Il compleanno della Costituzione: le promesse tradite

La Costituzione italiana sta per compiere 70 anni. Li compirà esattamente il 22 dicembre, anniversario del 22 dicembre 1947, quando la Carta fondamentale fu approvata dall’Assemblea Costituente. Settanta anni non sono pochi, nella vita delle persone non meno come in quella delle istituzioni. E un compleanno a cifra tonda è un’ottima occasione per tentare un bilancio.

Una parte del bilancio, quella strutturale, o puramente descrittiva, è presto fatta. La Costituzione in parte è rimasta monca (non si è mai avuto il coraggio di specificare gli articoli 39 e 49, per non limitare lo strapotere di sindacati e partiti); in parte è stata completata da interventi successivi, come quello sulla Corte Costituzionale (1953), quelli su composizione e durata di Camera e Senato (1963), quello sulle Regioni (1970); in parte, infine, è stata manomessa con più o meno successo, come quando il centro-sinistra è intervenuto sul Titolo V introducendo il federalismo (2001), o quando il centro-destra ha tentato invano di cambiare la forma di governo (2006), o ancora quando, sotto la pressione della crisi e delle autorità europee, il Parlamento ha rafforzato l’articolo 81 rendendo più rigide le norme sui conti pubblici (2012).

Più difficile, molto più difficile, è fare un bilancio valutativo. Perché un vero bilancio dovrebbe rispondere ad almeno due domande strettamente intrecciate. La prima: in questi 70 anni la Costituzione è stata tradita? La seconda: la Costituzione, così com’è diventata, è ancora all’altezza dei tempi?

Sulla prima domanda personalmente non ho molti dubbi. Comunque la si pensi sulla bontà della Carta originaria (un punto su cui gli osservatori sono divisi), è difficile occultare che almeno una decina dei 54 articoli iniziali (“Princìpi fondamentali” e “Diritti e doveri dei cittadini”) sono stati largamente ignorati e talvolta sostanzialmente traditi. Fra di essi, i più calpestati sono probabilmente quelli concernenti il lavoro (1, 4, 36) e lo studio (34).

I primi stabiliscono il diritto ad avere un lavoro (1, 4) e una retribuzione adeguata (36), nonché l’impegno della Repubblica a rendere effettivo tale diritto. Basta una breve occhiata alla traiettoria storica dei tassi di occupazione e di disoccupazione per rendersi conto che questo diritto, solennemente enunciato all’articolo 1 (“L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”), non è mai stato garantito, e negli ultimi due decenni è stato addirittura umiliato: oggi l’Italia non solo non è in un regime di piena occupazione (come la Germania e alcuni paesi del Nord) ma ha il tasso di occupazione giovanile più basso d’Europa.

Le cose vanno ancora peggio per quanto riguarda l’articolo 34, che nel secondo e terzo comma recita: “I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso”.

Anche questo diritto è negato e calpestato, come sa chiunque sia semplicemente “capace e meritevole”, senza essere anche povero. Oggi le pochissime borse di studio sopravvissute sono assegnate esclusivamente a coloro le cui famiglie, almeno sulla carta (attestazione Isee) versano in condizioni di disagio estremo. E uno dei drammi cui assisto all’università è che i pochi studenti davvero “capaci e meritevoli”, sono spesso costretti a lavorare per mantenersi agli studi, perché le loro famiglie sono modeste, ma non abbastanza povere da avere diritto alle limitatissime risorse disponibili. Così la concorrenza con i figli di papà diventa sleale, alla faccia dei principi egualitari e meritocratici proclamati in tanti articolo della Carta fondamentale.

