La verità sulla crescita dell’occupazione in Italia

Luca Ricolfi  sul «Messaggero» di oggi riconosce che il numero totale di occupati in Italia ha avuto una crescita importante dal 2013 al 2016. Ma, per provare la sua tesi che non è detto che il Jobs Act abbia avuto rilevanti effetti positivi, egli aggiunge che il numero totale di occupati in Italia è cresciuto assai meno che negli altri grandi Paesi europei. La conclusione di Ricolfi è ingannevole: non perché dice una cosa falsa, ma perché racconta solo una parte della verità. Ciò è facilmente dimostrabile affidandoci ai dati ufficiali Eurostat.

Il numero totale di occupati, tra il 2013 e il 2016, è cresciuto del 2% in Italia, 1,3% in Francia, 6,3% Spagna, 3,1% Germania, 5,6% Regno Unito. Quindi è vero: l’occupazione da noi è cresciuta meno che altrove. Ma se si vuol tracciare una valutazione seria degli effetti delle riforme del lavoro realizzate nel nostro Paese, non è corretto fornire solo questo dato. Questo dato va paragonato a quanto è cresciuto il pil reale dei vari Paesi nel periodo considerato: tra il 2013 e il 2016 il pil reale è salito del 2,1% in Italia, 3,2% Francia, 8,3% Spagna, 5,7% Germania, 7,4% Regno Unito.

Confrontando queste due serie di dati, emerge chiaramente un fatto di non poco conto: l’Italia è di gran lunga, tra i grandi Paesi europei, quello col miglior rapporto tra crescita del pil reale e crescita dell’occupazione. In altri termini, il “contenuto occupazionale della crescita” è stato da noi più alto che negli altri Paesi esaminati. Perché è stato più alto? Perché, è evidente, le riforme del mercato del lavoro fatte hanno dato risultati significativi, pur in presenza di una crescita del pil ancora contenuta.

Certo, siamo ancora indietro, specialmente per quanto riguarda la crescita (su cui pesano fortemente l’elevato debito pubblico e l’alto carico fiscale che di esso è conseguenza) e il tasso di occupazione giovanile (da noi è il 60%, in Francia 75%, Spagna 68%, Germania 80%, Regno Unito 82%). Pertanto è indubbio che resta tantissimo da fare. Ma, se si vuol dare un giudizio equo sulle riforme del lavoro degli ultimi anni, l’andamento del contenuto occupazionale della crescita è una variabile da cui non si può prescindere.

La risposta di Luca Ricolfi all’Onorevole Parrini

Grazie, innanzitutto, per le sue riflessioni, sicuramente utili per arricchire la discussione sul mercato del lavoro.

Lei ha perfettamente ragione a sottolineare che non conta solo quanti posti di lavoro nuovi si formano, ma anche quanto è grande il loro “contenuto occupazionale”. Da questo punto di vista l’Italia ha fatto meglio di quasi tutti gli altri paesi europei: solo la Grecia ha fatto ancora meglio di noi.

La Grecia?

Sì, proprio la Grecia. Questo dovrebbe fare riflettere sul significato dell’indicatore che lei propone di utilizzare. Il numero di posti di lavoro (o di ore lavorate) per unità di Pil, infatti, non è altro che l’inverso della produttività del sistema-paese. Un paese che aumenta il “contenuto occupazionale” del Pil sta semplicemente riducendo la sua produttività.

        Fonte: elaborazioni FDH su dati Oecd

Come si può vedere dal grafico qui sopra, l’intensità di lavoro e la produttività del lavoro sono semplicemente le due facce, speculari ed entrambe veritiere, della medesima medaglia: se aumenta l’una non può che diminuire l’altra, e viceversa.

Naturalmente possiamo discutere (è una vecchia ma sempre attuale controversia) se sia meglio una crescita ad alto o a basso contenuto di occupazione, ma il problema, a mio parere, si pone in modo effettivo solo per i paesi che, avendo una crescita della produttività elevata (o quantomeno vicina alla media degli altri paesi), possono scegliere se puntare le loro carte su politiche di sostegno dell’occupazione o su politiche che promuovano la competitività sui mercati internazionali.

