Mezzogiorno “dimenticato”? forse no…

Le campagne elettorali degli ultimi trent’anni si somigliano un po’ tutte. Solite promesse, soliti slogan, solite analisi dei mali del Paese. Soliti temi: lavoro, tasse, sicurezza, pensioni. E solite omissioni: debito pubblico, debito pensionistico, parametri europei, pareggio di bilancio.

C’è una differenza, tuttavia. Dal novembre del 2012, ossia dal repentino cambio di governo da Berlusconi a Monti, è calato il silenzio più totale sul federalismo, sui problemi del Mezzogiorno, sugli squilibri fra Nord e Sud. Mi colpì molto, allora, non sentire una sola parola sui grandi temi che, almeno sul piano della propaganda, sono sempre stati al centro del dibattito politico italiano, sia nella prima Repubblica, quando il nodo era la “questione meridionale”, sia nella seconda, quando il nodo era diventato la “questione settentrionale”, risolutamente posta all’ordine del giorno dalla Lega Nord ma anche da importanti settori della classe dirigente industriale (uno dei primi studi sul “residuo fiscale”, ossia sulla penalizzazione delle regioni del Nord, fu condotto dalla Fondazione Agnelli, nei primi anni ’90). E altrettanto mi colpisce, in queste settimane, la perdurante marginalità dei classici temi dello “svantaggio” del Sud e, specularmente,  della “spoliazione” del Nord.

Di questa virtuale scomparsa del tema del Mezzogiorno esistono naturalmente ragioni abbastanza precise. La prima è che la crisi del 2007-2014 ha oscurato quasi tutto il resto. La seconda è che, dopo l’approvazione della legge 42 del 2009 sul federalismo fiscale, non è occorso molto tempo per capire che quella legge era un compromesso assai difficile da tradurre in pratica, e che la Lega stessa, attaccatissima al potere locale di recente conquistato, era ormai divenuta più un elemento di freno che un fattore di stimolo del federalismo.

Il fatto che poco si parli del Mezzogiorno, tuttavia, non significa affatto che esso conti poco in questa campagna elettorale. La realtà è che esso conta moltissimo, ma lo fa in modo silente. Anzi, tendo a pensare che, come quasi sempre è stato nella storia elettorale italiana, saranno le ondivaghe regioni del Sud ad assegnare la vittoria, o perlomeno a fare la differenza.

Perché dico che lo fa in modo silente?

La ragione è presto detta. Il problema fondamentale del Mezzogiorno resta, oggi come ieri, la mancanza di lavoro, un problema che, negli ultimi dieci anni, ha assunto il volto inquietante della povertà (le famiglie sotto la soglia di povertà assoluta sono oggi il doppio che nel 2007). E, di fronte a questo problema, che riguarda innanzitutto il Mezzogiorno, tutti e tre gli schieramenti politici hanno sfoderato una delle loro armi più efficaci, ovvero la proposta di un sussidio universale (rivolto a tutti), una novità assoluta per un paese come l’Italia. Ecco perché, anche quando non parlano esplicitamente di Mezzogiorno, tutte le forze politiche, di fatto, se ne stanno occupando.

Tutte e tre le proposte in campo sono, in buona sostanza, misure di reddito minimo per coloro che lavorano o sono disposti a lavorare, sia pur denominate in modi diversi: reddito di cittadinanza (Cinque Stelle), reddito di dignità (Centro-destra), reddito di inclusione (Pd).

La proposta più demagogica è quella dei Cinque Stelle, sia per il suo importo (che può superare i 1500 euro per famiglia), sia per le condizioni di concessione (e di conservazione) del sussidio, che rendono estremamente conveniente non lavorare o lavorare in nero. La proposta più realistica è quella del Pd, che si limita ad ampliare progressivamente il reddito di inclusione (già in vigore), ed è rivolta solo alla frazione più povera delle famiglie in condizione di povertà assoluta. Una via di mezzo, per quel che se ne sa finora, è quella del centro-destra, che dovrebbe essere basata sulla cosiddetta imposta negativa (colmare, ma solo in parte, in parte lo scostamento fra reddito effettivo e soglia di povertà), e il cui principale pregio è di non far venire meno l’incentivo a lavorare.

