L’anomalia italiana/ La Repubblica degli allenatori senza chances di governare

E’ un po’ di tempo che, nei palazzi della politica, e di riflesso sui mezzi di informazione, non si fa altro che parlare del candidato premier dei vari schieramenti. Sembra che sia vitale decidere chi è il candidato premier di ciascuno dei tre schieramenti, e qualcuno (Di Maio) è persino arrivato a ritirarsi da un confronto televisivo perché non era sicuro che il suo interlocutore (Renzi), da lui stesso sfidato a singolar tenzone, sarebbe effettivamente stato il candidato del centro-sinistra. Immagino che, con la stessa ferrea logica, Di Maio si sottrarrà anche al confronto con Berlusconi e Salvini, visto che il candidato premier del centro-destra si conoscerà solo dopo il voto, quando si saprà chi, fra i due, avrà ottenuto più voti.

E’ un dibattitto surreale, però. Non solo perché, finché la Costituzione resta quella che è, le elezioni non servono a scegliere un premier ma a formare un Parlamento, ma per il semplice motivo che chiunque sia scelto come candidato premier dal proprio schieramento ha pochissime possibilità di diventarlo effettivamente. Se uno aspira a diventare Presidente del Consiglio, non dovrebbe brigare per essere il prescelto, ma semmai implorare i suoi di non candidarlo.

E’ difficile, infatti, che nel prossimo parlamento uno dei tre schieramenti abbia la maggioranza dei seggi sia alla camera sia al Senato. Ed è ancora più difficile che, in mancanza di una maggioranza politica omogenea, il premier su cui i partiti dovranno convergere possa essere, anziché una figura di mediazione, il candidato premier di uno solo dei tre schieramenti. E’ questa, per inciso, la ragione per cui sempre più sovente si sente evocare la figura di Gentiloni, immagine vivente di prudenza, mediazione, moderazione, understatement.

Ma c’è anche un’altra ragione per cui, a mio parere, l’ossessione per la designazione  dei candidati premier è abbastanza fuorviante. Il dibattitto sui candidati premier sembra ignorare che oggi quasi tutto il potere politico, inteso come potere di nomina e di investitura, è in mano a tre personaggi, ovvero Renzi, Grillo e Berlusconi, nessuno dei quali siede in Parlamento, e nessuno dei quali trae il suo potere dal ruolo di candidato premier.

Grillo non vuole fare il premier, Berlusconi non può farlo (la Corte di Strasburgo si pronuncerà fuori tempo massimo), a Renzi piacerebbe tantissimo ma sfortunatamente ha ottime possibilità di essere stoppato dai suoi, o dai suoi alleati, chiunque essi siano. Ve lo immaginate un governo Renzi sostenuto da Mdp? O un governo Renzi sostenuto da Forza Italia? O un governo Renzi con l’appoggio dei Cinque Stelle?

Forse dovremmo smettere di arrovellarci sull’indicazione del premier, come se fossimo ancora nella seconda Repubblica, in cui la finzione dell’elezione diretta, pur non avendo alcun appoggio nel nostro assetto costituzionale, almeno ne aveva uno nella legge elettorale, che in entrambe le sue varianti (mattarellum e porcellum) forniva un certo impulso al bipolarismo, nonché alla formazione di maggioranze in Parlamento.

Ma ora?

Ora, dicono alcuni, si torna alla prima Repubblica. La maggioranza che ci governerà sarà il frutto di accordi fra partiti, e anche il Capo dello Stato, cui spetta indicare il presidente del Consiglio, di quegli accordi dovrà prendere atto.

Apparentemente è proprio così. Però ci sono due novità cruciali, rispetto alla logica della prima Repubblica. La prima è che allora (fino al 1992), a fronte di un elettorato statico e diffidente con i comunisti, i governi erano effettivamente espressione delle scelte degli elettori, e quel che i partiti (attraverso il Parlamento) decidevano era solo il mix di satelliti che avrebbero ruotato intorno alla Dc. Ora invece, con un sistema politico tripolare, se nessuno dei tre schieramenti prevarrà sugli altri due, gli accordi parlamentari non decideranno i dettagli, bensì la sostanza. Oggi può sembrare fanta-politica, e tutti i diretti interessati si affretterebbero a escluderlo, ma in assenza di un vincitore i negoziati fra partiti potrebbero partorire tranquillamente: un governo Pd-Forza Italia, un governo Lega-Forza Italia-Pd, un governo Cinquestelle-Lega, un governo Cinquestelle-Mdp, un governo Pd-Cinquestelle.

C’è però anche un’altra, forse più importante novità, rispetto alla prima Repubblica: l’accentramento del potere di scelta dei candidati. Mentre ci chiediamo chi sarà il prossimo premier, rischiamo di non accorgerci che quella in cui stiamo entrando non è la prima Repubblica ma è, mi si permetta l’espressione, la Repubblica dei trainer. Dove i trainer, gli allenatori, sono tre-quattro leader, che per una ragione o per l’altra assai difficilmente faranno il premier, ma in compenso hanno potere di vita e di morte sulle carriere dei loro giocatori. Perché se è vero che chi entrerà in Parlamento lo decideranno gli elettori con il loro voto, è ancor più vero che il diritto di giocare la partita, e le possibilità di successo con cui la si gioca, sono nelle mani degli allenatori. Tutti rigorosamente fuori del Parlamento.

E’ sempre stato così? Sì, ma mai in questa misura, mi pare. Finché ci sono stati partiti veri, in Parlamento si arrivava al termine di un cursus honorum, fatto di tappe, responsabilità, esperienze amministrative. Oggi ci si arriva in modo più diretto e rapido, spesso per fedeltà a un capo, a una corrente, a una cordata, ma altrettanto repentinamente si può finire in panchina, o semplicemente fuori squadra. Tutto dipende dall’allenatore.