La mia opinione è che, sfortunatamente, l’Italia non possa permettersi di scegliere: siamo, insieme al Belgio, l’unico paese avanzato la cui produttività ristagna da vent’anni.  E questo è, insieme a quello del debito pubblico, uno dei problemi capitali del sistema-Italia. Ecco perché, pur rallegrandoci dei nuovi posti di lavoro, non possiamo considerare una buona notizia il fatto che la dinamica dell’occupazione ecceda quella del Pil.

La buona notizia sarebbe che, pur crescendo i posti di lavoro a un ritmo soddisfacente, il Pil crescesse a un ritmo ancora maggiore, rafforzando la nostra competitività.

 

 

 




Occupazione: cosa è imputabile alla riforma e cosa no

L’ultimo articolo di Luca Ricolfi sugli effetti della riforma del lavoro del 2015 costituisce un contributo prezioso, su di un tema spinoso, all’innalzamento del livello di un dibattito fin qui pesantemente inquinato sia dalla faziosità, sia da un uso dei dati statistici, da tutte le parti in contesa, per il quale l’aggettivo “grossolano” è un eufemismo. In questo dibattito in un paio di occasioni ho commesso anch’io, involontariamente, un errore nella lettura del dato statistico sul numero dei nuovi rapporti di lavoro stabili e di quelli a termine, creati nell’ultimo triennio: è vero che i primi sono più numerosi dei secondi, ma ha ragione Luca Ricolfi quando osserva che essi sono in percentuale inferiore rispetto allo stock che si registrava all’inizio del triennio, determinandosi così una sua sia pur modesta riduzione.

Detto questo, propongo di arricchire il quadro statistico fornito e illustrato da Luca Ricolfi con due dati ulteriori, che mi paiono importanti per una valutazione degli effetti della riforma: due dati entrambi sorprendenti, resi ancor più sorprendenti se considerati congiuntamente. Il primo è quello che vede una sostanziale invarianza, negli ultimi anni, del numero dei licenziamenti in rapporto al numero dei contratti di lavoro a tempo indeterminato in essere, siano essi costituiti prima dell’entrata in vigore della riforma del 2015, o dopo: un dato che obbliga a una riflessione approfondita sul peso relativo che hanno la legge da un lato, dall’altro la cultura diffusa e le relazioni sindacali, nel determinare i comportamenti degli imprenditori e in particolare la loro propensione all’esercizio della facoltà di recedere dal rapporto con i dipendenti. Parrebbe che una riduzione incisiva del vincolo al recesso produca, almeno nel breve periodo, un mutamento del comportamento degli imprenditori molto meno rilevante di quanto ci si sarebbe atteso. Resta da chiedersi se e quanto su questo mancato effetto della riforma pesi la volatilità del dato legislativo e in particolare il rischio di una controriforma a seguito delle prossime elezioni politiche, oppure a opera della Corte costituzionale; e se un mutamento più rilevante debba attendersi nel medio periodo, se la riforma supererà indenne questi due scogli.

Il secondo dato sorprendente, apparentemente contraddittorio rispetto al primo, è quello che dà conto della drastica riduzione del contenzioso giudiziale registratasi fra il 2012 – anno nel quale è entrata in vigore una prima parte della riforma dei licenziamenti e dei contratti a termine – e la metà del 2017. I dati forniti dal ministero della Giustizia consentono di quantificare questa riduzione intorno ai due terzi. Gli stessi dati dicono, per converso, che questa riduzione si sta verificando soltanto nel settore del lavoro privato: in quello del pubblico impiego, dove né la riforma del 2012 né quella del 2015 hanno avuto applicazione, il flusso dei nuovi procedimenti iscritti a ruolo resta sostanzialmente invariato. Il che autorizza a ipotizzare, in attesa di verifiche rigorose, che siano proprio quelle due riforme la causa del fenomeno osservato.

