La scomparsa della compassione: da spettatori a populisti

La prima guerra della mia vita è stata una serata trascorsa a guardare la televisione sorseggiando birra fresca.

Ogni volta che lo dico o lo scrivo, qualcuno s’indigna. Ma l’oscenità è nelle cose, prima ancora di essere nell’occhio di chi guarda. E il trionfo dell’estetica oscena su quella tragica si consumò precisamente nella notte tra il 17 e il 18 gennaio del 1991 quando, per la prima volta nella storia dell’umanità, lo scoppio di una guerra – con un bombardamento devastante sulla popolazione di Baghdad – fu trasmesso in diretta televisiva. Io, allora, avevo vent’anni e – citando Nizan – non permetterò a nessuno di dire che è la più bella età della vita.

Dopo quella notte, infatti, la condizione di spettatore della distruzione dell’uomo e del mondo è divenuta, per la mia generazione, progressivamente e inesorabilmente, una postura esistenziale e un’attitudine (im)politica. A partire da quel momento, per effetto della comunicazione digitale globale in tempo reale – prima in tv e poi su internet – essere spettatori del disastro ha smesso di essere l’eccezionale condizioni di pochi per divenire una sorta di nuova, oscena condizione umana. Tutti noi siamo stati, giorno dopo giorno, per anni e decenni, testimoni alieni, inerti e apatici, dell’afflizione inferta dall’uomo all’uomo e del dolore, straniero, che provoca. Giù per questa china si è prodotto un sovvertimento della nozione novecentesca di testimone: nello spettacolo tele-visivo della morte e distruzione altrui, il nesso tra testimonianza ed esperienza è stato reciso e il testimone ha smesso di essere associato al destino di colui di cui testimonia. Giù per questa china si è prodotto anche il più importante mutamento dei fondamenti dell’esistere umano nella storia: la riformulazione del differenziale antropologico riguardo alla violenza. A furia di consumare quotidianamente, attraverso i media, scene di violenza estrema nell’impertinenza esperienziale della distinzione tra realtà e finzione, la struttura voyeuristica dello sguardo osceno ci attira verso la posizione, tutta esteriore, dello spettatore anche rispetto alla violenza reale. E rischia di condurci alla indifferenziazione tra vittima e carnefice agli occhi dello spettatore. Fino a ieri, infatti, il differenziale antropologico fondamentale per l’esperienza della crudeltà umana era quello che separava la vittima dal carnefice, oggi tende invece a essere quello che separa la coppia vittima-carnefice, su di un versante dello schermo, dallo spettatore sul versante opposto. Da un lato quelli che infliggono e subiscono la crudeltà, dall’altro quelli che la guardano in tv.

Al termine di questo processo di degenerazione, la postura inerte, apatico e anomica dello spettatore diviene la norma comportamentale anche al cospetto di eventuali casi di violenza prossima e reale e di fronte alla nostra stessa esistenza in quanto cittadini di una comunità politica. Se ci capita di imbatterci in un pestaggio a morte dentro una discoteca o in un attacco terroristico, invece di soccorrere o contrattaccare, ci limitiamo ad alzare tra noi e l’evento lo schermo di uno smartphone per ripristinare al più presto la condizione abituale del telespettatore.

Viviamo, dunque, in un mondo osceno. Viviamo nel tempo dell’oscenità trionfante. Ciò che va perduto in questo tempo è la compassione, ciò che viene espulso da questo mondo è la pietà. Con essa si smarrisce anche la agency politica. L’esistenza che quotidianamente conduciamo nella casa di vetro della trasparenza mediatica è un’esistenza spietata. Spietata ma inerte, impotente.

Violenza e sesso. Sesso e violenza. Entrambi i fondamentali antropologici della nostra “parte maledetta”, se sottoposti ad analisi, dimostrano alla nostra triste scienza questa amara verità.

E’ più facile vederlo riguardo alla violenza. La rivoluzione tecnologica dei media elettronici ci ha messo nella condizione storicamente inaudita di poter assistere immediatamente e continuamente a scene terminali di violenza estrema che annientano vite che non sono la nostra. Da molto tempo, guerre, assassini, catastrofi, cataclismi sono il nostro pasto quotidiano, la nostra abituale dieta mediatica. Ci gonfiamo, così, in una obesità cinica. Ingolfati da questa sugna d’immagini truculente, perdiamo la basilare capacità umanistica di immedesimarci nella sofferenza altrui e, su questa base, di agire di conseguenza.

