Pagella politica, 20 settembre 2021.

[51]  Fears A.C. et al., “Persistence of Severe Acute Respiratory Syndrome Coronavirus 2 in Aerosol Suspensions”, Emerg. Infect. Dis., 26 settembre 2020.

[52]  Brooks J.T. & Butler J.C., “Effectiveness of MaskWearing to Control Community Spread of SARS-CoV-2”, JAMA, 9 marzo 2021.

[53]  Lewin E., “Can face masks reduce COVID severity and improve herd immunity?”, News GP, 18 settembre 2020.

[54]  Buonanno G. “Come il mito dei droplets ha sostituito (fino ad oggi) la trasmissione aerea”, Fondazione David Hume, 15 giugno 2021.

[55]  Gandhi M. & Rutherford G.W., “Facial Masking for Covid-19 — Potential for ‘Variolation’ as We Await a Vaccine”, NEJM, 8 settembre 2020.

[56]  Gandhi M. et al., “Masks Do More Than Protect Others During COVID-19: Reducing the Inoculum of SARS-CoV-2 to Protect the Wearer”, J. Gen. Intern. Med., ottobre 2020.

[57]  Imai M. et al., “Syrian hamsters as a small animal model for SARS-CoV-2 infection and countermeasure development”, PNAS, 14 luglio 2020.

[58]  Istat – Ministero della Salute, “Primi risultati dell’indagine di sieroprevalenza sul SARS-CoV-2”, Istat.it, 3 agosto 2020.

[59]  Istat – Ministero della Salute, “Indagine di sieroprevalenza sul SARS-CoV-2: Tavole di dati”, Istat.it, 12 aprile 2021. https://www.istat.it/it/files//2021/04/risultati_indagine_sieroprevalenza.xlsx

[60]  Morawska L. et al., “How can airborne transmission of COVID-19 indoors be minimised?”, Environment International, settembre 2020.

[61]  OMS, “Coronavirus disease (COVID-19): How is it transmitted?”, World Health Organization, 13 dicembre 2020. https://www.who.int/news-room/q-a-detail/coronavirus-disease-covid-19-how-is-it-transmitted

[62]  World Health Organizazion (WHO), “FACT: #COVID-19 is NOT airborne”, tweet pubblicato nell’account twitter dell’OMS, 28 marzo 2020. https://twitter.com/who/status/1243972193169616898

[63]  Imbalzano G., “Nessuno deve morire”, Italia e il mondo, 4 marzo 2021.

[64]  Lane J.M., “Mass Vaccination and Surveillance/Containment in the Eradication of Smallpox”, in Current Topics in Microbiology and Immunology, pp. 17–29, Springer, 2006.

[65]  Zheng R. et al, “Spatial transmission of COVID-19 via public and private transportation in China”, Travel Med. Infect. Dis., aprile 2020.

[66]  Fenner F. et al., “Smallpox and its eradication”, World Health Organization (WHO), 1988.

[67]  Zuboff S., “Il capitalismo di sorveglianza”, Luiss University Press, 2019.

[68]  O’Connell J. et al., “Contact Tracing for Covid-19 — A Digital Inoculation againstFuture Pandemics”, New England Journal of Medicine, 5 agosto 2021.

[69]  Ricolfi L., “La notte delle Ninfee”, La Nave di Teseo, 2021.

[70]  Garbo F., “Pingdemic: l’Immuni inglese tiene a casa migliaia di lavoratori”, agrodolce.it, 26 luglio 2021.

[71]  Burgess M., “Everything you need to know about the new NHS contact tracing app”, Science, 22 ottobre 2020.

[72]  Mondo A., “Covid nell’aria, la concentrazione più elevata nelle case: lo studio di Arpa Piemonte”, La Stampa, 8 gennaio 2021.

[73]  Riccio I., “All’aperto, in casa, negli ospedali: la verità sul contagio del virus”, Il Giornale, 27 settembre 2021.

[74]  National Cyber Security Center (NCSC), “NHS COVID-19: the new contact-tracing app from the NHS”, Portale del Governo inglese, 4 maggio 2020.

[75]  Anderson R. et al., “SARS-CoV-2: Where do people acquire infection and ‘who infects whom’?”, preprint, The Royal Society, 14 dicembre 2020.

[76]  AbouKorin S.A. et al., “Role of urban planning characteristics in forming pandemic resilient cities – Case study of Covid-19 impacts on European cities within England, Germany and Italy”, Cities, 27 luglio 2021.




COVID-19 e vaccini: un po’ di domande “impertinenti” all’immunologo De Berardinis (CNR)

Quando si parla della pandemia o dei vaccini anti-COVID, le questioni “spinose” che si vorrebbe discutere in modo aperto con uno specialista sono davvero numerose. Grazie alla sua grande disponibilità – ed avendo nel frattempo messo da parte diverse domande – ho potuto farlo con uno dei maggiori esperti italiani del settore, che ringrazio: Piergiuseppe De Berardinis, direttore del Laboratorio di immunologia presso l’Istituto di Biochimica e Biologia Cellulare del CNR, che in questi anni si è occupato di studiare la risposta immunitaria e la problematica dei vaccini sia dal punto di vista sperimentale che divulgativo.

D.: Dottor De Berardinis, come in una sorta di “partita a scacchi con il virus”, non poteva certamente mancare, dopo la variante Inglese, una variante Indiana, che analogamente a quella Sudafricana presenta due diverse mutazioni. Ciò mi ricorda un po’ il film Wargames, dove il computer tenta di indovinare, un carattere dopo l’altro, il codice di lancio dei missili balistici, ed è solo questione di tempo perché vi riesca. Nel caso del SARS-CoV-2, però, ciò potrebbe significare rendere d’un colpo inutili i vaccini attuali, che non sono “universali”, bensì rivolti tutti verso la famosa proteina Spike. Come vede, da immunologo, questo rischio, cogliendone certamente meglio di un “non addetto ai lavori” gli aspetti sia qualitativi sia quantitativi?

Il Dr. Piergiuseppe De Berardinis insieme ad alcune ricercatrici del Gruppo che coordina presso il CNR.

R.: C’è un gioco molto popolare in Giappone che si chiama “Acchiappa la talpa” e consiste nel cercare di colpire con un martello le talpe che appaiono in modo casuale nel tabellone. È reale il timore che per contrastare la lotta alle varianti la comunità scientifica dovrà partecipare a questo gioco. C’è da dire che i dati finora ottenuti indicano che i vaccini che si stanno somministrando hanno la capacità di indurre anticorpi protettivi nei confronti delle varianti come quella inglese nella totalità dei casi, ma anche nei confronti delle varianti brasiliana e sudafricana. Ci auguriamo, pertanto, che sia così anche per la variante “indiana” che ricordiamo presenta (anche se in unico ceppo) due mutazioni già presenti  in  altre varianti. In ogni caso l’insorgenza delle varianti ci fa capire quanto sia urgente e di fondamentale importanza assicurare una vaccinazione globale nei tempi più brevi possibili allo scopo di limitare la circolazione virale.

Inoltre, come già anticipato nella domanda, un obiettivo primario per la comunità scientifica resta la realizzazione di un vaccino in grado di proteggere contro diversi coronavirus e, in prospettiva, anche nei confronti di quelli che potranno emergere nei prossimi anni. Un tale vaccino, a detta di chi lavora sul campo, sembrerebbe alla portata  nei prossimi anni per proteggere contro l’infezione,  se non  di tutti i coronavirus,  perlomeno  contro quelli del sottogruppo “sarbecovirus” a cui appartengono i virus SARS-CoV-2 e SARS-CoV. Infatti, a dispetto di molti aspetti ancora ignoti, il rapido successo dei vaccini anti SARS-CoV-2 ha sparso ottimismo. Il coronavirus non sembra difficile da combattere con un vaccino, a differenza di altri patogeni come il virus  HIV-1 o lo stesso virus dell’influenza.

Il razionale per tali vaccini pan-coronavirus si basa principalmente sulla presenza di sequenze conservate nei differenti virus (come sequenze di RNA in virus isolati dal pangolino e da diversi pipistrelli, o domini conservati nella proteina “spike” di molti coronavirus che infettano l’uomo). In questo ambito, diversi gruppi di ricerca stanno già lavorando in varie parti del mondo alla formulazione di vaccini basati su:  “mosaic vaccines”, proteine spike chimeriche, costruzione di nanoparticelle che assemblano RNA di diversi betacoronavirus e cocktails di virus inattivati.

C’è infine da dire che, su questa tematica, l’opinione della comunità scientifica è quasi radicalmente mutata in questi ultimi mesi. Nel 2017 l’agenzia statunitense che sovraintende e finanzia le ricerche sui vaccini – il “National Institute of Allergy and Infectious Diseases” (NIAID) diretto da  Anthony Fauci – giudicò di bassa priorità la richiesta di un finanziamento per un vaccino pan-Beta coronavirus (a quel tempo si parlava principalmente dei virus SARS-CoV e MERS). Ma, nel novembre 2020, l’Agenzia ha modificato il suo giudizio, sollecitando l’accettazione di finanziamenti per ricerche in condizioni di Emergenza. Inoltre, a marzo 2021 un’altra organizzazione sovranazionale, denominata CEPI (Coalition for Epidemic Prepardness Innovations) ha annunciato di finanziare con 200 milioni di dollari un nuovo programma per vaccini anti pan-betacoronovirus. È, d’altronde, opinione di molti esperti che nei prossimi 10-50 anni potremo verosimilmente assistere all’insorgere di nuove infezioni pandemiche causate da coronavirus.

D.: Il vaccino Astrazeneca – e pare non solo quello – ormai sappiamo in modo statisticamente abbastanza affidabile che produce dei trombi, almeno in alcune persone. Come è possibile che nessun soggetto terzo e indipendente rispetto ai produttori – come ad esempio il CNR – non abbia iniziato a esaminare, in un piccolo campione di vaccinandi, i livelli ematici, pre- e post-dose somministrata degli indicatori del livello di coagulazione del sangue e magari di altri parametri, al fine di capire se si tratti di un fenomeno comune (al di là dei casi in cui si manifesta in modo rilevante, che potrebbero rappresentare solo la punta dell’iceberg)? Cosa ne pensa? E lo suggerirebbe alle Autorità Sanitarie, visto che l’AIFA non lo fa?

R.: Sulle problematiche relative al vaccino Astrazeneca le autorità decisionali dei vari paesi hanno assunto una posizione non ben definita e basata più che altro sulla cautela e sull’attesa. Analogamente, il Comitato Tecnico-Scientifico del nostro paese non ha assunto, perlomeno inizialmente, una chiara linea di condotta e di conseguenza l’Autorità politica ha proceduto un po’ alla cieca. Oramai, nella terminologia scientifica relativa al COVID-19 è entrato l’acronimo VITT (Vaccine-induced Immune Thrombotic Thrombocytopenia). Si è chiaramente dimostrata la presenza, nel siero dei pazienti colpiti da tromboembolia piastrinopenica, di anticorpi contro il fattore piastrinico 4 (pF4).

È stato inoltre dimostrato, in studi in vitro su vaccini adenovirali, che l’aggiunta di pF4 e/o di anticorpi anti-pF4 aumenta la grandezza delle particelle di vaccino e che in questi aggregati le proteine pF4, le proteine capsidiche del vettore adenovirale e le piastrine sono strettamente connesse. Tuttavia, a tutt’oggi manca un evidenza diretta ex vivo o tramite studi di anatomia patologica del coinvolgimento diretto dei vettori adenovirali nella formazione dei trombi nei pazienti che hanno sofferto di questi gravi effetti indesiderati.

C’è infine da dire che anticorpi anti-pF4 sono presenti anche nel siero di individui a cui è stata somministrata la vaccinazione a mRNA. Tuttavia, nel vaccino Astrazeneca è stato rinvenuto anche l’eccipiente EDTA, che può  causare nello 0,1-2% dei campioni di sangue il “clumping” in vitro delle piastrine, un fenomeno noto come “EDTA dependent-Pseudothrombocytopenia” (EDTA-PCTP). C’è, pertanto, chi suggerisce di effettuare questa analisi ed escludere dalla vaccinazione con Astrazeneca chi risultasse positivo al test in vitro per EDTA-PCTP.

In sostanza, in un contesto ancora incerto, ci sarebbe bisogno di ricevere chiare linee guida sulla necessità e il tipo di esami di laboratorio da eseguire. Questo deve essere un compito dell’Autorità sanitaria di riferimento, a cui nessuno dovrebbe sostituirsi onde evitare ulteriore confusione e sconcerto nella popolazione. Con questo non voglio assolvere il CNR, la cui capacità di rispondere all’emergenza ponendo le proprie strutture al servizio del paese è stata nulla o debolissima, come ho avuto occasione di dire in altri contesti. Il CNR è stato praticamente senza una guida scientifica fino a qualche settimana fa, quando il ministro competente ha nominato il nuovo Presidente, sul cui operato tutti noi Ricercatori e Tecnologi nutriamo molte aspettative.

D.: In occasione dell’epidemia di SARS del 2002-03, in cui non fu possibile usare i vaccini per i problemi incontrati nel loro sviluppo e perché nel frattempo il problema era stato risolto usando contromisure “classiche”, se non sbaglio l’immunità naturale nei soggetti contagiati durò un tempo molto lungo: 2-4 anni. Dato che i vaccini attuali sembrano essere molto più potenti, in quanto a immunità indotta, rispetto a quella naturale – sia nei casi sintomatici sia, a maggior ragione, in quelli sintomatici o pauci-sintomatici – secondo lei è ragionevole supporre che, salvo sorprese relative a nuove varianti, almeno per chi si è vaccinato con i vaccini più protettivi possa non essere necessario un richiamo dopo un solo anno?  

R.: Qui entriamo nel campo delle ipotesi e le risposte certe solo il tempo sarà in grado di darle.

Il problema è ovviamente connesso alla persistenza endemica del virus nei prossimi mesi o, più pessimisticamente, a nuove ondate di infezione in una popolazione non coperta dalla vaccinazione e all’emergere di altre varianti. Per quanto riguarda la durata dell’immunità protettiva dobbiamo considerare  una possibile variabilità individuale e anche una variabilità indotta dai differenti tipi di vaccini somministrati, che al momento risultano tutti protettivi. Io non penso che si possa sostenere oggi con certezza la necessità di un secondo percorso di vaccinazione, ma è sempre meglio prepararsi a questa eventuale evenienza.

D.: Se si va a vedere nei rapporti dell’AIFA il tasso di effetti avversi segnalati per i vaccini anti-COVID in funzione dell’età dei vaccinati, si scopre che, diversamente da quanto l’uomo della strada potrebbe pensare, esso è maggiore nei giovani che non negli anziani. Suppongo che ciò avvenga perché l’effetto del vaccino si somma alla risposta immunitaria naturale, che è notoriamente massima nei giovani e decresce con l’età, fino a raggiungere il minimo negli anziani. Si tratta di una lettura corretta? E, in tal caso, non sarebbe opportuno dare ai giovanissimi una dose minore di vaccino (evidentemente per loro “sovradimensionato”), come si fa per alcuni farmaci, la cui dose consigliata è proporzionale al peso corporeo?  

R.: Penso che adottare una somministrazione personalizzata dipendente dall’età, dal peso corporeo come anche dalle condizioni di salute, di capacità di risposta immunitaria o metabolica di ciascuno di noi è qualcosa di futuribile, che rientra nel campo della medicina di precisione e della medicina personalizzata. Pensare di attuare simili pratiche in una campagna di vaccinazione di massa lo ritengo molto difficile. D’altronde stiamo parlando di effetti indesiderati di lieve entità.

D.: Il principale vaccino italiano in corso di sviluppo, ReiThera, essendo a vettore virale Come Astrazeneca, Johnson&Johnson e Sputnik, rischia di finire in un “cul de sac”, travolto dalla scelta europea di privilegiare i più tecnologici e moderni vaccini a mRNA messaggero. Sebbene questi ultimi abbiano il non trascurabile vantaggio di essere aggiornabili rapidamente in caso di nuove varianti del virus, non trova assurdo rinunciare a mesi di lavoro già fatto solo per l’errata comunicazione del rischio relativa ai vaccini a vettore virale? E cosa pensa dell’idea dell’UE di rinnovare gli accordi di fornitura fino al 2023 per vaccini a mRNA, quando invece dovremmo puntare a vaccini “universali” (che nel frattempo vi saranno)?  

R.: Indubbiamente i vaccini a mRNA sono quelli di più nuova concezione e, a oggi, quelli che hanno risposto meglio in termini di protezione e assenza di effetti indesiderati gravi. Resta il problema, per questi vaccini, della catena del freddo. In questo campo le ricerche stanno progredendo e la stessa Pfizer ha iniziato un trial clinico utilizzando un vaccino stabilizzato mediante liofilizzazione. Si tratta di un procedimento costoso, e al contempo altre strategie vengono perseguite, come l’alterazione delle particelle lipidiche che proteggono e custodiscono le molecole di RNA, in modo da rendere il preparato stabile a temperature meno stringenti. È ipotizzabile ritenere che, per le prossime pandemie, potremo anche avere  un vaccino a mRNA  che non necessiti della catena del freddo.

