La battaglia delle tasse

Un tempo era l’Irpef. Negli anni ’90 la sinistra si preoccupava di ridisegnare la curva delle aliquote dell’imposta sulle persone fisiche. Poi vennero Berlusconi e il suo “Contratto con gli italiani”, che al primo punto prometteva due sole aliquote Irpef, una al 23%, l’altra al 33%. E poi venne Renzi, che nel dubbio fra ridurre l’Irap o ridurre l’Irpef, alla fine scelse l’Irpef anche lui: meglio mettere 80 euro in busta paga ai ceti medio-bassi che alleggerire le tasse sulle imprese (Irap e Ires).

Oggi la stagione dell’Irpef, vista come imposta super-star da cui tutto dipende, sembra perdere un po’ dello smalto di un tempo. Un po’ perché tutte le forze politiche si stanno rendendo conto che è sul sistema fiscale e contributivo nel suo insieme che occorre agire, anziché su una singola imposta. Ma un po’, anche, perché le uniche proposte abbastanza precise in campo sono quelle basate su qualche forma di flat tax, o “aliquota unica”, che tenderebbe a unificare, in tempi più o meno rapidi, le principali imposte vigenti, ovvero Irpef (persone), Iva (valore aggiunto), Ires (imposta sulle imprese), nonché le tasse sulle rendite finanziarie. Per non parlare di un ulteriore elemento che spinge verso un approccio sistemico: la crescente consapevolezza che il costo del lavoro è gravato, in Italia, da contributi sociali eccessivi, che fanno lievitare i costi delle imprese e scoraggiano le assunzioni.

In questo quadro in movimento, mi pare si stiano perdendo di vista alcuni elementi di criticità.

Il primo è che qualsiasi proposta di riduzione delle tasse che non abbia potenti coperture dal lato della spesa o da quello delle privatizzazioni significa solo, in buona sostanza, proseguire sul cammino su cui l’Italia è avviata dal lontano 1964, quando, per la prima volta dalla fine della seconda guerra mondiale, nel bilancio pubblico si aprirono le prime crepe: spostare l’onere dell’aggiustamento sulle generazioni future. Su questo l’unica forza politica che sembra avere le idee chiare (o, se preferite, che ha avuto l’onestà di dichiarare le proprie intenzioni) è il Pd: al partito di Renzi va bene fermare la discesa del rapporto deficit/Pil e riportarlo in prossimità del 3% per diversi anni, il che, in concreto, significa che a pagare i nuovi debiti che faremo saranno le future generazioni. Quanto al centro-destra e al Movimento Cinque Stelle è difficile decifrare le loro intenzioni, ma tutto fa pensare che, al momento buono, anch’essi cercheranno di ottenere dall’Europa il massimo della “flessibilità” possibile, dove la parla flessibilità è solo un eufemismo per più deficit e più debito pubblico.

Un secondo elemento di criticità è l’impatto della flat tax, ovvero di un’imposta unica su tutti i tipi di redditi. L’idea che essa sia incostituzionale (perché la nostra Carta fondamentale prevede la progressività) è una scempiaggine, dal momento che tutte le proposte di flat tax in campo sono progressive (grazie a no tax area, deduzioni, scaglioni, ecc.). Ma il timore che essa, in assenza di una adeguata emersione del sommerso, possa allargare la voragine del debito pubblico o costringere a tagli della spesa pubblica assai dolorosi, è tutt’altro che infondato.  Specie se, anziché adottare la già audace (ma ben articolata) proposta dell’Istituto Bruno Leoni, che prevede un’aliquota unica al 25%, ci si spingesse verso un’aliquota del 23% (Forza Italia) o addirittura del 15% (Lega).

Una terza criticità riguarda il sostegno delle famiglie al di sotto della soglia di povertà, un tema che non può essere eluso da una riforma complessiva del sistema fiscale. Ebbene su questo nessuna forza politica pare aver fatto i conti con un gravissimo problema di giustizia distributiva: calcolare la soglia di povertà in modo nominale, ovvero senza tenere conto del livello dei prezzi (più alto al Nord e nelle città), significa discriminare i poveri delle regioni settentrionali rispetto a quelli delle regioni meridionali, gli abitanti delle città a favore di quelli delle campagne. Fra le proposte in campo, mi pare che solo quella dell’Istituto Bruno Leoni prenda sul serio il problema, ma sfortunatamente il think tank guidato da Nicola Rossi e Alberto Mingardi non è una forza politica.