E’ una drammatizzazione della vita senza tragicità. Quando nella rappresentazione della morte altrui viene meno l’interdetto che nella tragedia greca proibiva di portare in scena il momento cruento, la catarsi, la purificazione dei nostri sentimenti di pietà e terrore, diventa impossibile. In platea rimangono solo passioni impure: sollievo egoistico, godimento perverso, paura onanistica. Nel paesaggio mediatico contemporaneo il tragico è stato sostituito dall’osceno, da ciò che dovrebbe rimanere “fuori dalla scena” (etimologia fasulla ma rivelatrice). Ben presto, noi umani che abitiamo il mediascape di fine millennio ci siamo trasformati in animali anfibi, capaci di vivere simultaneamente in due ambienti opposti: all’asciutto del nostro mondo pacifico e protetto ma anche immersi nella palude insanguinata dalle vittime di apocalissi lontane. La nostra mente incallita, la nostra pelle squamata si sono presto dimostrate impermeabili a entrambi gli ambienti. La crudeltà, scrisse qualcuno, è mancanza d’immaginazione. Vale non solo per la crudeltà inflitta ma anche per quella consumata attraverso i media: non distogliamo lo sguardo dalla sofferenza altrui, non invochiamo il proverbiale velo pietoso perché non siamo più capaci d’immaginarci di essere lui. Alla fine, anche quando e se tocca a noi, ci scopriamo incapaci di qualsiasi reazione che non sia l’emozione futile e caduca del telespettatore.

Solo così si spiega l’inerzia civile e politica in cui ricade l’Europa dopo ogni attacco terroristico sferrato, con cadenza periodica, dall’estremismo islamico.

Perfino riguardo alla violenza terroristica noi siamo, infatti, quasi sempre nella posizione dello spettatore. La nostra inettitudine all’azione politica violenta fa sì che, di fronte all’unica forma reale di brutalità che aggredisca sistematicamente il nostro ambiente sociale, quella dell’islamismo radicale, riusciamo, in apparenza, solo ad assumere l’identità simbolica della vittima, che in verità nasconde la terzietà neutrale del telespettatore. Il medio-oriente islamico è scosso da fenomeni di disintegrazione nazionale apparentabili ai nostri, solo che da quelle parti generazioni cresciute nella guerra rispondono con la violenza terroristica, dalle nostre parti generazioni cresciute in 60 anni di pace e in 30 di consumo televisivo della sofferenza altrui reagiscono con un violento ritiro della delega politica all’establishment che equivale al gesto, al tempo stesso sdegnato e annoiato, di chi cambi canale di fronte a un programma sgradito.

Questo è l’unico aspetto violentemente attivo del nuovo populismo: la brutale, impersuadibile, apocalittica determinazione nel rigetto delle vecchie classi dirigenti, autrici di un palinsesto sfinito. Trump ha affermato che non avrebbe perso uno dei suoi voti nemmeno se avesse aperto il fuoco sulla quinta strada. Aveva ragione. Il suo elettorato è non violento ma la sua ripulsa lo è. In Francia il sovranismo rinunciatario di Marine Le Pen non chiede di riconquistare l’Algeria ma di rigettare l’Europa e di uscire dalla Nato, in Olanda Geert Wilders si richiama all’eredità di un leader anti-islamista e xenofobo ma omosessuale dichiarato, progressista e assassinato da una fanatico (Pim Fortuyn), in Italia tutto si può imputare ai partiti anti-sistema tranne la conquista violenta del potere.

Il populismo reattivo, il sovranismo remissivo, l’accidia post-televisiva. La loro sola violenza è quella del conato di vomito. Rigetto radicale del presente in assenza di un’affermazione dirompente del futuro. Con questa novità dobbiamo fare i conti.

 




Dal fisco alla scuola/Tre domande per la destra di governo che verrà

Anche se nessun partito ha ancora presentato un programma elettorale preciso, ormai un’idea me la sono fatta. All’appuntamento di marzo, quando saremo chiamati alle urne, la sinistra si presenterà, inevitabilmente, come la paladina e la garante della continuità. In un modo o nell’altro, è al governo da sei anni, e da quasi quattro, ossia da quando Renzi ne ha conquistato il comando, governa sostanzialmente da sola, con condizionamenti minimi da parte dei cespugli che circondano il Pd. E’ dunque verosimile che, alle urne, si presenti chiedendo agli italiani di consentirle di continuare il lavoro fatto da Renzi e Gentiloni. Se siamo stati così bravi fin qui, perché cambiare?  Molto difficile che, prima del voto, il Pd attui quella svolta a sinistra (ma sarebbe più esatto dire: quel ritorno al passato), che scissionisti e nostalgici invocano quotidianamente.