Articolo pubblicato su Il Messaggero



Immigrazione: I dilemmi dell’asilo politico

Dal gennaio 2014 all’agosto 2017, l’Italia ha registrato l’arrivo di 605.147 immigrati giunti attraverso la rotta del Mediterraneo Centrale (sul tema “sbarchi”, vedi anche la scheda a cura di Rossana Cima). Il marcato incremento degli arrivi ha portato, nello stesso periodo, ad un’impennata nel numero di richieste di asilo politico presentate in Italia. La figura 1 mostra il numero di richieste di asilo dal 1990 al 2016.

Figura 1. Richieste di asilo politico (persone, 1990 – 2016)
Fonte: Ministero dell’Interno

Gli ultimi tre anni, 2014-2016, hanno fatto registrare 271.026 richieste di asilo mentre il totale dei 24 anni precedenti è stato di 370.294 (il 2016, da solo, rappresenta un quarto delle richieste di asilo presentate in Italia dal 1990). L’apertura degli hot spot per l’identificazione degli immigrati e l’introduzione di stringenti controlli di frontiera da parte dei paesi europei confinanti, anche se membri dell’area Schengen, ha fatto sì che l’Italia sia sempre meno un paese di transito e sempre più un paese di destinazione. Il rapporto richiedenti asilo/migranti sbarcati era dello 0.37 nel 2014 per poi salire allo 0.55 nel 2015 e infine 0.68 nel 2016. E’ probabile che questo rapporto aumenti ulteriormente nel 2017. Quale è stato l’esito di queste richieste di asilo?

Tabella 1. Esiti domande di asilo politico, anni 2014-2016.
Fonte: Elaborazione su dati Ministero dell’Interno. Nota: (*) esaminati nell’anno indipendentemente dalla data di richiesta asilo.

La tabella mostra che solamente nel 6% dei casi viene effettivamente riconosciuto lo status di rifugiato. Una larga parte dei richiedenti riceve altre forme di protezione e con esse il permesso di risiedere in Italia: al 15,8% dei richiedenti è stata riconosciuta la protezione sussidiaria e al 22,6% la protezione umanitaria. La protezione sussidiaria è uno status molto simile a quello di rifugiato e da’ diritto ad un permesso di soggiorno di durata quinquennale (rinnovabile), consente l’accesso allo studio e alla formazione, e allo svolgimento di una attività lavorativa. La protezione umanitaria offre le stesse possibilità, ma con un orizzonte temporale decisamente più ristretto: nei fatti, da sei mesi a due anni. Complessivamente, per ogni cento richiedenti asilo, solamente 44 ottengono il permesso di risiedere e lavorare in Italia (22 ricevono un permesso della durata di cinque anni, ossia l’orizzonte temporale più consono per favorire l’inserimento nella società italiana e una piena integrazione).

I dati del periodo 2014-2016 mostrano, quindi, che la maggioranza dei richiedenti asilo (56 su cento) vede la propria domanda rifiutata, e con essa la possibilità di vivere e lavorare legalmente in Italia (le persone a cui la domanda di asilo è stata rifiutata vengono definite in gergo i “diniegati”). Questa quota è in aumento: nel 2016, sei domande su 10 sono state bocciate. E questo, a mio avviso, costituisce un serio problema che richiede una risposta politica in tempi brevi.

I “diniegati” perdono la possibilità di risiedere e lavorare legalmente in Italia, spesso dopo un iter di 1-2 anni. A questo punto – per definizione – le uniche opportunità di lavoro saranno di tipo informale o illegale. E questo, ovviamente, porta ad ulteriori problemi di ordine pubblico. Inoltre, per molti richiedenti asilo, lo stato italiano ha già speso risorse per la formazione, l’insegnamento della lingua italiana e, talvolta, l’inserimento in percorsi lavorativi in attesa della decisione finale sul loro status giuridico. Quale risposta adottare, quindi, per affrontare il problema dei 100,000+ “diniegati”? La decisione, ovviamente, spetta alla politica, ma vale la pena ricordare qui alcuni elementi utili.

Il primo: i dati presentati mostrano i limiti di una procedura largamente basata sull’asilo politico come strumento per la gestione dei flussi migratori. In una situazione come quella italiana, in cui le risorse sono estremamente scarse, mi pare che questo sistema porti ad una allocazione di tali risorse decisamente sub-ottimale (si pensi dal 60% di dinieghi registrati nel 2016 spesso dopo un lungo iter burocratico). Inoltre, anche nella situazione “ideal-tipica” in cui lo status di rifugiato viene conferito quasi di default – come nel caso dei profughi siriani in fuga dalla guerra – la procedura attuale comunque richiede che il profugo raggiunga una delle nazioni dell’Unione Europea per presentare la propria domanda. In questo modo si creano enormi opportunità per i gruppi criminali che organizzano i viaggi attraverso il Mediterraneo. Decisamente meglio sarebbe avere dei “corridoi umanitari” praticabili, sull’esempio di altri paesi come il Canada.  Il sistema attuale va ripensato al più presto.

Il secondo: i rimpatri forzati sono molto costosi, lenti e difficili da attuare dal punto di vista legale. Inoltre, provocano un impatto piuttosto radicale sulle vite delle persone se condotti dopo molto tempo dall’arrivo.