Non trovo pertanto sbagliato che  per il futuro si punti in modo particolare su questa piattaforma, anche per la formulazione di vaccini cosiddetti universali. D’altronde, da notizie apparse sulla stampa ho appreso che anche ReiThera, a cui è stato assegnato il compito di formulare e produrre un vaccino “italiano”, abbia dichiarato di volersi orientare verso questa nuova tecnologia. Per dirla tutta, personalmente non credo che sia facilmente attuabile una riconversione così immediata e non credo neanche che sia giusto dover investire in un vaccino cosiddetto italiano. Credo invece nella necessità di investire risorse pubbliche nella ricerca e produzione di vaccini, ma penso che ciò vada fatto in un contesto europeo in cui l’Italia con le sue strutture e le sue capacità professionali abbia un ruolo di protagonista.

Questa è una scelta che spetta alla politica congiuntamente ai vertici delle nostre Istituzioni di Ricerca e che spero venga fatta. D’altra parte, ritengo che questa sia un’esigenza condivisa anche da altri paesi europei.  Ad esempio la Francia si trova in  condizioni  simili alle nostre. Dopo l’annuncio, nei mesi scorsi, da parte del direttore scientifico dell’istituto Pasteur Christophe D’Enfert di aver abbandonato lo sviluppo di un vaccino anti-COVID-19, ve ne è stato uno, più recente, di voler di nuovo investire sullo sviluppo e sulla produzione di vaccini utilizzando le piattaforme più innovative.

Anche in Francia si lamenta che quest’“impasse” sia non solo la conseguenza di problemi strutturali dovuti al peso burocratico esercitato sulla ricerca biomedica pubblica e privata, ma anche della riduzione dei finanziamenti. Nel numero della rivista Science del 23 aprile è riportata una tabella indicativa della contrazione delle spese in campo Biomedico in Francia tra il 2011 e il 2018,  che risulta essere del 28%, a fronte di un incremento in altri paesi, come la Germania o il Regno Unito. È importante far presente che, dalla stessa tabella, si evince che la contrazione per l’Italia – che già partiva da un investimento minore – è stata, negli stessi anni, del 39%.

D.: Se si fa una ricerca su Google digitando le due semplici parole “COVID CNR”, si ottiene un risultato abbastanza sorprendente: nelle prime quattro pagine di news, al di là delle previsioni indipendenti del matematico Giovanni Sebastiani (IAC-CNR), di un articolo sul contact tracing pubblicato su Nature e di uno studio CNR-ISS-INMI sull’utilizzo di interferone beta per la cura domiciliare dei pazienti COVID-19, il suo Ente di ricerca pare molto assente, specie sul versante vaccini, nonostante il polo di 2 Istituti in cui lavora sia un fiore all’occhiello in questo campo. Perché il CNR non è più coinvolto, soprattutto nello sviluppo di un vaccino anti-COVID, cosi importante per l’indipendenza da Paesi terzi e aziende?     

R.: Non posso che essere d’accordo sull’analisi dello stato del CNR che c’è nella sua domanda. Posso anche assumere una quota di colpe – come ricercatore CNR – per l’ incapacità a eccellere in questo campo della ricerca. Tuttavia, ritengo che le responsabilità maggiori siano a carico di chi ha governato il CNR indirizzando e promuovendo la sua attività scientifica negli anni  passati e più o meno recenti, e che da ultimo non ha posto le condizioni affinché anche il CNR potesse dare un contributo alle più importanti ricerche sul COVID-19.

Per quanto riguarda i vaccini COVID, purtroppo Il CNR si è prestato al ruolo di “Bancomat” ministeriale, dirottando 3 milioni di euro ad un accordo con Regione Lazio e Istituto Spallanzani volto a finanziare il vaccino della ReiThera, senza nessun coinvolgimento dei propri ricercatori. Mi duole aggiungere che, all’inizio dell’emergenza COVID, il CNR ha allestito una cabina di regia costituita esclusivamente da dirigenti amministrativi, ad eccezione di un direttore d’istituto con specifiche competenze in virologia e non in rappresentanza della comunità scientifica. Ciò ha determinato un blocco della ricerca, relegando gran parte delle attività di Ricerca in “lavoro agile”.

D.: Secondo uno studio uscito a marzo, svolto dall’Ospedale Niguarda di Milano in collaborazione con l’Università di Milano, il 98,4% dei circa 2.500 sanitari vaccinati (tra gennaio e febbraio con due dosi) presso tale ospedale è risultato immunizzato contro il COVID-19, ma l’1,6% no. Si trattava, a quanto pare, di 4 persone immunodepresse, con trascorso di trapianti o patologie che implicano l’uso di farmaci che inibiscono la naturale risposta immunitaria, per cui hanno sviluppato un livello di anticorpi molto basso, nettamente inferiore rispetto al resto della popolazione. La domanda sorge quindi spontanea: come si devono proteggere soggetti simili, posto che l’immunità di gregge pare essere una chimera?

R.: Esistono, in questo caso, delle chiare linee guida reperibili nel portale del Ministero della Salute che riguardano in particolare le raccomandazioni per le persone immunodepresse. Anche riguardo all’accesso alle vaccinazioni le indicazioni del Ministero della Salute sono chiare. Infatti, secondo il piano strategico le persone con immunodeficienza o in trattamento con farmaci immunomodulatori devono essere vaccinati nelle prime fasi. Aggiungo che, a tutt’oggi, non è stata riportata nessuna infezione severa nei soggetti vaccinati e pertanto si spera che un minimo di protezione si instauri anche in individui immunodepressi. In linea generale, come sottinteso nella sua domanda, questa fascia della popolazione è quella che dovrebbe maggiormente beneficiare dell’“effetto gregge” determinato dalla vaccinazione di massa.

D.: Il professor Andrea Gambotto (Università di Pittsburgh, Pennsylvania), uno scienziato italiano trapiantato negli USA, dove è ricercatore di punta di un centro di eccellenza, è stato il primo studioso a individuare, nel 2003, la proteina “spike” come bersaglio dei vaccini anti-coronavirus. Il suo studio del 2003 pubblicato su Lancet è infatti stato il primo in letteratura sul tema, ma all’epoca nessuno finanziò i trial clinici sull’uomo, altrimenti avremmo avuto subito un vaccino efficace contro il SARS-CoV-2. In compenso, grazie all’attuale “corsa ai vaccini”, contro qualsiasi nuovo coronavirus che emergerà in futuro da un serbatoio animale, la prossima volta dovremmo essere assai più pronti. O non è detto?  

R.: Lo spero ardentemente e ricordo il noto aforisma dello studioso che ha rivoluzionato la Scienza (Louis Pasteur, ndr), aprendo la strada della vaccinologia: “La fortuna favorisce le menti preparate”.

D.: Secondo una dottoressa laureata in chimica e tecnologie farmaceutiche che ha lavorato per vent’anni nell’industria farmaceutica, i vaccini anti-COVID sintetizzati usando linee cellulari immortalizzate (ad es. Astrazeneca) sono potenzialmente pericolosi sul lungo termine poiché, se rimangono residui di lavorazione nel vaccino, potrebbero innescare cancerogenesi. In effetti, Astrazeneca usa la linea cellulare HEK-293. È già stata usata per produrre precedenti tipi di vaccini? Quali tecniche di purificazione, fra le varie possibili, sono state usate per Astrazeneca (io non le ho trovate)? Non crede che debbano essere condotte analisi da terze parti per verificare, magari a campione, la totale assenza di tali cellule nei vaccini prodotti? 

R.: Sono d’accordo sull’importanza di conoscere in dettaglio le composizioni dei preparati vaccinali e la necessità di analisi terze. In un articolo ancora in preprint ed a cui ho fatto riferimento in una precedente risposta parlando di VITT, Andrea Greinacher et al. hanno identificato, mediante spettrometria H-NMR, alcuni additivi presenti nel vaccino Astrazeneca, come ad esempio EDTA, saccarosio ed istidina. Nello stesso preprint è riportato come la preparazione del vaccino comporti un trattamento con nucleasi per ridurre la contaminazione del DNA delle cellule packaging HEK-293. Essendo, se pur remoto, ipoteticamente possibile il rischio di integrazione cromosomica del DNA dei vettori adenovirali, tale rischio potrebbe aumentare utilizzando DNA in cui ci fossero rotture della doppia elica. È tuttavia doveroso dire che tali integrazioni non sono mai state dimostrate negli studi preclinici e clinici finora effettuati.

D.: Il virologo e grande esperto di vaccini Geert Vanden Bossche (che ha lavorato per OMS, FDA, CDC, GAVI, Bill e Melinda Gates Foundation, etc.) è assai preoccupato: fare una vaccinazione di massa a pandemia in corso con vaccini “non sterilizzanti”, oltre a rischiare di creare una variante che “bypassi” i vaccini attuali, ha un’altra importante conseguenza: la soppressione temporanea del baluardo contro questo virus costituito dall’immunità naturale “innata”, cosa assai problematica (specie fra i più giovani), poiché renderebbe addirittura controproducente l’immunità artificiale indotta dagli attuali vaccini, che è solo “proteina spike-specifica”, il che rischierebbe di causare un’ecatombe. È d’accordo con la sua analisi?

R.: Sono in completo disaccordo con queste affermazioni. Basterebbe ricordare i 50 milioni di morti della pandemia “Spagnola” del 1918, che colpì un mondo meno interconnesso e meno densamente popolato di quello attuale. I dati che emergono da paesi come Israele, Regno Unito e Stati Uniti, in cui le vaccinazioni hanno coperto un maggior numero di persone, indicano una netta riduzione di mortalità. C’è oramai un generale consenso, da parte degli epidemiologi, sulla necessità di vaccinare prima la popolazione anziana ed a rischio di malattia grave. La risposta ai vaccini risulta essere policlonale e, sebbene limitata alla proteina spike, aumenta di fatto il repertorio della risposta anticorpale rispetto all’infezione naturale. Credo che si debba continuare con la vaccinazione di massa, estendendola a tutte le fasce di età ed a tutti i paesi del globo.




“Pillole” anti-COVID: quelle che non vi hanno mai dato

Una delle cose che mi hanno più colpito negativamente in questo anno di pandemia è stata la quasi più totale assenza – se si eccettua lo spot iniziale sull’igiene delle mani e quello sull’app Immuni – di campagne di informazione e prevenzione del Ministero della Salute attraverso il mezzo televisivo, e in particolare la mancanza di una comunicazione rivolta agli anziani, che, oltre a rappresentare la stragrande maggioranza delle vittime del COVID, sono persone che, in molti casi, si informano esclusivamente attraverso la televisione. Oltre a ciò, ho notato che vari temi rilevanti per la prevenzione del COVID non sono stati trattati tout court, neppure in trasmissioni giornalistiche e medico-scientifiche. In questo articolo affronterò, perciò, 10 fra le principali questioni che la gente a casa si è posta o trovata ad affrontare in questi mesi senza ricevere, a mio parere, delle risposte o delle indicazioni soddisfacenti.

In particolare, cercherò di fornire qui, nei limiti di una trattazione divulgativa ed al meglio delle conoscenze attuali disponibili, delle “pillole” di informazioni utili che purtroppo non sono mai state date da chi avrebbe dovuto farlo: (1) Quali sono i sintomi del COVID-19 e qual è l’evoluzione della malattia? (2) Come capire chi è davvero più a rischio di morte per il COVID-19? (3) Perché le cure domiciliari dei pazienti COVID sono fondamentali? (4) Perché il fattore tempo è così importante nella cura del COVID-19? (5) Quali integratori sono utili contro il COVID secondo la letteratura scientifica? (6) Perché la carica virale è importante nell’infezione da COVID-19? (7) Mascherine, sterilizzatori, pulsossimetri, etc.: cosa devo sapere? (8) Una domanda dei medici: come vanno trattati i pazienti a casa? (9) Come posso confrontare l’efficacia dei vari vaccini anti-COVID? (10) I vaccini anti-COVID sono sicuri o corro qualche pericolo?

1) Quali sono i sintomi del COVID-19 e qual è l’evoluzione della malattia?

Gli studi nella letteratura medica pubblicata in questo anno di pandemia riportano che i pazienti ammalati di COVID-19 possono presentare, come sintomi all’esordio: febbre, tosse secca, fame d’aria e affaticamento. Sono stati segnalati come possibili sintomi in pazienti infetti anche mal di gola, congestione nasale e naso che cola. Un numero significativo di pazienti (20%-60%) sembra avere una perdita dell’olfatto (nota anche come anosmia), che può essere il primo sintomo di presentazione [1].

Secondo quanto diffuso dai Centers for Diseases Control (CDC) di Atlanta, che negli Stati Uniti si occupano di epidemie e malattie emergenti, nei pazienti infetti sono stati segnalati anche brividi e tremore persistente, dolori muscolari, mal di testa, nonché cambiamenti nel senso del gusto. Un sintomo del contagio è talvolta la congiuntivite, per chi entra a contatto con il virus attraverso la mucosa degli occhi. Un altro disturbo che può emergere è la comparsa di vescicole sulla pelle, lesioni pruriginose e necrosi.

Nei casi più gravi, l’infezione può causare polmonite virale. Ed in circa il 90% delle diagnosi di ricovero ospedaliero di pazienti italiani morti per COVID-19 nel 2020 sono menzionate o condizioni (ad es. polmonite, insufficienza respiratoria) o sintomi (ad es. febbre, affanno, tosse) riconducibili, per l’appunto, al SARS-CoV-2 [2]. Nei ricoverati in Cina nel gennaio 2020 (relativi a 552 ospedali del Paese), la febbre era presente nel 44% dei pazienti all’ammissione, il secondo sintomo più comune era la tosse (68%), mentre nausea e vomito (5%) e diarrea (3,8%) erano poco comuni [3].

Il COVID-19 è una malattia caratterizzata da tre fasi [4], la prima delle quali è una fase virale che dura 7-10 giorni a partire dalla prima manifestazione dei sintomi. In approssimativamente il 20% dei casi è seguita da un secondo stadio – quello infiammatorio – annunciato da marcatori pro-infiammatori (ferritina, proteina C reattiva, etc.) e caratterizzato dall’apparizione di infiltrati nei polmoni, che sono seguiti in alcuni casi dal calo del livello di ossigeno nel sangue (ipossemia), rivelabile tramite un comune saturimetro.

Quest’ultima terza fase – che si verifica solo in un piccolo sottoinsieme dei pazienti iniziali (circa il 5%) – è caratterizzata da un’iperinfiammazione, che porta a una cosiddetta “tempesta citochinica” (una reazione immunitaria sistemica con cui il sistema immunitario combatte i microrganismi patogeni e induce le cellule a produrre altre citochine), che causa la “Sindrome di Distress Respiratorio Acuto” (ARDS), patologia potenzialmente fatale per la quale i polmoni non sono in grado di funzionare correttamente.

Le tre fasi della malattia COVID-19. Come vedremo, è molto importante agire già sulla prima fase, sia attraverso una prevenzione fai-da-te con opportuni integratori sia con il supporto di terapie domiciliari adeguate somministrate dai medici di base o dalle Unità Speciali di Continuità Assistenziale (USCA). Tutto ciò è ancora più determinante con la comparsa di varianti del SARS-CoV-2 più virulente.

Come spiega il prof. Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto Mario Negri, “la prima fase, quella asintomatica che dura da 3 a 5 giorni, è caratterizzata da un’alta carica virale, che aumenta ulteriormente con la comparsa dei sintomi. La malattia va quindi affrontata prima che scenda ai polmoni. Se si parte presto, di solito è possibile evitare il ricovero” [5]. È ovviamente fondamentale, allo scopo, avvertire ai primi sintomi il medico, cui spetta di indicare i farmaci da assumere e le dosi (alcuni possono avere effetti collaterali, specie se presi in concomitanza con altri).

Con la cosiddetta “variante inglese” (B.1.1.7), oggi predominante anche in Italia, la prima fase si è però ridotta a soli 2-3 giorni. Ciò suggerisce che il virus si replichi più velocemente dando meno tempo al nostro sistema immunitario per sviluppare gli anticorpi. Ma, soprattutto, secondo uno studio di Grind et al. [10], la variante inglese del SARS-CoV-2 risulta essere più letale rispetto alla variante originale, con un rischio di morte di ben il 67% maggiore, a conferma della maggior virulenza di questa variante. Come vedremo nella risposta all’ultima domanda, quest’ultimo è un effetto che potrebbe essere legato ai vaccini oggi usati.

2) Come capire chi è davvero più a rischio di morte per il COVID-19?

Sono ormai noti tre diversi fattori di rischio che caratterizzano un esito infausto nel COVID-19: (1) l’età, dato che ben l’85% delle vittime italiane hanno più di 70 anni (e circa il 95% delle vittime ha più di 60 anni); (2) la presenza di comorbidità (anche i pochi morti italiani sotto i 40 anni presentano, nella maggior parte dei casi, gravi patologie preesistenti: cardiovascolari, renali, psichiatriche, diabete, obesità [2]); (3) la carenza di vitamina D (nel sangue), come evidenziato da numerosi studi nel mondo [6, 7].

Si noti che, all’interno del 20% di pazienti la cui condizione, dopo la prima settimana di malattia COVID-19, può all’improvviso deteriorare si trovano anche persone che inizialmente avevano una sintomatologia lieve [4]. Di conseguenza risulta vantaggioso avere la capacità di distinguere – al di là della semplice valutazione dei fattori di rischio – i casi che avranno un andamento clinico non complicato da quelli che hanno maggiore probabilità di sviluppare distress respiratorio e che necessitano di terapie precoci.