Resterebbe la questione dell’attualità della Costituzione. Su questo, lo confesso, le mie sensazioni sono contrastanti. Da un lato ho molti dubbi sul fatto che il federalismo introdotto nel 2001, ma anche il regionalismo introdotto nel 1970, siano stati un progresso: il loro effetto è stato soprattutto di rendere più facile ad amministratori e politici dilapidare denaro pubblico. E ancora più dubbi ho sulla funzionalità del bicameralismo, che il referendum renziano del 2016 sciaguratamente non intendeva affatto eliminare, ma solo annacquare e imbastardire (con i senatori eletti dai consigli regionali). Dall’altro lato, però, mi assale anche un dubbio di segno opposto, e cioè che la maggior parte delle cose che non vanno, in Italia, non dipendano affatto dalla Costituzione, bensì dalla scarsa qualità degli uomini che dovrebbero rispettarla, attuarla, tradurla in norme e regolamenti: la lentezza del processo legislativo, ad esempio, dipende tantissimo dai regolamenti parlamentari e dalla irresponsabilità dei partiti, più che dal bicameralismo.

Sicché, alla fine, più che chiedermi se la Costituzione sia attuale oppure no, mi viene da farmi un’altra e più radicale domanda: e se il vero problema non fosse la Costituzione, ma fossimo noi stessi, cittadini italiani, con le nostre cattive abitudini, la nostra indifferenza, e in definitiva la nostra incapacità di sceglierci una classe politica decente?

Pubblicato su Panorama il 14 dicembre 2017

 




Intervento di Luca Ricolfi a Otto e Mezzo

La puntata del 16 Dicembre 2017




Mercato della politica/ Così i giovani pagheranno la caccia al voto degli anziani

Che gli anziani siano un segmento elettorale appetibile non è una novità. E tuttavia fa una certa impressione constatare quanto serrato sia il corteggiamento di cui oggi, a meno di tre mesi dal voto, sono fatti oggetto un po’ da tutte le forze politiche.

Berlusconi ha aggiornato la vecchia promessa di portare le pensioni minime a 1 milione di lire al mese (“Contratto con gli italiani”, 2001): ora l’impegno è ad alzare l’importo minimo a 1000 euro al mese. Pd e governo, a loro volta, molto hanno puntato sulla cosiddetta Ape social, ovvero sulla possibilità di andare in pensione anticipatamente senza perdite di reddito. Il movimento di Bersani e d’Alema (ora capeggiato da Pietro Grasso), ha appoggiato la posizione della Cgil, ostile alla legge Fornero e determinata ad impedire l’innalzamento dell’età pensionabile in funzione dell’aumento della speranza di vita. Quanto ai Cinque Stelle, a prima vista i più in sintonia con il mondo giovanile, la loro proposta di reddito minimo (erroneamente denominato “reddito di cittadinanza”) in realtà riguarda tutti, e dunque anche anziani e pensionati.

Naturalmente non è difficile indovinare le ragioni di tante premure verso gli anziani. La quota di popolazione over 64 sfiora il 27% dell’elettorato ed è in costante aumento, mentre la quota dei giovani dai 18 ai 34 anni è molto più bassa e in costante ritirata (oggi è appena sopra il 21%). A ciò si aggiunge il fatto che la partecipazione al voto tiene di più fra gli anziani che fra i giovani e, nel caso della sinistra, la circostanza che la base sociale delle forze di sinistra (e della Cgil) sia sbilanciata verso gli strati più anziani della popolazione.

Ma è giustificata tanta attenzione verso gli anziani?

In linea di principio certo che sì: non sono pochi gli anziani che vivono in condizioni di grave disagio economico, per non parlare dei mille guai (innanzitutto di salute) che tendono ad aggravarsi con il procedere dell’età. Se però ragioniamo in termini politici, ovvero di scelte che la politica è chiamata a fare, la diagnosi si capovolge completamente. In una situazione di risorse limitate, la domanda cruciale non è se un determinato gruppo sociale sia meritevole di attenzione oppure no, ma se lo sia più di altri. Detto altrimenti, l’interrogativo è se, dato un certo stock di risorse aggiuntive, sia ragionevole indirizzarle verso certi gruppi sociali piuttosto che verso altri. Viste da questa angolatura le cose cambiano completamente, per almeno due ragioni di fondo.

La prima è che, comparativamente, l’Italia è uno dei paesi che destinano la quota più alta di risorse alle pensioni, nonché uno dei paesi nei quali, di fatto, in si va in pensione più presto, a circa 62 anni gli uomini, a 61 le donne (fra i grandi paesi solo la Francia ha un sistema pensionistico più generosa del nostro: lì si va in pensione a 60 anni).