Il terzo: le operazioni di salvataggio in mare, che hanno fornito una risposta nobile e generosa all’emergenza sbarchi, stanno adesso dimostrando i loro limiti (tra cui la creazione di un massiccio e crescente numero di “diniegati”). L’idea europea di trasformare le operazioni Sofia e Triton in strumenti per combattere i cosiddetti “trafficanti” semplicemente non sta funzionando, e difficilmente funzionerà. La soluzione a questo riguardo è probabilmente da ricercare in politiche di terra e non navali. Un’estensione a tempo indeterminato di queste operazioni rischia di creare un sistema di incentivi perverso da cui diventa sempre più difficile uscire.

Credo che il punto tre sia la pre-condizione per attuare delle politiche che portino ad una soluzione al problema dei “diniegati” che sia, allo stesso tempo, umanitaria, efficiente dal punto di vista della risorse già impiegate e che minimizzi gli incentivi di tipo illegale. Un calo sostanziale degli arrivi può aprire la strada ad una legalizzazione di coloro che siano ancora presenti sul territorio italiano, che abbiamo seguito un percorso di formazione o inserimento lavorativo come richiedenti asilo, e che non abbiano commesso reati (ad eccezione, ovviamente, del reato di clandestinità). Una possibilità sarebbe di attuare questa legalizzazione nel contesto degli accordi di ricollocamento intra-UE: accordi che per il momento non stanno funzionando, ma che il Governo italiano potrebbe cercare di sbloccare in sede europea, anche nel contesto della discussione sulla revisione della Convenzione di Dublino sul diritto di asilo. Politicamente, questa potrebbe essere una strada molto difficile da percorrere. Ma il costo politico dell’inerzia potrebbe essere ugualmente elevato.




Austerità: definizione

L’austerità, ossia quelle misure volte a ridurre il disavanzo e, quindi il debito pubblico, attraverso tagli alla spesa o aumenti della tassazione, è stata spesso interpretata come fattore di recessione e di ineguaglianze. Per questo, negli anni di crisi, la maggior parte degli esponenti politici ha fatto passare il messaggio che l’austerità sia dannosa e, quindi, da evitare proprio come quelle medicine che uccidono il malato invece di curarlo: la Grecia ne sarebbe il perfetto esempio. A supporto di questa tesi, però, raramente sono state offerte analisi empiriche o esperienze reali. Un esame dei dati dimostra, invece, che i paesi che hanno messo i conti pubblici ordine crescono più di quelli che non lo hanno fatto, come l’Italia, dove –  a dispetto dei molti proclami – dell’austerità proprio non c’è stata traccia: nell’ultimo triennio la politica fiscale è sempre stata espansiva. Eppure, non c’è leader italiano che non chieda all’Europa di mettere fine al rigore per rilanciare lo sviluppo.

Fare chiarezza, soprattutto in tempi di campagna elettorale, è quindi doveroso, partendo proprio dalla definizione dell’austerità che, va ricordato, non è imposta né da Bruxelles – né tantomeno dalla Germania – ma è semplicemente il frutto delle decisioni dei governi nazionali che hanno lasciato che le finanze dello Stato finissero fuori controllo. Peraltro, quei politici che declamano a gran voce “basta con l’austerità, ora ci vuole la crescita”, stanno compiendo – alcuni inconsapevolmente per la verità – un errore di fatto e anche un errore di prospettiva, perché scambiano quello che è un obiettivo – la crescita – per uno strumento l’austerità, inevitabile in alcune circostanze.

L’austerità: una scelta nazionale, non un’imposizione europea

Quando si è vissuto per molto tempo al di sopra dei propri mezzi, continuare ad accumulare debito non è un strada percorribile: arriva un momento in cui la fiducia degli investitori viene meno perché temono di non poter essere rimborsati, e di conseguenza, smettono di comprare titoli di debito pubblico. A quel punto, senza più l’accesso ai mercati, per ottenere finanziamenti non resta che rivolgersi ai partner europei. Questo è ciò che hanno fatto Grecia, Irlanda, Portogallo, Spagna e Cipro quando sono entrati in crisi. In cambio degli aiuti, i creditori hanno chiesto loro, da un lato, riforme per far ripartire l’economia, dall’altro un piano di consolidamento per mettere in sicurezza le finanze pubbliche. L’obiettivo è quello di creare (o ri-creare) le condizioni affinché il paese debitore possa in futuro rimborsare il prestito ricevuto. Queste condizioni, nella narrazione che ha prevalso di recente, hanno via via acquisito una connotazione negativa. A guardar bene, però, i creditori dei paesi in crisi, non sono altro che i cittadini europei, inclusi quelli più poveri, come gli estoni o i lituani. Questi ultimi hanno contribuito finanziariamente a tutti i piani di aiuti, a cominciare da quelli ellenici, nonostante abbiano una ricchezza pro-capite tra le più basse d’Europa e di gran lunga inferiore a quella dei loro debitori. In quanto membri del “Club dell’euro” non avrebbero potuto fare diversamente: condividere la stessa moneta implica anche essere solidali con chi è in difficoltà, altrimenti, la crisi di un singolo rischierebbe di espandersi e contagiare l’intera area, con conseguenze negative per tutti gli stati membri.