Ci sarebbe, infine, un’ultima criticità da segnalare. Le proposte fiscali, in Italia, sembrano avere un unico vero scopo: massimizzare il consenso di breve periodo. Non è sempre e ovunque così, nel resto delle economie avanzate. Paesi come gli Stati Uniti, il Regno Unito, la Francia, stanno puntano molto su una riduzione della pressione fiscale sui produttori, a partire dall’abbattimento dell’imposta societaria (Ires e Irap, nel nostro ordinamento). E lo stanno facendo per una ragione molto semplice: solo così, in un mondo in cui la concorrenza internazionale è sempre più agguerrita, possono pensare di attrarre investimenti esteri e dare una spinta significativa al Pil.

Credo che dovremmo pensarci anche noi, perché l’anomalia degli ultimi 20 anni è che il tasso di crescita del Pil e quello dell’occupazione sono rimasti sostanzialmente appaiati, un fatto che significa una cosa soltanto: la produttività media del sistema Italia è sostanzialmente ferma dalla fine degli anni ’90. Forse, anziché incentivare direttamente le assunzioni, dovremmo chiederci se non sarebbe meglio mettere le imprese nelle condizioni di crescere abbastanza in fretta da costringerle ad assumere. Il risultato, verosimilmente, non sarebbe solo una dinamica dell’occupazione più vivace, ma anche un aumento della quota di assunzioni a tempo indeterminato: che non dipende dalla benevolenza degli imprenditori, ma dalla ragionevole convinzione che domani si dovrà produrre più di oggi.

Pubblicato su Il Messaggero




Un paese elettorale in stallo

In attesa delle elezioni, questo è il tempo delle simulazioni. Lo so, mancano ancora molti elementi per poter fornire stime previsive un po’ più sensate. I confini dei collegi del Rosatellum non sono ancora definitivi; le alleanze di coalizione sono ancora lontane dall’essere decise; i candidati nei diversi collegi non sono ancora ovviamente noti; gli orientamenti di voto sembrano cambiare ormai molto rapidamente negli ultimi anni, talora in pochi mesi, e i mesi che ci separano dalle prossime consultazioni sono almeno tre o quattro. Dunque, visto che nessuna simulazione può tener correttamente conto di questi elementi, secondo alcuni critici sarebbe meglio non farle; sarebbero quanto meno fuorvianti, se non del tutto erronee.

E però da queste prime ipotesi di scenario elettorale qualche indicazione, sia pur provvisoria e revocabile, ci arriva sicuramente, ed è opportuno tenerne conto, per seguire gli sviluppi e i movimenti compiuti dalle diverse forze politiche in avvicinamento alla campagna e all’appuntamento di voto. Quali sono dunque queste prime indicazioni?

1. Il Rosatellum, ormai è chiaro a tutti, favorisce nettamente il centro-destra e sfavorisce il Movimento 5 stelle. L’unica area politica che, con un impianto proporzionale, avrebbe scarse chance di vittoria, recupera parecchie posizioni competitive in un quadro di collegio uninominale, in particolare per l’assenza di voto disgiunto. Nell’antico Mattarellum, gli elettori di Lega e Forza Italia rinunciavano talvolta a votare candidati dell’altro partito della propria coalizione, preferendo scelte diverse. Oggi non potrebbero farlo, e certo non rinunceranno a votare la propria lista anche in presenza di un candidato proveniente da un altro partito della coalizione.

2. I pentastellati sono la sola forza che non intende coalizzarsi con nessuno, pena la rinuncia della propria specificità, e potrà dunque contare solamente sul suo seguito elettorale, senza l’aggiunta di altri elettorati possibili. Nel proporzionale sarà molto probabilmente il primo “partito”, mentre nella competizione di collegio rischierà spesso di precipitare al terzo posto. Per recuperare questo difetto coalizionale, dovrebbe incrementare di molto il proprio bagaglio di consensi, andando oltre il 35%. Non molto facile.