Uno studio svolto da Cabanillas et al. [4] ha mostrato che, sebbene fra i malati di COVID-19 vi fossero differenze statisticamente significative fra i casi a basso rischio di morte e quelli a basso rischio, tuttavia non era possibile identificare uno o più fattori nella manifestazione clinica della malattia che potevano essere usati in modo affidabile per classificare i pazienti in gruppi a basso rischio o a ad alto rischio, in modo da riservare il ricovero ospedaliero soltanto a quelli del secondo gruppo e da curare a casa gli altri.

Infatti uno si aspetterebbe, intuitivamente, che la frequenza dei sintomi sia minore nei casi a basso rischio. Ma, contrariamente alle aspettative degli autori dello studio, la maggior parte dei casi seguiti – e rivelatisi a posteriori a basso rischio – presentavano, al momento della diagnosi, due o tre sintomi, il che indica come non potessero essere identificati come tali sulla base della sola sintomatologia.

Tuttavia, gli stessi autori hanno suggerito dei criteri nuovi sulla base dei quali i casi a basso rischio possono essere identificati e monitorati a casa, anche senza trattamento farmacologico (l’integrazione di vitamina D3 è comunque consigliabile anche in questi casi, dato l’elevato profilo di sicurezza nelle dosi consigliate dagli esperti a scopo preventivo: 4.000 UI al giorno, in particolare per anziani e persone “fragili” [8]), piuttosto che ricorrere all’ospedalizzazione o alla cura ambulatoriale del paziente COVID.

Il loro approccio è basato su una serie di parametri misurabili (Interleuchina-6, ferritina, D-dimero, proteina C reattiva, colesterolo HDL, linfopenia, saturazione dell’ossigeno) comprendenti essenzialmente marcatori infiammatori basati sul sangue. Questo metodo ha mostrato un’eccellente correlazione con l’esito clinico e costituisce un miglioramento rispetto al metodo del “Punteggio CALL” (che considera l’età, la presenza di comorbidità, il livello HDL e la linfopenia per assegnare un punteggio prognostico).

Infine, molte fonti di informazioni suggeriscono che in una grossa percentuale di casi la trasmissione virale avvenga in casa. Quando possibile, e in assenza di COVID hotel, gli altri contatti stretti sani dovrebbero lasciare il domicilio o quanto meno rimanere isolati in modo assai stretto. Ciò riduce la re-inoculazione del virus attraverso l’inspirazione di bioaerosol virale [9] in caso di successiva (o precedente) infezione di altri conviventi, cosa che può potenzialmente aumentare la gravità della malattia. Dunque, le persone che vivono in famiglia possono essere più a rischio rispetto a quelle che vivono da sole.

3) Perché le cure domiciliari dei pazienti COVID sono fondamentali?

Nella pandemia da COVID-19, in Italia a livello sanitario ci si è concentrati principalmente su due tipi di risposta: (1) il contenimento della diffusione dell’infezione e (2) la riduzione della mortalità dei pazienti ricoverati. Sebbene questi sforzi fossero ben giustificati, nella prima fase si sono trascurati del tutto i pazienti rimasti a casa [6], cui veniva negato l’accesso alle cure ambulatoriali del proprio medico curante. In seguito le cose non sono migliorate molto, poiché in quasi tutte le regioni le unità USCA nate allo scopo sono poche ed i loro medici sono spesso giovani con poca esperienza e iniziativa.

D’altra parte, l’attento studio dell’epidemiologia dei ricoverati suggerisce fortemente che si dovrebbe, al contrario, puntare moltissimo proprio sulle cure a domicilio dei pazienti COVID. Infatti, la maggior parte dei pazienti che arrivano ai Pronto soccorso degli ospedali con sintomi di COVID-19 non necessitano, inizialmente, di cure mediche avanzate: solo il 25% ha bisogno di ventilazione meccanica, supporto circolatorio avanzato o di terapia sostitutiva renale (per il filtraggio del sangue dei reni) [9].

Quindi, è ragionevole pensare che una buona parte – se non la maggior parte – dei ricoveri potrebbero essere tranquillamente evitati con una cura a casa dei pazienti come primo approccio, cosa che richiede il solo potenziamento dell’accesso ai farmaci ed all’ossigeno, nonché a un fondamentale dispositivo low-cost di monitoraggio come il pulsossimetro. Quest’ultimo, peraltro, potrebbe venire anche acquistato del tutto autonomamente dal paziente, se questi solo venisse meglio informato, anche con degli spot, della sua utilità, soprattutto nel rilevare forme silenti di scarsa ossigenazione del sangue (ipossemia) [11].

In altri Paesi, e anche in Italia, le cure domiciliari – per quei pochi medici che le hanno praticate e in più usando un protocollo di cura autogestito in deroga a quello stabilito dall’AIFA – hanno contribuito a trattare in sicurezza i pazienti con diversi gradi di complessità raggiungendo bassissimi tassi di ospedalizzazione e di mortalità se confrontati con quelli delle case di cura [12] oppure con quelli dei pazienti “trattati” con il protocollo dell’AIFA del 9/12/20, basato essenzialmente su un antipiretico, la tachipirina (dal prof. Remuzzi ritenuta inutile e controproducente) e sulla “vigile attesa” (come dire: aspetta e spera…).

Dunque le cure domiciliari, se fatte con protocolli opportuni, non solo (1) riducono gli accessi agli ospedali dei malati di COVID, ma anche – a cascata – (2) i ricoveri in terapia intensiva e (3) i morti, che sono i tre numeri che l’Italia non è riuscita a controllare, al punto da dover ricorrere a lockdown prolungati. Se ciò poteva forse essere tollerabile nella prima fase primaverile del 2020, quando si era del tutto impreparati, ciò non avrebbe dovuto ripetersi nell’autunno, quando c’erano tutto il tempo e il know-how necessari per spostare gran parte delle cure dalla fase tardiva ospedaliera a quella precoce domiciliare.

In Italia, alcuni medici di base di tutte le regioni si sono riuniti in un gruppo, il “Comitato per le Cure Domiciliari COVID-19”, che ha messo a punto e testato sui propri pazienti un protocollo di cura. È grazie a loro e all’efficacia dimostrata sul campo dal loro protocollo che l’Italia ha avuto un po’ meno morti di quelli che avrebbe potuto avere, dato che solo una percentuale del tutto irrisoria dei loro pazienti ha richiesto in seguito il ricovero. Tuttavia si è trattato di una goccia del mare, poiché tutti gli altri medici di base e quelli delle USCA si sono invece attenuti al protocollo ufficiale, quello dell’“aspetta e spera” [13].

Il Comitato in questione – che comprende anche uno stimato medico ospedaliero, l’oncologo Luigi Cavanna – è nato inizialmente sui social, dove è seguito da oltre 100.000 persone, e poi si è tramutato in un’associazione, la quale da tempo chiede che il proprio protocollo di cura basato sull’uso precoce di certi farmaci (quali idrossiclorochina, azitromicina, eparina, etc. e anche vitamina D) venga riconosciuto ufficialmente a seguito dell’efficacia mostrata dai numeri. Esso è in contatto con medici all’estero (Brasile, Stati Uniti, etc.) che hanno sperimentato con analogo successo protocolli molto simili.

4) Perché il fattore tempo è così importante nella cura del COVID-19?

Sebbene ora siano disponibili opzioni di cura per i pazienti con malattia COVID grave che richiedono il ricovero in ospedale, è urgentemente necessaria l’adozione di interventi che possano essere somministrati precocemente a casa durante il corso dell’infezione per prevenire la progressione della malattia e le complicanze a lungo termine [14]. I trattamenti precoci per il COVID-19, tanto più se associati a un vaccino efficace, avrebbero implicazioni rilevanti per la capacità di porre fine a questa pandemia.

Il vantaggio di curare precocemente le infezioni da agenti patogeni (e ridurre così la probabilità di ricoveri e di esiti infausti) è noto da oltre un secolo, ma per ridurre i costi e gli effetti collaterali i farmaci sono tipicamente prescritti come trattamento terapeutico, il che significa solo dopo che si sono manifestati i sintomi della malattia [15]. Inoltre, in Italia molte persone sono morte di COVID perché anche quei 2-3 giorni o più per aspettare l’esito del tampone prima di dare dei farmaci ha fatto spesso la differenza.

I medici di base del già citato “Comitato per le Cure Domiciliari COVID-19” hanno avuto successo non solo perché hanno usato un buon protocollo di cura, ma anche perché non hanno aspettato l’esito di tamponi, bensì hanno dato subito i farmaci (come del resto suggerito pubblicamente anche dal prof. Remuzzi). Chi disponeva di un ecografo portatile l’ha usato per diagnosticare la polmonite interstiziale, e l’acquisto di tale strumentazione – che è poco costosa – per medici di base e USCA sarebbe stato un investimento del Governo molto più saggio rispetto a quello per i banchi di scuola.

Lo studio sulla risposta immunitaria al COVID-19 suggerisce che un intervento precoce potrebbe aiutare a bilanciare la risposta immunitaria efficace contro l’azione dannosa causata dal SARS-CoV-2, in modo da costruire una risposta forte per combattere il virus. Poiché i pazienti con malattia moderata non hanno ancora sviluppato danni agli organi terminali, i dati suggeriscono che l’inizio del decorso della malattia è il momento migliore per intervenire con varie opzioni di trattamento per prevenire gli squilibri immunitari, proteici e metabolici osservati con la malattia più grave degli stadi successivi [16].

È proprio la fase iniziale  del COVID-19, quella in cui appaiono i primi sintomi, ad essere quella più ottimale per trattare la malattia, prima che la risposta infiammatoria passi da utile a dannosa in quanto assolutamente eccessiva. In parole povere, questi risultati suggeriscono che l’intervento con vari integratori antivirali e immunomodulanti nelle prime fasi del COVID-19 (ad es. vitamina D, lattoferrina, etc.) potrebbe limitare la disfunzione nella risposta del sistema immunitario alla lotta contro il virus [16].

La cosa non è difficile da capire. Nella prima fase della malattia, assistiamo a una sorta di gara fra, da una parte, la replicazione del virus che si moltiplica creando sempre più unità di se stesso e, dall’altra, il sistema immunitario che deve produrre velocemente sempre più anticorpi per neutralizzare le particelle del virus. Gli integratori a loro volta agiscono, da una parte, rallentando la replicazione del virus (azione antivirale) e, dall’altra, favorendo la produzione di anticorpi (azione immunomodulante). Dunque, facilitano di molto il rapido prevalere dei “difensori” (gli anticorpi) rispetto agli “attaccanti” (le particelle virali).

La “guerra” di un organismo contro il COVID-19 è, inizialmente, una battaglia fra la replicazione virale del SARS-CoV-2 e la produzione di anticorpi neutralizzanti queste particelle virali. Alcuni integratori (ad es. vitamina D, lattoferrina, etc.), grazie alla loro azione antivirale e immunomodulante, se presi quotidianamente come forma di prevenzione della progressione della malattia verso stadi più gravi, in caso di contagio rallentano la moltiplicazione delle particelle di virus e aiutano le difese immunitarie.

L’importanza del favorire i nostri “difensori” naturali, del resto, è palese anche con gli attuali vaccini anti-COVID, che stimolano l’organismo umano a produrre anticorpi (e una memoria immunitaria) contro la famosa proteina “spike” (una delle 26 proteine del SARS-CoV-2), che è l’uncino con cui si lega alle nostre cellule. Infatti, quando una persona viene infettata da questo virus, la risposta del sistema immunitario di un vaccinato è rapida e imponente proprio poiché “l’esercito” di anticorpi è già pronto e l’organismo non è preso alla sprovvista, come invece avviene a un non vaccinato (e non immunizzato).

5) Quali integratori sono utili contro il COVID secondo la letteratura?

La patogenesi del COVID-19 è altamente complessa e comporta la soppressione della risposta immunitaria innata e antivirale dell’ospite, l’induzione di stress ossidativo seguita da iperinfiammazione descritta come “tempesta di citochine”, che causa il danno polmonare acuto, fibrosi tissutale e polmonite [17]. Attualmente, ancora diversi farmaci sono in fase di valutazione per la loro efficacia, sicurezza e per la determinazione delle dosi per il COVID-19, ma ciò richiede molto tempo per la loro convalida.

Pertanto, esplorare la riproposizione di composti naturali contro il COVID-19 può fornire alternative sul breve termine, in quanto questi non presentano effetti collaterali e sono di basso costo e di facile reperibilità per il grande pubblico. Diversi nutraceutici hanno una comprovata capacità di potenziare il sistema immunitario e di agire come antivirali, antiossidanti e antinfiammatori. Questi includono la vitamina D, la vitamina C, la lattoferrina, lo zinco, la curcumina, i probiotici, la quercetina, etc.

Assumere alcuni di questi fitonutrienti sotto forma di integratore alimentare può dunque aiutare a rafforzare il sistema immunitario, rallentare la replicazione del virus, precludere la progressione della malattia allo stadio grave e sopprimere ulteriormente l’iperinfiammazione fornendo supporto sia profilattico che terapeutico contro il COVID-19, come sottolineato da uno studio [17] svolto da un gruppo di ricercatori indiani e pubblicato su una importante rivista di immunologia. Tra l’altro, potrebbe non essere un caso che l’India abbia avuto 10 volte meno morti COVID (per milione di abitanti) rispetto all’Italia.

La carenza di vitamina D è risultata essere, secondo svariati studi scientifici anche a livello di meta-analisi [5], un fattore di rischio indipendente per le forme gravi di COVID-19, per cui può essere usata sia in ambito preventivo (in dosi di 4.000 UI al giorno nella sua forma di vitamina D3), sia in ambito terapeutico (ad alte dosi). Pure la lattoferrina – una proteina che, come la vitamina D, ha proprietà antivirali, immunomodulanti e anti-infiammatorie – ha mostrato una notevole efficacia negli studi clinici [18, 19] nell’abbattere il rischio di forme gravi di COVID-19, e viene perciò assunta da tempo da moltissimi medici e farmacisti.

La vitamina C può potenzialmente proteggere dalle infezioni a causa del suo ruolo essenziale sulla salute immunitaria. Questa vitamina supporta la funzione di varie cellule immunitarie e migliora la loro capacità di proteggere dalle infezioni. È stato dimostrato che l’integrazione con Vitamina C riduce la durata e la gravità delle infezioni delle vie respiratorie superiori (la maggior parte delle quali si presume siano dovute a infezioni virali), compreso il comune raffreddore, che può essere prodotto da alcuni tipi di coronavirus con cui la nostra specie convive da tempo [20]. La dose raccomandata di Vitamina C varia da 1 a 3 g / giorno.

Lo zinco è un metallo essenziale coinvolto in una varietà di processi biologici grazie alla sua funzione di cofattore, molecola di segnalazione e elemento strutturale. Regola l’attività infiammatoria e ha funzioni antivirali e antiossidanti. Lo zinco è considerato il potenziale trattamento di supporto contro l’infezione da COVID-19 a causa dei suoi effetti antinfiammatori, antiossidanti e antivirali diretti. Quest’ultimo effetto è ottenuto riducendo l’attività dell’ACE-2, la proteina delle cellule a cui l’uncino (spike) del SARS-CoV-2 si lega per entrare nella cellula [17]. La dose raccomandata da vari studi varia da 20 a 92 mg / settimana.

La curcumina, che possiamo assumere aggiungendo un cucchiaino di curcuma al cibo, ha un ampio spettro di azioni biologiche, comprese attività antibatteriche, antivirali, antimicotiche, antiossidanti e antinfiammatorie [21]. Inoltre inibisce la produzione di citochine pro-infiammatorie nelle cellule, ed esercita un effetto antivirale su un’ampia gamma di virus, tra cui virus dell’influenza, adenovirus, epatite, virus del papilloma umano (HPV), virus dell’immunodeficienza umana (HIV), etc. [22]. Pertanto, la curcumina potrebbe essere un altro integratore interessante nella lotta alla patogenesi del COVID-19.

6) Perché la carica virale è importante nell’infezione da COVID-19?

Come per qualsiasi altro agente patogeno (batteri, funghi, etc.) o veleno, i virus sono di solito più pericolosi quando si presentano in quantità maggiori. Sola dosis venenum facit, ovvero “è la dose che fa il veleno”, dicevano i latini e il concetto si applica, mutatis mutandis, anche ai virus. “Piccole esposizioni iniziali tendono a portare a infezioni lievi o asintomatiche, mentre dosi più grandi possono risultare letali”, come ha spiegato molto bene il professore di chimica e genomica Joshua Rabinovitz.

Lo sappiamo bene nel caso dei batteri, in quanto è proprio la concentrazione di noti batteri indicatori di contaminazione fecale – l’Escherichia coli e gli enteroccchi intestinali – a definire se un’acqua costiera è balneabile o meno. Ad es., il valore limite dei primi è di 500 UFC (Unità Formanti Colonie) / 100 ml di acqua. Oltre questa soglia la balneazione è vietata, poiché alcuni ceppi di questi batteri possono causare nell’uomo infezioni a carico del tratto digerente, delle vie urinarie o di molte altre parti del corpo.

La cosiddetta “carica virale” è invece un’espressione numerica della quantità di virus in un dato volume di fluido corporeo (ad es. l’espettorato, il plasma sanguigno, etc.). Ogni virus ha la capacità di sopravvivere per un certo tempo nell’ambiente all’interno del fluido, ma è necessaria una carica virale minima per produrre l’infezione negli esseri umani: ad es. sono sufficienti circa 100 particelle virali nel caso del norovirus [23] – il virus a RNA responsabile della diarrea – e tale quantità minima è diversa da virus a virus.