L’austerità: una medicina amara ma invitabile

L’austerità, quindi, in certi momenti, è inevitabile, sebbene non tutti i programmi di aggiustamento sortiscano lo stesso effetto sull’economia. Tali effetti dipendono in gran parte dal modo in cui il programma viene implementato. Da una parte c’è un’austerità “buona” che ha un impatto espansivo sull’economia e prevede meno tasse, una ricomposizione della spesa verso investimenti e infrastrutture, ed è sostenuta da un piano di riforme strutturali. Dall’altra parte, c’è quella “cattiva” che, invece, è recessiva perché aumenta (molto) le tasse, e riduce (poco) la spesa corrente (per intenderci, il comparto che finanzia la macchina dello stato e va dagli stipendi dei dipendenti pubblici ai costi per le auto blu). Il problema è che questa austerità “cattiva” tende a prevalere, perché politicamente meno impegnativa: un tratto di penna è sufficiente per innalzare le tasse, mentre diminuire le spese significa esporsi a lunghe negoziazioni con centri di interesse organizzati e influenti, un’operazione che comporta una inevitabile perdita di consenso – almeno nell’immediato: non stupisce, quindi, che governi tecnici,  privi di un forte mandato elettorale,  come quello di Mario Monti nel 2011, ad esempio -, abbiano fatto ricorso proprio all’austerità “cattiva”.  In definitiva, è un errore pensare che esista un unico modello di austerità. Si può dire, piuttosto, che esistono tipi diversi di piani fiscali, alcuni recessivi e altri no. E, infatti, i paesi che, negli ultimi cinque anni (2011-2016), hanno implementato l’austerità “buona”, e quindi hanno tagliato le spese improduttive, sono cresciuti: nel 2016, l’Inghilterra ha sfiorato il 2 per cento, la Spagna il 3 per cento, l’Irlanda il 5 per cento. L’Italia che, invece, la spesa l’ha aumentata, si è fermata all’1 per cento.

Peraltro, se i governi rispettassero le regole fiscali – che per inciso, hanno tutti discusso, concordato e sottoscritto -, e pertanto tenessero i conti in ordine, il debito non si accumulerebbe e dell’austerità non ci sarebbe neanche bisogno. Tuttavia, sono proprio gli iscritti al partito dell’anti-austerità a chiedere di derogare alle suddette regole e a invocare “flessibilità di bilancio”, ossia un’interpretazione più morbida del Patto di Stabilità e Crescita (fortemente voluta dal Presidente della Commissione europea, il lussemburghese Jean-Claude Junker) in base alla logica che spesa pubblica finanziata con maggiore disavanzo – rispetto ai target fissati con Bruxelles – possa far ripartire l’economia.

La flessibilità come alternativa all’austerità?

Il governo Renzi è stato il primo a beneficiare di questa “flessibilità”. Nel 2015 ha ottenuto 4,5 miliardi di euro e nel maggio del 2016 altri 14,4 miliardi di euro, per un totale di circa 19 miliardi di euro, una concessione che la Commissione europea ha definito “senza precedenti” perché a nessun altro paese è stato consentito di incrementare il disavanzo in maniera così significativa. Uno spazio di manovra che avrebbe potuto essere utilizzato per rafforzare il potenziale di crescita del paese, come previsto dalle Linee Guida pubblicate dalla Commissione europea nel gennaio del 2015, ma, che si è scelto, invece, di impiegare per finanziare spesa corrente, degli anni precedenti, però.

Questa flessibilità è stata, infatti usata prevalentemente per neutralizzare le cosiddette “clausole di salvaguardia”, cioè una sorta di “pagherò fiscali” che consentono di dare il via libera a nuove spese nel Bilancio dello Stato, senza doverne specificare le coperture nell’immediato. Nel caso in cui queste ultime non venissero trovate, il finanziamento delle spese sarebbe garantito da incrementi di alcune tasse – come l’imposta sul valore aggiunto o le accise sulla benzina – che scattano in maniera automatica. Per evitare questi interventi, che comporterebbero un inasprimento della pressione fiscale, le suddette clausole vengono solitamente “disinnescate”. I modi per farlo sono tre: tagliando le spese, incrementando altre tasse oppure aumentando il disavanzo pubblico. Il governo nel 2016 – cosi come già aveva fatto nel 2015 – ha scelto la “terza via”: su un totale di 17,6 miliardi di euro di maggiore indebitamento, ben 16,8 miliardi di euro sono serviti per finanziare le clausole[1].

Il metodo del “disinnesco in disavanzo”, tuttavia, non risolve il problema, ma semplicemente lo sposta avanti, procrastinando così il momento in cui sarà in ogni caso necessario trovare coperture di natura strutturale. In questo modo si alimenta un circolo vizioso – e poco trasparente -, tra “spesa di ieri” finanziata con “disavanzo di oggi” da rimborsare con “tasse di domani”. La letteratura economica mostra, però, che se gli operatori si aspettano in futuro misure di segno opposto, tendono a risparmiare i benefici temporanei della riduzione – in questo caso del “non aumento” [2] – delle imposte. L’impatto della flessibilità di bilancio sulla crescita rischia, pertanto, di essere alquanto limitato. Ed è esattamente ciò che è successo in Italia: nella media del biennio 2015-2016, l’economia è cresciuta dello 0,7 per cento, quattro volte meno della media europea, peggio ha fatto solo la Grecia. Nel 2017, che ha visto il governo di Roma ottenere altri 7 miliardi di euro di flessibilità, l’Italia dovrebbe attestarsi, con una crescita dell’1,5 per cento, in ultima posizione, dietro persino alla Grecia – un paese che sta attuando politiche di austerità – prevista svilupparsi ad un tasso due volte superiore e pari al 2,7 per cento.