Chi conquisterà i voti delle popolazioni meridionali?

La mia impressione è che, nella battaglia per acquisirne il consenso, il Pd si trovi nella posizione più difficile, e i Cinque Stelle in quella più favorevole. Il partito di Renzi sconta infatti una doppia debolezza: primo, “offre” troppo poco sul piatto dell’assistenza; secondo, punta su una carta, la creazione di nuova occupazione, che inevitabilmente si scontra con l’atavico, e perfettamente giustificato, scetticismo meridionale sulla possibilità di assorbire la disoccupazione con posti di lavoro veri. Quanto al centro-destra, è vero che sia l’imposta negativa sul reddito, sia la flat tax (aliquota unica su tutti i redditi) che la accompagna, sono proposte razionali, per molti versi le più interessanti fra le molte in campo. Esse tuttavia, a mio modesto parere, risultano vincenti su quelle dei Cinque Stelle nelle regioni settentrionali, ma non in quelle meridionali. E questo per due ragioni di fondo.

La prima è che l’attrazione per le misure di matrice assistenziale, come è il reddito di cittadinanza, è da sempre più forte nel Sud, dove il lavoro scarseggia, che nel centro-Nord, dove i tassi di occupazione sono vicini ai livelli europei. Un’attrazione che, nel caso di tutte le proposte in campo (eccetto quella dell’istituto Bruno Leoni), è rafforzata dal fatto che la soglia di povertà è definita in termini di reddito nominale, anziché di potere di acquisto: ciò fa sì che il grosso del sussidio previsto dal Movimento Cinque Stelle finirà al Sud, ben al di là del numero di poveri residenti in tali regioni, mentre la maggior parte dei poveri del centro Nord non ne potrà usufruire.

Ma la ragione più importante è la seconda. Il piatto forte del menu elettorale del centro destra è la flat tax, con la sua promessa di forte riduzione delle aliquote sia sul reddito personale, sia sul reddito di impresa: 23% all’inizio, 15% come obiettivo finale. Ora, basta un’occhiata alle statistiche dell’evasione fiscale per capire che il cavallo di battaglia del centro-destra non potrà avere, al Sud, lo stesso appeal che ha al Nord. Perché la riduzione delle aliquote convinca gli elettori, infatti, occorre partire da una base di alto adempimento fiscale, che al Sud è sostanzialmente assente: una flat tax al 15% difficilmente può convincere chi le tasse se le è già autoridotte.

Articolo pubblicato sul numero di Panorama del 25 gennaio 2018



Luci e ombre della flat tax

Flat tax. È una parola quasi nuova nel lessico della politica italiana, anche se qualche precedente non manca: Berlusconi e l’economista Antonio Martino la proposero nel 1994, anche se poi non se ne fece nulla; Marco Pannella la ripropose nel 2005, con un’aliquota del 20%, più o meno a metà strada fra le aliquote oggi proposte dalla Lega (15%) e da Forza Italia (23%).

Prima di ragionare su questa proposta, forse non è inutile illustrare il principio della flat tax con un esempio. Supponiamo, per fissare le idee, che la flat tax venga applicata solo ai redditi delle persone fisiche e che l’aliquota sia del 20%, con una no tax area (nessuna imposta) da zero a 10 mila euro. Supponiamo anche che, come spesso accade, la proposta sia affiancata da un’imposta negativa del 50% (imposta negativa significa: se guadagni meno di 10 mila euro, lo Stato ti dà la metà di quel che ti manca per arrivare a 10.000 euro).

Risultato: chi guadagna 5000 euro, anziché pagare le tasse, riceve un regalo fiscale di 2.500 euro. Chi guadagna 10 mila euro non paga nulla. Chi guadagna 20 mila euro paga zero tasse sui primi 10 mila euro, e 2000 euro (il 20% di 10 mila) sui successivi 10 mila, il che significa che per lui l’aliquota media è del 10%. Chi guadagna 30 mila euro paga anch’egli zero tasse sui primi 10 mila euro, e 4000 euro (il 20% di 20 mila) sui 20 mila successivi, il che significa che per lui l’aliquota è del 14.3%. Chi guadagna 50 mila euro ne paga 8000, e dunque ha un’aliquota media del 16%. Nessuno arriva a pagare il 20% (perché i primi 10 mila euro sono esentasse), ma chi è molto ricco si avvicina notevolmente all’aliquota piena, ovvero a pagare il 20% del suo reddito. Un Paperon de Paperoni che guadagnasse 1 milione di euro trasferirebbe il 19.8% del suo reddito al fisco, ossia quasi il 20%.

