Adesso pensiamo alla Povertà

Sono convinto che, alle prossime elezioni politiche, si parlerà soprattutto di tre cose: immigrazione, flat tax, reddito di cittadinanza.

I discorsi sull’immigrazione sono prevedibili. La destra chiederà di fermare il caos degli ingressi, la sinistra dirà che è difficile, e abbiamo il dovere dell’accoglienza. Il copione è quello di sempre, solo i numeri sono radicalmente diversi da quelli del passato.

I discorsi sulla flat tax (stessa aliquota per tutti i redditi), invece, sono meno prevedibili, perché estremamente tecnici. Quel che è prevedibile è che il grande pubblico non riuscirà a capire quali proposte stanno in piedi e quali no. La sinistra dirà che la flat tax è incostituzionale, la destra spiegherà perché non è vero che lo sia. Gli appassionati discuteranno se l’aliquota di equilibrio possa essere il 15%, il 20% o il 25%, ma alla fine, probabilmente, non se ne farà nulla.

Diverso il caso del terzo tema, quello del reddito di cittadinanza. Tutto fa pensare che di questo parleremo a lungo e appassionatamente, per due buoni motivi. Il primo è che qualsiasi proposta di sostegno del reddito suscita interesse e può essere spiegata in modo comprensibile. Il secondo è che il tema è decisamente attuale, se non altro perché diversi partiti (fra cui il Movimento Cinque Stelle) hanno depositato proposte di legge.

Ecco perché è importante capire esattamente di che cosa parleremo, senza farsi ingannare dalle parole. Naturalmente ciascuno è libero di chiamare le cose come vuole, ma – se ci si vuole capire – non è mai una buona idea quella di chiamare in modo eguale cose diverse, o chiamare in modo diverso cose eguali. Meglio attenersi al significato ordinario, e quindi più condiviso, delle parole. Ecco dunque un piccolo glossario.

Per reddito di cittadinanza, o reddito di base, si intende un reddito che è fornito a tutti i cittadini, senza condizioni, e permanentemente. Il reddito di cittadinanza è erogato agli individui, ed è del tutto indipendente dalle condizioni economiche o di lavoro del singolo o della sua famiglia. Lo prende Berlusconi e lo prende il clochard, lo prende il politico e lo prende l’operaio.

Le definizioni più dettagliate di che cosa si debba intendere per reddito di cittadinanza possono differire solo su due punti importanti: da che età lo si percepisce (nascita, maggiore età) e che cosa succede quando si raggiunge l’età della pensione.

La proposta di Grillo di un “reddito di cittadinanza”, come vedremo fra poco, non ha nulla a che fare con il reddito di cittadinanza vero e proprio.

Per reddito minimo, o reddito minimo garantito, si intende invece un reddito riservato a quanti si trovano sul mercato del lavoro e non raggiungono un livello di reddito sufficiente per vivere. La differenza principale con il reddito di cittadinanza è che per usufruire del reddito minimo occorre essere poveri (a livello individuale o familiare) e disponibili ad accettare proposte di lavoro o di formazione. A qualche forma di reddito minimo possono accedere i disoccupati e i sottoccupati, ma non casalinghe, studenti, e più in generale quanti, pur abili al lavoro e in condizione di povertà, non sono disposti ad accettare offerte di lavoro.

La proposta di Grillo di reddito di cittadinanza è, in buona sostanza, una proposta di reddito minimo garantito, anche se con alcune peculiarità.

Il reddito di cittadinanza non esiste in alcun paese del mondo, salvo l’Alaska in cui tuttavia quel che c’è non è un vero reddito di cittadinanza ma un bonus dell’ordine di 150 dollari al mese, largamente al di sotto della soglia di povertà.

Forme di reddito minimo esistono invece in tutti i paesi dell’Unione Europea, salvo la Grecia e l’Italia.

Quel che esiste nel nostro paese è una miriade di forme di sostegno del reddito, che tuttavia sono del tutto prive del requisito dell’universalità, in quanto riservate a specifiche categorie di persone individuate su base lavorativa, settoriale, residenziale, sanitaria. Nel loro insieme queste misure, a differenza di quelle previste dal reddito minimo, non sono sufficienti a proteggere gli individui e le famiglie dal rischio di cadere al di sotto della soglia di povertà. Possiamo chiamare reddito sub-minimo il sistema di sussidi previsto in paesi come l’Italia e la Grecia.