In definitiva, la flessibilità non ha funzionato, perché è stata implementata quella “cattiva”, che è servita essenzialmente a finanziare spesa corrente. Ma, del resto, nemmeno la flessibilità, quella “buona”, capace di incidere sulla spesa produttiva, per un paese come l’Italia – che ha un debito pubblico che non hai mai smesso di crescere -, rischia di non essere una strada a lungo percorribile. Non va, infatti, dimenticato che con la “flessibilità” si ottiene da Bruxelles semplicemente “più tempo” e non “più soldi”, con il risultato che le maggiori spese di oggi, finanziate in disavanzo, si traducono in maggiore debito di domani. E l’ammontare di debito, il cui pagamento viene rimandato in data da destinarsi, si traduce inevitabilmente in un maggiore onere a carico delle future generazioni che già faticano a trovare un lavoro.

L’esperienza insegna, peraltro, che non è con il debito che si crea lo sviluppo; altrimenti l’Italia, con un rapporto debito-Pil che nel 2016 è arrivato al 132 per cento, il secondo più elevato dell’area dell’euro, non sarebbe il fanalino di coda.

Il debito, un fardello di cui nessuno se ne occupa

Negli ultimi anni, il debito italiano non ha fatto altro che aumentare. In soli tre anni, dal 2014 al 2016, il rapporto debito/Pil è salito di circa 3 punti percentuali. L’incapacità di invertire la dinamica del debito pubblico non è un problema nuovo: in Italia appare quasi endemico. La Commissione ha raccomandato più volte al governo di Roma di intervenire in questo senso, ma ben poco è stato fatto per ridurre lo stock del passivo. Eppure, sarebbe bastato riproporre ciò che è stato implementato nei paesi dove il debito è calato. A cominciare da un’incisiva azione di riduzione della spesa, che però è totalmente mancata. I risultati sono stati deludenti anche sull’uso di un altro strumento fondamentale per abbattere il debito, quello delle privatizzazioni. Il governo si era impegnato a portare avanti un vasto piano che includeva sia vendite di aziende partecipate sia dismissioni di proprietà immobiliari; la manovra avrebbe dovuto portare nelle casse dell’erario, nella media del triennio 2015-2018, mezzo punto percentuale di Pil (circa otto miliardi di euro): a fine 2016, però, il target non era ancora stato raggiunto.

Oltre alla riduzione della spesa e ai proventi delle privatizzazioni, per diminuire il debito è fondamentale agire sulla crescita economica, e ciò implica l’attuazione di riforme strutturali soprattutto per un paese come l’Italia, con una produttività sostanzialmente ferma da un ventennio. L’elenco delle riforme è noto e corrisponde a quello che Renzi presentò al momento del suo insediamento, quando si impegnò a attuare “una riforma al mese”. Il ritmo è stato ben diverso da quello delle intenzioni e delle promesse: i progressi sono stati “limitati”, questo il giudizio espresso dalla Commissione europea nelle sue annuali Raccomandazioni rivolte agli Stati membri. L’iniziale spinta riformatrice ha via via perso slancio, e i tempi si sono sempre più diluiti. E, cosi, nell’ultimo triennio il debito pubblico non è mai sceso. Ma un debito elevato dovrebbe essere al primo posto nell’agenda dell’esecutivo: non solo perché l’Europa chiede di risanarlo, ma soprattutto perché pesa sui giovani di oggi e su quelli che verranno.

L’inversione di tendenza è finalmente iniziata?

Nella Nota di Aggiornamento del Documento di Economia e Finanza pubblicato a fine settembre scorso, il governo prevede per l’anno in corso una riduzione del rapporto debito /Pil di quasi mezzo punto percentuale, dal 132 per cento al 131,6 per cento. Il calo dovrebbe essere ascrivibile alla maggiore crescita e agli introiti da privatizzazioni pari a circa lo 0,2 per cento del prodotto interno lordo. Dettagli su questa misura (tempi, modi, ecc), tuttavia, non sono ancora stati forniti. La riduzione del debito è prevista continuare nel 2018, fino a toccare quota 130 per cento del Pil. Questa dinamica sarebbe favorita da una crescita nominale del 3,1 per cento, una stima ben superiore a quella elaborata dal World Economic Outlook pubblicato dal Fondo Monetario Internazionale lo scorso 11 ottobre e pari al 2,2 per cento. Secondo l’Istituto di Washington, infatti, il debito continuerà a salire ancora per tutto il 2017, per poi calare nel 2018, sebbene ad un a velocità minore, tale da raggiungere il 131,4 per cento del Pil.

In sostanza, la strategia di riduzione del debito prevista dal governo potrebbe rivelarsi meno robusta delle attese. Peraltro, ridurre il debito non sembra essere la priorità di nessun partito politico in questo periodo di campagna elettorale. E, infatti, tutti i leader – nessuno escluso – hanno salutato con favore il probabile “sconto” che la Commissione europea si appresta a concedere al nostro paese: l’obiettivo di disavanzo concordato in aprile e pari all’1,2 per cento sarà, così, rivisto all’1,6 per cento. Il governo ritiene che intervenire sui conti pubblici rischierebbe di frenare la ripresa in atto e pertanto, ha deciso, di rimandare al futuro tagli al debito più netti. Una simile scelta, tuttavia, rischia di rivelarsi una strategia miope. In primo luogo, perché è proprio “in good times” che andrebbero implementate le correzioni di maggiore entità. E poi perché continuare a posticipare l’avvio di un’incisiva azione di riduzione del debito mina la credibilità del nostro paese in sede europea. Il rischio è quello di essere tagliati fuori dal processo negoziale e di dover “subire” la posizione dell’asse franco-tedesco. Germania e Francia, infatti, nonostante posizioni distanti sui temi economici, con ogni probabilità troveranno un accordo che condizionerà la “condivisone dei rischi” – ciò che chiede il nostro paese – ad una reale “riduzione dei rischi”, – ciò che continua a non fare il nostro paese. Le conseguenze di un simile accordo sarebbero tutt’altro che trascurabili, a cominciare da quelle sul completamento dell’unione bancaria. Il terzo pilastro, quello sulla garanzia unica dei depositi, fondamentale per un’economia come quella italiana, difficilmente vedrebbe la luce a breve.