Dunque ricapitolando: i poveri riceverebbero soldi, i ceti bassi pagherebbero solo il 10%, il ceto medio intorno al 15%, i molto ricchi quasi il 20%. Scusate l’esempio terra-terra, ma serve a sgombrare il campo dalla più sciocca fra le obiezioni che vengono rivolte alla flat tax, quella secondo cui sarebbe un sistema non progressivo e quindi incostituzionale (in quanto violerebbe l’articolo 53, sui criteri di progressività che dovrebbero informare il sistema tributario). Chi fa questa obiezione o, peggio ancora, parla di un sistema che toglie ai poveri per dare ai ricchi, una sorta di “Robin Hood al contrario”, semplicemente non ha capito come funziona la flat tax. Dunque lasciamo perdere e passiamo oltre.

Dal nostro esempio possiamo dedurre che la proposta del centro-destra di introdurre la flat tax sui redditi personali, ed eventualmente su quelli di impresa, è una buona proposta?

Per certi versi lo è senz’altro, perché ha un enorme, inestimabile pregio: quello di essere un sistema semplicissimo che, se accompagnato dalla soppressione integrale delle innumerevoli norme e disposizioni particolari che infestano le nostre dichiarazioni dei redditi, sarebbe alla portata di un bambino di quinta elementare.

Ma per altri versi la flat tax è invece una proposta estremamente velleitaria, perché aprirebbe una voragine nel gettito che, per ora, nessuno ci ha ancora spiegato in modo persuasivo come potrebbe essere coperta. Le due idee principali in circolazione, ossia varare una super-rottamazione delle cartelle esattoriali e puntare su una drastica riduzione dell’evasione fiscale, sono entrambe fragilissime, anche se per ragioni diverse. L’idea di fare cassa con l’ennesima sanatoria fiscale (maxi-sconto agli evasori) è debole perché si tratta di una misura una tantum, che anche se andasse in porto potrebbe compensare il mancato gettito per uno o due anni, non certo in modo permanente. L’idea che aliquote più basse ridurrebbero drasticamente l’evasione fiscale è quantomeno ingenua (sempre che non si voglia instaurare un regime di terrore fiscale): l’elevata evasione fiscale che caratterizza l’Italia non dipende solo da aliquote troppo alte, ma dalla natura del nostro tessuto produttivo, in cui lavoro autonomo, piccole imprese, economia sommersa hanno un peso abnorme (un’anomalia che è aggravata dalla scarsità dei controlli, specie nel mezzogiorno e nelle realtà periferiche). Ve lo vedete l’idraulico emettere fattura solo perché, ferma restando l’Iva, la sua aliquota marginale è del 15% anziché del 27%? Qualcuno pensa che gli insegnanti, che attualmente evadono massicciamente il fisco con le lezioni private, improvvisamente si metterebbero in regola, rilasciando regolare ricevuta ai loro studenti? Per non parlare del mondo dell’edilizia, dove sottofatturazione e salari in nero sono piuttosto diffusi, almeno sui lavori per cui non è previsto un robusto credito di imposta.

Insomma, è perfettamente ragionevole pensare che aliquote più basse ridurrebbero l’entità dell’evasione, ma è irragionevole pensare che lo farebbero in modo così massiccio da rendere sostenibile una flat tax al 15%, o anche al 23%.

È un’idea da buttar via, dunque?

Forse no. Probabilmente la strada giusta è quella di una introduzione graduale (magari prevedendo all’inizio due aliquote, di cui una destinata a scomparire), eliminando però fin da subito la giungla delle agevolazioni e tutti i bizantinismi della dichiarazione dei redditi (salvo il meccanismo delle deduzioni, con il quale è possibile imprimere ulteriore progressività al sistema). Un sistema fiscale semplice, in cui chiunque potesse raccapezzarsi senza un commercialista, sarebbe già, di per sé, una grande conquista.