Le differenze fra reddito di cittadinanza e reddito minimo sono almeno tre. La prima è il costo dell’erogazione: in un paese come l’Italia qualsiasi forma di vero reddito di cittadinanza costerebbe circa 300 miliardi e sfascerebbe i conti dello Stato, mentre l’introduzione di qualche tipo di reddito minimo costerebbe fra i 10 e i 20 miliardi (la versione del Movimento Cinque Stelle ne costa 16). La seconda differenza è il costo di gestione: il reddito di cittadinanza, non essendo soggetto a verifiche di alcun tipo, ha un costo di gestione irrisorio, il reddito minimo ha un costo di gestione molto alto, perché inevitabilmente fa crescere un apparato di controlli, funzionari pubblici, scuole di formazione, centri per l’impiego che, rischi di corruzione e abusi di potere a parte, assorbe una frazione notevole delle risorse destinate al reddito minimo. Chi vuol farsi un’idea di quel che può succedere quando un apparato pubblico si occupa del nostro (presunto) benessere può vedere il film di Ken Loach, Io, David Blake, che puntualmente descrive le storture e le aberrazioni dei centri per l’impiego inglesi.

La differenza più importante, tuttavia, è la terza, ed è di natura filosofica. L’idea implicita nel reddito di cittadinanza, ossia di introiti fissi, permanenti e intoccabili, è di sottrarre la scelta di lavorare o meno a calcoli sui sussidi che si potrebbero acquisire o perdere a seconda delle proprie scelte lavorative. Il problema è che il reddito di cittadinanza costa troppo, mentre quello minimo porta inevitabilmente a extra-costi burocratici, nonché a innumerevoli storture e inefficienze.

La sfida è trovare un meccanismo che costi come il reddito minimo, ma funzioni in modo automatico come il reddito di cittadinanza. Sfortunatamente né la proposta Cinque Stelle, che è una proposta di reddito minimo iper-burocratica, né le misure varate dal Governo Renzi, che sono semplici misure di reddito sub-minimo, rispondono all’obiettivo che le politiche contro la povertà dovrebbero porsi: sradicare la povertà, farlo senza alimentare sprechi e comportamenti opportunistici.

Pubblicato su Panorama il 19 gennaio 2017



Troppi soldi spesi male: tutto da rifare

Puntuale come un orologio svizzero, la manovra correttiva è arrivata. Non ci voleva molto a prevederlo, e infatti in molti l’avevano prevista, beccandosi puntualmente l’accusa di essere dei “gufi”.

Ma vediamo in che cosa consisterà e perché ci siamo arrivati. Di per sé non si tratta di grandi cifre: circa 3 miliardi e mezzo, pari allo 0.2% del Pil, più o meno un decimo di una vera manovra finznaziaria “lacrime e sangue”, tipo la manovra da 90 mila miliardi (di lire) del governo Amato nel 1992.

Secondo le cifre circolate nei giorni scorsi la manovra, che il governo – per ora – si è ben guardato dal tradurre in precisi provvedimenti di legge, consisterà di cinque provvedimenti.

Primo. Un aumento del prezzo dei tabacchi, che potrebbe valere 100 o 200 milioni.

Secondo. Aumento delle accise sui carburanti, con un incasso di circa 1.4 miliardi.

Terzo. Eliminazione di benefici fiscali (per meno di 100 milioni).

Quarto. Le solite, immancabili, “misure anti-evasione”, per un incasso previsto di 1 miliardo.

Quinto. Tagli ai consumi intermedi della Pubblica Amministrazione (quasi 800 milioni).

Come si vede, quasi l’80% sono aumenti di tasse, e solo una piccola parte (poco più del 20%) sono riduzioni di spese.  E’ un classico, specie con i governi di centro-sinistra: le spese non si possono ridurre, perché sono il cuore della macchina del consenso, e allora si aumentano le tasse, in modo più o meno mascherato. Né deve trarre in inganno la retorica della “lotta all’evasione”. Di per sé la lotta all’evasione, se riscuote quel che si prefigge di riscuotere (1 miliardo, in questa circostanza), costituisce un aumento della pressione fiscale, che resta invariata solo se i proventi della lotta all’evasione vengono usati per ridurre le aliquote che gravano sui contribuenti onesti e non per rimpinguare le casse dello Stato.