La seconda ragione ha a che fare con la crisi e l’evoluzione della diseguaglianza in questi ultimi anni. Nel periodo cruciale della crisi, ovvero dal 2007 al 2015, il reddito relativo (rispetto alla famiglia italiana tipo) delle varie fasce d’età ha seguito dinamiche diversissime, ma l’unica fascia di età che ha migliorato la propria posizione (+18.4%) è stata quella degli anziani, mentre quella che ha registrato il più drammatico arretramento è stata quella dei giovani (-10.4%). Una tendenza che è purtroppo confermata dalle indagini sulla povertà assoluta, che da anni registrano un deterioramento delle condizioni delle famiglie con capofamiglia giovane, e più in generale delle famiglie con minori a carico. Insomma, voglio dire che, se c’è una frattura che in questi anni ha reso la società italiana più diseguale, questa frattura è quella fra giovani e anziani. Un dramma, quello della condizione giovanile in Italia, che i dati più recenti sul mercato del lavoro purtroppo non fanno che ribadire: l’anno scorso, per la prima volta da quando esistono statistiche comparabili, l’Italia ha fatto registrare il tasso di occupazione giovanile più basso d’Europa, dietro Grecia e Turchia.

Ma c’è anche un altro senso, più sottile, nel quale i giovani sono penalizzati dalle forze politiche, da tutte le forze politiche. La stragrande maggioranza delle promesse che cominciano a circolare in vista delle elezioni dell’anno prossimo sono promesse di maggiori spese, ora a favore di una categoria ora a favore di un’altra. E nessuna forza politica prende veramente sul serio il nostro problema numero uno, che è il macigno del debito pubblico.

Ebbene, che cos’è l’incremento del debito pubblico? L’incremento del debito non è semplicemente un freno alla crescita, ovvero al tenore di vita futuro di tutti, ma è anche un prestito che gli adulti e gli anziani sottoscrivono oggi per poter consumare di più, e che i giovani di oggi, divenuti adulti domani, dovranno restituire comprimendo i loro consumi futuri. Alla faccia della solidarietà fra generazioni.

Articolo pubblicato il 16 dicembre 2017 su Il Messaggero




Il Gerrymandering e le bufale pre-elettorali

Finiti gli scontri sulla definizione e le regole della nuova legge elettorale, l’ormai ben noto “Rosatellum bis”, il mondo politico e giornalistico ha trovato un altro tema di polemica, quello riguardante la conformazione che devono avere i nuovi collegi elettorali. Il ritorno ai collegi uninominali, sia detto per inciso, è forse una delle poche cose buone che questa norma di voto ci ha restituito: un aggancio con il territorio che, sebbene molto più timido rispetto all’antico “Mattarellum” (come lo definì Giovanni Sartori), ha comunque il pregio di affiancare di nuovo il nostro paese alle modalità di voto delle principali democrazie occidentali, con la riconoscibilità delle candidature e una scelta forse più consapevole da parte degli elettori.

Qual è dunque il tema di questa nuova polemica? Nasce in buona sostanza dalla paura che il ritaglio territoriale che viene attuato nel disegno dei collegi possa determinare una sorta di “Gerrymandering” all’italiana. Elbridge Gerry era un governatore americano del Massachusetts che, nei primi anni del lontano Ottocento, disegnò i collegi del suo distretto elettorale in modo tale da massimizzare i voti per la sua parte politica (l’esempio classico è mostrato nella figura allegata). Dal momento che i confini dei nuovi collegi assomigliavano ad una salamandra (“salamander”, in inglese), i giornali dell’epoca coniarono questa infida pratica con l’appellativo, appunto, di Gerry-mander. Da allora questo termine si riferisce ad una pessima abitudine di alcuni legislatori di costruirsi i collegi a proprio uso e consumo, cosa che fecero in particolare i laburisti inglesi negli anni cinquanta del secolo scorso.