Alternativamente, si potrebbe iniziare, come di recente ha suggerito Giorgia Meloni, da una introduzione immediata dell’aliquota secca del 15% non su tutto il reddito, ma sui suoi incrementi, una scelta che sarebbe perfettamente sostenibile e fornirebbe un forte incentivo a lavorare di più.

Quale che sia la strada prescelta, il punto resta il medesimo. Se si vuole criticare la flat tax, è inutile accanirsi contro la non progressività, perché la flat tax è progressiva, e per certi versi lo è più del sistema attuale, che nulla riconosce ai cosiddetti incapienti, ossia a chi non guadagna abbastanza da dover pagare le tasse; che la flat tax non sia il demonio, del resto, lo ha riconosciuto lo stesso ministro dell’Economia, che  in una recente intervista al Corriere della Sera, dando prova di notevole onestà intellettuale ha dichiarato: “una riforma fiscale che preveda la semplificazione delle aliquote sino a una sola, meglio due, la esplorerei”. In breve: se si vuole criticare la flat tax, l’argomento principe è la sostenibilità, non certo la presunta “ingiustizia”, o addirittura la incostituzionalità, dell’aliquota unica.

Simmetricamente, se la flat tax la si vuole difendere, la via maestra è delineare un credibile percorso di introduzione graduale, lasciando perdere le narrazioni semplicistiche e miracolistiche, che anziché convincerci non fanno che aumentare il nostro scetticismo.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 27 gennaio 2018



Togliere le tasse ai ricchi

Ha creato molta sorpresa, e persino un po’ di sconcerto, la prima uscita politica di Pietro Grasso come leader di Liberi e Uguali (Leu): “aboliamo le tasse universitarie!”. Gli è stato subito obiettato: ma come, vi presentate come un partito di sinistra dura e pura, e poi la prima idea che ci proponete è di azzerare le tasse universitarie, che già sono molto basse (meno del 20% del costo totale dell’università), e attualmente pesano solo sui ceti medi e alti, non su quelli popolari? che cosa vi è venuto in mente?

La risposta che Grasso e altri esponenti di Liberi e Uguali hanno provato a fornire a questa osservazione di puro buon senso è stata debolissima: l’università è come la sanità, deve essere garantita a tutti in nome del diritto allo studio e del principio per cui il welfare ha da essere universale, ovvero gratis per tutti. Una risposta che dimentica due fatti cruciali: primo, che della sanità, a differenza dell’istruzione universitaria, usufruiscono effettivamente tutti (nessuno nasce invulnerabile); secondo, che nemmeno la sanità, portata ad esempio di welfare universale, è completamente gratuita (ticket, farmaci non mutuabili, ecc.) e, grazie al sistema delle esenzioni, pesa più sui ricchi che sui poveri, proprio come l’università.

Io invece non sono stupito affatto. Trovo naturale che un partito faccia promesse alla propria base elettorale e non a quella degli altri partiti. E la base elettorale della sinistra radicale, da molti anni, è costituita dai ceti medio-alti, in particolare dai laureati: nessun segmento elettorale ha, nel suo elettorato, una percentuale così alta di laureati quanto l’estrema sinistra. I ceti popolari guardano a destra e al Movimento cinque stelle, mentre la sinistra, radicale e non, ormai da decenni raccoglie soprattutto il voto dei ceti medi: è anche per questo che è in crisi di identità.

Dunque nessuna sorpresa: Leu ha fatto una promessa alla propria base elettorale, che non è costituita da chi l’università non può permettersela, bensì da chi l’università la frequenta e, comprensibilmente, preferirebbe pagare niente piuttosto che il poco che è tenuto a pagare oggi. Detto questo, ovvero che ogni partito è istintivamente portato a proporre cose che piacciono alla sua base, vorrei provare, visto che all’università lavoro da decenni, a dire quello che a me pare la situazione reale.