Il Movimento Cinque Stelle si presenterà nel registro opposto, come l’unica garanzia di un cambiamento vero, come l’unica forza che – essendo nuova e non avendo mai governato (o meglio: avendo governato in modo controverso a Roma, Torino e qualche altro comune) – può davvero cambiare il Paese. E cercherà di convincere gli italiani a votarlo soprattutto con la proposta di un (assai generoso) reddito minimo garantito, che si ostinerà a chiamare “reddito di cittadinanza”, che suona meno assistenziale.

Il vero rebus, per me, è la destra. Intanto perché, a destra, a differenza che altrove, siamo in presenza di tre partiti e non di uno solo: Forza Italia e la Lega stanno in prossimità del 15%, Fratelli d’Italia sta ormai stabilmente intorno al 5%, ben oltre ogni ragionevole soglia di sbarramento. Ma soprattutto per un altro motivo: il programma politico dell’alleanza che si va profilando fra i tre partiti di destra non è affatto chiaro. E non lo è non già su quisquilie e pinzillacchere, ma su almeno tre punti fondamentali.

Il fisco, innanzitutto. Sia Salvini sia Berlusconi parlano di flat tax, ovvero di un’unica aliquota sul valore aggiunto (IVA), per il reddito personale e per il reddito di impresa.

Ma per Salvini l’aliquota unica deve essere al 15%, per Berlusconi al 23% (una differenza enorme, sul piano macroeconomico). Entrambe le proposte sono al di sotto del 25%, ossia dell’aliquota proposta dall’Istituto Bruno Leoni, probabilmente il think tank più liberal-liberista che vi sia in Italia. E notate che l’aliquota unica proposta dal Bruno Leoni, molto efficacemente e dettagliatamente spiegata da Nicola Rossi in un denso volumetto di qualche mese fa (Venticinque% per tutti, IBL Libri), è già stata considerata irrealistica (troppo bassa) da qualificati studiosi di questioni fiscali. A destra si pensa che Salvini e Berlusconi troveranno un punto di equilibrio (20%?), ma la vera questione non è a che livello si metteranno d’accordo i due principali partiti del centro-destra, ma in che modo si possa attuare un programma così audace nell’orizzonte di una legislatura. Perché si fa presto a dire riduciamo il perimetro della Pubblica Amministrazione, combattiamo gli sprechi, facciamo la spending review: quando si arriva al dunque, nessuno riesce a chiudere gli enti inutili, nessuno riesce a liberarsi del personale in eccesso, nessuno riesce a privatizzare quel che andrebbe privatizzato, e la soluzione che mette d’accordo tutti i governi, di destra e di sinistra, è da 10 anni sempre la stessa: liberarsi dei commissari alla spending review.

Il secondo punto poco chiaro è quello del contrasto alla povertà, un dramma che continua a perdurare e anzi si è ancora (leggermente) aggravato negli ultimi tempi. Qui quel che si vorrebbe capire è se il centro-destra pensa sul serio di introdurre un’imposta negativa sul reddito (nel qual caso farebbe bene a spiegare innanzitutto che cos’è, visto che non tutti hanno studiato Milton Friedman e Friedrich von Hayek). E, se sì, su quali basi, con quali risorse, e destinata a chi. Giusto per ricordare qualche nodo: l’esistenza di prezzi molto diversi fra Nord e Sud rende iniqua un’imposta basata sul reddito nominale; aggredire la povertà costerebbe almeno 10 miliardi; quasi il 40% dei poveri è costituito da immigrati.

Un terzo punto che meriterebbe di essere chiarito è quello della sicurezza e dell’immigrazione irregolare. Se non ci fosse Minniti, la linea del centro-destra sarebbe scontata: stop alle politiche di accoglienza indiscriminata (e disordinata) attuate fino a pochi mesi fa. Ma adesso c’è Minniti che quelle politiche le ha già cambiate parecchio. Quindi la domanda diventa un’altra: fareste come Minniti? O fareste di più, o cose diverse? E se la risposta fosse quest’ultima, quali cose fareste fra quelle che si possono effettivamente fare, al di là dei facili slogan di una campagna elettorale? Come affrontereste il problema degli alloggi popolari abusivamente occupati da italiani non meno che da stranieri?