Ma perché siamo arrivati a questo punto? Perché il governo si è trovato, o meglio si è ritrovato ancora una volta, a dover spegnere precipitosamente l’incendio dello spread, tornato ad avvicinarsi perigliosamente ai 200 punti base?

La storia di come ci siamo arrivati è lunga, perché inizia fin dalla primavera del 2014. Allora Renzi stacca il primo grosso assegno cattura-consenso, quei 10 miliardi (all’anno) di riduzione Irpef con cui può erogare il bonus da 80 euro ai lavoratori dipendenti che guadagnano abbastanza da poter avvertire lo sgravio. Lì i conti pubblici subiscono il primo shock. La crescita ne beneficia pochissimo, come farà intendere (inascoltato) il vice-ministro Enrico Morando, che avrebbe preferito uno sgravio Irap, ben più incisivo sui conti delle imprese e quindi sugli investimenti. Così come ne beneficiano pochissimo (anzi niente) i veri poveri, esclusi dal provvedimento in quanto incapienti (per usufruire di uno sgravio fiscale bisogna pagare le tasse, e chi guadagna meno di 8000 euro l’anno non paga tasse, quindi non può beneficiare di alcuno sgravio).

Ma è solo il primo colpo. Dal 1° gennaio 2015 parte la decontribuzione per i neo- assunti a tempo indeterminato. Un provvedimento che costerà quasi altri 10 miliardi l’anno per 3 anni, e creerà pochissimi posti di lavoro aggiuntivi rispetto a quelli che si sarebbero creati comunque. La ragione è semplice: Renzi, che vuole (e avrà) il consenso convinto di Confindustria, intende alleggerire i costi salariali di tutte le imprese, anziché concentrare le risorse su quelle che aumentano l’occupazione, come gli suggeriscono, inascoltate, Susanna Camusso (Cgil) e Giorgia Meloni (Fratelli d’Italia), che a loro volta raccolgono una proposta della Fondazione David Hume (il “job Italia”, un contratto a costo zero per lo Stato, ancora più conveniente per le imprese, ma riservato a chi aumenta il livello di occupazione).

Accanto a questi provvedimenti, molto costosi per le finanze dello Stato, ne partono diversi altri di impatto minore ma, proprio perché numerosi, complessivamente piuttosto onerosi. Ad esempio il bonus bebé, il bonus giovani per la cultura (da molti speso in ben altro), le assunzioni nella scuola (nonostante i confronti internazionali da anni segnalino, per l’Italia, un rapporto insegnanti/allievi troppo alto).

Tutto ciò nei primi due anni del governo Renzi. C’è poi la fase due, quella che va dalla primavera del 2016 alla data del referendum. Qui la compulsione a spendere entra in una nuova fase: si tratta di mettere sul piatto tutte le risorse possibili per conquistare voti alla causa del “sì” (promesse di fondi a Regioni e Comuni, promesse di aumenti ai pensionati, piani di messa in sicurezza del territorio, delle scuole, delle zone terremotate, ecc.). Ma non si tratta solo di promettere, si tratta anche di nascondere. Nonostante i dissesti bancari siano noti da anni, e i nodi stiano venendo tragicamente al pettine, il governo preferisce temporeggiare, rimandando tutto a dopo il 4 dicembre. Mentre le reti televisive vengono inondate dalle esternazioni del duo Renzi-Boschi e dalle rassicurazioni del ministro dell’Economia, decine e decine di provvedimenti giacciono in Parlamento, e l’inerzia sul nodo bancario alza i costi delle operazioni di salvataggio future (come, sia pure a cose fatte, non mancherà di rimarcare Bini Smaghi in un’intervista alla Stampa).