Il primo dato di cui occorrerebbe prendere atto è che, ancora oggi, la maggior parte dei giovani non solo non si laurea, ma non arriva nemmeno a tentare l’avventura universitaria. Quelli che ci provano, circa il 45% dei giovani, sono costituiti in massima parte da appartenenti a ceti medio-alti ma, fortunatamente, esiste anche una frazione che proviene dai ceti popolari. Questa frazione, circa 1 studente su 3, non ha il problema delle tasse universitarie, per la semplice ragione che le norme attuali (ulteriormente perfezionate da un recente provvedimento del governo), già la esonerano completamente dal loro pagamento. Le tasse universitarie, quasi sempre assai modeste, pesano solo su una minoranza della minoranza: ovvero su quanti non solo hanno il privilegio di accedere all’università, ma hanno l’ulteriore privilegio di avere una famiglia che guadagna abbastanza da potersi permettere di pagare le tasse. Azzerare completamente le tasse universitarie significa fare un regalo a questa robusta minoranza di privilegiati: circa 2 studenti universitari su 3, il che significa 1 giovane su 3, visto che all’università accede meno della metà dei giovani.

Ma questo è solo l’inizio. Vediamo che cosa succede dopo l’iscrizione all’università. Una parte degli studenti, quelli provenienti da famiglie agiate o di ceto medio, è perfettamente in grado di conseguire una laurea nei tempi giusti, solo che si impegni nello studio. Se non lo fa è perché proprio l’esistenza di tasse universitarie di importo trascurabile, nonché di famiglie estremamente indulgenti, consente un prolungamento indefinito degli studi, spesso ben al di là dei 25 anni di età, talora oltre i 30. Tasse più alte sulle famiglie benestanti farebbero certamente diminuire i casi di “permanenza opportunistica” all’università (eufemismo per non parlare di bamboccioni), mentre il loro azzeramento creerebbe un ulteriore incentivo ad allungare la durata degli studi.

Completamente diversa è la situazione delle famiglie più umili. Qui il problema non sono certo le tasse, visto che chi ha bassi redditi ne è esente, ma l’esiguità delle borse di studio per i capaci e meritevoli. Le borse concesse, in quasi tutte le regioni italiane, sono molte di meno del numero di aventi diritto, e quando vengono erogate sono di importo così basso da non risolvere il problema vero dei ceti popolari, che non sono le (inesistenti) tasse, bensì i mancati guadagni durante gli anni di studio. Un ragazzo di origini sociali modeste è spesso costretto a lavorare per mantenersi agli studi, ma proprio per questo non riesce a laurearsi nei tempi giusti, e va così a ingrossare l’esercito dei fuori corso, già abbastanza folto per conto proprio grazie ai figli di papà.

A questi problemi di equità economica, si aggiunge poi un’ulteriore fonte di diseguaglianza: l’abbassamento degli standard, un argomento su cui molti docenti universitari hanno assunto un (comprensibile) atteggiamento autodifensivo, al limite del negazionismo, ma che indubbiamente esiste da decenni. Ebbene, molti indizi lasciano pensare che l’abbassamento degli standard di qualità abbia danneggiato soprattutto i ceti popolari, se non altro perché, per loro, un’istruzione di qualità è l’unica vera carta da giocare, mentre i ceti medio-alti ne hanno molte altre, dal patrimonio familiare alla rete di relazioni e di conoscenze, con cui possono prima pagare gli studi dei figli all’estero, e poi, se non basta, piazzarli da qualche parte in patria, non importa se geniali o asini.

Che nessun partito, nemmeno quelli che delle istanze popolari provano a farsi carico, prenda veramente sul serio il dramma dei ceti subordinati, vittime di un sistema dell’istruzione in palese contrasto con l’articolo 34 della Costituzione (quello che assicura ai capaci e meritevoli il “diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”), è cosa che rattrista. Che a proporre di togliere le tasse universitarie anche ai ceti superiori sia il partito che più si proclama di sinistra fa invece parte delle stranezze di questo appuntamento elettorale, oltreché della deriva conservatrice, qualche volta reazionaria, di una parte della (sedicente) cultura progressista. Dopo la pioggia di promesse belle e impossibili (ce ne occuperemo nei prossimi articoli), non poteva mancare una promessa brutta e possibilissima: togliere le tasse anche ai ricchi, ci assicura Grasso, costerebbe “solo 1.6 miliardi”.