Ci sarebbe poi un punto ulteriore, che però non riguarda specificamente la destra, ma un po’ tutte le forze politiche: sulla scuola, e più in generale sul mondo dell’istruzione, che cosa possiamo aspettarci dal prossimo governo?

Perché almeno un paio di cose sono chiare, per chi ha occhi per vedere. La prima è che l’alternanza scuola-lavoro ha presentato forti “criticità”, per usare un eufemismo caro alla politica. Un peccato per gli studenti, ma forse anche un’occasione sprecata per le imprese, che potrebbero dare molto di più ai giovani (e a sé stesse) se fossero messe in condizione di fare della vera formazione sul posto di lavoro. La seconda è che l’abbassamento degli standard, in atto in tutti gli ordini di scuola da almeno mezzo secolo, non accenna a interrompersi. Nessun governo degli ultimi 50 anni ha mai fatto qualcosa per fermare questa deriva, e quasi tutti hanno molto operato per accelerarla.

Non sarebbe ora che almeno una forza politica si decidesse, non dico a combinare qualcosa di buono, ma almeno a riconoscere il problema?

Pubblicato su Il Messaggero il 21 ottobre 2017



Fallita la Terza via/Dopo 10 anni al Pd serve una nuova identità

Oggi è il 14 ottobre 2017. Esattamente dieci anni fa, il 14 ottobre 2007, veniva fondato il Partito democratico, che sceglieva come suo primo segretario Walter Veltroni (76% dei consensi, 3 milioni e mezzo di voti).

Il partito nasceva, essenzialmente, dal matrimonio tardivo di Ds e Margherita, due formazioni politiche a loro volta in ritardo sulla storia: i Ds sono stati l’ultima mutazione della tradizione comunista, travolta dalla caduta del muro di Berlino (1989); la Margherita è stata l’ultima mutazione della tradizione e democristiana, travolta dalle inchieste di Mani pulite (1992). Da allora si sono succeduti in tutto 5 segretari, due di matrice comunista (Veltroni e Bersani), due di matrice democristiana (Franceschini e Renzi), uno di matrice socialista (Epifani).

E’ un matrimonio riuscito quello che ha generato il Pd? O invece il progetto di un partito liberal-socialista, lucidamente delineato da Michele Salvati nei primi anni 2000, deve essere considerato fallito? E qual è stato il ruolo di Renzi in questa storia durata dieci anni?

Sappiamo che le risposte a queste domande costituiscono uno dei principali elementi di divisione a sinistra. C’è chi, come Piero Fassino (fresco autore di Pd davvero, La Nave di Teseo 2017), pensa che il progetto non sia affatto fallito, ma sia largamente incompiuto. E c’è chi, come i nemici di Renzi e del renzismo, da Bersani a Pisapia, da Fratoianni a D’Alema, pensano che Renzi sia la sciagura che ha distrutto il giocattolo.

Se vogliamo valutare quel che è successo in questi 10 anni, tuttavia, forse è meglio distogliere per un attimo lo sguardo dal piccolo recinto della politica italiana, e provare a collocare la storia del Pd nel più ampio teatro europeo. Ebbene, se facciamo questa operazione di spostamento, è difficile non accorgersi di alcune circostanze.

Primo. La sinistra tradizionale, ovvero i partiti socialisti, socialdemocratici, laburisti, sono in crisi in quasi tutte le democrazie occidentali (eccetto nel Regno Unito), e spesso sono ampiamente superati da forze di sinistra alternative ad essi. In Spagna i socialisti sono al 23%, in Germania i socialdemocratici sono al 20%, in Francia i socialisti sono al 7%: anche trascurando il successo alle Europee del 2014 (40.8%), il consenso al Partito democratico (intorno al 27%) si situa nettamente al di sopra dei valori dei partiti cugini in Europa.