Per giorni sui nostri quotidiani si è discusso sulla possibilità che anche in Italia l’attuale ridisegno dei collegi, da parte dei partiti di maggioranza ed in particolare del Pd, potesse essere effettuato secondo queste cattive modalità, alimentando nuove polemiche su Matteo Renzi. Il caso maggiormente evidenziato è stato quello di Rignano, paese natale del segretario Pd, che era stato in un primo momento assegnato al collegio di Livorno, benché il comune sia territorialmente contiguo a Firenze mentre, dopo il suo intervento, si era proceduto a riunirlo al capoluogo regionale toscano. Era questa la prova evidente, secondo i critici, della volontà del legislatore di costruirsi i confini a proprio vantaggio, per massimizzare i propri consensi.

Ma sarà poi vero? O è la consueta bolla di sapone? Ricapitoliamo. In tutte le occasioni in cui si è cercato la scorciatoia del Gerrymandering la situazione elettorale era abbastanza stabile, talmente stabile che chi percorreva questa strada era ben consapevole dei probabili comportamenti di voto degli elettori residenti in quelle aree. In Italia, se vogliamo, un’operazione di questo stampo sarebbe stata produttiva negli anni Cinquanta o Sessanta, quando la mobilità elettorale era ai minimi termini, e ogni elezione ribadiva sostanzialmente quello che era accaduto negli anni precedenti, con soltanto lievi cambiamenti. Oggi non è più così.

Soprattutto dopo l’avvento del Movimento 5 Stelle ed il parallelo smottamento della fedeltà elettorale dei principali partiti italiani, tutte le occasioni elettorali che abbiamo avuto recentemente sono state una vera incognita: i tassi di astensionismo e di incertezza delle scelte dei cittadini sono sotto gli occhi di tutti. Fare previsioni, oltretutto a livello locale, è diventato quasi un terno al lotto, come ben sanno gli istituti di ricerca demoscopici, che trovano difficoltà sempre maggiori a produrre sondaggi attendibili, non certo per loro incapacità, ma per una montante indecisione dell’elettorato stesso.

In una situazione di questo genere, la costruzione a tavolino dei collegi – al fine di massimizzare il proprio consenso – potrebbe risultare alla fine un vero e proprio boomerang. Meglio lasciar perdere, e sperare nello stellone italico.

Pubblicato il 15 dicembre 2017



Donne e politica: perchè solo la destra si fida delle donne al comando?

«Come donna devi avere il senso del limite.» Forse la risposta al quesito «perché la sinistra non ha leader donne?» è tutta qui, nelle parole che nel 2001 si sentì dire il ministro Roberta Pinotti, all’epoca segretario provinciale Ds a Genova, quando il partito le propose la candidatura in Parlamento e, negli stessi giorni, lei scoprì di aspettare un figlio. A pronunciarle non fu il suo partner o un avversario politico maschio, o un compagno retrogrado tipo quelli immortalati da Guareschi in Don Camillo, che andavano a piangere dal prete perché la moglie era così impegnata in politica da trascurare i fornelli. A Pinotti lo disse un’altra donna del suo partito, l’ex Pci, l’attuale Pd. Probabilmente, una progressista pronta a combattere in buona fede per le pari opportunità, finché non si tratta di rompere il famoso soffitto di cristallo. Non è nella natura delle donne, e men che mai delle future madri, rompere i cristalli. Al massimo possono prendere straccio e Vetril, tirarli a lucido e godersi la splendida visuale delle suole dei compagni che, geneticamente sprovvisti del senso del limite, hanno fatto carriera e ora camminano sulle loro teste. Pinotti invece il cristallo l’ha rotto. Da tre anni è ministra della Difesa, prima donna in Italia. E oggi dice che per lei, donna ed ex comunista, è stato più facile farsi accettare dalle arcigne Forze Armate che dai politici, compresi quelli di sinistra. Una storia che ricorda alla lontana quella di Angela Merkel: cresciuta nella Gioventù comunista della Germania Est, ma poi trapiantata con successo in un’aiuola ideologicamente lontanissima, quella cristiano-democratica.