Nel frattempo la verità sui conti pubblici comincia a farsi strada anche fra gli osservatori meno desiderosi di prenderne atto. Quel che si vedeva ad occhio nudo fin dall’inizio del 2016, e cioè che l’Italia non avrebbe mantenuto la solenne promessa renziana di ridurre il rapporto debito-pil nel 2016, ora lo vedono tutti. Il debito continua  a salire, non solo in assoluto, ma anche in rapporto al Pil, la pressione fiscale e la spesa pubblica corrente – decimale più, decimale meno – sono al livello cui Renzi le aveva ereditate da Letta, lo spread è ai massimi da tre anni. Le previsioni di crescita dell’Italia nel 2017 sono le peggiori dell’intera Unione Europea. E, come se non bastasse, il nostro governo non trova di meglio che addossare alla rigidità delle regole europee la propria incapacità di far ripartire la crescita. Come se le regole europee valessero solo per l’Italia, e i paesi europei che sono tornati a crescere (la maggior parte) ne fossero invece esentati.

C’è da stupirsi se i mercati sono tornati a non fidarsi dell’Italia?




Geografia del populismo in Europa

La crisi economica, il crollo delle ideologie, la pressione migratoria, gli scandali di corruzione non hanno fatto altro che allontanare gli elettori dai partiti tradizionali. Sempre più spesso la popolazione preferisce dare la propria fiducia a partiti definibili come “partiti di protesta”. La protesta può essere indirizzata verso le élite politiche o economiche, ma anche verso gli organismi sovranazionali colpevoli di aver indebolito le sovranità nazionali a discapito della popolazione.

Lo scopo di questo lavoro è fornire una mappa dei diversi movimenti anti- sistema che agitano l’Europa, valutandone il successo elettorale alle ultime elezioni europee nei 27 paesi dell’Unione. Sono state perciò analizzate le performance di tutti i partiti che hanno ottenuto almeno un seggio alle elezioni europee del 2009 o del 2014, e che presentano tratti euroscettici e/o populisti. Ci si è per questo basati su informazioni ricavate da studi precedenti o sui programmi elettorali pubblicati dai partiti.  Le diverse formazioni politiche sono state definite con due acronimi: ESP nel caso di partiti euroscettici e/o populisti ed ES&P nel caso di gruppi euroscettici e populisti.

Le elezioni europee sono il terreno su cui questi movimenti di protesta riescono, nella grande maggioranza dei casi, ad ottenere i risultati migliori. Da una parte perché i cittadini comunitari vedono le elezioni europee come elezioni di second’ordine. Ciò significa che votare per movimenti più estremisti viene considerato come assai meno rischioso rispetto a quanto succede alle politiche. Dall’altra parte il sistema elettorale adottato dalla stragrande maggioranza degli stati membri, il proporzionale, dà anche a gruppi più piccoli maggiori chance di ottenere una rappresentanza parlamentare.

La scelta di esaminare la performance elettorale alle consultazioni europee, (2014 e 2009) sia dei gruppi ES&P che dei partiti soltanto euroscettici o soltanto populisti, è stata fatta per sondare l’andamento e la consistenza di tutti quei gruppi che si pongono in qualche modo contro il sistema attuale. Di partiti populisti ce ne sono di vario tipo. Si va da movimenti di estrema destra come Alba Dorata (Laïkós Sýndesmos – Chrysí̱ Av̱gí̱) in Grecia, a partiti il cui populismo prende più che altro forma nel modo di fare propaganda come nel caso dell’Italia dei Valori di Di Pietro.

Anche la critica all’Europa ha diverse sfumature. C’è chi si batte per l’uscita del proprio paese dall’Unione, come ha fatto l’UKIP, e chi critica non tanto il progetto in sé ma ciò che è diventata oggi l’UE, come i Verdi Svedesi contrari alla centralizzazione decisionale portata avanti dalle istituzioni europee.