Pertanto, per proteggersi dal COVID-19, occorre cercare di prevenire l’esposizione ad alte dosi di virus. In pratica, entrare in un palazzo di uffici in cui qualcuno è stato con il coronavirus non è così pericoloso come sedersi accanto a quella persona per un’ora in treno. Perciò, la durata breve dell’esposizione – così come il distanziamento sociale e una corretta igiene – aiutano a ridurre la dose di virus che possiamo inalare. Anche le mascherine FFP2 possono contribuire ad abbattere di molto la dose in questione.

L’esposizione ad alte dosi di SARS-CoV-2 è più probabile nelle interazioni ravvicinate fra le persone, come nel corso di riunioni o in bar affollati, o nel toccarsi il naso o la bocca dopo aver ricevuto quantità sostanziose di virus sulle mani. Le ricerche hanno mostrato che le interazioni interpersonali sono più pericolose in spazi chiusi e a breve distanza, con un’escalation nelle dosi che aumenta con il tempo di esposizione. Quest’ultimo rappresenta quindi una variabile molto interessante.

Più tempo si trascorre in un ambiente chiuso o semichiuso con aria infetta dal virus e maggiori sono le probabilità di infettarsi, a parità di altre condizioni. L’uso della mascherina, se questa è scelta e indossata correttamente, può abbattere quindi di molto la probabilità di contagio e, quando anche quest’ultimo si verificasse, la barriera costituita dalla mascherina permette di assorbire una carica virale inferiore.

Un esperimento effettuato dall’Istituto per le Malattie infettive americano (NIAD) [24] ha mostrato come il virus SARS-CoV-2 possa rimanere sospeso nell’aria, sotto forma di aerosol, fino a 3 ore. Tuttavia, la quantità di virus si dimezza nel giro di un’ora ed è bassa negli spazi aperti. Pertanto, la minaccia di contagio può arrivare soprattutto dai luoghi chiusi (o semi-chiusi) e affollati, con i mezzi di trasporto (metropolitane, autobus, tram, treni locali, etc.) a farla da padrone per l’elevata densità di persone associata.

Una volta capito il concetto di carica virale, si può comprendere facilmente perché il COVID-19 ha spesso sterminato intere famiglie: in Cina come in Italia e in altri Paesi sono state innumerevoli le famiglie i cui membri si sono tutti ammalati e sono morti uno dopo l’altro in casa (per la saturazione degli ospedali e per la mancanza dei cosiddetti “COVID hotel”). Infatti, il non usare le mascherine in famiglia e il non isolare subito i contagiati espone gli altri familiari a dosi di virus assai elevate, donde gli esiti infausti.

7) Mascherine, sterilizzatori, pulsossimetri, etc.: cosa devo sapere?

Secondo uno studio anticipato dal The New England Journal of Medicine [25], la carica virale del SARS-CoV-2 rilevata nei pazienti COVID asintomatici era simile a quella dei sintomatici, il che dà un’idea quantitativa del potenziale di trasmissione dei soggetti asintomatici o minimamente sintomatici rispetto ai sintomatici. Dato che non possiamo sapere se siamo nei pressi di un soggetto asintomatico o paucisintomatico che potrebbe trasmetterci l’infezione, l’indossare una mascherina di protezione è fondamentale.

La mascherina non serve solo a impedire l’infezione, ma anche a ridurre la carica virale cui potremmo essere esposti. Oltre all’utilità nella protezione individuale, l’uso di massa delle mascherine può ridurre di molto la trasmissione dei virus respiratori. Ad es., secondo uno studio di Wu et al. [26], durante l’epidemia di SARS del 2003 l’abbattimento della trasmissione virale è stato addirittura del 70%. E, sempre grazie all’uso delle mascherine, nell’inverno 2002-2003 a Hong Kong l’influenza di fatto non circolò.

Esistono, come è noto, tre diversi tipi di mascherine di tipo medico: (1) chirurgiche (di forma rettangolare, sono inadatte a un filtraggio superiore al 65%, non essendo aderenti al viso); (2) respiratorie di tipo FFP2 (o N95), che filtrano almeno il 95% delle particelle di 0,6 micron o più grandi; (3) respiratorie di tipo FFP3 (o N99), che filtrano almeno il 99% delle particelle di 0,6 micron o più grandi. Queste ultime, però, se espellono l’aria della persona tramite una valvola non proteggono le altre persone (sono perciò dette “egoiste” e non devono mai essere usate per la protezione dal SARS-CoV-2).

Poiché le nuove varianti attecchiscono molto più facilmente, è senza dubbio raccomandabile l’utilizzo di mascherine FFP2, ma è importante accertarsi che siano prodotte in Italia e che forniscano una certificazione rilasciata da un ente del settore. Oggi le si possono trovare facilmente digitando nei siti di commercio elettronico “mascherine ffp2 italiane certificate”. Ovviamente, vanno poi indossate bene adattando l’archetto metallico alla forma del proprio naso. Una FFP2 è garantita per un uso di almeno 8 ore, ma se la usate solo negli ambienti chiusi (e all’esterno usate una chirurgica) di solito dura di più.

Le mascherine e le superfici possono essere sterilizzate in modo assai efficace con una soluzione idroalcolica al 70%, come illustrato in un mio articolo sull’argomento [3]. Gli ambienti, invece, possono essere sterilizzati facilmente usando lampade germicide a raggi UV-C, che vanno usate sempre solo in assoluta assenza di persone, poiché i raggi UV-C sono cancerogeni per la pelle e molto pericolosi per gli occhi. Per sterilizzare una grande stanza in 10 minuti, servono circa 5 W di UV-C [4]. Sconsiglio invece l’uso di ozonizzatori, perché potrebbero operare nella regione “tossica” per i polmoni.

Consiglio inoltre di avere a casa un saturimetro, detto anche pulsossimetro (tenetevi invece alla larga dalle app per misurare l’ossigeno). I modelli con il miglior rapporto qualità / prezzo sono quelli marchiati GIMA, usati anche dagli equipaggi delle ambulanze, mentre eviterei quelli cinesi low-cost, quasi del tutto inutili. Un normale livello di ossigeno nel sangue (SpO2), per polmoni sani, è compreso in genere fra il 95% ed il 100%. In generale, una lettura del saturimetro inferiore al 95% è considerata bassa. Pertanto, già al di sotto di questa soglia – specie se il trend è decrescente – andrebbe avvisato il medico.

Nel caso ci si dovesse mai trovare in una situazione come quella verificatasi nella primavera del 2020 – con gli ospedali pieni e le persone malate di COVID che si dovevano curare a casa da sole, ma il loro numero era tale che c’era scarsità di bombole di ossigeno – è bene sapere che, in assoluta mancanza di alternative, per una persona che ha difficoltà nel respirare si può usare, in associazione a una maschera per ossigenoterapia, un concentratore di ossigeno, che lo produce da solo per cui il gas non si esaurisce mai. Ormai ne esistono sul mercato vari modelli, ed i migliori producono 6-8 litri al minuto [4].

8) Una domanda dei medici: come vanno trattati i pazienti a casa?

Come in tutte le aree della medicina, anche per le cure domiciliari il grande studio clinico “randomizzato, controllato con placebo, a gruppi paralleli in pazienti appropriati a rischio con esiti significativi” rappresenta il gold standard teorico per raccomandare la terapia. Questi standard, però, non sono abbastanza rapidi o rispondenti alla pandemia COVID-19 [9], in quanto seguire i pazienti a casa per uno studio controllato rappresenta uno sforzo organizzativo ed economico molto grande da affrontare.

Se gli studi clinici controllati sui pazienti a casa non sono facili, è evidentemente necessario esaminare altre informazioni scientifiche relative all’efficacia e alla sicurezza dei farmaci. Pertanto, nel contesto delle attuali conoscenze, data la gravità della malattia e la relativa disponibilità, costo e tossicità delle terapie, ogni medico e paziente devono fare una scelta: vigile attesa passiva in auto-quarantena o trattamento attivo più o meno “empirico” allo scopo di ridurre le probabilità ospedalizzazione e la morte [9], ad es. sfruttando il protocollo dei colleghi medici di base del già citato “Comitato per le Cure Domiciliari COVID-19”.

Quest’ultimo si basa principalmente sull’idrossiclorochina in associazione con l’azitromicina, nonché sull’eparina e altri farmaci, secondo lo schema molto dettagliato pubblicato in uno studio di McCoullogh et al. [9], coordinato dall’epidemiologo statunitense Harvey Risch. Uno studio condotto in Francia su pazienti ricoverati e positivi al SARS-CoV-2, e confermato da uno successivo più ampio, ha in effetti evidenziato che l’aggiunta di azitromicina all’idrossiclorochina ha determinato una riduzione della carica virale e un significativo miglioramento del decorso della patologia [29].

Algoritmo di trattamento per la malattia COVID-19 confermata in pazienti ambulatoriali a casa in quarantena automatica. BMI = indice di massa corporea; CKD = malattia renale cronica; CVD = malattia cardiovascolare; DM = diabete mellito; Dz = malattia; HCQ = idrossiclorochina; Mgt = gestione; O2 = ossigeno; Ox = ossimetria; Yr = anno. (fonte: McCoullogh et al. [9])

L’infezione da SARS-CoV-2, come molte altre, può essere più suscettibile di terapia nelle prime fasi del suo corso, ma probabilmente non risponde agli stessi trattamenti molto tardi nelle fasi ospedaliere e terminali della malattia. Perciò, è necessario iniziare il trattamento prima che i risultati di tamponi PCR siano noti. Inoltre, poiché il COVID-19 esprime un ampio spettro di malattie che progrediscono dall’infezione asintomatica a quella sintomatica fino alla fulminante sindrome da distress respiratorio e al cedimento del sistema multiorgano, è necessario personalizzare la terapia [9].

L’estensione a livello nazionale del protocollo adottato di recente dal Piemonte, mutuato dall’esperienza del“Comitato per le Cure Domiciliari” (e basato sull’impiego della vitamina D  della idrossiclorochina, etc.) – e che pare aver dato risultati notevoli, sebbene non pubblicati per le ragioni di cui sopra – sarebbe forse preferibile rispetto all’adozione di linee guida “teoriche” (come quelle proposte da Remuzzi [30], da Matteo Bassetti, etc.), che si basano su studi di farmaci testati in fasi di cura del COVID più avanzate, ma non ancora in fase precoce con studi controllati (tuttavia uno studio sull’approccio Remuzzi è in corso).

In ogni caso, perfino uno di questi ipotetici protocolli “sintetici”, teorici, non ancora validati in fase precoce rappresenterebbe, quasi certamente, un notevole “upgrade” rispetto alle indicazioni terapeutiche fornite a novembre dal Ministero della Salute nella circolare dal titolo “Gestione domiciliare dei pazienti con infezione da SARS-CoV-2” [31], basata sulle raccomandazioni dell’AIFA (e sospesa dal TAR del Lazio il 4/3/21). In base a tale documento, si possono usare antinfiammatori come paracetamolo (ad es. Tachipirina) o FANS per pazienti sintomatici, in particolare in caso di febbre, dolori articolari o muscolari.

Il testo dichiara, inoltre, che “l’uso dei corticosteroidi è raccomandato nei soggetti con malattia COVID-19 grave che necessitano di supplementazione di ossigeno”. Invece, l’eparina è indicata solo nei soggetti immobilizzati per l’infezione in atto. Al medico, infine, la circolare suggerisce di avere un approccio di “vigile attesa” con “misurazione periodica della saturazione dell’ossigeno” tramite il saturimetro. Nel documento si suggerisce poi di monitorare i parametri vitali tramite un punteggio: quello consigliato è il “Modified Early Warning Score”. Ma quanti medici di base hanno l’hanno davvero calcolato?

9) Come posso confrontare l’efficacia dei vari vaccini anti-COVID?

Nel valutare i vaccini, in realtà, si usano due diversi tipi di indicatori – l’efficacia e l’efficienza – e poiché i media non spiegano mai la differenza fra i due, è facile che nei lettori si ingeneri una grande confusione, poiché non si può confrontare ad es. l’efficacia di un vaccino X con l’efficienza di un vaccino Y, poiché sarebbe un po’ come confrontare le mele con le pere: semplicemente non ha senso. Inoltre, quella che ci interessa da un punto di vista pratico è più l’efficienza che non l’efficacia.

La cosiddetta “efficacia” (efficacy) di un vaccino è la percentuale di riduzione dell’incidenza della malattia in un gruppo vaccinato rispetto a un gruppo non vaccinato in condizioni ottimali. La cosiddetta “efficienza” (effectiveness) del vaccino, invece, è la capacità del vaccino nel prevenire esiti di interesse per il “mondo reale” [2]. La seconda dà una valutazione meno rigorosa (anche perché non è ottenuta attraverso uno studio controllato randomizzato su un campione prescelto) ma più rilevante dal punto di vista sanitario.

In termini statistici, l’efficacia è un’unità di misura che definisce quanto un vaccino riduce il rischio di contrarre una malattia, come ad esempio il COVID-19. In pratica, nei trial si osserva quante persone vaccinate con il vaccino in esame hanno contratto il SARS-COV-2 e si compara questo dato con quante persone (che hanno ricevuto soltanto il placebo) si sono ammalate. La differenza risulta nella percentuale di efficacia dichiarata dai produttori (ad es. 95% per il Pfizer contro la variante originale del virus).

Zero efficacia significa che i vaccinati corrono lo stesso rischio delle persone che non hanno ricevuto il vaccino. Un’efficacia del 100% vuol dire che il rischio di contrarre la malattia è risultato azzerato. Solitamente, però, l’efficacia varia a seconda del Paese in cui viene effettuato lo studio. Ad esempio, le sperimentazioni dei vaccini anti-COVID in genere mostrano un’efficacia più bassa in Sudafrica o in Sud America, dove sono largamente presenti due varianti verosimilmente indotte dai vaccini stessi [32].

L’efficienza di un vaccino, invece, è la sua capacità di ridurre esiti spiacevoli per la persona o per il sistema sanitario, che nel caso del COVID-19 sono, essenzialmente tre: (1) l’ospedalizzazione in reparti a bassa intensità di cura; (2) il ricovero nel reparto di terapia intensiva; (3) la morte del paziente. Da questo punto di vista, ad esempio, il vaccino Pfizer con cui in Israele si è vaccinato oltre il 95% della popolazione ha mostrato di avere una capacità assai elevata di prevenire tutti e tre questi esiti.

Dunque, per poter confrontare i vari vaccini anti-COVID, in realtà conoscere la sola efficacia risultante dai trial (in cui il vaccino è somministrato a un campione di persone sane selezionate ad hoc) risulta utile fino a un certo punto. Una volta che il vaccino viene impiegato sul campo per la vaccinazione di massa, è l’efficienza il dato che dobbiamo valutare e confrontare, anche se la somministrazione a una popolazione non selezionata può introdurre dei bias, e quindi i dati ottenibili sono meno “solidi”.

Dai dati disponibili finora, i vaccini attualmente usati in Italia (Pfizer, Moderna e Astrazeneca) mostrano tutti una buona efficienza contro la variante inglese (B.1.1.7), che dunque non è resistente agli anticorpi neutralizzanti da essi indotti. Al contrario, la variante sudafricana (B.1.351) pone maggiori problemi, non tanto per i vaccini a mRNA (Pfizer e Moderna), quanto per Astrazeneca, i cui anticorpi neutralizzanti hanno mostrato un’attività molto bassa contro questa variante, un serio segnale di allarme sui problemi che i virus resistenti possono porre nel prossimo futuro [33].

10) I vaccini anti-COVID sono sicuri o corro qualche pericolo?

La sicurezza di un vaccino dipende dai suoi effetti collaterali. Questi possono essere divisi, essenzialmente, in tre diversi tipi: (1) effetti a breve termine (minuti, ore, pochi giorni), (2) effetti a medio termine (settimane, mesi), e (3) effetti a lungo termine (anni). In un vaccino normale vengono studiati tutti e tre i tipi di effetti, ma nel caso dei vaccini anti-COVID – sviluppati frettolosamente per uso “in emergenza”: (a) gli effetti a lungo termine non sono stati studiati; (b) si tratta, fondamentalmente, di vaccini “leaky” (vedi  [32]), il che può comportare una serie di conseguenze imprevedibili sul medio termine.

Ma vediamo le cose più in dettaglio. Gli effetti a breve termine dei vaccini anti-COVID attualmente in commercio in Italia (Pfizer, Moderna, Astrazeneca) non pongono particolare motivo di preoccupazione, se non forse per le donne incinte, per chi avesse un’infezione COVID in corso (altra circostanza non testata nei trial, per cui potrebbe essere prudente realizzare un test antigenico prima del vaccino), e – verosimilmente – per la popolazione più giovane. Infatti, come ora vedremo, il rapporto rischi/benefici sembra invertirsi al di sotto di una certa età, sebbene non esistano dati diretti sull’argomento.

Grazie al database USA degli effetti avversi (VAERS), l’ing. A. Tsiang ha stimato [34], in modo semplice ed elegante, che le morti per milione di dosi somministrate associate ai vaccini Pfizer + Moderna sono state circa 100 volte maggiori di quelle segnalate per la vaccinazione antinfluenzale 2019-20 (vedi l’Appendice qui sotto). In pratica, le morti imputabili a questi due vaccini anti-COVID sono pochissime: solo 23 per milione di dosi (in ottimo accordo con i 21,2 e 28,3 morti/milione segnalati, rispettivamente, per Pfizer e Astrazeneca nel database del Regno Unito (MHRA) [35]. Ciò significa che il rischio di morire per il vaccino uguaglia quello di morire per COVID-19 per i ragazzi di circa 25 anni (vedi Appendice).