Chissà se a Frau Angela, la tri-cancelliera in cui molti vedono il solo vero uomo politico europeo, qualcuno ha mai consigliato di mantenere il senso del limite. O per rimanere in Germania, a Tatjana Festerling, la pasionaria di Pegida, destra radicale, o a Frauke Petry, ex leader dei nazionalisti di Alternative fur Deutschland, o ad Alice Weidel, attuale vice presidente del partito, o alle sue aristocratiche capi-corrente Doris von Sayn-Wittgenstein e Beatrix von Storch, imparentate con tutte le teste coronate d’Europa. Sembra che il senso del limite, rimanere un passo indietro rispetto ai maschi, senza mai alzare la voce o pestare i piedi, sia una virtù richiesta soprattutto alle politiche di sinistra. La destra europea pullula di donne «no-limits». In Francia, paese politicamente sessista almeno quanto l’Italia, ci sono le due Le Pen, Marine e Marion; in Inghilterra Theresa May, Diane James dell’Ukip, Leanne Woods dei nazionalisti gallesi e la bombastica Jayda Frensen, pasionaria dell’ultradestra di British First i cui tweet islamofobi sono stati improvvidamente retwittati da Donald Trump. Il giro d’Europa delle lady di ferro tocca la Norvegia, dove il centrodestra e la destra populista sono presidiate da due signore, Erna Solberg e Siv Jensen; la Lituania della Thatcher baltica, Dalia Grybauskaite, la Polonia, governata dalla leader degli ultra-conservatori Beata Szydlo, sconfina in Ucraina, forse la culla dell’euro-nazionalismo al femminile, inaugurato dall’iconica Yulia Timoshenko (la controversa eroina della Rivoluzione Arancione che ha annunciato di voler correre alle elezioni del 2019) e si conclude in Croazia, presieduta dal 2015 dalla conservatrice Kolinda Grabar-Kitarovic, la persona più giovane mai chiamata a ricoprire la massima carica dello Stato, e la prima a rimuovere dal palazzo presidenziale il busto del maresciallo Tito.

Pare che in Europa la leadership della destra, in tutte le sue cinquanta sfumature di nero, si declini preferibilmente al femminile. E visto che perfino da noi l’unica donna capo di partito è Giorgia Meloni di Fratelli d’Italia, da poco raggiunta dalla «pitonessa» Daniela Santanché, possiamo dire che il problema con l’altra metà del cielo, una volta tanto, non ce l’ha solo l’Italia. Ce l’ha proprio la sinistra. (Negli Stati Uniti il problema ce l’hanno sia la sinistra che la destra, una che si mangia ancora le mani per aver puntato su Hillary, l’altra abbrutita da Trump e dal machismo dell’Alt-right, che vede una stridula femminista in ogni donna che lavora.)

Strano, vero? La parte politica che più si è battuta per l’emancipazione, i diritti e le pari opportunità sembra non fidarsi delle donne al comando. Mentre la destra, specie quella populista, trova in giovani, toste e spesso piacenti signore le portavoci ideali. I maschi bianchi impauriti dalla globalizzazione, destabilizzati dall’immigrazione, e magari tignosamente attaccati agli stereotipi di genere, pendono dalle loro labbra senza complessi. Sorprendente ma non troppo: in fondo il nazionalismo si è sempre appoggiato a una simbologia muliebre: da Marianna a Boudicca, le allegorie della Patria sono matrone più o meno discinte, spesso in pericolo, incatenate o concupite da stranieri libidinosi, che incitano il popolo protendendo le braccia tornite. «Nazione come incarnazione di una declinazione patriottica dell’amore romantico», secondo la definizione dello storico Alberto Maria Banti: anziché soffrirne, le donne della destra europea si avvantaggiano, più o meno consapevolmente, dei residui, deboli ma persistenti, di un immaginario sette-ottocentesco maschilista soffuso di sottintesi sadomaso. Una narrativa in cui cent’anni fa il «villain» era, a seconda dei casi, il barbaro tedesco, l’infido ebreo o il russo belluino, e oggi è l’immigrato nero e/o musulmano, supposto violatore di tutto ciò che è violabile: donne e proprietà, chiese e quiete pubblica.