Fonte pietroichino.it

La riduzione del tasso di contenzioso giudiziale costituisce un fatto di grande rilievo, non solo per l’amministrazione della Giustizia, ma anche e soprattutto per il sistema delle relazioni industriali; e indirettamente anche per l’efficienza del sistema economico nel suo complesso. Il tasso di contenzioso giudiziale italiano in materia di lavoro costituiva un’anomalia negativa, nel panorama europeo: solo in Italia la regola era che ogni licenziamento fosse accompagnato da un ricorso al giudice del lavoro e che dunque il severance cost per entrambe le parti fosse normalmente appesantito dalle spese legali e dall’alea di un giudizio sulla quale pesa sempre molto l’orientamento personale del magistrato. Solo in Italia avvocati e giudici erano di fatto protagonisti di primaria importanza del sistema delle relazioni industriali.

Il fatto che quell’anomalia stia avviandosi a essere superata, in parallelo con l’allineamento del nostro diritto del lavoro rispetto allo standard prevalente nei grandi Paesi occidentali, costituisce un progresso non disprezzabile nella direzione di una maggiore attrattività dell’Italia per gli investitori stranieri. Che è la precondizione, insieme alla riduzione del debito pubblico e dunque della pressione fiscale, per quella crescita economica senza la quale non può crescere né il potere contrattuale né il benessere dei lavoratori.

Quanto al fatto che il superamento di quell’anomalia non si accompagni a un aumento della frequenza dei licenziamenti, esso ci autorizza forse a ritenere che l’unica categoria in qualche misura danneggiata dalla riforma dei licenziamenti del 2012-2015 sia quella degli avvocati giuslavoristi. Esso dovrebbe comunque convincere anche chi ha a cuore sopra ogni altra cosa la sicurezza e il benessere dei lavoratori dipendenti regolari dell’opportunità che la riforma del lavoro non venga manomessa prima che si siano potuti verificare in modo rigoroso e valutare pragmaticamente i suoi effetti.




Mercato del lavoro, l’eredità della crisi

Come spesso succede nei divorzi fra coniugi, anche nell’imminente, e a quanto pare ineluttabile, divorzio fra il Pd e le tre sigle della Sinistra Purosangue (Mdp, Si, Possibile), le ragioni vere, le ragioni ultime della separazione, non si conoscono con certezza: antipatie personali? disaccordi sulla suddivisione dei seggi in Parlamento? dissensi politici sui programmi?

Una cosa però la sappiamo con sicurezza: le ragioni dichiarate, quelle che riempiono i telegiornali e le pagine dei quotidiani, vertono essenzialmente sul mercato del lavoro. La Sinistra Purosangue attacca frontalmente le politiche occupazionali di questi anni, a partire dal Jobs Act; il Pd non solo non si sogna di rinnegare quelle politiche, ma attribuisce ad esse il merito di aver creato un milione di posti di lavoro.

Temo che nessuna di queste due posizioni regga a un’analisi fredda. Tuttavia penso che vi sia un’asimmetria: il punto debole della Sinistra Purosangue sono le proposte, quasi tutte penalizzanti per le imprese e melanconicamente ispirate a un mondo che non c’è più; il punto debole della sinistra riformista, invece, è la descrizione, il racconto di questi anni. Un racconto che, con il comprensibile obiettivo di difendere quel che si è fatto, rischia di non vedere né quel che realmente è accaduto, né quel che si sarebbe potuto fare, di più e di meglio.

Che cosa è accaduto, fra il 2014 e oggi?

Sì, è vero, i posti di lavoro dipendente sono aumentati di circa 1 milione. Ma questo non prova che ciò sia avvenuto grazie alle politiche del governo: senza un’analisi statistica accurata, che al momento manca (e probabilmente è inattuabile, con i dati di cui si dispone), si potrebbe altrettanto bene sostenere che il merito è della ripresa dell’economia europea, che a sua volta sarebbe merito della Bce e del Quantitative Easing. Giusto qualche giorno fa Draghi è sembrato dire proprio questo, quando ha messo in relazione la politica monetaria e i 7 milioni di nuovi posti di lavoro creati nell’Eurozona negli ultimi 4 anni.  E se proprio volessimo farci un’idea, rozza e approssimativa, degli eventuali meriti delle politiche attuate in Italia, quel che dovremmo fare non è certo confrontare gli ultimi quattro anni (di lenta ripresa) con i precedenti quattro (di crisi profonda), ma semmai chiederci come è andata nel resto d’Europa. Ebbene, se lo facciamo, il risultato è desolante: fra il 2013 e il 2016 gli occupati sono cresciuti del 2.2% in Italia, ma del 3.8% (quasi il doppio) in Europa. A fronte del +2.2% dell’Italia, la Francia ha fatto +2.7, la Germania +3.9%, il Regno Unito +5.2, la Spagna: +6.9. Solo 8 paesi (fra cui Grecia e Cipro) hanno fatto peggio di noi, mentre ben 24 su 33 hanno fatto meglio.