L’austerità: la riforma più importante

Mantenere finanze pubbliche in ordine rende trasparente l’azione di governo. Quando le spese sono finanziate con tagli ad altre voci di spesa o con aumenti delle tasse è facile per i cittadini valutare la bontà dell’intervento: il rapporto tra i costi e i benefici è diretto e facilmente quantificabile I politici “anti-austerità”, all’opposto, preferiscono finanziare la spesa in disavanzo, perché ciò consente loro di intestarsi i vantaggi nell’immediato, in base alla logica – sempre valida – “più spese più consenso”, spostando gli oneri al futuro. L’austerità, dunque, dovrebbe essere considerata alla stregua di una vera e propria “riforma”, probabilmente la più importante, perché, impedisce questo iniquo trasferimento di responsabilità nel tempo. In altre parole, l’austerità toglie potere alla politica per ridarlo ai cittadini.

In conclusione, l’austerità se attuata bene consente di pianificare un uso responsabile delle risorse scarse, e di conseguenza, fa crescere un’idea condivisa di bene comune. Si tratta di un passaggio necessario, soprattutto per un paese come l’Italia dove il debito dello Stato è percepito come un’entità astratta, un numero privo di significato, un fardello che non merita attenzione perché – di fatto – non appartiene a nessuno; e, invece, non è altro che una pesante ipoteca che grava sul futuro dei giovani.  Per questo, implementare l’austerità e tenere i conti in ordine, contribuisce a rafforzare la responsabilità nei confronti degli altri e, di conseguenza, qualifica il grado di civiltà di un paese.

[1] Nel 2017, l’incremento dell’indebitamento corrisponde sostanzialmente all’entità delle clausole, 15,1 miliardi di euro.

[2] Nel 2016, il disinnesco delle clausole di salvaguardia è stato pari al 70 per cento del taglio totale delle tasse, circa 24,6 miliardi di euro. Nel 2017 al 93 per cento, ossia 16,2 miliardi di euro.




La scomparsa della compassione: da spettatori a populisti

La prima guerra della mia vita è stata una serata trascorsa a guardare la televisione sorseggiando birra fresca.

Ogni volta che lo dico o lo scrivo, qualcuno s’indigna. Ma l’oscenità è nelle cose, prima ancora di essere nell’occhio di chi guarda. E il trionfo dell’estetica oscena su quella tragica si consumò precisamente nella notte tra il 17 e il 18 gennaio del 1991 quando, per la prima volta nella storia dell’umanità, lo scoppio di una guerra – con un bombardamento devastante sulla popolazione di Baghdad – fu trasmesso in diretta televisiva. Io, allora, avevo vent’anni e – citando Nizan – non permetterò a nessuno di dire che è la più bella età della vita.

Dopo quella notte, infatti, la condizione di spettatore della distruzione dell’uomo e del mondo è divenuta, per la mia generazione, progressivamente e inesorabilmente, una postura esistenziale e un’attitudine (im)politica. A partire da quel momento, per effetto della comunicazione digitale globale in tempo reale – prima in tv e poi su internet – essere spettatori del disastro ha smesso di essere l’eccezionale condizioni di pochi per divenire una sorta di nuova, oscena condizione umana. Tutti noi siamo stati, giorno dopo giorno, per anni e decenni, testimoni alieni, inerti e apatici, dell’afflizione inferta dall’uomo all’uomo e del dolore, straniero, che provoca. Giù per questa china si è prodotto un sovvertimento della nozione novecentesca di testimone: nello spettacolo tele-visivo della morte e distruzione altrui, il nesso tra testimonianza ed esperienza è stato reciso e il testimone ha smesso di essere associato al destino di colui di cui testimonia. Giù per questa china si è prodotto anche il più importante mutamento dei fondamenti dell’esistere umano nella storia: la riformulazione del differenziale antropologico riguardo alla violenza. A furia di consumare quotidianamente, attraverso i media, scene di violenza estrema nell’impertinenza esperienziale della distinzione tra realtà e finzione, la struttura voyeuristica dello sguardo osceno ci attira verso la posizione, tutta esteriore, dello spettatore anche rispetto alla violenza reale. E rischia di condurci alla indifferenziazione tra vittima e carnefice agli occhi dello spettatore. Fino a ieri, infatti, il differenziale antropologico fondamentale per l’esperienza della crudeltà umana era quello che separava la vittima dal carnefice, oggi tende invece a essere quello che separa la coppia vittima-carnefice, su di un versante dello schermo, dallo spettatore sul versante opposto. Da un lato quelli che infliggono e subiscono la crudeltà, dall’altro quelli che la guardano in tv.

Al termine di questo processo di degenerazione, la postura inerte, apatico e anomica dello spettatore diviene la norma comportamentale anche al cospetto di eventuali casi di violenza prossima e reale e di fronte alla nostra stessa esistenza in quanto cittadini di una comunità politica. Se ci capita di imbatterci in un pestaggio a morte dentro una discoteca o in un attacco terroristico, invece di soccorrere o contrattaccare, ci limitiamo ad alzare tra noi e l’evento lo schermo di uno smartphone per ripristinare al più presto la condizione abituale del telespettatore.