Articolo pubblicato su Il Messaggero il 20 gennaio 2018



La tenda a ossigeno

Da qualche settimana siamo sommersi dai “segno +”. Di qualsiasi cosa si parli, consumi, esportazioni, inflazione, occupazione, disoccupazione, fiducia dei consumatori, pressione fiscale, Pil, è tutto un compiacerci che finalmente la barca va, il Paese si è rimesso in moto. Tv e giornali non si stancano di riprendere, con grande risalto, ogni bit di nuova informazione statistica sui progressi dell’Italia.

Questo profluvio di buone notizie, tuttavia, non ha impedito ai commentatori più attenti (e inascoltati), di puntare l’attenzione anche sull’unico vero grave fattore di rischio dell’Italia: l’andamento della finanza pubblica. Detto in poche parole, il timore è che, dopo la grande sbornia delle promesse elettorali, a primavera l’Italia si possa trovare di nuovo in una situazione molto critica, come nel 2011.

Sono giustificati questi timori?

Difficile dare una risposta secca, perché ci sono fattori che stanno riducendo i nostri rischi, e altri che li stanno aumentando. Fra i fattori favorevoli, che ci proteggono dal rischio di una crisi, si devono menzionare soprattutto tre elementi che nel corso del 2017 hanno ridotto la vulnerabilità dei nostri conti pubblici: la crescita del Pil, la ripresa dell’inflazione, la riduzione della quota di debito pubblico detenuta da investitori esteri. Ma i fattori favorevoli si fermano qua, per il resto, sfortunatamente, possiamo solo guardare con apprensione al 2018, o meglio a quel che potrà succedere dopo il voto di marzo.

Alcuni fattori di rischio sono ben noti. Il più noto è l’uscita dell’Italia dalla tenda ad ossigeno che l’ha protetta negli ultimi anni: nel 2018 la Banca centrale europea allenterà il Quantitative Easing, ovvero l’acquisto di titoli di Stato dei paesi della zona Euro; nel 2019 scadrà il mandato di Mario Draghi, il “cavaliere bianco” che ci ha protetti e salvati in questi anni (così lo chiama Roberto Napoletano, in un libro di grande interesse sulla crisi del 2011: Il cigno nero e il cavaliere bianco, La nave di Teseo 2017). Un secondo fattore di rischio ben noto è l’incertezza politica, nelle sue due varianti fondamentali: una situazione di stallo, con possibile ricorso a nuove elezioni; la formazione di un governo delle forze più anti-europee (Cinque Stelle e Lega). Un terzo fattore di rischio è il probabile arrivo, fra marzo e aprile, di una richiesta della Commissione europea all’Italia di effettuare una manovra correttiva dei conti pubblici. Un altro fattore di rischio è il possibile aumento del tasso di riferimento della Bce, con conseguente aumento dei tassi di interesse sui titoli di Stato. E infine, un ultimo fattore di rischio è un cambiamento delle regole bancarie, che potrebbe condurre a una valutazione dei titoli di Stato detenuti dalle banche agganciata al rating delle Agenzie (100 euro di Bot italiani valgono meno di 100 euro di Bund tedeschi), con conseguente repentina svalutazione dei patrimoni delle banche italiane, i cui bilanci sono tuttora appesantiti da più di 300 miliardi di titoli di Stato).

Quel che è meno noto, a giudicare da quanto poco se ne parla, è che a qualche giorno prima del voto potrebbe arrivare la notizia che nel 2017, ancora una volta, il governo italiano ha mancato la promessa di iniziare a ridurre il rapporto debito/Pil.

Secondo le stime ufficiali, nel 2017, per la prima volta da dieci anni, il rapporto debito/Pil comincerà a scendere, sia pure in misura irrisoria, dal 132.6% al 132.5%. Ma se guardiamo gli ultimi dati del Pil, pubblicati dall’Istat, e gli ultimi dati del debito, pubblicati dalla Banca d’Italia, il quadro che ci si presenta è assai poco rassicurante.