Secondo. Fatto 100 il consenso a tutte le forze di sinistra, il Pd ne cattura tra l’80 e il 90%, una quota che, nel continente europeo, non viene neppure lontanamente avvicinata da alcun partito socialista o socialdemocratico. In Germania i socialdemocratici pesano per il 53%, in Spagna per il 49%, in Francia per il 26% (per non parlare della Grecia, dove sono ridotti al 13% dello schieramento di sinistra). Insomma: noi ci lasciamo impressionare dalle tempeste in un bicchier d’acqua di casa nostra, ma la realtà è che negli altri paesi la sinistra è molto più divisa, e il partito che tradizionalmente l’ha rappresentata è molto più in difficoltà di quanto lo sia il Pd in Italia. A quanto pare la “fusione fredda” fra comunisti e democristiani ha avuto l’effetto di sopprimere ogni reale concorrenza a sinistra.

Terzo. La sinistra tradizionale è in crisi quasi ovunque, in Europa. Su questo gli scissionisti di casa nostra hanno ragione. Ma la domanda cruciale è: perché la sinistra è in crisi? E che cosa può fare per uscire dalla sua crisi?

A me sembra che la risposta alla prima domanda sia abbastanza semplice: la sinistra è in crisi perché il modello della Terza via non ha funzionato, come del resto ha da tempo riconosciuto il suo maggiore teorico, il sociologo britannico Anthony Giddens. La sfortuna del Partito democratico è stata di nascere nel 2007, ossia l’esatto istante in cui la crisi (appena scoppiata negli USA, con la bolla dei mutui subprime) stava per mandare in frantumi i sogni riformisti degli anni ’90, quando i vari Clinton, Blair, Schröder, Prodi, D’Alema, Veltroni scommisero sul cocktail mercato-riforme-meritocrazia.  E’ allora che, sulla scena del mondo, la competizione fra destra e sinistra divenne una competizione fra due modi solo marginalmente diversi di gestire il mercato. Un cambiamento che, già in un libro del 1996, il politologo Marco Revelli aveva bollato polemicamente con la formula delle “due destre”, entrambe persuase delle virtù del mercato (Le due destre, Boringhieri 1996).

Ora, con milioni di disoccupati, e una crescita che è ripartita in alcuni paesi ma non in altri, la storia presenta il conto innanzitutto ai partiti che la globalizzazione avevano pensato di poterla governare, indirizzandola verso esisti egualitari. L’elettorato non perdona ai partiti socialisti e socialdemocratici di aver tradito le loro promesse: più occupazione, più stato sociale, più diritti. Anche per questo si rivolge ai partiti populisti, di destra, di sinistra e di centro, che quelle domande di protezione hanno mostrato di saperle prendere estremamente sul serio.

In questo quadro, l’anomalia dell’Italia è la seguente. Nel Pd ha prevalso l’anima modernizzatrice e mercatista della Margherita, di cui Renzi è stato un efficace interprete. Nonostante innumerevoli errori, di contenuto e di atteggiamento, non si può negare a Renzi il merito di aver perfezionato la modernizzazione del Pd, che ha deposto o attenuato alcuni dei tratti più discutibili della cultura di sinistra: immobilismo, consociativismo, complesso dei migliori, subalternità ai sindacati e alla magistratura. Il punto, però, è che quella modernizzazione non è stata un’improvvisa trovata del “ragazzo di Rignano”, ma era stata avviata, fin dagli anni ’90, dalle correnti riformiste dei post-comunisti, a partire da D’Alema e Bersani. Se il Pd è diventato quel che oggi è, non è certo perché Renzi lo ha snaturato, ma perché Renzi ha impresso un po’ più di velocità a un processo che altri, a sinistra, avevano avviato ben prima di lui, e ben prima della nascita del Pd.

Ecco perché le critiche degli scissionisti suonano oggi leggermente surreali. Il mondo che si muove alla sinistra del Pd ha perfettamente ragione a far notare che certi conti non tornano (a partire da quelli della disoccupazione e della povertà), ma è poco credibile quando sembra suggerire che, quei problemi, potrebbe risolverli un ritorno alle politiche del passato, ai bei vecchi cari tempi in cui l’economia mondiale tirava, e quella italiana cresceva trainata dal debito.

Se una critica si può ragionevolmente fare al Pd non è certo di non saper tornare risolutamente al passato, come vorrebbero i suoi critici nostalgici, ma di non saper guardare al futuro. Dove “guardare al futuro” significa prendere atto senza troppi giri di parole che la Terza via, quella su cui avevano puntato tutte le loro carte i fondatori del Pd, è sostanzialmente fallita, e che si tratta di inventarne un’altra (una Quarta via?), che sappia fare i conti con le sfide della globalizzazione, dell’automazione, delle migrazioni di massa.