Viviamo, dunque, in un mondo osceno. Viviamo nel tempo dell’oscenità trionfante. Ciò che va perduto in questo tempo è la compassione, ciò che viene espulso da questo mondo è la pietà. Con essa si smarrisce anche la agency politica. L’esistenza che quotidianamente conduciamo nella casa di vetro della trasparenza mediatica è un’esistenza spietata. Spietata ma inerte, impotente.

Violenza e sesso. Sesso e violenza. Entrambi i fondamentali antropologici della nostra “parte maledetta”, se sottoposti ad analisi, dimostrano alla nostra triste scienza questa amara verità.

E’ più facile vederlo riguardo alla violenza. La rivoluzione tecnologica dei media elettronici ci ha messo nella condizione storicamente inaudita di poter assistere immediatamente e continuamente a scene terminali di violenza estrema che annientano vite che non sono la nostra. Da molto tempo, guerre, assassini, catastrofi, cataclismi sono il nostro pasto quotidiano, la nostra abituale dieta mediatica. Ci gonfiamo, così, in una obesità cinica. Ingolfati da questa sugna d’immagini truculente, perdiamo la basilare capacità umanistica di immedesimarci nella sofferenza altrui e, su questa base, di agire di conseguenza.

E’ una drammatizzazione della vita senza tragicità. Quando nella rappresentazione della morte altrui viene meno l’interdetto che nella tragedia greca proibiva di portare in scena il momento cruento, la catarsi, la purificazione dei nostri sentimenti di pietà e terrore, diventa impossibile. In platea rimangono solo passioni impure: sollievo egoistico, godimento perverso, paura onanistica. Nel paesaggio mediatico contemporaneo il tragico è stato sostituito dall’osceno, da ciò che dovrebbe rimanere “fuori dalla scena” (etimologia fasulla ma rivelatrice). Ben presto, noi umani che abitiamo il mediascape di fine millennio ci siamo trasformati in animali anfibi, capaci di vivere simultaneamente in due ambienti opposti: all’asciutto del nostro mondo pacifico e protetto ma anche immersi nella palude insanguinata dalle vittime di apocalissi lontane. La nostra mente incallita, la nostra pelle squamata si sono presto dimostrate impermeabili a entrambi gli ambienti. La crudeltà, scrisse qualcuno, è mancanza d’immaginazione. Vale non solo per la crudeltà inflitta ma anche per quella consumata attraverso i media: non distogliamo lo sguardo dalla sofferenza altrui, non invochiamo il proverbiale velo pietoso perché non siamo più capaci d’immaginarci di essere lui. Alla fine, anche quando e se tocca a noi, ci scopriamo incapaci di qualsiasi reazione che non sia l’emozione futile e caduca del telespettatore.

Solo così si spiega l’inerzia civile e politica in cui ricade l’Europa dopo ogni attacco terroristico sferrato, con cadenza periodica, dall’estremismo islamico.

Perfino riguardo alla violenza terroristica noi siamo, infatti, quasi sempre nella posizione dello spettatore. La nostra inettitudine all’azione politica violenta fa sì che, di fronte all’unica forma reale di brutalità che aggredisca sistematicamente il nostro ambiente sociale, quella dell’islamismo radicale, riusciamo, in apparenza, solo ad assumere l’identità simbolica della vittima, che in verità nasconde la terzietà neutrale del telespettatore. Il medio-oriente islamico è scosso da fenomeni di disintegrazione nazionale apparentabili ai nostri, solo che da quelle parti generazioni cresciute nella guerra rispondono con la violenza terroristica, dalle nostre parti generazioni cresciute in 60 anni di pace e in 30 di consumo televisivo della sofferenza altrui reagiscono con un violento ritiro della delega politica all’establishment che equivale al gesto, al tempo stesso sdegnato e annoiato, di chi cambi canale di fronte a un programma sgradito.

Questo è l’unico aspetto violentemente attivo del nuovo populismo: la brutale, impersuadibile, apocalittica determinazione nel rigetto delle vecchie classi dirigenti, autrici di un palinsesto sfinito. Trump ha affermato che non avrebbe perso uno dei suoi voti nemmeno se avesse aperto il fuoco sulla quinta strada. Aveva ragione. Il suo elettorato è non violento ma la sua ripulsa lo è. In Francia il sovranismo rinunciatario di Marine Le Pen non chiede di riconquistare l’Algeria ma di rigettare l’Europa e di uscire dalla Nato, in Olanda Geert Wilders si richiama all’eredità di un leader anti-islamista e xenofobo ma omosessuale dichiarato, progressista e assassinato da una fanatico (Pim Fortuyn), in Italia tutto si può imputare ai partiti anti-sistema tranne la conquista violenta del potere.

Il populismo reattivo, il sovranismo remissivo, l’accidia post-televisiva. La loro sola violenza è quella del conato di vomito. Rigetto radicale del presente in assenza di un’affermazione dirompente del futuro. Con questa novità dobbiamo fare i conti.

 




Dal fisco alla scuola/Tre domande per la destra di governo che verrà

Anche se nessun partito ha ancora presentato un programma elettorale preciso, ormai un’idea me la sono fatta. All’appuntamento di marzo, quando saremo chiamati alle urne, la sinistra si presenterà, inevitabilmente, come la paladina e la garante della continuità. In un modo o nell’altro, è al governo da sei anni, e da quasi quattro, ossia da quando Renzi ne ha conquistato il comando, governa sostanzialmente da sola, con condizionamenti minimi da parte dei cespugli che circondano il Pd. E’ dunque verosimile che, alle urne, si presenti chiedendo agli italiani di consentirle di continuare il lavoro fatto da Renzi e Gentiloni. Se siamo stati così bravi fin qui, perché cambiare?  Molto difficile che, prima del voto, il Pd attui quella svolta a sinistra (ma sarebbe più esatto dire: quel ritorno al passato), che scissionisti e nostalgici invocano quotidianamente.