Il rischio di morire per una dose di vaccino anti-COVID posto nella giusta prospettiva. Anche considerando un numero di dosi ricevute di vaccino anti-COVID pari a 2 o 3, si tratta comunque di un rischio di morte statisticamente molto basso rispetto ad altri cui siamo esposti comunemente nel corso della nostra vita. (fonte degli altri rischi: U.S. National Safety Council – Center for Health Statistics)

Per quanto riguarda invece gli effetti a medio termine dei vaccini anti-COVID in commercio, attualmente non si conosce la loro incidenza (ad es. quella di complicazioni tromboemboliche o di eventuali risposte infiammatorie che portino a condizioni autoimmuni) a molte settimane dalla dose ricevuta (quando tali eventi vengono più difficilmente inseriti nei database degli affetti avversi) e tanto meno conosciamo gli effetti di tali vaccini quando l’immunità tende a svanire, verosimilmente dopo molti mesi. Inoltre, prima o poi potrebbero emergere nuove varianti del virus che “bypasseranno” del tutto i vaccini attuali e/o saranno più virulente e pericolose per la popolazione, come ho illustrato con vari esempi storici qui [32].

Il virologo e grande esperto di vaccini Geert Vanden Bossche (che ha lavorato per OMS, FDA, CDC, GAVI, Bill e Melinda Gates Foundation, etc.) è assai preoccupato: fare una vaccinazione di massa a pandemia in corso, con vaccini “non sterilizzanti” (come quelli ora usati [32]) ha un’altra importante conseguenza: la soppressione temporanea del baluardo contro questo virus costituito dall’immunità naturale “innata”, cosa assai problematica (specie fra i più giovani), poiché prima o poi la pressione evolutiva esercitata dai vaccini può selezionare ceppi mutanti di SARS-CoV-2 resistenti ai vaccini – come sta già accadendo con la resistenza agli antibiotici – rendendo addirittura controproducente l’immunità artificiale indotta dagli attuali vaccini, che è solo “proteina spike-specifica” [36, 37].

Infine, normalmente il processo per approvare un nuovo vaccino richiede un decennio, così da poter escludere effetti a lungo termine. La durata troppo breve degli studi fatti per ottenere le autorizzazioni “in emergenza” dalle autorità regolatorie (FDA, EMA, etc.) – la FDA ad es. richiede solo 2 mesi di dati raccolti – non consente una stima realistica degli effetti tardivi. Ad esempio, per i vaccini a mRNA (mai usati prima!) non è stato studiato l’impatto sulla fertilità e l’eventuale trasmissione alla progenie di mutazioni dannose e, per quelli a vettore virale, l’eventuale cancerogenesi. Non a caso, a chi fa il vaccino anti-COVID in Italia viene fatto firmare un modulo di consenso informato che nell’allegato  recita “non è possibile al momento prevedere danni a lunga distanza”.

In conclusione, poiché i vaccini devono essere somministrati solo se i benefici superano i rischi, in considerazione: (1) di quanto fin qui illustrato, (2) del fatto che i vaccini “leaky” non producono immunità di gregge, e (3) tenendo conto del fatto che circa il 96% dei morti per COVID in Italia sono costituiti da over 60 [38] (più alcuni individui fragili), a mio avviso si dovrebbe vaccinare solo la popolazione a rischio – appunto, over 60 e persone “fragili” di ogni classe di età (ad es. immunodepressi, etc.), come del resto avviene da sempre per la vaccinazione contro i virus dell’influenza – senza far correre alla popolazione più giovane anche i rischi sul medio e lungo termine, oggi del tutto imprevedibili per dei vaccini sperimentali.

APPENDICE – Stima della mortalità legata ai vaccini anti-COVID negli USA

L’ing. A. Tsiang dell’Environmental Health Trust (EHS) statunitense, ispirato da un articolo apparso sulla testata The Epoch Times [39], ha stimato i tassi di mortalità legati ai due vaccini anti-COVID usati negli USA (Pfizer e Moderna) tramite un attento confronto, possibile grazie al database pubblico VAERS, con i tassi di mortalità riscontrati nella vaccinazione antinfluenzale 2019-20, che sono risultati essere di circa 100 volte più bassi. Infatti, se le morti segnalate come affetti avversi dei vaccini anti-COVID fossero per la maggior parte casuali, logicamente dovrebbero essere simili (in percentuale sulle dosi somministrate) a quelle segnalate per l’influenza, e non due ordini di grandezza più grandi. Ma ecco quanto ha trovato.

Poiché i morti negli USA segnalati al VAERS nella campagna antinfluenzale 2019-2020 sono stati circa 45 su 170 milioni di vaccinati, l’incidenza è stata dello 0,000026%, pari a circa 0,26 morti per milione di dosi. Viceversa, poiché i morti segnalati in relazione ai vaccini anti-COVID negli USA sono stati, dal 14 dicembre 2020 al 19 febbraio 2021 (circa 2 mesi), 966 su 41.977.401 dosi somministrate, l’incidenza è stata dello 0,0023%, pari a circa 23,0 casi per milione di dosi. Dunque, i morti in eccesso prodotti dai 2 vaccini anti-COVID Pfizer + Moderna sono stimabili in (23,0 – 0,26 =) 23 morti per milione di dosi somministrate. Siamo quindi ora in grado di stimare il rapporto rischi-benefici per le varie classi di età.

Si noti che il tasso di mortalità da infezione COVID negli USA è stato, secondo i CDC di Atlanta, dello 0,003% per la fascia di età 0-19 anni, e dello 0,02% per la fascia di età 20-49 anni. Quindi il rapporto rischi-benefici nel fare questi due vaccini sembra essere maggiore solo per le persone di età, verosimilmente, maggiori di circa 25 anni. Per le persone più giovani di (all’incirca) questa età, il rischio di morire per il vaccino o per il COVID-19 sembra essere dunque praticamente equivalente, e ciò dovrebbe essere un aspetto da valutare con attenzione in una seria politica di salute pubblica, anche in considerazione del fatto che poco o nulla si sa sui possibili effetti a medio o a lungo termine dei vaccini a mRNA (mai usati prima sull’uomo).

Vorrei sottolineare che questo risultato si può considerare molto “solido”, poiché:

  1. La platea dei vaccinati per l’antinfluenzale è composta per lo più da anziani, quindi in realtà se si facessero le correzioni per età il rapporto in questione (100 x) risulterebbe ancora più grande.
  2. Entrambe le vaccinazioni sono state fatte a una platea di persone vastissima (decine di milioni di persone), perciò l’errore statistico risulta essere del tutto ininfluente.
  3. Vi è un ottimo accordo con i dati ottenuti per il Regno Unito dal database MHRA [35] e con quelli ottenibili, sia pure indirettamente, per l’Italia (ciò sarà mostrato in un futuro articolo).
  4. Secondo l’ultimo rapporto dell’AIFA, il numero di segnalazioni (per 100.000 dosi) degli effetti avversi dei vaccini anti-COVID appare essere maggiore per le classi di età più giovani [40].

Riferimenti bibliografici

[1]  Zahra S.A. et al, “Can symptoms of anosmia and dysgeusia be diagnostic for COVID‐19?”, Brain and Behaviour, Settembre 2020.

[2]  Istituto Superiore di Sanità, “Caratteristiche dei pazienti deceduti positivi all’infezione da SARS-CoV-2 in Italia”, Epicentro, Dicembre 2020.

[3]  Guan W. et al., “Clinical Characteristics of Coronavirus Disease 2019 in China”, The New England Journal of Medicine, Febbraio 2020.

[4]  Cabanillas F. et al., “Home-based management of COVID-19”, preprint, MedRxiv, Gennaio 2021.

[5]  Palazzo S., “Ecco come curare il Covid a casa”/ Il documento di Remuzzi: “Così evitiamo ricoveri”, Il Sussidiario, 14 dicembre 2020.

[6]  Menichella M., “Vitamina D e minore mortalità per COVID-19: le evidenze e il suo uso per prevenzione e cura”, Fondazione David Hume, 23 febbraio 2021.

[7]  Infante M. et al., “Low Vitamin D Status at Admission as a Risk Factor for Poor Survival in Hospitalized Patients With COVID-19: An Italian Retrospective Study”, J. Am. Coll. Nutr., Febbraio 2021.

[8]  Isaia G., D’Avolio A., e altri 155 medici italiani, appello promosso dall’Accademia di Medicina di Torino, “Vitamina D nella prevenzione e nel trattamento del COVID-19: nuove evidenze”, Medico e paziente, 3 dicembre 2020.

[9]  McCullough P.A. et al., “Rationale for early outpatient covid-19”, American Journal of Medicine, Gennaio 2021.

[10]  Grind D. et al., “Case fatality risk of the SARS-CoV-2 variant of concern B.1.1.7 in England, preprint, medRxiv, 8 marzo 2021.

[11]  Luks A.M. et al., “Pulse Oximetry for Monitoring Patients with COVID-19 at Home. Potential Pitfalls and Practical Guidance”, Ann. Am. Thorac. Soc., Settembre 2020.

[12]  Gaspar H.A. et al., “Home Care as a safe alternative during the COVID-19 crisis”, Rev. Assoc. Med. Bras., Novembre 2020.

[13]  Ferro A., “Ecco la terapia italiana anti-Covid che il Governo non prende in considerazione”, Il Giornale, 10 febbraio 2021.

[14]  Kim P.S. et al., “Therapy for Early COVID-19: A Critical Need”, JAMA, Novembre 2020.

[15]  Kennedy D.A. et al., “Why does drug resistance readily evolve but vaccine resistance does not?”, Proc. R. Society Biology, Marzo 2017.

[16]  Su Y. et al., “Multi-Omics Resolves a Sharp Disease-State Shift between Mild and Moderate COVID-19”, Cell, Dicembre 2020.

[17]  Mrityunjaya M. et al., “Immune-Boosting, Antioxidant and Anti-inflammatory Food Supplements Targeting Pathogenesis of COVID-19”, Front. Immunol., Ottobre 2020.

[18]  Guan W.J. et al., “Clinical characteristics of coronavirus disease 2019 in China”, New England Journal of Medicine, 2020.

[19]  Li Q. et al., “Early transmission dynamics in Wuhan, China, of novel coronavirus–infected pneumonia”, New England Journal of Medicine, 2020.

[20]  Van Driel M.L. et al., “Oral vitamin C supplements to prevent and treat acute upper respiratory tract infections”, Cochrane Database Syst Rev., 2019.

[21]  Catanzaro M. et al., “Immunomodulators inspired by nature: a review on curcumin and Echinacea”, Molecules, 2018.

[22]  Chen T.Y. et al., “Inhibition of enveloped viruses infectivity by curcumin”, PLoS ONE, 2013.

[23]  Robilotti, E. et al., “Norovirus”, Clinical Microbiology Reviews, 2015.

[24]  Doremalen N. et al., “Aerosol and Surface Stability of SARS-CoV-2 as Compared with SARS-CoV-1”, Letter, The New England Journal of Medicine, Aprile 2020.

[25]  Zou L. et al., “SARS-CoV-2 Viral Load in Upper Respiratory Specimens of Infected Patients”, Letter, The New England Journal of Medicine, Marzo 2020.

[26]  Wu J. et al., “Risk Factors for SARS among Persons without Known Contact with SARS Patients, Beijing, China”, Emerging Infectious Diseases, 2004.

[27]  Menichella M., “Come sterilizzare e ‘riciclare’ una mascherina”, Esperimentanda, 2020.

[28]  Cicala L., “Coronavirus – Concentratori di ossigeno”, Theremino, 2020.

[29]  Gautret P. et al., “Hydroxychloroquine and azithromycin as a treatment of COVID-19: results of an open-label non-randomized clinical trial”, Int. J. Antimicrob. Agents, 2020.

[30]  Perico N. et al., “A recurrent question from a primary care physician: How should I treat my COVID-19 patients at home?”, Clinical and Medical Investigations, Novembre 2020.

[31]  Direzione Generale della Programmazione sanitaria, “Gestione domiciliare dei pazienti con infezione da SARS-CoV-2”, Portale web del Ministero della Salute, 30 novembre 2020.

[32]  Menichella M., “I vaccini anti-COVID: perché ci attende un future pieno di incognite”, Fondazione David Hume, 10 marzo 2021.

[33]  Moore J.P., “Approaches for Optimal Use of Different COVID-19 Vaccines Issues of Viral Variants and Vaccine Efficacy”, JAMA, 4 marzo 2021.

[34]  Tsiang A. (Environmental Health Trust, USA), “200X Higher Overall Deaths after COVID-19 vs. Flu vaccines”, Comunicazione tramite mailing list, 11 marzo 2021.

[35]  Ricolfi L., Analisi dei dati del database MHRA degli effetti avversi nel Regno Unito (per un articolo in preparazione), Comunicazione personale, 19 marzo 2021.

[36]  Vanden Bossche G., “Mass Vaccination in a Pandemic – Benefits versus Risks”, Intervista effettuata dal Dr. Philip McMillan, YouTube, 6 marzo 2021.

[37]  Vanden Bossche G., “Public Health Emergency of International Concern”, appello indirizzato alle principali Autorità sanitarie di tutto il mondo, Agenzia Stampa Italia, 2020.

[38]  Menichella M., “Perché la vaccinazione degli anziani va maneggiata con cura: un’analisi per scenari”, Fondazione David Hume, 4 febbraio 2021.

[39]  Farber C., “Adverse incident reports show 966 deaths following vaccination for COVID-19”, The Epoch Times, Febbraio 2021.

[40]  Agenzia Italiana del Farmaco, “Secondo Rapporto sulla sorveglianza dei vaccini COVID-19 (27/12/2020 – 26/2/2021)”, Sito web dell’AIFA, 2020.

 




I vaccini anti-COVID: perché ci attende un futuro pieno di incognite

Essendo il comunicatore scientifico l’interfaccia, il trait d’union, fra gli scienziati e il mondo politico, la divulgazione scientifica ha fra i suoi compiti principali quello – assai elevato ma spesso disatteso – di informare la classica “casalinga di Voghera” e, soprattutto, il politico di turno di quel che davvero si pensa nel mondo internazionale della ricerca su temi di attualità, affinché i singoli individui, ma principalmente i decisori politici, possano adottare a ragion veduta misure e comportamenti quanto più consoni e lungimiranti possibile, non limitandosi ad “inseguire gli eventi” come è finora accaduto nella gestione italiana della pandemia di COVID-19. Perché stanno nascendo nuove e preoccupanti varianti del virus SARS-CoV-2? Quali sono i rischi conseguenti per una campagna multi-vaccinale ed, a cascata, per la nostra società sempre più stremata dal punto di vista economico e sociale? Quali sono gli scenari futuri che dobbiamo aspettarci nel caso migliore e in quello peggiore? Questo articolo cerca di rispondere in modo chiaro e documentato a tutte queste domande, o quanto meno di fornire al lettore gli elementi fattuali e gli strumenti culturali affinché possa arrivare da solo a una facile risposta.

Se non venissero usati vaccini per cercare di indurre un’immunità protettiva, la pandemia di COVID-19 – secondo i maggiori esperti mondiali – si attenuerebbe lentamente nel tempo fino a diventare una malattia endemica, come l’influenza. Quest’ultima famiglia di virus ha mostrato lo stesso andamento almeno quattro volte negli ultimi 100 anni, così come i coronavirus stagionali. Ma nonostante la maggior parte dei vaccini anti-COVID provochino una reazione immunitaria molto più forte dell’infezione naturale con il virus, senza i vaccini anti-COVID e senza un piano di prevenzione e cura domiciliare precoce vi sarebbero nel frattempo (cioè fino alla svilupparsi di un’immunità naturale nella popolazione) molti morti in poco tempo fra gli over 70 e/o si sarebbe costretti, in Paesi come l’Italia che non sono stati in grado di implementare alcuna misura alternativa, a frequenti lockdown per non saturare terapie intensive e ospedali.

Immagine ottenuta mediante microscopio elettronico a trasmissione (MET) di particelle del virus SARS-CoV-2 (in rosso), isolate da un paziente affetto da COVID-19, mentre attaccano le cellule del tessuto polmonare circostante. (fonte: NIAID Integrated Research Facility in Fort Detrick, Maryland).

Ora, sebbene la pressione di selezione operi raramente durante una pandemia, poiché l’infezione di solito si risolve rapidamente (anche prima che la produzione di anticorpi sia completa), durante la fase endemica la situazione è diversa, poiché la presenza di anticorpi in individui già guariti e in persone che ricevono un’immunità passiva sotto forma di plasma convalescente, o anticorpi monoclonali terapeutici, esercita una pressione selettiva sul virus. Ciò determinerà quindi la selezione di varianti virali con la capacità di eludere questi anticorpi. Negli individui, nel tempo possono emergere diverse varianti dello stesso virus, dando origine a quasi-specie che possono soppiantare le versioni preesistenti [1].

I vaccini tentano di contrastare questo problema, ma possono introdurre anch’essi una pressione selettiva.  L’impiego di vaccini, dunque, non è neutrale rispetto a un virus, ma in generale ne può influenzare l’evoluzione, come del resto possono farlo anche altri tipi di misure di sanità pubblica. Ciò può portare all’emergere di mutazioni nel genoma virale, per cui il ceppo endemico può eludere la risposta immunitaria provocata da ceppi precedenti dello stesso virus, complicando potenzialmente la vita sia ai ricercatori (che devono monitorare l’efficacia dei vaccini ed eventualmente adattarli alle nuove varianti) sia alle persone (cui potrebbero essere date nei prossimi mesi o anni “terze” dosi e forse anche “quarte” o “quinte”).