Pubblicato su Il Messaggero  il 14 Ottobre 2017



La sinistra e l’identità/Antifascismo e ius soli due capriole all’indietro

Ci sono, nella vita, segni abbastanza inequivocabili: se hai 40 di febbre c’è, nel tuo corpo, qualcosa che non va. Anche in politica ci sono segni piuttosto chiari: se, nell’anno di grazia 2017, in occidente, un partito di destra rispolvera l’anticomunismo, vuol dire che non sta troppo bene. Non perché il comunismo non sia un’ideologia nefasta, che ha prodotto decine di milioni di morti, e tolto la libertà a un paio di miliardi di abitanti di questo pianeta. Ma per una ragione molto semplice: il comunismo non è, attualmente, nei paesi occidentali, una minaccia concreta all’ordine democratico.

Lo stesso discorso vale per i partiti di sinistra: se un partito di sinistra, oggi, in un paese occidentale, rispolvera l’antifascismo, vuol dire che non sta troppo bene. Di nuovo, non perché il fascismo non sia a sua volta un’ideologia nefasta. Ma per la stessa ragione di prima, perché il fascismo non è una minaccia attuale: non ha senso prendere un vaccino contro una malattia che non c’è più.

Eppure, a pochi mesi dalle elezioni, il principale partito della sinistra proprio questo sta facendo: con la legge Fiano, già passata alla Camera e in procinto di passare al Senato, intende rendere ancora più severe le norme che già impediscono, non solo la ricostituzione del partito fascista, ma la propaganda delle idee del fascismo (legge Scelba, del 1952; legge Mancino, del 1993). D’ora in poi, se la legge dovesse essere approvata, saranno punibili (da 6 mesi a 2 anni di carcere) persino il saluto romano, la vendita e la diffusione di immagini e gadget reminiscenti del passato regime; il tutto con pene aumentate se il canale di diffusione è internet.

Eppure il Pd dovrebbe sapere che le norme proposte sono a palese rischio di incostituzionalità, in quanto in contrasto con l’articolo 21 della Costituzione: “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”. Soprattutto dovrebbe sapere che, sul punto, la Corte Costituzionale si è già espressa ripetutamente in passato, chiarendo che la possibilità di perseguire la manifestazione del pensiero e la propaganda di matrice fascista vige solo se sussiste un pericolo concreto per le istituzioni democratiche. Un orientamento che, peraltro, non è solo della suprema corte italiana ma anche della giurisprudenza tedesca riguardo al passato nazista. Non tutti sanno che, da più di mezzo secolo (dal 1964), esiste in Germania un minuscolo partito, la NPD, che, a differenza della temutissima Alternative für Deutschland di Alice Weidel, si richiama esplicitamente ai valori del passato nazista. Ebbene, nonostante ciò, la Corte Costituzionale tedesca ha sempre respinto le richieste di metterlo fuori legge, in quanto per sciogliere un partito non basta che esso persegua obiettivi incostituzionali ma occorre che costituisca una minaccia concreta per le istituzioni democratiche.

Un requisito, questo della concretezza della minaccia, che oggi pare più facile rinvenire in determinate espressioni del fondamentalismo islamico, che non nelle spiagge che esibiscono il ritratto di Mussolini (che paiono esistere, ma di cui non ho avuto esperienza diretta), o nelle case del popolo in cui troneggia il ritratto di Stalin. Anni fa mi è capitato di ammirare un ritratto di “Baffone” nella casa del popolo di un delizioso paesino del Levante ligure, ma non mi sono mai sognato di invocarne la rimozione: perché vietare a dei vecchi comunisti di venerare il loro eroe? In fondo, la loro ammirazione per un dittatore è già di per sé uno spot contro il comunismo, e un potente segno della superiorità della civiltà liberale.

Ecco perché mi chiedo: come mai il Pd si è imbarcato in un’avventura tanto fuori tempo? Quali sono le ragioni che spingono un partito, che sul tema se ne è stato quieto quieto per un’intera legislatura, a rispolverare improvvisamente la clava dell’antifascismo?