3. Il Partito Democratico sta un po’ a metà strada tra le due altre formazioni politiche: ha infatti la possibilità di presentarsi in coalizione con qualcuno, per poter vincere in più collegi, ma il suo problema riguarda la scelta dei partiti con cui coalizzarsi (si vedano le tabelle 1 e 2). O, se si vuole, di quali partiti vogliano coalizzarsi con lui. Le simulazioni ci mostrano in maniera evidente che una coalizione con i partiti di centro, unitamente ad altre forze politiche (si parla dei radicali, dei socialisti, di ciò che resta di Scelta Civica), non renderebbe i Dem molto competitivi, e rischierebbero di vincere un numero di collegi simile ai 5 stelle, tra i 50 e i 60, lasciando la fetta maggiore al centro-destra. Una coalizione con la sinistra li renderebbe al contrario molto più forti, ma qui il vero problema sta nella controversa volontà dei tanti gruppi alla sua sinistra di scendere in campo con il partito di Renzi, se Renzi rimane in sella. Un dilemma non da poco.

Ipotesi 1: Centro-Destra unito e Pd+sinistra*

Ipotesi 2: Centro-Destra unito e Pd+Ap+altri*

4. Dal punto di vista territoriale (tabelle 3 e 4), le simulazioni mostrano chiaramente una spaccatura dell’Italia in 3 zone assai differenziate nei risultati elettorali, per quanto riguarda le probabili vittorie all’uninominale. Il Nord vede la netta prevalenza della coalizione di centro-destra, che dovrebbe conquistare oltre i tre quarti dei collegi; il centro-nord (le tradizionali zone rosse) ribadisce la consueta predominanza del centro-sinistra, cui andrebbero almeno i due terzi dei collegi, e ancor di più nell’ipotesi di coalizione con la sinistra; nelle aree meridionali del paese, dal Lazio in giù, la competizione più serrata è tra 5 stelle e centro-destra, con il movimento di Grillo in buon vantaggio, il che sottolinea la evidente meridionalizzazione del voto pentastellato.

Ipotesi 1: Centro-Destra unito e Pd+sinistra*

Ipotesi 2: Centro-Destra unito e Pd+Ap+altri*

5. La situazione al Senato, di cui si parla poco, vedrebbe peggiorare il risultato dei 5 stelle, che perderebbero una fetta importante del proprio elettorato (giovanile), lasciando ancor più collegi al centro-sinistra e soprattutto al centro-destra, dove l’elettorato meno giovane è fortemente prevalente.

6. Ma l’elemento più certo di questo sistema di voto (come peraltro di molti altri), che le simulazioni evidenziano in maniera chiara, è che non pare possa esserci una maggioranza per nessuna forza od area politica e che le stesse possibili coalizioni post-voto, per governare il paese, saranno di difficile attuazione, a meno di un (improbabile) coinvolgimento del M5s. La stessa ventilata ipotesi di un esecutivo Forza Italia-Partito Democratico non ha sicuramente numeri sufficienti, nemmeno con l’altrettanta improbabile cooptazione della sinistra. Saremo in stallo. Poi torneremo a votare?

*Fonte: elaborazioni curate da Paolo Natale sulla base di circa 60mila interviste effettuate da Ipsos di Milano
Ripartizioni utilizzate: Nord-Ovest (Piemonte-Lombardia-Liguria), Nord-Est (Veneto-TrentinoAA-FriuliVG), Centro-Nord (Emilia Romagna-Toscana-Umbria-Marche), Centro-Sud (Lazio-Abruzzo-Molise-Campania), Sud e Isole (Puglia-Basilicata-Calabria-Sicilia-Sardegna)



Conti pubblici, una farsa che dura da molti anni

La Commissione europea non è soddisfatta dei nostri conti pubblici. Nel linguaggio paludato e un po’ criptico che caratterizza gli scambi fra gli uffici del ministero dell’Economia e quelli della Commissione, ci ha fatto sapere che i nostri conti non la convincono, né sul 2017 né per il 2018.

Una prima lettera è partita alla fine di ottobre. Ma la risposta del ministro Padoan non ha convinto. Lo ha detto chiaramente il vicepresidente della Commissione, il finlandese Jyrki Katainen, la settimana scorsa: “Tutti possono vedere che la situazione in Italia non migliora”.