L’importanza della “teoria evolutiva della virulenza” nel controllo delle epidemie

L’opinione che la maggior parte dei medici e degli autori di testi di medicina aveva, fino a non molti anni fa, sull’evoluzione della “virulenza” – cioè, in pratica, del grado di aggressività per l’ospite umano – di un agente patogeno (virus, batterio o altro parassita), era che, quando la nostra specie e il parassita coevolvono per un lungo periodo di tempo, quest’ultimo tende a diventare meno virulento, evolvendo in definitiva verso una forma più benigna per l’uomo. Quest’idea era peraltro supportata da esempi famosi come quello del virus della mixomatosi, in cui un “nuovo” virus introdotto dall’uomo fra i conigli australiani si era evoluto, nel giro di pochi anni, in un germe assai meno virulento [2].

Sin dalla fine degli anni Settanta, tuttavia, alcuni biologi evoluzionisti, tra cui il prof. Paul W. Ewald dell’Università di Louisville (USA), hanno proposto un modo completamente nuovo di vedere le cose, che ha permesso di giungere a una vera e propria “teoria evolutiva della virulenza”, ben illustrata dallo stesso Ewald nel suo bel libro Evolution of Infectious Disease [3], che ebbi modo di studiare poco dopo la sua pubblicazione, quasi 25 anni fa. Secondo questi scienziati, la coevoluzione tra un agente patogeno e l’ospite umano – e, più in generale tra un parassita e una specie ospite – non evolve necessariamente verso una coesistenza benigna, bensì può rendere il germe più o meno virulento.

Il biologo evolutivo Paul Ewald e il suo libro in cui illustra la “teoria evolutiva della virulenza”.

Difatti, secondo la teoria evolutiva della virulenza, che ha reso ormai superata la vecchia teoria dei medici (basata sull’idea che i parassiti arrecanti poco o nessun danno ai loro ospiti hanno, come specie, la massima probabilità di sopravvivere sul lungo termine: essi prosperano – si pensava – perché anche gli organismi loro ospiti prosperano, per cui la selezione naturale deve favorirne una minore virulenza), in realtà la selezione naturale premia i parassiti che hanno la massima probabilità di sopravvivere sul lungo termine non come specie, bensì come singoli individui, secondo una visione darwiniana dell’evoluzione applicabile perfettamente non solo agli animali e alle piante ma anche ai microrganismi (e di cui il recente sviluppo della resistenza dei batteri agli antibiotici non è altro che l’ennesima conferma) [28].

Ma è proprio questo il punto, secondo gli evoluzionisti. Un patogeno resta innocuo o poco virulento finché le probabilità di contagio sono basse. Se però quel parassita “scopre” che passare da un individuo all’altro è diventato facile (come avvenne ad es. all’influenza “Spagnola” durante la Prima guerra mondiale, quando l’infezione poteva trasmettersi facilmente fra i soldati nelle trincee), allora può avere tutto l’interesse a riprodursi – e quindi a diffondersi – più rapidamente, anche a costo di uccidere il suo ospite. Viceversa, se nel caso di un patogeno altamente virulento il contagio di altre persone diventa per qualche ragione più difficoltoso, il germe avrà interesse a diventare meno virulento, per permettere all’ospite di restare attivo e assicurare al parassita la possibilità di entrare in contatto con altri potenziali ospiti.

Pertanto, la virulenza di un agente patogeno può diminuire o aumentare nel tempo, a seconda di quale opzione sia più vantaggiosa per i suoi geni, e ciò dipende dalla complessa influenza e interazione reciproca di vari: (1) fattori biologici, come la modalità e capacità di trasmissione del parassita, la sua capacità di sopravvivere per lunghi periodi di tempo al di fuori di un organismo ospite e la resistenza opposta dal sistema immunitario dell’ospite stesso; (2) fattori sociali, quali la densità di popolazione di una comunità umana, l’ambiente di vita e il comportamento delle persone (quest’ultimo, in particolare, determina la via e il momento della trasmissione del patogeno tra gli individui) [3].

Più della modalità di trasmissione e degli altri fattori biologici, comunque, è il comportamento dell’uomo a giocare, insieme agli altri fattori sociali, un ruolo fondamentale nell’evoluzione della virulenza di un agente patogeno che affligga la nostra specie. Certe scelte comportamentali delle singole persone nella vita di tutti i giorni, e quelle collettive in tema di sanità pubblica, oltre a preservare direttamente i singoli individui dal contrarre una determinata infezione, hanno un effetto meno immediato, ma fondamentale, nel ridurre il grado di virulenza del patogeno associato. In questo senso, il distanziamento sociale ed i lockdown con il COVID hanno avuto un’utilità accessoria: tenere sotto controllo la virulenza.

La letteratura medica offre ampie prove a favore di tali effetti, prodotti per lo più ostacolando la trasmissione degli agenti patogeni per via “culturale”: cioè, nel caso di molte malattie batteriche, informando sulla necessità di migliorare le condizioni igieniche (personali, delle fonti idriche, ospedaliere, eccetera); nel caso dell’AIDS, spingendo i soggetti delle categorie a rischio a usare siringhe non contaminate e ad adottare pratiche sessuali sicure (uso di preservativi, diminuzione della promiscuità e dei comportamenti ad alto rischio), e così via. Non è un caso, secondo Ewald, che del virus HIV si sia prodotta, in Africa, una variante molto più virulenta di quella che circola in Europa. [3]

L’applicazione sistematica alla medicina dell’approccio darwiniano alla virulenza costituisce, insomma, una nuova strada assai utile per contrastare i nuovi agenti patogeni, soprattutto virali, compresi quelli che attaccheranno in futuro l’uomo – per i quali non saranno disponibili subito vaccini – e per tenere sotto controllo quelli che già ci affliggono, sempre più difficilmente contrastabili dai trattamenti tradizionali con antibiotici o con altri farmaci. Infatti, esaminando i vari fattori biologici e sociali che influenzano la virulenza di un determinato patogeno, i biologi evoluzionisti possono prevedere i suoi decorsi evolutivi, scoprire ciò che più ci rende vulnerabili ad esso, e mettere a punto le terapie e i comportamenti sociali più adeguati per trasformare un pericoloso parassita in un germe meno temibile [2].

La “resistenza ai vaccini”: un pericolo legato a certi nuovi tipi di vaccini

La maggior parte delle persone ha sentito parlare di “resistenza agli antibiotici”, ma difficilmente di resistenza ai vaccini. Questo perché la resistenza agli antibiotici è un enorme problema globale che uccide ogni anno quasi 25.000 persone in Europa e egli Stati Uniti, e più del doppio in India. Invece, la maggior parte dei programmi di vaccinazione in tutto il mondo hanno avuto – e continuano ad avere – un enorme successo nel prevenire le infezioni e nel salvare vite umane. Addirittura, grazie ai vaccini il virus del vaiolo è stato del tutto eliminato dalla faccia della Terra, sebbene ciò abbia richiesto molto tempo.

Ma l’immunizzazione vaccinale sta anche rendendo più diffuse varianti genetiche di patogeni una volta rare o inesistenti, presumibilmente perché gli anticorpi sviluppati dai vaccinati non possono riconoscere e attaccare facilmente i ceppi mutanti che sembrano diversi dai ceppi vaccinali. Ed i vaccini in fase di sviluppo contro alcuni dei patogeni peggiori del mondo – ad esempio, malaria, antrace, etc. – si basano su strategie che potrebbero potenzialmente, secondo modelli evolutivi ed esperimenti di laboratorio, incoraggiare i patogeni a diventare ancora più pericolosi [4]; e, come vedremo, lo stesso potrebbe in linea teorica accadere con i vaccini anti-COVID, o almeno con alcuni di essi, dato che in realtà ne sono in corso di sviluppo nel mondo davvero moltissimi: circa 200.

I biologi evolutivi, in realtà, non sono sorpresi che ciò stia accadendo. Si tratta, infatti, di un ennesimo esempio della teoria evolutiva della virulenza al lavoro. Un vaccino rappresenta una nuova pressione selettiva esercitata su un agente patogeno e, se il vaccino non sradica completamente il suo bersaglio, i patogeni rimanenti maggiormente adattatisi – quelli in grado di sopravvivere, in qualche modo, in un mondo immunizzato – diventeranno più comuni. Questi agenti patogeni, insomma, si evolvono in risposta ai vaccini per il processo di selezione naturale applicata ai microrganismi.

La scienza dei vaccini è incredibilmente complicata, ma il meccanismo sottostante è in realtà molto semplice. Un vaccino espone il tuo corpo a dei patogeni vivi ma indeboliti o uccisi, o anche solo a determinati frammenti di essi (come nel caso della maggior parte dei vaccini anti-COVID, che utilizzano quale antigene, o bersaglio, la famosa proteina “spike”, una sorta di uncino che aggancia le cellule dell’ospite, in particolare – inizialmente – quelle delle vie respiratorie superiori). Questa esposizione incita il tuo sistema immunitario a creare degli eserciti di cellule immunitarie, alcune delle quali secernono proteine ​​anticorpali per riconoscere e combattere i patogeni, se mai invadono di nuovo il corpo.

Questa immagine è un modello generato dal computer della proteina “spike” di una cellula SARS-CoV-2 (COVID-19), che si lega al recettore della proteina ACE-2 di una cellula umana. Attraverso questa connessione, le cellule virali sono in grado di trasferire il loro DNA e riprodursi.

Anche l’immunità indotta dai vaccini può variare, diminuendo nel tempo. Dopo aver ricevuto il vaccino per il tifo, ad esempio, i livelli di anticorpi protettivi di una persona diminuiscono nel corso di diversi anni, motivo per cui le agenzie di sanità pubblica consigliano richiami periodici per coloro che vivono o visitano regioni in cui il tifo è endemico. La ricerca suggerisce che un simile calo della protezione nel tempo si verifica anche con il vaccino contro la parotite. E ci aspettiamo che lo stesso accada con i vaccini anti-COVID, che quindi verosimilmente richiederanno dei richiami, con cadenze ancora non ben chiare.
I fallimenti dei vaccini causati dall’evoluzione indotta dal vaccino, invece, sono di natura diversa. Questi cali dell’efficacia del vaccino sono stimolati dai cambiamenti nelle popolazioni di patogeni che certi vaccini stessi causano direttamente. Gli scienziati hanno di recente iniziato a studiare in parte il fenomeno perché oggi possono farlo: i progressi nel sequenziamento genetico, infatti, hanno reso più facile vedere come i patogeni cambiano nel tempo. E molti di questi nuovi vaccini – come vedremo – hanno rafforzato la velocità con cui i patogeni mutano e si evolvono in risposta ai segnali ambientali.
Si può pensare alla vaccinazione come a una specie di setaccio, che impedisce a molti agenti patogeni di passare e sopravvivere. Ma se ne passano alcuni, quelli in quel campione non casuale che sopravviveranno preferenzialmente si replicheranno e, alla fine, cambieranno la composizione della popolazione patogena. I “quelli” citati potrebbero essere: (1) “ceppi mutanti di fuga” con differenze genetiche che consentono loro di sfuggire agli anticorpi innescati dal vaccino, o (2) semplicemente sierotipi che non sono stati presi di mira dal vaccino. In entrambi i casi, il vaccino altera il profilo genetico della popolazione patogena.

Alcuni esempi di evoluzione non desiderabile indotta da vaccini

I batteri che causano la pertosse illustrano molto bene come ciò possa accadere. Nel 1997, negli Stati Uniti le raccomandazioni [5] dei Centers for Disease Control and Prevention (CDC) iniziarono a promuovere l’adozione di un nuovo vaccino per prevenire l’infezione di questi batteri. Mentre il vecchio vaccino era realizzato utilizzando dei batteri interi uccisi, che stimolavano una risposta immunitaria efficace ma anche rari effetti collaterali, come convulsioni, la nuova versione – nota come vaccino “acellulare” – conteneva solo da due a cinque proteine ​​della membrana esterna isolate dal patogeno.

Gli effetti collaterali indesiderati sono così scomparsi, ma sono stati sostituiti da nuovi problemi inaspettati. In primo luogo, per ragioni non chiare, nel corso del tempo la protezione conferita dal vaccino acellulare è diminuita. Di conseguenza, le epidemie hanno cominciato a scoppiare in tutto il mondo. Nel 2001, degli scienziati nei Paesi Bassi [6] hanno proposto un motivo aggiuntivo per l’indesiderata rinascita: forse la vaccinazione stava stimolando l’evoluzione, facendo sì che ceppi di batteri privi delle proteine​-bersaglio, o che ne avevano versioni diverse, sopravvivessero in modo preferenziale.

Da allora gli studi hanno confermato questa idea. In un articolo del 2014 [7] pubblicato su Emerging Infectious Diseases, dei ricercatori australiani, guidati dal medico e microbiologo Ruiting Lan, presso l’Università del New South Wales hanno raccolto e sequenziato campioni del batterio della pertosse da 320 pazienti tra il 2008 e il 2012. La percentuale di batteri che non hanno espresso la pertactina, una proteina bersaglio del vaccino acellulare, è balzata dal 5% nel 2008 al 78% nel 2012, il che suggerisce che la pressione di selezione del vaccino stava consentendo ai ceppi privi di pertactina di diventare più comuni.

Anche il virus dell’epatite B, che causa danni al fegato, racconta una storia simile. L’attuale vaccino, che prende di mira principalmente una parte del virus noto come “antigene di superficie” dell’epatite B (l’antigene è una molecola in grado di essere riconosciuta dal sistema immunitario come estranea), è stato introdotto negli Stati Uniti nel 1989. Un anno dopo, in un articolo pubblicato su Lancet [8], i ricercatori hanno descritto strani risultati di una sperimentazione su un vaccino in Italia. Avevano rilevato virus dell’epatite B circolanti in 44 soggetti vaccinati, ma in alcuni di essi al virus mancava una parte di quell’antigene bersaglio. Si erano, dunque, sviluppati i già citati “ceppi mutanti di fuga”.

Negli Stati Uniti Andrew Read, professore di biologia alla Penn State University ed esperto di genetica evolutiva delle malattie infettive, sta studiando con i suoi collaboratori come l’herpesvirus che causa la cosiddetta “malattia di Marek” – un disturbo altamente contagioso, paralizzante e in definitiva mortale che costa all’industria dei polli più di 2 miliardi di dollari all’anno – potrebbe evolversi in risposta al suo vaccino. La malattia di Marek sta colpendo i polli in tutto il mondo da oltre un secolo; gli uccelli la prendono inalando polvere carica di particelle virali versate nelle penne di altri uccelli.

Questa malattia fornisce l’esempio meglio documentato dell’evoluzione della resistenza ai vaccini [9]. Il primo vaccino è stato introdotto nel 1970, quando la malattia stava uccidendo interi stormi. Funzionò bene, ma nel giro di un decennio iniziò misteriosamente a fallire; focolai di Marek hanno iniziato a scoppiare in stormi di polli vaccinati. Un secondo vaccino è stato autorizzato nel 1983 nella speranza di risolvere il problema, ma anch’esso ha gradualmente smesso di funzionare. Oggi, l’industria del pollame è al suo terzo vaccino. Funziona ancora, ma Read e altri temono che anch’esso un giorno possa fallire e non c’è un quarto vaccino in attesa. Peggio ancora, negli ultimi decenni il virus è diventato più letale.

La malattia di Marek, una patologia che colpisce i polli, ci fornisce l’esempio meglio documentato del fenomeno della resistenza ai vaccini. Nella foto, un pulcino viene vaccinato contro di essa.

In un articolo del 2015 apparso su PLOS Biology [10], Read e colleghi hanno vaccinato 100 polli, lasciandone altri 100 non vaccinati. Hanno poi infettato tutti gli uccelli con ceppi di Marek che variavano per virulenza – cioè in quanto erano pericolosi e contagiosi. Il team ha scoperto che, nel corso della loro vita, gli uccelli non vaccinati immettono molto più ceppi meno virulenti nell’ambiente, mentre gli uccelli vaccinati immettono molto più ceppi più virulenti. I risultati suggeriscono quindi che il vaccino di Marek incoraggia la proliferazione di virus più pericolosi, che di conseguenza supererebbero le risposte immunitarie degli uccelli innescate dal vaccino e quelle degli stormi vaccinati ammalati.

I vaccini non sterilizzanti ed i potenziali rischi connessi

Proprio come gli agenti patogeni hanno modi diversi di infettarci e influenzarci, i vaccini che gli scienziati sviluppano impiegano strategie immunologiche diverse. La maggior parte dei vaccini che riceviamo durante l’infanzia (ad es. contro il morbillo) impediscono agli agenti patogeni di replicarsi dentro di noi e quindi ci impediscono anche di trasmettere le infezioni ad altri: sono, cioè, i cosiddetti vaccini “sterilizzanti”. E l’immunità sterilizzante è stata un fattore chiave per eliminare il vaiolo, eradicato ufficialmente nel 1980.

Ma finora gli scienziati non sono stati in grado di produrre questo tipo di vaccini sterilizzanti per patogeni complicati, come ad esempio la malaria e l’antrace. Per sconfiggere queste malattie, alcuni ricercatori hanno quindi sviluppato dei vaccini immunizzanti che prevengono le malattie senza effettivamente prevenire le infezioni: sono i cosiddetti vaccini “leaky”. E questi nuovi vaccini possono provocare un tipo di evoluzione microbica diversa e potenzialmente più spaventosa, di cui occorre tenere conto soprattutto nello scenario attuale dei molteplici vaccini anti-COVID già autorizzati o candidati (come detto, sono oltre 200 quelli in corso di sviluppo, e spesso molto diversi l’uno dall’altro per tecnologia usata).