L’appeal di Szydlo e colleghe ha sì un piede nel passato, ma l’altro è ben calato nel presente. Proprio perché donne, appaiono come un’alternativa più netta a un ordine mondiale creato da maschi ricchi e benpensanti in giacca e cravatta, e allo stesso tempo rassicurano un elettorato che si sente sperduto, indifeso, non considerato da poteri patrigni, lontani e cattivi. In un certo senso le leader populiste sono l’apoteosi politica delle mamme cazzute che vanno a litigare con gli insegnanti dei figli perché dànno troppi compiti e fanno favoritismi. L’ «uomo forte» all’antica evocherebbe fantasmi militareschi troppo impegnativi per l’europeo moderno, nato, cresciuto e invecchiato nel più lungo periodo di pace mai vissuto dal Vecchio continente. Nell’era della pop-politica e dell’intimità quasi fisica fra il leader e il suo popolo, l’eccesso di testosterone non fa più sognare l’elettorato conservatore, tant’è che il tipo vincente fra i leader maschi populisti non è il caporione baffuto e mascelluto, ma l’elegante metrosexual con visetto cesellato, chioma ben curata e fisico da attore di soap-opera, vedi Geert Wilders, Sebastian Kurz e, in versione mediterranea, Luigi Di Maio. Perfino Matteo Salvini ha messo da parte le rudi canottiere bossiane e si è ingentilito: fra una ruspa e un post anti-migranti infila una copertina «desnuda» per Oggi e un’intervista in cui parla dei suoi figli e della (poca) cura della barba, e arriva a incassare e perdonare la scappatella ibizenca della fidanzata, accreditandosi presso le sue molte fan come maschio aperto ed evoluto. Ha imparato dal migliore, il maestro inarrivabile della trasformazione del privato in affare pubblico: Silvio Berlusconi, che a ottant’anni, truccato e tirato come Joan Collins, riesce a fare di acciacchi, cateteri e dentiere un’arma di seduzione elettorale.

Per le donne vale l’opposto: esporre il proprio privato non le rende più simpatiche, solo più vulnerabili e meno autorevoli. Devono essere sia Cesare che la moglie di Cesare: assertive e di polso, ma anche inappuntabili dal punto di vista morale. La seconda parte è più difficile della prima, perché nella pop-politica, mediatica e socialmediatica, la morale è anche estetica, e alla donna si rinfaccia tanto la mancanza di avvenenza, giovinezza e civetteria – vedi l’accanimento contro Rosy Bindi – quanto il suo contrario – vedi le campagne grilline «cosa faresti in auto con Laura Boldrini?» e i lazzi volgari, anche da sinistra, contro Maria Elena Boschi ben prima dello scandalo Banca Etruria. Lo stesso trattamento riservato, ai tempi del governo Berlusconi, a Mara Carfagna. Credete che all’estero siano più evoluti? Pochi mesi fa, dopo che Alice Weidel aveva condannato la «political correctness», il Crozza tedesco, Christian Ehring, l’ha presa in parola definendola nel suo show «troia nazista». Denunciato da Weidel, il comico è stato assolto in tribunale in nome della libertà di espressione: le figure pubbliche devono incassare gli sfottò, anche pesanti. Del resto, hanno aggiunto i giudici, «nazista» si riferiva alle posizioni oggettivamente estremiste dell’Afd, e «troia» ha sì una connotazione sessuale, ma «è stato usato solo perché si tratta di una donna e agli spettatore era chiaro che il termine non corrispondeva alla verità». Nella Germania di Angela Merkel, in un contesto di satira televisiva, è lecito dare della troia a una donna, a meno che non lo sia davvero.