Nel corso del 2017 il Pil nominale, che è quello che conta ai fini del calcolo del rapporto debito/Pil, dovrebbe registrare una crescita compresa fra il 2.1 e il 2.2%. Questo è il parametro chiave per capire se, nel 2017, il rapporto debito/Pil scenderà come promesso, o continuerà a salire come temuto: se, quando la Banca d’Italia comunicherà i dati del debito al 31 dicembre 2017, il debito stesso sarà salito meno del 2.1% rispetto all’anno precedente, il rapporto debito/Pil risulterà in discesa, e il ministro Padoan potrà giustamente esultare per aver mantenuto la promessa di ridurlo; se, viceversa, il debito sarà cresciuto più del 2.2% ancora una volta dovremo constatare che i governi si impegnano a ridurre il debito ma poi, invariabilmente, si accorgono di non esserci riusciti.

Ebbene, qual è la dinamica del debito pubblico dell’Italia nel 2017? L’ultimo dato disponibile è relativo a ottobre 2017 e, per quel che se ne sa, non include ancora tutti gli esborsi per i salvataggi bancari. Ebbene la tendenza a ottobre, rispetto a 12 mesi prima (ottobre 2016), segna +2.9%, dunque ben oltre la soglia del 2.2%; la tendenza a settembre è ancora più preoccupante: +3.2%; quella di agosto è +2.5%, e solo nei mesi precedenti si colloca al di sotto del 2%. Se consideriamo la media degli ultimi tre mesi, la tendenza del debito è a crescere del 2.9%. Una deriva preoccupante, iniziata nei primi mesi dell’anno: fra febbraio e settembre del 2017 la velocità di crescita del debito è sempre aumentata, passando dall’1.1% di febbraio al 3.2% di settembre.

Che dire?

Forse, semplicemente, che l’Italia avrebbe fatto meglio, in questi anni, a non sprecare il dividendo dell’euro e, soprattutto, i benefici del Quantitative Easing, che ci hanno permesso, di pagare interessi sempre minori sul debito pubblico. Se, anziché disperdere risorse preziose in benefici elettorali, avessimo cominciato a ridurre la montagna del debito, magari avviando finalmente qualcuna delle tante privatizzazioni messe in agenda e mai attuate, oggi il voto del 4 marzo ci si presenterebbe con un volto meno minaccioso.

Articolo uscito sul numero di Panorama dell’11 gennaio 2018



Due tipi di italiani

Secondo i sondaggi, gli italiani intenzionati a recarsi alle urne si aggirano intorno al 60%, mentre quelli intenzionati a votare Pd, il principale partito di governo, sono più o meno il 15% del corpo elettorale (e il 25% dei votanti). Sempre secondo i sondaggi, il consenso nei confronti di Gentiloni e del suo governo sfiora il 50%, un dato che, a oltre un anno dal suo insediamento, non può certo essere attribuito all’effetto “luna di miele”, ovvero al surplus di popolarità che di norma beneficia i governi appena insediati. A quanto pare il premier trae il suo consenso un po’ da tutti i segmenti della società italiana: dagli elettori del Pd, ovviamente, ma anche da chi pensa di votare altri partiti, o di non votare affatto.

Sono dati che fanno riflettere. Come è possibile che esista una divaricazione così grande fra il consenso al governo e quello al partito di governo?

Conosco la risposta che, istintivamente, siamo portati a fornire: il problema è il fattore R, o fattore Renzi. Bombardati, intontiti ed esausti dalle esternazioni di Renzi e dei suoi, agli italiani non par vero di potere, finalmente, sbadigliare un po’ davanti ai discorsi di un premier che parla lentamente, misura le parole, azzecca i congiuntivi, e soprattutto non offende nessuno.

C’è del vero, probabilmente, in questa diagnosi, ma forse di questi tempi ci sono anche altri meccanismi all’opera. La mia impressione è che si stia formando una sorta di divaricazione fra due segmenti di elettorato, sempre presenti sulla scena italiana ma ora particolarmente distanti l’uno dall’altro.

Che cosa li distingue?