La virulenza, come tratto di un patogeno, è direttamente correlata alla replicazione: più agenti patogeni ospita il corpo di una persona, e generalmente più malata diventa quella persona. Di conseguenza, la virulenza è definita come “la capacità di un agente patogeno di creare danni a un ospite”. Un alto tasso di replicazione fornisce però vantaggi evolutivi: più microbi nel corpo portano a più microbi nel moccio, nel sangue o nelle feci, il che offre ai microbi maggiori possibilità di infettare gli altri, ma ha anche dei costi, poiché può uccidere gli ospiti prima che abbiano la possibilità trasmettere la loro infezione.

Se un vaccino è completamente sterilizzante, il virus non può entrare nelle cellule, quindi non può evolvere perché non ha mai una possibilità di farlo. Ma se entra e si replica, c’è una pressione selettiva perché eviti gli anticorpi generati dal vaccino inefficiente. E in questa situazione non si sa mai quale sarà il risultato, che potrebbe trasmettersi in seguito ad altri contagiati. Il problema con i vaccini leaky è che consentono agli agenti patogeni di replicarsi senza controllo proteggendo allo stesso tempo gli ospiti da malattie e morte, eliminando così i costi associati all’aumento della virulenza.

Nel tempo, quindi, in un mondo di vaccinazioni fatte con vaccini leaky – come è quello in cui siamo entrati per prevenire il COVID-19 – l’agente patogeno potrebbe evolversi fino a diventare più mortale per gli ospiti non vaccinati, perché può raccogliere i benefici della virulenza senza, appunto, i costi, proprio come la malattia di Marek è diventata lentamente più letale per i polli non vaccinati [4]. E questa maggiore virulenza può anche far sì che il vaccino inizi a fallire, causando malattie negli ospiti vaccinati. Si tratta di due rischi molto importanti che dobbiamo potenzialmente aspettarci anche con i vaccini anti-COVID.

In un articolo del 2012 pubblicato su PLOS Biology [11], Andrew Read e Victoria Barclay hanno inoculato nei topi un vaccino anti-malaria leaky, usando questi topi infetti ma non malati per infettare altri topi vaccinati. Dopo che i parassiti sono circolati attraverso 21 cicli di topi vaccinati, Barclay e Read li hanno studiati e confrontati con quelli circolati attraverso 21 cicli di topi non vaccinati. Hanno così scoperto che i ceppi dei topi vaccinati erano diventati molto più virulenti, in quanto si erano replicati più velocemente e avevano ucciso più globuli rossi, rimanendo gli unici parassiti mortali alla fine dei 21 cicli di infezione.

Nel marzo 2017, Read e il suo collega David Kennedy della Penn State University hanno pubblicato, negli Atti della Royal Society B [9], un importante articolo scientifico in cui hanno delineato diverse strategie che gli sviluppatori di vaccini potrebbero utilizzare per garantire che i vaccini futuri non vengano puniti dalle forze evolutive. Una raccomandazione generale è che i vaccini dovrebbero indurre risposte immunitarie contro più bersagli. In una situazione del genere, diventa infatti molto più difficile per un agente patogeno accumulare tutti i cambiamenti necessari per sopravvivere.

Aiuta anche se i vaccini prendono di mira tutte le varianti o sottopopolazioni conosciute di un particolare patogeno, non solo quelle più comuni o pericolose. I vaccini dovrebbero pure impedire agli agenti patogeni di replicarsi e trasmettersi all’interno degli ospiti inoculati. Uno dei motivi per cui con i vaccini sterilizzanti la resistenza ai vaccini è meno problematica della resistenza agli antibiotici, è che essi vengono somministrati prima dell’infezione e limitano la replicazione, il che riduce al minimo le opportunità evolutive. Mentre questo non è vero, evidentemente, per i vaccini leaky. E se virus e batteri cambiano rapidamente in parte è proprio perché si replicano come matti all’interno dell’ospite.

Il materiale genetico di tutti i virus, infatti, è codificato in DNA o RNA; una caratteristica interessante dei virus a RNA è che cambiano molto più rapidamente dei virus a DNA. Ogni volta che fanno una copia dei loro geni commettono uno o pochi errori. Quando un virus a RNA si replica, il processo di copia genera un nuovo errore, o mutazione, per 10.000 nucleotidi, un tasso di mutazione fino a 100.000 volte maggiore di quello riscontrato nel DNA umano. Proprio come le persone – ad eccezione dei gemelli identici – hanno tutte genomi distintivi, le popolazioni di un virus tendono ad essere composte da una miriade di varianti genetiche, alcune delle quali se la cavano meglio di altre durante le battaglie con anticorpi addestrati al vaccino. I vincitori seminano la popolazione patogena del futuro.

I vaccini contro il SARS-CoV-2 sono sterilizzanti o vaccini “leaky”?

Il virus SARS-CoV-2 che produce il COVID-19 è un betacoronavirus, appartenente alla famiglia dei coronavirus (CoV), che comprende sia il virus della SARS che quello della MERS. Questi sono virus a RNA con genomi molto grandi, di circa 30 kb di lunghezza. La famiglia prende il nome dalla caratteristica “corona” di proteine, o ​​spike, che sporge dalla superficie del virus. L’accumulo di molteplici cambiamenti nella proteina spike ha portato, negli scorsi mesi, alla nascita di alcune varianti del SARS-CoV-2, come la variante inglese (nota come B.1.1.7), la variante sudafricana (nota come B.1.351) e la variante brasiliana (nota come B.11.28).

I primi vaccini contro l’attuale coronavirus (SARS-CoV-2) ad essere autorizzati si sono dimostrati variamente efficaci nel ridurre la malattia da COVID-19 nel ceppo originale, il Wuhan-Hu-1. Nonostante ciò, non sappiamo ancora se questi vaccini – e tantomeno, eventualmente, quali e in che misura – possano indurre l’immunità sterilizzante. Si prevede che i dati che affrontano queste fondamentali domande saranno presto disponibili dagli studi clinici sui vaccini in corso. Intanto sappiamo che la variante sudafricana (B.1.351) può sfuggire agli anticorpi nel sangue di persone precedentemente infette [27], il che evidenzia la prospettiva di una reinfezione con varianti antigenicamente distinte e può prefigurare una ridotta efficacia degli attuali vaccini basati sulla proteina spike. Ma anche se l’immunità sterilizzante – che, ripeto, con questi primi vaccini è tutta da dimostrare! – venisse indotta inizialmente, essa potrebbe comunque cambiare nel tempo con il diminuire delle risposte immunitarie e con l’evoluzione virale.

Per l’immunità sterilizzante occorre un particolare tipo di anticorpo noto come “anticorpo neutralizzante”. Questi anticorpi bloccano l’ingresso del virus nelle cellule e ne impediscono la replicazione. Il virus infettante dovrebbe essere identico al virus del vaccino per indurre l’anticorpo perfetto. Non a caso, molti vaccini virali tradizionali presentano l’intero virus in un forma viva attenuata (morbillo, parotite, rosolia, varicella, rotavirus, poliovirus orale Sabin, febbre gialla e alcuni vaccini antinfluenzali) o in una forma inattivata (polio virus Salk, epatite A, rabbia e altri vaccini antinfluenzali), portando a una risposta multipla, diretta non solo verso un’unica proteine virale, ma verso numerose proteine ​​virali contemporaneamente.

Questa molteplicità di risposte anticorpali, probabilmente, spiega perché per questi vaccini non sono stati documentati “ceppi di fuga” del virus dal vaccino. L’eccezione è rappresentata dal virus dell’influenza, in cui la cosiddetta “deriva virale antigenica” (ovvero le mutazioni che si accumulano nel tempo nelle due proteine ​​bersaglio) e lo spostamento o riassortimento antigenico (ricombinazione dei segmenti proteici che porta a una diversa combinazione nelle due proteine) significano che la risposta immunitaria a precedenti ceppi influenzali (o vaccini) non è più efficace nel prevenire l’infezione dai nuovi ceppi.

Tuttavia, la lunghezza della proteina spike usata dai vaccini autorizzati contro il SARS-CoV-2 è relativamente breve (circa 1270 aminoacidi) e un articolo in forma di preprint [12] ha indicato che la risposta anticorpale naturale alle infezioni (e presumibilmente anche a un vaccino basato sulla proteina spike) è concentrata in sole due sezioni della proteina. Dato che la risposta anticorpale alla proteina spike è così concentrata, occorre domandarsi, come hanno fatto T. Williams & W. Burgers su Lancet [13]: “potrebbero delle semplici mutazioni in queste sequenze limitate portare a un vaccino meno efficace, se la risposta immunitaria umana è così specifica a causa della sequenza ridotta usata dal vaccino?”.

I geni nel genoma di SARS-CoV-2 che contengono istruzioni per costruire parti del virus sono mostrati in colori diversi. Ad esempio, la sezione marrone nell’immagine contiene istruzioni genetiche per costruire la proteina “Spike”, che consente al virus di attaccarsi alle cellule umane durante l’infezione. Questa sezione del genoma funge da regione chiave per il monitoraggio delle mutazioni.

Ora, è vero che il SARS-CoV-2 non è un virus “segmentato” come quelli dell’influenza e che il suo tasso di mutazione risulta essere inferiore a quello di altri virus a RNA. Tuttavia, i risultati di un preprint del 2020 [14], esaminando il plasma convalescente per altri coronavirus umani – come il coronavirus umano 229E – suggeriscono che, come per l’influenza, le naturali mutazioni nell’uomo del coronavirus 229E con il tempo potrebbero rendere gli individui meno in grado di neutralizzare i nuovi ceppi. Dunque, qualcosa del genere potrebbe succedere anche per il SARS-CoV-2, e portare alla fine a un vaccino meno efficace.

Oggi è in uso un numero minore di vaccini virali ricombinanti, più simili nell’approccio a quelli recentemente concessi in licenza per il SARS-CoV-2. Essi sono fatti tramite l’ingegneria genetica: il gene che crea la proteina per il virus viene isolato e posizionato all’interno dei geni di un’altra cellula; quando quella cellula si riproduce, produce proteine vaccinali, il che significa che il sistema immunitario riconoscerà la proteina e proteggerà il corpo da essa. Uno di questi vaccini è quello per il virus dell’epatite B, che usa una delle proteine ​​dell’involucro virale, la superficie dell’antigene HBV. Gli anticorpi neutralizzanti sono mirati principalmente a una sequenza di 25 amminoacidi, dal 124 al 149. Ebbene, mutazioni puntiformi che provocano un’arginina rispetto al residuo di glicina nella posizione 145 in questa sequenza portano a un fallimento degli anticorpi neutralizzanti indotti dal vaccino e ad infezioni negli individui vaccinati [15].

I vaccini contro l’influenza, in genere, inducono protezione dalle malattie, ma non necessariamente protezione dalle infezioni. Ciò è in gran parte dovuto ai diversi ceppi di influenza che circolano, una situazione che può verificarsi anche con il SARS-CoV-2. Un fattore protettivo è il tasso di mutazione relativamente basso del SARS-CoV-2, ma l’infezione prolungata negli ospiti immunocompromessi potrebbe accelerare la mutazione, tant’è che nei pazienti affetti da HIV la resistenza agli antivirali si sviluppa rapidamente [9] (per tale ragione i pazienti con HIV non sono stati inclusi nei trial sui vaccini anti-COVID). Ed il fatto che esistano così tanti diversi vaccini anti-COVID in uso o in sperimentazione sulla popolazione facilita, con la pressione selettiva esercitata, il crearsi di “ceppi di fuga”.

Gli esperimenti con gli anticorpi monoclonali e lo sviluppo di una resistenza

Nei vaccini anti-COVID, queste mutazioni indesiderate potrebbero essere guidate da (1) deriva antigenica, o (2) per selezione, durante l’infezione naturale oppure a causa del vaccino stesso. Quando un virus viene coltivato sotto la pressione selettiva di un singolo anticorpo monoclonale che prende di mira un singolo epitopo (la piccola parte dell’antigene che lega l’anticorpo specifico) su una proteina virale, le mutazioni in quella sequenza proteica porteranno alla perdita di neutralizzazione, e alla generazione di “ceppi di fuga”. Questa sequenza di eventi è stata mostrata in laboratorio per la polio, il morbillo e il virus respiratorio sinciziale [16], e nel 2020 anche per il SARS-CoV-2 [17].

Un’altra scoperta importante è che il SARS-CoV-2, anche in presenza di anticorpi policlonali (nella forma dei sieri di convalescenti), può mutare e sfuggire alla neutralizzazione da parte degli anticorpi multipli del plasma di altre persone. Infatti, in una serie di esperimenti in vitro descritti in un preprint del 2020, il SARS-CoV-2 è stato coltivato in presenza di plasma neutralizzante di un convalescente [18]. Dopo alcuni passaggi seriali, erano state generate tre mutazioni nelle due sezioni-bersaglio della proteina spike che hanno permesso la formazione di una nuova variante del tutto resistente alla neutralizzazione del plasma. Quando questo virus è cresciuto in presenza di plasma convalescente di altri 20 pazienti, tutti i campioni hanno mostrato una riduzione dell’attività di neutralizzazione.

La sostituzione di amminoacidi osservata in questo esperimento si trova – guarda caso – nella stessa posizione delle mutazioni riportate in un preprint che descrive esperimenti di selezione di anticorpi monoclonali (con le varianti mutanti che sfuggono alla neutralizzazione di sieri umani convalescenti) [19] e di quella trovata nella famosa “variante sudafricana” del SARS-CoV-2 che si sta diffondendo rapidamente in Sud Africa e che ha mostrato di essere meno suscettibile alla neutralizzazione da parte di plasma convalescente di individui esposti alle precedenti varianti del coronavirus. E, sempre guarda caso, le varianti inglese, sudafricana e brasiliana sono emerse in Paesi dove erano in corso trial di vaccini anti-COVID.

In linea di principio, questi risultati suggeriscono che le varianti di SARS-CoV-2 potrebbe evolversi, in alcune persone, sviluppando una resistenza all’immunità indotta da vaccini ricombinanti diretti alla proteina spike (che sono basati sulla sequenza originale, la Wuhan-Hu-1). Ma solo gli studi clinici in corso mostreranno se gli individui vaccinati riconoscono le varianti SARS-CoV-2 in modo diverso, e se le mutazioni riducono la protezione del vaccino in alcuni individui vaccinati. La sperimentazione di fase 3 in corso di un vaccino a base di spike con vettore di adenovirus (Johnson & Johnson) in Sud Africa, dove la variante sudafricana sta sostituendo le varianti preesistenti, può fornire un’opportunità per esaminare questa domanda.

A causa dell’efficiente apparato di correzione di bozze del SARS-CoV-2, il tasso di sostituzione dei nucleotidi è più lento rispetto ad altri virus a RNA. Ciò ha portato alla speranza che l’antigene spike sarebbe rimasto stabile e che tutti i ceppi attualmente in circolazione sarebbero stati quindi suscettibili agli anticorpi neutralizzanti sviluppati in risposta ai primi vaccini. Uno studio di McCarthy et al. [20] riporta, tuttavia, che il coronavirus si sta adattando alla presenza di immunità – come segnalato da mutazioni di delezione ripetute in siti specifici della proteina spike – causando la rapida evoluzione della diversità antigenica, e soprattutto questa “mutazione di fuga” viene trasmessa anche ad altri individui. La spiegazione più ovvia è che questa delezione sia sorta in risposta a una forte e comune pressione selettiva.

In definitiva, la maggior parte dei vaccini anti-COVID addestrano il sistema immunitario a rilevare gli antigeni sulla superficie del SARS-CoV-2 e l’antigene più usato è la proteina spike, che viene vista come il bersaglio vaccinale più efficace. Quindi, ora che sta emergendo la prova che quelle particolari varianti sembrano influenzare l’efficacia del vaccino, dovrebbe essere necessario riformulare periodicamente i vaccini così che si adattino meglio ai ceppi circolanti. Per questa ragione, Moderna (e probabilmente anche altri produttori) stanno considerando due strategie “booster”, cioè di potenziamento dell’immunità nei vaccinati: (1) una terza dose dello stesso vaccino odierno; (2) in alternativa, una terza dose con un mRNA in cui sono state opportunamente incorporate le mutazioni della nuova variante sudafricana [21].

La struttura del virus SARS-CoV-2, con alcune importanti proteine superficiali e interne.

Le mutazioni nella proteina spike sono alla base delle principali varianti che destano preoccupazione. Dunque, i vaccini anti-COVID che prendono di mira questa proteina sul breve termine risolvono un problema ma dall’altro possono crearne di nuovi, soprattutto nel tempo e guardando quindi al futuro. Inoltre, anche i vaccini che usano due dosi potrebbero favorire la creazione di “ceppi mutanti di fuga”, dato che dopo la prima dose l’immunizzazione è solo parziale. Anche la lenta introduzione delle vaccinazioni in alcuni Paesi può dare il tempo al virus di mutare la sua proteina spike e sfuggire al vaccino (donde l’importanza di una politica globale di vaccinazione e della fornitura di vaccini ai Paesi che non possono permettersi di pagarli). Con il passare del tempo, alcuni vaccini potrebbero persino iniziare ad esacerbare le infezioni da COVID-19 attraverso un fenomeno noto come “potenziamento dipendente dall’anticorpo”, dove alcuni anticorpi si attaccano al virus in modo errato e finiscono per contribuire all’infezione [26].