Quindi un’altra lettera è in corso di preparazione, e sarà inviata a breve al nostro Governo. Ma il giudizio finale della Commissione sui conti pubblici dell’Italia arriverà solo a maggio 2018, quando i buoi della spesa pubblica saranno già scappati dalle stalle.

Questo rituale, che si ripete tutti gli anni, è curioso. In autunno il Governo vara la cosiddetta Finanziaria, con relativo assalto alla diligenza da parte di sindacati e gruppi di pressione. La Commissione europea esprime dubbi e richieste di chiarimento, ma poi lascia fare, rimandando il giudizio definitivo alla primavera dell’anno dopo. Quando la primavera arriva si comincia a capire che i numeri dei conti pubblici non potranno mai essere quelli promessi perché l’economia, quella birichina, vuol fare tutto di testa sua e non si adegua alle previsioni dei governanti italiani. A quel punto però è tardi, e tutto quel che la Commissione Ue può fare è raccomandare una “manovrina” correttiva, e di comportarsi meglio l’anno successivo. Il nostro governo risponde che sì, si impegnerà molto (da un po’ di tempo però preferisce parlare di “sforzi” messi in atto, o da mettere in atto), e che gli obiettivi mancati quest’anno saranno raggiunti l’anno prossimo. L’anno prossimo arriva, le cifre non sono quelle messe nero su bianco l’anno prima, e la commedia ricomincia.

Poiché si tratta di una commedia, è abbastanza inutile rileggersi il copione nei minimi dettagli, entrando nelle infinite diatribe che caratterizzano questi balletti di cifre, apparentemente tecnici ma in realtà tutti politici: con quale modello statistico calcolare il PIL potenziale e l’output gap, come determinare l’avanzo primario strutturale, quali sono i margini di flessibilità cui l’Italia ha diritto.

Meglio andare direttamente al punto: come stanno evolvendo i conti pubblici dell’Italia?

Per rispondere a questa domanda occorre, a mio parere, distinguere due aspetti del problema. Il primo aspetto è la salute delle nostre finanze pubbliche, il secondo è la loro capacità di resistere ad un’eventuale impennata dei tassi di interesse. Anche se, nel lungo periodo, si tratta di due facce della stessa medaglia, nel breve periodo possono divergere un po’: un paese come il nostro, con conti in cattiva salute, può risultare più o meno vulnerabile a seconda dell’andamento di altri aspetti della sua economia.

Se ragioniamo sulla salute, quel che dobbiamo chiederci è come stanno evolvendo i due fondamentali indicatori di malattia, ovvero il rapporto debito/PIL e l’avanzo primario strutturale (corretto per il ciclo e le una tantum). Ebbene, su entrambi i fronti le cose non vanno bene, come ha mostrato in modo inoppugnabile Veronica De Romanis usando serie storiche prodotte da organismi internazionali (dati e grafici reperibili sul nostro sito). Nonostante le promesse renziane di ridurlo, il rapporto debito/PIL è oggi più alto che nel 2013-2014, e presumibilmente non inizierà a scendere in modo apprezzabile neanche quest’anno (anzi, secondo la Commissione europea aumenterà leggermente). Ancora più grave la situazione dell’avanzo primario corretto per il ciclo, che negli ultimi anni è sempre peggiorato, e presumibilmente continuerà a farlo quest’anno.

Se dalla salute dei conti pubblici passiamo alla capacità di resistenza (o al suo opposto: la vulnerabilità), il quadro si fa un po’ meno scoraggiante. La vulnerabilità dei conti pubblici, ovvero il rischio che una nuova crisi finanziaria faccia schizzare in alto lo spread (come nel 2011-2012), non dipende solo dall’ampiezza del debito pubblico ma anche da altri fattori, come il debito privato, l’andamento del Pil e quello dell’inflazione. Se, per misurare la vulnerabilità, usiamo l’indice di vulnerabilità strutturale elaborato dalla Fondazione David Hume, possiamo notare che la vulnerabilità dei nostri conti pubblici è leggermente aumentata nel triennio 2014-2016, ma nel corso del 2017 risulta in diminuzione, cioè in sensibile miglioramento (dati e grafici sul nostro sito). La ragione è molto semplice: grazie alla ripresa in atto in tutta Europa, anche l’economia italiana sta andando meglio, e questo rende i nostri conti pubblici un po’ meno vulnerabili di quanto lo fossero negli anni scorsi.