Il Movimento Cinque Stelle si presenterà nel registro opposto, come l’unica garanzia di un cambiamento vero, come l’unica forza che – essendo nuova e non avendo mai governato (o meglio: avendo governato in modo controverso a Roma, Torino e qualche altro comune) – può davvero cambiare il Paese. E cercherà di convincere gli italiani a votarlo soprattutto con la proposta di un (assai generoso) reddito minimo garantito, che si ostinerà a chiamare “reddito di cittadinanza”, che suona meno assistenziale.

Il vero rebus, per me, è la destra. Intanto perché, a destra, a differenza che altrove, siamo in presenza di tre partiti e non di uno solo: Forza Italia e la Lega stanno in prossimità del 15%, Fratelli d’Italia sta ormai stabilmente intorno al 5%, ben oltre ogni ragionevole soglia di sbarramento. Ma soprattutto per un altro motivo: il programma politico dell’alleanza che si va profilando fra i tre partiti di destra non è affatto chiaro. E non lo è non già su quisquilie e pinzillacchere, ma su almeno tre punti fondamentali.

Il fisco, innanzitutto. Sia Salvini sia Berlusconi parlano di flat tax, ovvero di un’unica aliquota sul valore aggiunto (IVA), per il reddito personale e per il reddito di impresa.

Ma per Salvini l’aliquota unica deve essere al 15%, per Berlusconi al 23% (una differenza enorme, sul piano macroeconomico). Entrambe le proposte sono al di sotto del 25%, ossia dell’aliquota proposta dall’Istituto Bruno Leoni, probabilmente il think tank più liberal-liberista che vi sia in Italia. E notate che l’aliquota unica proposta dal Bruno Leoni, molto efficacemente e dettagliatamente spiegata da Nicola Rossi in un denso volumetto di qualche mese fa (Venticinque% per tutti, IBL Libri), è già stata considerata irrealistica (troppo bassa) da qualificati studiosi di questioni fiscali. A destra si pensa che Salvini e Berlusconi troveranno un punto di equilibrio (20%?), ma la vera questione non è a che livello si metteranno d’accordo i due principali partiti del centro-destra, ma in che modo si possa attuare un programma così audace nell’orizzonte di una legislatura. Perché si fa presto a dire riduciamo il perimetro della Pubblica Amministrazione, combattiamo gli sprechi, facciamo la spending review: quando si arriva al dunque, nessuno riesce a chiudere gli enti inutili, nessuno riesce a liberarsi del personale in eccesso, nessuno riesce a privatizzare quel che andrebbe privatizzato, e la soluzione che mette d’accordo tutti i governi, di destra e di sinistra, è da 10 anni sempre la stessa: liberarsi dei commissari alla spending review.

Il secondo punto poco chiaro è quello del contrasto alla povertà, un dramma che continua a perdurare e anzi si è ancora (leggermente) aggravato negli ultimi tempi. Qui quel che si vorrebbe capire è se il centro-destra pensa sul serio di introdurre un’imposta negativa sul reddito (nel qual caso farebbe bene a spiegare innanzitutto che cos’è, visto che non tutti hanno studiato Milton Friedman e Friedrich von Hayek). E, se sì, su quali basi, con quali risorse, e destinata a chi. Giusto per ricordare qualche nodo: l’esistenza di prezzi molto diversi fra Nord e Sud rende iniqua un’imposta basata sul reddito nominale; aggredire la povertà costerebbe almeno 10 miliardi; quasi il 40% dei poveri è costituito da immigrati.

Un terzo punto che meriterebbe di essere chiarito è quello della sicurezza e dell’immigrazione irregolare. Se non ci fosse Minniti, la linea del centro-destra sarebbe scontata: stop alle politiche di accoglienza indiscriminata (e disordinata) attuate fino a pochi mesi fa. Ma adesso c’è Minniti che quelle politiche le ha già cambiate parecchio. Quindi la domanda diventa un’altra: fareste come Minniti? O fareste di più, o cose diverse? E se la risposta fosse quest’ultima, quali cose fareste fra quelle che si possono effettivamente fare, al di là dei facili slogan di una campagna elettorale? Come affrontereste il problema degli alloggi popolari abusivamente occupati da italiani non meno che da stranieri?

Ci sarebbe poi un punto ulteriore, che però non riguarda specificamente la destra, ma un po’ tutte le forze politiche: sulla scuola, e più in generale sul mondo dell’istruzione, che cosa possiamo aspettarci dal prossimo governo?

Perché almeno un paio di cose sono chiare, per chi ha occhi per vedere. La prima è che l’alternanza scuola-lavoro ha presentato forti “criticità”, per usare un eufemismo caro alla politica. Un peccato per gli studenti, ma forse anche un’occasione sprecata per le imprese, che potrebbero dare molto di più ai giovani (e a sé stesse) se fossero messe in condizione di fare della vera formazione sul posto di lavoro. La seconda è che l’abbassamento degli standard, in atto in tutti gli ordini di scuola da almeno mezzo secolo, non accenna a interrompersi. Nessun governo degli ultimi 50 anni ha mai fatto qualcosa per fermare questa deriva, e quasi tutti hanno molto operato per accelerarla.

Non sarebbe ora che almeno una forza politica si decidesse, non dico a combinare qualcosa di buono, ma almeno a riconoscere il problema?

Pubblicato su Il Messaggero il 21 ottobre 2017