I gruppi più conosciuti dai media, come il Front National, l’UKIP, Podemos, SYRIZA, il Movimento 5 Stelle, sono ottimi esempi di partiti ESP, poiché al discorso populista di richiamo alla gente comune e di lotta contro le élite si unisce una forte carica critica nei confronti delle istituzioni europee. In Europa esistono anche partiti (non molti) che al discorso populista affiancano una certa eurofilia, come il movimento lettone di Alleanza Nazionale (Nacionālā apvienīb), partito populista e nazionalista che è oggi sostenitore dell’UE in chiave soprattutto anti-russa. D’altra parte esiste anche un gruppo di movimenti che si dichiarano critici nei confronti delle istituzioni comunitarie, ma che non possono essere definiti populisti. Ne è un esempio il partito slovacco Libertà e Solidarietà (SaS), movimento di centro-destra liberale che critica la troppa burocrazia presente nelle istituzioni comunitarie e si è opposto all’operazione di salvataggio della Grecia nel 2010.

Non sempre la posizione dei partiti o la loro natura sono chiare. I Conservatori inglesi sono realmente euroscettici o sono stati travolti dal loro stesso tentativo di arginare l’UKIP? Il movimento Ciudadanos della Catalogna, l’alternativa di centro a Podemos, è un gruppo populista?

Quando in un paese risultano presenti partiti di difficile collocazione, sono state proposte due diverse stime, una più restrittiva che considera soltanto quei movimenti di sicura natura euroscettica e/o populista e un’altra più inclusiva in cui rientrano anche i partiti dubbi.

Geografia del populismo.pdf




Il boom euroscettico e populista del 2009-2014

Questo lavoro è strettamente collegato al Dossier Geografia del populismo in Europa pubblicato su questo sito.

In quel lavoro veniva descritta sia la geografia delle forze politiche populiste ed euroscettiche (forze ESP) nei paesi dell’Unione europea, sia la loro dinamica fra il 2009 e il 2014, ossia nell’ultima legislatura del Parlamento Europeo.

Qui, invece, viene si cerca di spiegare l’avanzata delle forze ESP verificatasi nella maggior parte dei paesi europei fra il 2009 (anno peggiore della lunga crisi 2007-2016) e il 2014, anno delle ultime elezioni europee.

Sull’origine e le cause di tale avanzata, come noto, gli osservatori sono spesso divisi lungo fratture politico-idelogiche più che sulla base dell’adesione a teorie ben definite e empiricamente collaudate.

A destra prevale una lettura dell’avanzata populista come reazione alla dinamica incontrollata dei flussi migratori. A sinistra si preferisce attribuire l’avanzata delle forze populiste alle politiche di austerità adottate in molti paesi europei.

In questo contributo della Fondazione David Hume si preferisce affrontare il problema in una prospettiva empirista, ovvero sottoponendo le principali letture del fenomeno a controlli di natura matematico-statistica.

A questo scopo abbiamo preso in considerazione i 27 paesi Europei rappresentati nel Parlamento Europeo sia nel 2009 (quando al Croazia non era ancora entrata nell’Unione) sia nel 2014 e abbiano raccolto decine di variabili potenzialmente candidate a spiegare l’avanzata delle forze ESP. A partire da esse, variando la specificazione di alcune equazioni di regressione, abbiamo costruito diversi modelli esplicativi dell’avanzata delle forze ESP.

Determinanti del populismo.pdf




Eurofilia & euroscettici

Ci sono eventi che mostrano e amplificano le distanze tra popolazioni apparentemente vicine, come il rifiuto di ratificare la costituzione europea. Ci sono episodi che, al contrario, avvicinano cittadini e nazioni anche molto diversi, accomunati da uguali sensibilità o da comuni interessi rispetto a temi umanitari, ecologici e, soprattutto, economici: la Carta dei diritti di Nizza, i protocolli di Kyoto e la conferenza di Parigi sul clima o l’istituzione di una moneta unica europea1.