Possiamo stare tranquilli, dunque?

Direi proprio di no. Sfortunatamente stiamo per entrare in un periodo di forti rischi finanziari, non solo perché lo scudo del Quantitative Easing della Bce sta per venir meno, ma perché è piuttosto probabile che, in futuro, cambino le regole che oggi consentono alle banche di contabilizzare fra gli attivi i titoli di Stato del proprio Paese, anche se quest’ultimo è fortemente indebitato. Se queste regole venissero cambiate, e i titoli del debito pubblico venissero svalutati in base al grado di deterioramento dei conti pubblici di ogni paese, l’Italia correrebbe rischi molto seri. E, forse, qualche politico si pentirebbe amaramente di aver sciupato questi anni, in cui – grazie alla riduzione dei tassi di interesse – qualcosa si poteva fare e invece così poco è stato fatto.

Articolo pubblicato su Panorama



Pd e Sinistra Purosangue

Dev’essere un bel dilemma, quello con cui devono fare i conti il Pd e la “Sinistra Purosangue” (d’ora in poi SP), ovvero la microgalassia di sigle e gruppi che cercano di occupare lo spazio alla sinistra del Pd: Sinistra Italiana (Fratoianni), Mdp (Bersani e D’Alema), Campo progressista (Pisapia), Possibile (Civati), la sinistra “civica” del Brancaccio (Falcone e Montanari), giusto per citare i raggruppamenti di cui più si parla.

Il dilemma è questo. Se si presentano separatamente, conquistano pochissimi seggi e decretano la sconfitta della sinistra, ripetendo il copione del 2001, quando bastò la corsa solitaria di Bertinotti a spianare la strada a Berlusconi. Se si presentano alleati, conquistano più seggi, ma rendono ridicola e incomprensibile la scissione di qualche mese fa.

Personalmente penso che, alla fine, il bisogno di poltrone prevarrà, e qualche tipo di alleanza vedrà la luce. Però penso anche che non sia questo il punto. Il punto interessante sono le differenze programmatiche. Perché un eventuale programma comune potrà anche smussarle o camuffarle, ma non cancellarle. Anche se prima del voto venisse trovato un accordo, un minuto dopo le elezioni quelle differenze tornerebbero a galla. E non è neppure escluso che il Pd tenti un governo con Forza Italia, e SP, la Sinistra Purosangue, tenti un governo con i Cinque Stelle.

Ma quali sono le differenze importanti?

Sono sostanzialmente tre. Pd e SP dissentono sul Jobs Act, sulle tasse e sui migranti. Più esattamente, la Sinistra Purosangue vuole reintrodurre l’articolo 18, pensa che molti problemi si possano risolvere aumentando le tasse ai ricchi, disapprova le politiche di contenimento dei flussi migratori del ministro Minniti. E traduce queste sue critiche in una tesi politica tanto semplice quanto efficace: il Pd “non è più di sinistra”.

Sul fatto che il Pd non sia un partito di sinistra, che rappresenta le istanze dei ceti popolari, sono sostanzialmente d’accordo. Lo penso anch’io, e lo penso semplicemente perché è quel che risulta dalle analisi empiriche, quando si va a vedere chi vota chi. Il Pd è sovra rappresentato fra i ceti medi e più in generale nel mondo dei garantiti, mentre i ceti bassi, ovvero il mondo degli esclusi, dei precari, e di chi è esposto ai rischi del mercato, preferiscono guardare altrove: ieri ai partiti di destra, ora anche al Movimento Cinque Stelle. Il punto, però, è che anche la Sinistra Purosangue non è radicata nei ceti popolari, ma pesca semmai fra i “ceti medi riflessivi”, impegnatissimi nelle grandi “battaglie civili”, dal divorzio all’aborto, dal testamento biologico allo Ius soli, ma lontanissimi dalla sensibilità popolare.