La prima risposta che viene in mente è che, sfortunatamente, sui temi che interessano davvero i ceti popolari, ovvero lavoro e sicurezza, la sinistra ha ormai poco da dire. Il reddito di inclusione è poca cosa rispetto alla dimensione che, in questi 10 anni, hanno raggiunto la povertà e la disoccupazione. Vorrei ricordare che, se l’occupazione è quasi tornata ai livelli pre-crisi, è solo perché 1 milione di nuovi posti di lavoro conquistati dagli immigrati hanno compensato altrettanti posti di lavoro persi dagli italiani, che ancor oggi sono ben al di sotto dei livelli occupazionali pre-crisi. Quanto alla sicurezza, l’altro grande tema che sta a cuore ai ceti popolari, il bilancio di questa legislatura è drammatico: mai gli sbarchi hanno toccato i livelli del quadriennio 2013-2016, mai la macchina dell’accoglienza ha operato in tanto disordine. Ecco perché, se deve dire che cosa ha fatto o ha tentato di fare, la sinistra è costretta a snocciolare il rosario dei temi leggeri, ossia di quegli interventi – talora sacrosanti, talora discutibili o illiberali – che Marx avrebbe definito “sovrastrutturali”: testamento biologico, femminicidio, reato di tortura, codice anti-mafia, doppio cognome, eccetera. A quanto pare l’identità della sinistra è così fragile sulle cose che contano, da costringerla a continue trasfusioni di sangue identitario dal vasto universo dei temi che infiammano solo le élite e i ceti medi.

C’è però anche un’altra risposta, non incompatibile con la prima. Il Pd, nonostante tenti faticosamente di cambiare, resta un partito i cui militanti (ma vale anche per non pochi elettori), hanno un pessimo rapporto con il senso comune. Mi è già capitato di ricordare l’incredibile lapidazione morale subita da dirigenti che, recentemente, hanno adottato posizioni di puro buon senso: Deborah Serracchiani, che dice che lo stupro compiuto da un ospite è particolarmente riprovevole; il sindaco di Firenze Dario Nardella, che mette in guardia gli studenti americani dai pericoli della movida; o il ministro Marco Minniti, che pone fine alla politica dell’accoglienza senza regole e senza limiti.

Ora a questa catena di reprobi, la cui unica colpa è di non aver completamente rinunciato a ragionare come le persone normali, si aggiunge Giorgio Gori, sindaco di Bergamo, reo di aver respinto la richiesta di togliere la cittadinanza onoraria a Mussolini, conferitagli nel lontano 1924. Una posizione che non deriva certo da simpatie fasciste (Gori è iscritto a Pd) ma dalla capacità di distinguere fra la storia, di cui il fascismo e i suoi simboli fanno parte (esattamente come il comunismo e i suoi miti), e i conflitti politici dell’oggi. Conflitti che una sinistra un po’ più attenta alle richieste dei ceti subordinati, duramente provati dalla crisi e dalla globalizzazione, renderebbe assai più concreti e utili al Paese.

Ma forse la risposta vera, quella che rende conto della strana tempistica del neo-antifascismo del Pd, va ricercata nelle difficoltà che la sinistra incontra a far passare la legge sullo ius soli anche al Senato. Che cosa c’entra lo ius soli con l’antifascismo? Niente, per le persone normali. Ma può c’entrare se alla sinistra riesce di far passare la difesa degli immigrati come una battaglia antifascista. Un’eventualità che in realtà si sta già delineando. Visto che Casa Pound e diverse formazioni di destra sono impegnate in una battaglia contro lo ius soli, ecco pronta e servita su un piatto d’argento l’opportunità di cui la sinistra ha più che mai bisogno: impedire che la gente pensi che la destra ormai se ne fa un baffo del fascismo e si occupa di temi ben più attuali, come immigrazione e sicurezza, e far credere al proprio elettorato che anche lo ius soli rientri nella eterna e imprescindibile lotta contro il fascismo e i suoi rigurgiti.

Pubblicato su Il Messaggero  il 7 Ottobre 2017



Noi e l’Europa/L’illusione che Macron ci salvi dalla Merkel

Il parziale insuccesso di Angela Merkel e la netta avanzata di Alternative für Deutschland (AfD), partito nazionalista anti-immigrati, sembra aver suscitato, in Italia, due reazioni opposte. Al di là della preoccupazione per l’avanzata di una forza radicalmente anti-europea, valutazione che accomuna la maggior parte delle forze politiche (con le importanti eccezioni di Lega e Fratelli d’Italia), il vero punto di frattura fra gli osservatori sono le conseguenze economiche del voto tedesco.