Fonte dati Eurostat-Elaborazioni Fondazione David Hume

Se poi andiamo a vedere la composizione di questi nuovi posti di lavoro, il quadro si fa ancora più allarmante. Il tasso di occupazione precaria era all’11% a metà degli anni ’90, è cresciuto di un paio di punti nel ventennio successivo, ma poi, in soli tre anni, fra il 2014 e il 2017, ha fatto un ulteriore balzo di altri 2 punti: oggi è al massimo storico, oltre la soglia del 15%. E questo record si mantiene anche se teniamo conto della riduzione del numero delle collaborazioni, ossia del tipo di contratti che il Jobs Act e la decontribuzione si preoccupavano di disincentivare.

Fonte dati ISTAT-Elaborazioni Fondazione David Hume

Questo dato sembra contrastare con le cifre che vengono spesso presentate a difesa delle politiche di questi anni, cifre da cui risulta che l’incremento di posti di lavoro è equidistribuito: mezzo milione di posti di lavoro permanenti (stabili), mezzo milione di posti di lavoro temporanei (precari). Ma è una trappola statistica, e non è un buon argomento a favore delle politiche che si vogliono difendere. La realtà è che il tasso di occupazione precaria in Italia, anche dopo i record negativi macinati nel triennio 2015-2016-2017, resta relativamente contenuto: il 15% è più o meno la media europea, un dato analogo a quello della Germania, e migliore di quelli di Francia e Spagna.

Fonte dati Eurostat-Elaborazioni Fondazione David Hume

Ma un paese che ha “solo” il 15% di lavoratori a termine, se vuole evitare che il tasso di precarietà salga, è costretto ad assumere a tempo indeterminato almeno l’85% dei nuovi dipendenti. Se ne assume a tempo indeterminato solo il 50%, inevitabilmente registrerà un aumento del tasso di occupazione precaria. Ecco perché hanno ragione sia quanti si rallegrano che metà dei nuovi posti di lavoro siano stabili, sia quanti deplorano che il tasso di precarietà sia in continua ascesa.

Parlando di record negativi, ce n’è purtroppo anche un altro che abbiamo conquistato in questi anni: nel 2016 l’Italia è diventata il paese con il tasso occupazione giovanile più basso d’Europa. E’ vero che è da molti anni che siamo agli ultimi posti, ma non era mai successo che fossimo il fanalino di coda.

Fonte dati Eurostat-Elaborazioni Fondazione David Hume

Quanto al tasso di occupazione complessivo, nonostante i progressi degli ultimi anni, siamo ancora al di sotto dei livelli pre-crisi, ma anche qui è importante distinguere: il tasso di occupazione degli italiani è ancora sotto di un punto, quello degli stranieri di quasi 10. E questo non perché gli stranieri abbiano conquistato più posti degli italiani, ma per la ragione opposta: nel decennio della crisi gli italiani hanno perso più di 1 milione di posti di lavoro, gli stranieri ne hanno conquistati quasi 800 mila, ma il loro tasso di occupazione è crollato lo stesso perché l’afflusso di stranieri è stato eccessivo rispetto alle capacità di assorbimento del mercato del lavoro.

Fonte dati Istat-Elaborazioni Fondazione David Hume

Qual è il bilancio, dunque?