Insomma, quel che voglio dire è che, se ammettiamo che una forza di sinistra deve essere capace di rappresentare almeno il nucleo delle istanze popolari, allora non sono di sinistra né il Pd né la Sinistra Purosangue, che in fondo, in un modo o nell’altro, si richiama semplicemente a quel che il Pd era prima di Renzi. La politica del Pd non è in sintonia con i ceti popolari non perché ha varato il Jobs Act, ma perché il suo atto più significativo, gli 80 euro in busta paga, ha tagliato fuori precisamente gli strati sociali più bassi: chi non ha un lavoro, e chi guadagna così poco da non poter usufruire dello sconto fiscale. La politica della Sinistra Purosangue, invece, non è in sintonia con i ceti popolari perché sul nodo scottantissimo delle politiche migratorie invoca l’esatto contrario di quel che la gente vuole, ovvero una stretta sugli ingressi irregolari in Italia.

Se una differenza politica si vuole trovare fra Pd e SP, a me sembra che la si possa descrivere così. Checché ne dica Bersani, non è il Pd di Renzi che “non è più di sinistra”, visto che è almeno da vent’anni che gli eredi del Pci non rappresentano più i ceti subordinati. Quell’etichetta nostalgica, che allude ai bei tempi in cui la sinistra faceva la sinistra, si applica semmai alla Sinistra Purosangue, che si illude che basti rispolverare le vecchie ricette – più tasse, più vincoli alle imprese – per resuscitare un mondo che è definitivamente tramontato. Del Pd renziano, non direi che “non è più” di sinistra, come se prima di Renzi ancora lo fosse, ma semmai che “non è ancora” di sinistra, se essere di sinistra significa innanzitutto – oggi come ieri – promuovere l’emancipazione di chi sta in basso. Un’emancipazione che, nelle condizioni dell’Italia di oggi, a mio modesto parere significa soprattutto tre cose: mettere le imprese in condizione di creare posti di lavoro veri, fermare il declino della qualità dell’istruzione nella scuola e nell’università, fornire risposte alla domanda di sicurezza, particolarmente intensa nelle periferie e nelle realtà più degradate.

Tutti compiti per cui la sinistra non è attrezzata, ma per i quali la Sinistra Purosangue sembra esserlo ancora meno del Pd. Dalla prima, realisticamente, mi aspetto solo una cosa: nostalgia, nostalgia, nostalgia. Dal Pd mi aspetto che, finalmente, faccia una scelta: prendere sul serio la domanda di protezione, economica e sociale, che sale dai ceti popolari, o lasciare che siano solo la destra e i Cinque Stelle a farsene interpreti.




Uno spregiudicato, Grasso. Un irresponsabile, Berlusconi

Grazie a Pierluigi Bersani—a mio avviso uno degli sfascisti più catastrofici della storia italiana (e della sinistra) di questi anni—una legione di pretoriani è riuscita in un’impresa che sarebbe stata impensabile nella Prima Repubblica democristiana, quella di ‘piazzare’ alle tre più alte cariche dello Stato—Quirinale, Montecitorio e Palazzo Madama—tre presidenti di parte, nessuno dei quali concordato con l’opposizione. Il fair play ormai è un lontano ricordo: il leone non si riserva la parte più grossa (quia est leo) ma prende per sé tutto il mazzo sapendo di poter contare sulla maggioranza dei voti.

Vedendo le mosse di Pietro Grasso di questi giorni, il suo grande elettore può ben  dirsi  soddisfatto. La prima performance fu l’estromissione dell’ex Cavaliere dal Parlamento grazie all’imposizione del voto palese: un’autentica vergogna giacché si è impedito il voto segreto per sfiducia nella propria base parlamentare–se nessun senatore del centro destra, infatti, avrebbe votato contro Berlusconi, non pochi senatori di sinistra avrebbero potuto obbedire alla loro coscienza e votare a suo favore, senza attenersi alle direttive dei gruppi parlamentari. Oggi si è avuta la seconda, con la scomunica pubblica del PD renziano e la restituzione della tessera. Sennonché quella tessera Grasso non avrebbe dovuto restituirla nel momento dell’elezione alla presidenza del Senato, come gesto simbolico e impegno a tenersi, nell’esercizio dell’alta carica, super partes? In passato, non tutti i titolari delle tre più alte cariche dello Stato hanno dato   prova di ‘stile’, è vero: non hanno abbandonato i rispettivi partiti né Casini, né Bertinotti, né Fini. Sennonché, a parte il fatto che, nello svolgimento delle loro funzioni, Casini, Bertinotti e Fini hanno cercato di far dimenticare le aree politiche  di provenienza (persino Gianfranco Fini–come dimostra il libro non simpatizzante che gli ha dedicato Paolo Armaroli—come Presidente della Camera  non ha demeritato), nessuno dei tre ha fatto sentire la sua voce per delegittimare pesantemente un partito, dicendo agli Italiani che il vero PD non è quello che pretende di essere tale ma quello del suo ‘benefattore’ Bersani.