Ci sono poi accadimenti che impediscono ogni ragionamento, non si capiscono, al più si cum patiscono. Gli attentati terroristici di Parigi a gennaio (7/1, Charlie Hebdo) e novembre 2015 (13/11, Stadio, Bistrot e Teatro) – e, prima ancora, l’abbattimento dell’aereo di turisti russi in rientro dall’Egitto (31/10/2015), la carneficina sulla spiaggia di Susa (26/6/2015) e l’incursione al museo Bardo (18/3/2015) in Tunisia, le bombe negli stabilimenti turistici di Sharm El Sheik (23/7/2005), nella metropolitana di Londra (7/7/2005) o alla stazione di Madrid (11/3/2004) – creano un clima emotivo condiviso di sgomento, tristezza e paura. E’ l’empatia verso le vittime, che sono come noi, anzi siamo noi. La sensazione di avere un destino comune, o meglio, un nemico comune da cui difendersi può unire i cittadini più di qualsiasi accordo economico o abolizione di frontiere. È quanto sta accadendo a tutto l’occidente, e alle nazioni filo-occidentali, dall’11 settembre 2001 e che gli ultimi attentati europei hanno ribadito con forza. Quale via razionale prenderà l’onda emotiva conseguente agli attentati lo scopriremo effettivamente nei prossimi mesi e anni. Certamente prevarrà un qualche accordo contro l’Isis, ma come il recente passato (forse nemmeno così passato) della guerra in Iraq e in Afghanistan ci insegna, questo assunto difensivo, oltre a conseguenze difficilmente prevedibili proprio in termini di sicurezza e sviluppo del terrorismo, con buone probabilità creerà un’alleanza a intensità variabile, con governi e opinioni pubbliche più interventiste e, viceversa, nazioni e cittadini refrattari all’intervento militare, al più inclini a sostenere o non ostacolare le operazioni militari altrui. Anche perché intervenire significa investire nella guerra anziché, ad esempio, nello stato sociale, e bombardare implica avere la garanzia di diventare uno dei bersagli prioritari del terrorismo, argomento di non poco conto per i cittadini, soprattutto per quelli che si apprestano a vivere il Giubileo dei popoli voluto da Papa Francesco.

D’altronde, gli ultimi accadimenti hanno soltanto evidenziato quanto, per ragioni storiche, politiche e persino geografiche, il livello di nazionalismo dei popoli dell’Unione sia molto diverso. Prima degli ultimi attentati c’era chi progettava muri per fermare le ondate di immigrati dall’Africa e dal Medioriente e, viceversa, chi chiedeva politiche e azioni integrate a livello europeo per gestire quanto ormai accade da anni nel Mediterraneo. Ai militari, medici e semplici civili che da anni raccolgono naufraghi, e purtroppo cadaveri, nei nostri mari la recente proposta di candidare il sindaco di Lampedusa al Nobel per la pace non sarà sembrata una provocazione peregrina, come può invece aver pensato qualche Presidente o Primo ministro del centro-nord Europa.

Oggi sono nuovamente a tema le libertà politiche e civili negli stati membri dell’Unione. Quanto siamo disponibili ad estenderle ad altri? A chi? A quanti? Inoltre, all’interno dell’Unione qualcuno possiede libertà politiche e civili da circa un secolo ed è disposto a sacrificarle per avere maggiore protezione, mentre altri le rivendicano con orgoglio e ostentata sicurezza in opposizione a chi le vorrebbe negate, e altri ancora hanno iniziato davvero ad assaporarle da appena qualche decennio. Riusciremo a far collimare queste profonde divergenze culturali, che con meno ipocrisia possiamo riconoscere come vere e proprie differenze identitarie?

Questo Dossier è stato concepito, ben prima degli ultimi tragici eventi di Parigi, su una domanda fondamentale: Quanto è unita l’Unione Europea?

Anche abbandonate le risposte congetturali in favore di quelle basate sui dati, si può rispondere a questo interrogativo in molti modi, proprio perché è molto (troppo) generale. Nel Dossier si è deciso di specificarlo in tre sottodomande più puntuali, che ne chiariscono le finalità conoscitive: L’Unione Europea è un patchwork di nazioni cucite assieme seppure difficilmente conciliabili? Ossia, quanto sono dissimili oggi le nazioni che compongono l’Unione?

Lungo il processo di costituzione e allargamento, l’Unione Europea è stata vissuta come un rischio, un’opportunità o una strada obbligata?

Quanto i cittadini delle varie nazioni che la compongono sentono di appartenere all’Unione? E cioè quanto, oltre ad essere lituani, portoghesi, svedesi, croati, italiani, ecc., si sentono cittadini europei? Nel Dossier si è deciso di rispondere ai tre quesiti combinando dati ufficiali e dati di sondaggio, scegliendo nell’ormai imponente universo di database disponibili sui paesi europei.

Eurofilia e euroscettici.pdf