Nessun paese è immune dal sessismo. E nessuno schieramento politico. Ma quello plateale e smaccato degli insulti degli oppositori forse fa meno danni del sessismo ipocrita, untuoso e sabotatore che le donne di sinistra incontrano nei loro stessi partiti. Il Pd è «ipnotizzato», come scrive Lea Melandri, «dalla schermaglia più o meno astiosa dei concorrenti alla leadership del partito, da cui le donne sembrano essersi ritratte, forzatamente ricondotte a spettatrici». Alle quali si chiede impegno, generosità e, soprattutto, obbedienza quando il partito chiede di farsi da parte. Esemplare il caso di Laura Puppato: nel 2010, dopo essersi fatta onore come sindaca di Belluno, era la concorrente più accreditata alla presidenza della regione Veneto, sostenuta da comitati locali e da Vip. Eppure il partito alla fine decise di candidare un uomo, Giuseppe Bortolussi, e perse le regionali; Puppato, che correva solo come consigliere regionale, fu eletta con numeri da record. Dopo la sua sconfitta alle primarie Pd del 2012 nessuna si è più azzardata a contendere agli uomini il timone del Nazareno. E malgrado il renzismo ci abbia offerto gran copia di ministre e portavoce, nessuna donna è stata candidata alla poltrona di sindaco di una grande città. L’atteggiamento del Pd rispetto alle donne rispecchia un po’ quello della coppia italiana rispetto alle automobili: in famiglia la donna guida sempre l’auto di cilindrata più piccola. Quella grande e potente è appannaggio dell’uomo, al massimo lei fa da copilota, anche se ha più punti sulla patente.

Più si va a sinistra, peggio è. L’imbarazzante foto di gruppo dell’esordio del tanto atteso nuovo soggetto, Liberi e Uguali, sembra scattata alla pizzata della squadra di calcetto: tutti maschi. Dopo che sul palco dell’Atlantico Live erano passate l’operaia della Melegatti, la ricercatrice del Cnr, le presidenti di Arci e Legambiente: virtuose figurine, perfette per scaldare la platea con funzione di décor politico-emozionale. Ma lo stato maggiore di Liberi e Uguali è for men only, in un momento in cui il tema della violenza di genere è all’ordine del giorno in mezzo mondo. Roba che al confronto il M5s, con Raggi, Appendino, Taverna e Rocchi, pare un collettivo femminista. All’ombra di un padre-padrone di nome Beppe Grillo, certo; sta di fatto che all’ombra di D’Alema, padre nobile di Liberi e Uguali, per ora donne non se ne vedono. «Proprio quando la destra sceglie di rappresentarsi con le donne,» si dispera Silvia Garambois su Strisciarossa, il sito degli ex dell’Unità. Già, ma è anche vero che solo a sinistra le donne si vergognano di voler comandare. Che sia una velenosa eredità del pensiero della differenza, la corrente filosofica femminista made in Italy che ha influenzato tutta una generazione di donne di sinistra? A forza di insistere sullo «specifico femminile», fondato sulla relazione e connotato dal lavoro di cura e di accoglienza, ha finito per colpevolizzare nelle donne l’aspirazione al potere, alla leadership, vista come un concetto naturaliter maschile. Quelle come Boschi, Madia e Pinotti, che non cercano la maternità o non se ne lasciano condizionare, non sono viste come un modello di empowerment e di emancipazione per le giovani donne, ma vengono giudicate divisive: vogliono fare le prime della classe, e chi non ce la fa o non se la sente fa la figura della «meno brava».

A destra certe paturnie non hanno mai attecchito: sotto sotto è rimasta «il mondo soldatesco e affamato, in cui la presenza femminile appariva a stento e scompariva presto, a meno che non sviluppasse qualità amazzoniche, militari, maschili» di cui ha scritto Alessandro Giuli sul Foglio. Secondo cui Giorgia Meloni riassume tutto l’album genealogico delle donne della destra italiana: un po’ donna Rachele, un po’ valchiria, un po’ ausiliaria della Rsi, il tutto condito da una voce roca e romanesca da Evita della Garbatella che fa un po’ simpatia e un po’ paura. Meloni deve misurarsi «solo» con il sessismo dei maschi. Non deve anche rendere conto delle sue scelte personali a una platea femminile criticona e competitiva come quella che giudica le colleghe di sinistra. Pure lei si è sentita dire «faccia la mamma», quando pensava di candidarsi a sindaca di Roma durante la sua gravidanza. Ma glielo disse Guido Bertolaso di Forza Italia, non una compagna di partito.

Pubblicato il 12 dicembre 2017