Conclusione: verso un futuro davvero pieno di incognite

Sebbene l’immunità sterilizzante sia spesso l’obiettivo finale della progettazione del vaccino, raramente viene raggiunto. Fortunatamente, ciò non ha impedito in passato a molti vaccini diversi di ridurre sostanzialmente il numero di casi di infezioni da virus. Riducendo i livelli di malattia negli individui, si riduce anche la diffusione del virus attraverso le popolazioni. Pertanto, essa potrebbe essere stata un obiettivo troppo elevato per i produttori di vaccini COVID-19, ma secondo molti esperti potrebbe non essere necessaria per frenare la malattia e portare l’attuale pandemia sotto controllo [22].

Il caso del rotavirus, che causa vomito grave e diarrea acquosa ed è particolarmente pericoloso per neonati e bambini piccoli, è abbastanza semplice in questo senso. La vaccinazione limita, ma non ferma, la replicazione dell’agente patogeno. In quanto tale, non protegge da malattie lievi. Riducendo la carica virale di una persona infetta, tuttavia, diminuisce la trasmissione, fornendo una protezione indiretta sostanziale. Secondo i Centers for Disease Control (CDC) statunitensi, 10 anni dopo l’introduzione nel 2006 di un vaccino contro il rotavirus negli USA, il numero di positivi ai test per la malattia è sceso del 90% [22]. Quindi, anche con i vaccini anti-COVID si potrebbero avere nuovi infetti asintomatici o paucisintomatici.

Tuttavia gli imprevisti sono dietro l’angolo, come abbiamo visto essere successo con vaccini non sterilizzanti che prendevano di mira una sola o poche proteine virali. E quando, l’anno scorso, più di 1.000 scienziati del vaccino si sono riuniti a Washington D.C. (USA), al World Vaccine Congress, la questione dell’evoluzione indotta dal vaccino – incredibilmente – non è stata al centro di nessuna sessione scientifica. I ricercatori sono nervosi nel parlare e richiamare l’attenzione sui potenziali effetti evolutivi perché temono che, così facendo, potrebbero alimentare più paura e sfiducia nei confronti dei vaccini da parte del pubblico, anche se l’obiettivo è, ovviamente, garantire il successo del vaccino a lungo termine.

Al contrario, alcuni degli esperti di virus a cui non sfuggono i potenziali effetti evolutivi si sono espressi preoccupati del fatto che l’aggiunta di una “pressione evolutiva” all’agente patogeno mediante l’applicazione di quello che potrebbe non essere un vaccino completamente protettivo – come uno dei tanti vaccini sperimentali anti-COVID – possa alla fine peggiorare le cose. “Una protezione meno che completa potrebbe fornire una pressione selettiva che spinga il virus a eludere l’anticorpo presente, creando ceppi che poi eludono tutte le risposte ai vaccini”, secondo Ian Jones, professore di virologia presso la Reading University (UK). “In questo senso, un cattivo vaccino è peggio di nessun vaccino!” [23, 4]. Tuttavia, va sottolineato che al momento si tratta di un “peggior scenario” teorico, e che comunque – sia ben chiaro – non mette in discussione l’importanza della vaccinazione di massa.

Se quello appena illustrato è uno degli scenari peggiori, lo scenario migliore non lo è poi tanto di più, visto che, come ritiene Alexandre Le Vert, CEO e co-fondatore della casa di vaccini francese Osivax, “dovremmo aspettarci che più varianti appaiano periodicamente e molto probabilmente raggiungeremo una situazione simile all’influenza, dove più varianti circoleranno ogni stagione invernale” [26]. Dunque, si prospettano vaccinazioni a go-go per la popolazione e un business multi-miliardario per le case farmaceutiche. Un modo per aggirare la “corsa agli armamenti” del vaccino è lo sviluppo di un vaccino universale che sia a prova di futuro contro il coronavirus in evoluzione. Per capire come un tale vaccino potrebbe funzionare, un indizio chiave sta nell’esaminare – come abbiamo fatto in precedenza – i vaccini per altre infezioni virali che sono rimasti efficaci per decenni: stiamo parlando dei già citati vaccini sterilizzanti.

Poche aziende stanno sviluppando vaccini vivi attenuati per il COVID-19, anche se questi possono fornire una protezione molto forte: sono difficili da trasportare e potrebbero non essere sicuri per le persone con sistemi immunitari indeboliti. La maggior parte degli sviluppatori ha quindi optato per altri approcci, come vaccini inattivati (Sinovac, Novovax, etc.), vettori virali (Astrazeneca, Johnson & Johnson, Sputnik, etc.) e vaccini a mRNA (Pfizer, Moderna, CureVac, etc.). Nel caso del SARS-CoV-2, non ci sono ancora dati di efficacia dei vaccini inattivati in fase 3, ed i dati parziali apparsi sulla stampa mostrano al momento risultati controversi. Bisogna inoltre tener presente che la produzione dei vaccini inattivati richiede bioreattori per la crescita di virus vivo in alte condizioni di contenimento. Al contrario, i vaccini a mRNA e quelli a vettore virale sono fra i più semplici e veloci da realizzare.

Se i vaccini vivi attenuati sono fuori dal tavolo, come possono altri tipi di vaccini ottenere una protezione duratura? Emergex è uno dei numerosi sviluppatori di vaccini che si concentrano sui cosiddetti “linfociti T” – una parte fondamentale della nostra “memoria” immunitaria per infezioni future – e sugli antigeni interni del SARS-CoV-2. Come ha spiegato il suo CEO, Thomas Rademacher: “I nostri risultati suggeriscono che prendere di mira le proteine ​​di superficie, e in particolare la proteina spike, potrebbe non produrre una risposta immunitaria altrettanto sicura, efficace e di lunga durata rispetto a quella osservata con i vaccini vivi attenuati” [26]. Osivax sta usando un approccio simile, sviluppando un vaccino che consiste in nanoparticelle che trasportano copie di antigeni COVID-19 interni. Va detto, comunque, che anche per gli altri tipi di vaccini si è riscontrata la capacità di indurre la citata “risposta T”, come illustrato ad esempio, per il vaccino Pfizer, dal lavoro di Prendecki et al. [29].

Credo che al lettore risulterà a questo punto chiaro come la corsa ai vaccini sia in realtà soltanto all’inizio, mentre le nostre economie e il tessuto sociale sono sempre più provati. Pertanto, negli altri Paesi molti esperti si chiedono se saremo in grado di stare dietro – come progettazione e produzione dei vaccini, nonché accettazione degli stessi da parte della popolazione – alle ulteriori future varianti di SARS-CoV-2 che molto verosimilmente sorgeranno, indotte in molti casi dai vaccini medesimi [24]. In Italia questo dibattito non è mai partito, nonostante la conoscenza di questi temi e dei relativi risvolti dovrebbe essere portata anche all’attenzione della politica già in questa fase, non certo “a babbo morto”, al fine di prendere le decisioni migliori e di effettuare la pianificazione conseguente, uscendo dalla logica dell’inseguire gli eventi che ha guidato finora la gestione della pandemia nel nostro Paese.

In Italia, invece, i medici che in televisione informano il grande pubblico si limitano a ripetere il mantra “che un calo della velocità di trasmissione significa meno infezioni; una minore replicazione del virus porta a minori opportunità di evoluzione del virus negli esseri umani; e con meno possibilità di mutare, l’evoluzione del virus rallenta e c’è un minor rischio di nuove varianti”. Ma, come purtroppo abbiamo visto in dettaglio, se i vaccini anti-COVID utilizzati nei trial o approvati sono “leaky” – o se anche solo alcuni di essi lo sono – pure una vaccinazione di massa degli italiani / europei lascerebbe al virus ampie opportunità di creare nuovi “ceppi di fuga” (da noi o nei Paesi poveri) e, qualora questi ultimi eludessero i vaccini da noi usati, ciò rischierebbe di farci tornare, da un momento all’altro, quasi alla casella di partenza.

Proprio per tutte queste ragioni è – a mio modesto parere – importante, per la politica sanitaria anti-COVID, non solo riflettere con molta più obiettività e lungimiranza su tutta la faccenda, ma soprattutto implementare contemporaneamente un “piano B” che sia del tutto svincolato dai vaccini e mirato a risolvere il problema (saturazione delle terapie intensive e dei reparti di cure a bassa intensità degli ospedali) alla radice, ovvero facendo in modo che meno persone ricorrano all’ospedale, grazie: (1) alla prevenzione tramite opportune campagne di informazione che invitino almeno la popolazione più a rischio a compensare i bassi livelli di vitamina D (questione chiave già illustrata in un mio articolo [25]), e comunque non per ridurre il rischio di infezione bensì la gravità della stessa; e (2) alla cura ai primi sintomi attraverso un serio ed efficace protocollo di cura domiciliare, oggi di fatto assente.

Desidero ringraziare, per la lettura critica del manoscritto e gli utili suggerimenti forniti, il dr. Piergiuseppe De Berardinis (direttore del Laboratorio di immunologia presso l’Istituto di Biochimica e Biologia Cellulare del CNR), che in questi anni si è occupato di studiare la risposta immunitaria e la problematica dei vaccini sia dal punto di vista sperimentale che divulgativo. Naturalmente, la responsabilità di eventuali inesattezze o errori residui è solo ed esclusivamente dell’Autore.

 

Riferimenti bibliografici

[1] Thomas L., “SARS-CoV-2 spike deletion mutations may evade current vaccine candidates, study finds”, News Medical Life Sciences, 23 novembre 2020.

[2] Menichella M., “Mondi futuri. Viaggio fra i possibili scenari”, SciBooks Edizioni, Pisa, 2005.

[3] Ewald P.W., “Evolution of Infectious Disease”, Oxford University Press, New York, 1994.

[4] Boots M., “The Need for Evolutionarily Rational Disease Interventions: Vaccination Can Select for Higher Virulence”, PLoS Biology, 2015.

[5] No author listed,Pertussis vaccination: use of acellular pertussis vaccines among infants and young children. Recommendations of the Advisory Committee on Immunization Practices (ACIP)”, CDC Recommendations and Reports, 1997.

[6] Van Gent M., “Studies on Prn Variation in the Mouse Model and Comparison with Epidemiological Data”, PLoS ONE, 2011.

[7] Lam C., Lan R. et al., “Rapid increase in pertactin-deficient Bordetella pertussis isolates, Australia”, Emerging Infectious Diseases, 2014.

[8] Carman W.F. et al., “Vaccine-induced escape mutant of hepatitis B virus”, The Lancet, 1990.

[9] Kennedy D.A., Read A.F., “Why does drug resistance readily evolve but vaccine resistance does not?”, Royal Society Acta B, 2017.

[10] Read A.F., “Imperfect Vaccination Can Enhance the Transmission of Highly Virulent Pathogens”, PLoS Biology, 2015.

[11] Barclay V.C. et al., “The Evolutionary Consequences of Blood-Stage Vaccination on the Rodent Malaria Plasmodium chabaudi”, PLoS Biology, 2012.

[12] Greaney A.J., “Comprehensive mapping of mutations to the SARS-CoV-2 receptor-binding domain that affect recognition by polyclonal human serum antibodies”, preprint, BioRxiv, 2021.

[13] Williams T.C., Burgers W.A., “SARS-CoV-2 evolution and vaccines: cause for concern?”, Lancet Respir. Med., 29 gennaio 2021.

[14] Eguia R.D. et al., “A human coronavirus evolves antigenically to escape antibody immunity”, preprint, BioRxiv, 18 dicembre 2020.

[15] Romanò L. et al., “Hepatitis B vaccination”, Human Vaccines & Immunotherapeutics, 2015.

[16] Mas V. et al., “Antigenic and sequence variability of the human respiratory syncytial virus F glycoprotein compared to related viruses in a comprehensive dataset”, Vaccine, 2018.

[17] Weisblum Y., “Escape from neutralizing antibodies by SARS-CoV-2 spike protein variants”, eLife, 2020.

[18] Andreano E. et al., “SARS-CoV-2 escape in vitro from a highly neutralizing COVID-19 convalescent plasma”, preprint, bioRxiv, 2020.

[19] Liu Z. et al., “Landscape analysis of escape variants identifies SARS-CoV-2 spike mutations that attenuate monoclonal and serum antibody neutralization”, bioRxiv, 2021.

[20] McCarthy K.R. et al., “Recurrent deletions in the SARS-CoV-2 spike glycoprotein drive antibody escape”, preprint, BioRxiv, 19 gennaio 2021.

[21] Kupferschmidt K., “Vaccine 2.0: Moderna and other companies plan tweaks that would protect against new coronavirus mutations”, Science, 26 gennaio 2021.

[22] McKenna S., “Vaccines Need Not Completely Stop COVID Transmission to Curb the Pandemic”, Scientific American, 18 gennaio 2021.

[23] Kelland K., “Russia vaccine roll-out plan prompts virus mutation worries”, Reuters, 21 agosto 2020.

[24] Kuhn R., “Coronavirus variants, viral mutation and COVID-19 vaccines: The science you need to understand”, The Conversation, 2 febbraio 2021.

[25] Menichella M., “Vitamina D e minore mortalità per COVID-19: le evidenze e il suo uso per prevenzione e cura, Fondazione David Hume, 23 febbraio 2021.

[26] Smith J., “Can Covid-19 Vaccines Keep up with an Evolving Virus?”, Labiotech, 11 febbraio 2021.

[27] Wang P. et al., “Increased Resistance of SARS-CoV-2 Variants B.1.351 and B.1.1.7 to Antibody Neutralization”, preprint, bioRxiv, 26 gennaio 2021.

[28] Ewald, P.W., “Evolution of virulence”, Infectious Disease Clinics of North America, 2004.

[29] Prendecki et al., “Effect of previous SARS-CoV-2 infection on humoral and T-cell responses to single-dose BNT162b2 vaccine”, The Lancet, 25 febbraio 2021.

 

 




Combating new viral outbreaks in the 21st century

The explosive emergence of Zika in the past two years was a sobering reminder that relatively obscure viruses can arise suddenly as global health emergencies. In the Flaviviridae alone, the family of viruses that Zika belongs to, there are more than 20 viruses with the potential to cause disease in humans. Unfortunately, there is no yet a satisfactory way to predict and stop the next epidemic, so we will likely remain susceptible to new emergent infections. The best-known antidote against viral spread is vaccination, but the road to the designing, testing, and implementing effective vaccines is notoriously protracted. In fact, it could be decades before we have a Zika vaccine licensed for use; a rather delayed response to an outbreak that started in 2014. How can we quickly respond to new viral challenges then? Fortunately, it may be possible to shorten the future development of preventative therapies with promising new technologies to block infections. Our research group–in fact, an expanding community of researchers–has devoted a lot of effort to find molecules that could bridge this development gap, and the field is now enthused with the potential of special proteins called ‘monoclonal antibodies’.

The body usually responds to infections by creating several diverse antibodies that can bind specifically to the invading microbes and stop pathogen replication. Inducing these protective antibody responses has been the goal of vaccine research for almost every microbial disease. The recent, not so quiet revolution in the field, is that we can now isolate individual clones of cells producing antibodies. Each clone has the recipe to produce a single antibody, and copying these recipes–hence the name ‘monoclonal’– allows us to recreate the molecules that compose the overall response to a given pathogen. In more practical terms, it is now possible, for example, to obtain blood from a few individuals that had Zika infections and isolate monoclonal antibodies that can block the Zika virus. The hope is that, in an event of a new outbreak, these molecules can be ready to be administered early to populations at risk and limit the spread.

We have tested the concept of using monoclonal antibodies instead of traditional vaccines; the results were recently published in the journal Science Translational Medicine. We engineered three monoclonal antibodies against Zika virus based on sequences from a Zika patient. Administration of a cocktail with these antibodies completely prevented macaques from becoming infected with Zika virus. Thus, our results strongly suggest that passive immunization with a monoclonal antibody cocktail with might be also effective in humans.

For the foreseeable future, the prevention and treatment of emerging infectious diseases will continue to be of major international significance. Monoclonal antibodies are a recent and promising tool for our playbook against microbial diseases. These are exciting times, while we are vulnerable to emerging infectious pathogens, the combination of technologies for early pathogen detection, and early development of experimental therapies might lead to complete novel manners to stop epidemics–Hopefully, before they even become epidemics.

https://www.nature.com/nature/journal/v546/n7658/full/nature22400.html
a, Weekly counts of confirmed travel-associated and locally acquired ZIKV cases in 2016. b, Four counties reported locally acquired ZIKV cases in 2016: Miami-Dade (241), Broward (5), Palm Beach (8), and Pinellas (1). There was also one case of unknown origin. c, The locations of mosquito traps and collected A. aegypti mosquitoes found to contain ZIKV RNA (ZIKV+) in relation to the transmission zones within Miami. d, Temporal distribution of weekly ZIKV cases (left y-axis), sequenced cases (bottom), and A. aegypti abundance per trap night (right y-axis) associated with the three described transmission zones. ZIKV cases and sequences are plotted in relation to symptom onset dates (n = 18). Sequenced cases without onset dates or that occurred outside the transmission zones are not shown (n = 10). Human cases and A. aegypti abundance per week were positively correlated (Spearman r = 0.61, Extended Data Fig. 1b). The maps were generated using open source basemaps (http://www.esri.com/data/basemaps).