Secondo me essenzialmente l’attitudine verso la demagogia, un tratto del discorso politico spesso erroneamente confuso con il populismo (la demagogia contagia anche i partiti non poco o per niente populisti). In questa stagione politica, resa confusa dall’emergere, per la prima volta in Italia, di un sistema tripolare, gli elettori tendono a polarizzarsi fra due atteggiamenti mentali contrapposti.

Una parte dell’elettorato ha estremamente chiaro chi è il nemico, e per sconfiggerlo è pronta a seguire chiunque prometta di farlo. Per questo segmento, forse maggioritario, quel che conta è che gli “altri” non vincano, e il voto assume spesso una forte valenza espressiva, o identitaria. Se si sceglie una determinata forza politica non è perché si pensa che potrà mettere in atto il suo programma, ma semplicemente perché questo gesto permette di dire qualcosa di sé stessi: chi si è, da che parte si sta, per quali principi si combatte. Di qui un’importante conseguenza: anche se ci si accorge perfettamente dei fiumi di demagogia che affliggono la propria parte politica, li si digerisce abbastanza serenamente, perché l’imperativo categorico è battere l’avversario o, se preferite, sopraffare la demagogia altrui. Questa credo sia la ragione per cui, nonostante lo spudorato e universale ricorso alla demagogia, tutte le forze politiche conservano uno zoccolo di consenso non trascurabile.

C’è un’altra parte dell’elettorato, molto eterogenea, che è insofferente per la demagogia, capisce perfettamente che nessuno, ma proprio nessuno, manterrà le promesse, e per questo motivo è tentata dal non voto, anche se poi alla fine, in diversi casi, un voto finisce per darlo, con le motivazioni individuali più diverse, compreso il “dovere” del voto. Questa, a mio parere, è la ragione principale della divaricazione fra la popolarità di Gentiloni e le intenzioni di voto per il partito di Renzi. L’elettorato insofferente per la demagogia apprezza il basso profilo scelto dagli esponenti del governo ma, per ora, stenta a riconoscere nel Pd un partito immune alla demagogia. Dove per demagogia non intendo solo le proposte chiaramente improvvisate (come l’abolizione del canone, o il salario minimo a 10 euro), ma il petulante racconto di successi che ogni persona non dico di buone letture, ma semplicemente dotata di senso comune, attribuisce senza esitazione alla ripresa economica europea e all’azione della Banca centrale.

Eppure, più che il populismo, credo che proprio il rapporto con la demagogia sia uno degli spartiacque fondamentali di questa stagione. Rispetto a questo spartiacque, ci sono forze politiche che hanno un posizionamento chiaro, e proprio da tale posizionamento ricavano linfa elettorale: è il caso della Lega e dei Cinque Stelle, in cui il ricorso alla demagogia non incontra alcun freno. Ci sono forze politiche in cui c’è una dialettica fra demagogia e realismo (è il caso delle piroette di Forza Italia sul Jobs Act, o sulla legge Fornero). E poi c’è il Pd, che a mio parere soffre di ambiguità proprio su questo punto, quello del rapporto con la demagogia. Troppo poco demagogico per attirare i consensi degli elettori più ideologizzati e radicali, che troveranno senz’altro nella ditta GrGr (Grillo e Grasso) un comodo approdo, lo è ancora troppo per portare dalla propria parte l’elettorato insofferente per la demagogia. Dove il “troppo” di cui parlo non sta tanto nella irrealizzabilità o pericolosità delle proposte (prima fra tutte l’idea di mantenere il deficit al 3% per cinque anni), quanto nella mancanza di sobrietà e realismo nel modo di raccontare questi anni, un tratto di “bullismo nella narrazione” che, a mio modesto parere, accomuna Renzi a Berlusconi, anch’egli incapace, a suo tempo, di stilare un bilancio appena plausibile dei propri anni di governo.

Peccato, perché, a giudicare dalla popolarità del premier, il segmento elettorale che apprezza la sobrietà e detesta la demagogia è tutt’altro che esiguo, e nessuna forza politica importante sembra interessata a farsene paladina fino in fondo. Per parte nostra, da qui al 4 marzo, cercheremo di dare voce a questa componente della società italiana, e di farlo nel modo più diretto: attraverso un’analisi impietosa delle promesse con cui i partiti si contendono il governo del Paese.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 13 gennaio 2017