 Intendiamoci, nessuno vieta a Grasso di scendere in campo—un liberale è decisamente contrario non soltanto al mandato imperativo ma anche a leggi che impediscano agli eletti del popolo di cambiare casacca—ma non può farlo senza deporre nell’armadio la giacca nera dell’arbitro per indossare la maglietta del giocatore. Mi rendo conto che a ragionare in termini di buon gusto e di correttezza etica in un periodo in cui conta solo il reato accertato dal tribunale e la colpa morale è relegata, come il peccato, nella privacy, si corre il rischio di abbaiare alla luna ma ricordare i codici del ‘mondo di ieri’ forse può configurarsi come un nuovo dovere civico.

 In questo mondo di iene e di sciacalli, è passata inosservata una notizia alla quale ha dato ampio risalto domenica scorsa il quotidiano ‘Libero’ con un articolo di Renato Farina, Sostenere Grasso per colpire Renzi. La tentazione (pericolosa) del Cav. Farina è un giornalista che non mi piace: il suo antirisorgimentismo, il suo tradizionalismo cattolico quasi lefevriano, il suo eccessivo gusto per il politicamente scorretto sono irritanti, almeno per un liberale ottocentesco come me, ma la sua denuncia di un centro-destra pronto, su ordine di Berlusconi, «a far di tutto, pur di facilitare la caduta di Renzi, allo scopo di favorire il consolidamento politico del presidente del Senato  alla testa di una sinistra di sapore comunista e giustizialista» me l’ha fatto apparire come il protagonista del Rinoceronte di Ionesco, l’unico ad essersi mantenuto lucido in una congrega politica  resa fin troppo euforica dal voto siciliano. Giustamente Farina ha ricordato il Kaiser che nel 1917 finanziò la rivoluzione bolscevica, Carter che nel 1979 armò Bin Laden per sconfiggere i sovietici in Afghanistan.« Così non va—ha rilevato—Non è roba liberale, non è lealtà, non porta bene la logica comunista del tanto peggio tanto meglio».

 Non è solo questione di lealtà, tuttavia. Ammettiamo pure che la sinistra antirenziana riesca a spaccare l’attuale PD e che, accanto al vecchio, se ne formi uno nuovo—in sostanza, una riedizione di Rifondazione comunista—di pari entità, quale vantaggio ne trarrebbe il paese? Se assieme—ipotesi dell’irrealtà—i due tronconi della sinistra ottenessero la maggioranza dei seggi parlamentari, che probabilità avrebbe il vecchio di impedire al nuovo di cancellare le poche leggi buone fatte nella breve era renziana? E se il partito antirenziano—rafforzato anche dalla desistenza berlusconiana– potesse far maggioranza col M5S, non sarebbe il trionfo del giustizialismo più disinibito e non comporterebbe per l’ex Cavaliere la ricerca di una sua Hammamet?

 Renzi gioca (malamente) la carta del riformismo socialdemocratico, il centro-destra gioca (o dovrebbe giocare) la carta del riformismo liberale: nemici oggettivi di entrambi sono gli antiriformisti della destra populista e della sinistra neo-massimalista—contro i quali potrebbero essere costretti, centro-destra e centro-sinistra, a coalizzarsi un domani non lontano, seguendo, d’altra parte, un trend europeo ben illustrato recentemente da Sergio Fabbrini sul ‘Sole-24 Ore’. La strategia che ha in mente Berlusconi–se Renato Farina non s’è inventato il foglio d’ordini partito da Arcore—non è la riprova del suo machiavellismo .Machiavelli si rivolterebbe nella tomba sapendo che un uomo politico per eliminare un competitore che gli contende il potere, favorisce l’avversario del suo avversario ovvero un estremista che una volta al governo, gli toglierebbe non solo il potere, ma anche la libertà, i beni e la vita).La strategia di Berlusconi, in realtà, è solo la riprova  della sua irresponsabilità—che rischia di rimanere l’unica caratteristica che lo accomuna ai giovani.