Per alcuni l’indebolimento della Merkel comporterà la fine dell’egemonia franco-tedesca sull’Europa, e lascerà più gradi di libertà a paesi come la Francia e l’Italia, specie in materia di deficit pubblico. Per altri è invece possibile che l’ingresso al governo dei liberali renda ancora più severe le politiche seguite fin qui, non solo in termini di flessibilità, ma anche in materie come la politica monetaria (fine del Quantitative Easing) o le regole bancarie (minori possibilità, per le banche, di detenere titoli di Stato di paesi altamente indebitati). I primi sperano che Macron faccia da argine alla Merkel facendoci passarea ad “un’Europa plurale”, i secondi temono che ad avere la meglio sia ancora una volta la cancelliera tedesca, con conseguente rafforzamento delle politiche di rigore care al ministro Schäuble.

Ma è fondata l’idea che Macron possa fare da argine alla Merkel?

Per certi versi sì, perché in effetti, come ha giustamente rilevato Lucrezia Reichlin qualche giorno fa, i punti di vista dei due paesi sulla politica economica europea non collimano. La Francia vede di buon grado un accrescimento delle risorse a disposizione delle autorità sovranazionali per attuare politiche di stabilizzazione, la Germania pensa a un accrescimento del potere di sorveglianza, se non di ingerenza, sulle politiche nazionali, troppo sbilanciate dal lato della spesa.

Per altri versi, invece, penso che gli entusiasti dell’europeismo anti-tedesco di Macron si illudano. E lo penso per una ragione molto semplice: a suo tempo mi è capitato di leggere Rivoluzione, il libro in cui Emmanuel Macron enunciava il suo programma, uscito nel 2016 in Francia, e tradotto quest’anno in Italia (La Nave di Teseo, 2017). Di quel libro, la cosa che più mi aveva colpito, sul piano politico, è il modo in cui il futuro presidente della Repubblica francese parlava della Germania. Un modo estremamente rispettoso dell’alleato tedesco, e assolutamente autocritico riguardo alle scelte passate della Francia. Lungi dall’immaginare un futuro braccio di ferro con la Merkel, Macron delinea una vera e propria politica dei due tempi, in cui l’autoriforma della Francia precede ogni richiesta alla Germania, e anzi ne è la condizione di legittimità:

“Se vogliamo convincere i nostri partner tedeschi ad andare avanti, il nostro compito primario sarà quello di riformarci. Oggi la Germania è attendista, e boccia molti progetti europei perché non ha fiducia in noi”. E tale sfiducia, spiega Macron, è perfettamente giustificata, perché noi francesi (ma il medesimo discorso potrebbe essere fatto per l’Italia), la fiducia della Germania “l’abbiamo tradita almeno tre volte: nel 2003-2004 impegnandoci a introdurre riforme di fondo che solo i tedeschi hanno poi condotto; nel 2007 bloccando unilateralmente l’agenda di riduzione della spesa pubblica che avevamo stabilito insieme; e ancora nel 2013 guadagnando tempo senza poi concludere nulla di concreto”.

Di qui un impegno: “nell’estate 2017 presenteremo la strategia delle riforme di modernizzazione del paese e il piano quinquennale di riduzione delle spese correnti, provvedendo senza indugio alla loro attuazione”.

E’ solo a questo punto del ragionamento che Macron introduce la visione francese del futuro dell’Europa: “in cambio chiederemo ai tedeschi di procedere a una vera riprogrammazione di bilancio. Essi dovranno concordare con noi sull’idea di un bilancio dell’eurozona, nonché sull’autorizzazione di futuri investimenti nel complesso dei paesi dell’eurozona”.

Come si vede siamo lontanissimi dal registro vittimistico che accomuna tutto l’arco delle forze politiche nostrane. Nessuna richiesta di aumentare il deficit, nessuna accusa all’Europa di essere l’origine dei guai francesi, nessuna giaculatoria sulla flessibilità di bilancio.

Chi plaude a Macron e lo vede come il contrappeso al potere della Merkel forse dovrebbe riflettere. Si può pensare che la rigidità tedesca sia l’origine principale dei guai italiani (io non lo penso). Ma immaginare che sia Macron a tirarci fuori dai nostri guai ammorbidendo la politica della Germania mi pare decisamente azzardato. Perché, giusta o sbagliata che sia l’impostazione dei problemi europei che egli ha enunciato nel suo libro-manifesto, quella è una visione da uomo di Stato. Precisamente la materia prima che scarseggia in Italia.

Pubblicato su Il Messaggero il 30 settembre 2017