Se proviamo a sgombrare il campo dalle controversie ideologiche mi pare piuttosto semplice. In questi ultimi quattro anni, sul versante del lavoro, le cose sono andate meglio di prima, ma peggio che nella maggior parte degli altri paesi europei. Ed è normale che sia così, perché noi non abbiamo ancora risolto il problema del debito pubblico (che anzi si è un po’ aggravato), né rimosso le grandi strozzature, tasse e burocrazia innanzitutto, che impediscono al Pil di crescere a un ritmo sufficiente. Possiamo fare tutte le leggi che vogliamo per regolare o deregolare il mercato del lavoro, ma il problema di fondo resta sempre quello: se il Pil non cresce almeno a un ritmo del 2-3% l’anno, è impossibile garantire sia un flusso cospicuo di nuovi posti di lavoro, unico modo sano di dare un po’ di ossigeno alle famiglie, sia un aumento della produttività, unico modo per essere competitivi sui mercati internazionali. Anche il problema del tasso di precarietà dipende in modo cruciale dalla dinamica del Pil: finché il Pil ristagna, o cresce poco, è normale che le imprese temano che la domanda che oggi c’è domani non ci sia più, e si cautelino con i contratti a termine. Pensare che il trend si possa invertire aumentando i vincoli e i costi delle imprese è semplicemente ingenuo.

Questo, mettere le imprese in grado di creare posti di lavoro, tanti nuovi posti di lavoro, è il nodo vero. Ma è un nodo che, in quanto passa per una significativa riduzione del debito pubblico, nessuna forza politica è in grado di affrontare sul serio.

Pubblicato su Il Messaggero



La battaglia delle tasse

Un tempo era l’Irpef. Negli anni ’90 la sinistra si preoccupava di ridisegnare la curva delle aliquote dell’imposta sulle persone fisiche. Poi vennero Berlusconi e il suo “Contratto con gli italiani”, che al primo punto prometteva due sole aliquote Irpef, una al 23%, l’altra al 33%. E poi venne Renzi, che nel dubbio fra ridurre l’Irap o ridurre l’Irpef, alla fine scelse l’Irpef anche lui: meglio mettere 80 euro in busta paga ai ceti medio-bassi che alleggerire le tasse sulle imprese (Irap e Ires).

Oggi la stagione dell’Irpef, vista come imposta super-star da cui tutto dipende, sembra perdere un po’ dello smalto di un tempo. Un po’ perché tutte le forze politiche si stanno rendendo conto che è sul sistema fiscale e contributivo nel suo insieme che occorre agire, anziché su una singola imposta. Ma un po’, anche, perché le uniche proposte abbastanza precise in campo sono quelle basate su qualche forma di flat tax, o “aliquota unica”, che tenderebbe a unificare, in tempi più o meno rapidi, le principali imposte vigenti, ovvero Irpef (persone), Iva (valore aggiunto), Ires (imposta sulle imprese), nonché le tasse sulle rendite finanziarie. Per non parlare di un ulteriore elemento che spinge verso un approccio sistemico: la crescente consapevolezza che il costo del lavoro è gravato, in Italia, da contributi sociali eccessivi, che fanno lievitare i costi delle imprese e scoraggiano le assunzioni.

In questo quadro in movimento, mi pare si stiano perdendo di vista alcuni elementi di criticità.

Il primo è che qualsiasi proposta di riduzione delle tasse che non abbia potenti coperture dal lato della spesa o da quello delle privatizzazioni significa solo, in buona sostanza, proseguire sul cammino su cui l’Italia è avviata dal lontano 1964, quando, per la prima volta dalla fine della seconda guerra mondiale, nel bilancio pubblico si aprirono le prime crepe: spostare l’onere dell’aggiustamento sulle generazioni future. Su questo l’unica forza politica che sembra avere le idee chiare (o, se preferite, che ha avuto l’onestà di dichiarare le proprie intenzioni) è il Pd: al partito di Renzi va bene fermare la discesa del rapporto deficit/Pil e riportarlo in prossimità del 3% per diversi anni, il che, in concreto, significa che a pagare i nuovi debiti che faremo saranno le future generazioni. Quanto al centro-destra e al Movimento Cinque Stelle è difficile decifrare le loro intenzioni, ma tutto fa pensare che, al momento buono, anch’essi cercheranno di ottenere dall’Europa il massimo della “flessibilità” possibile, dove la parla flessibilità è solo un eufemismo per più deficit e più debito pubblico.

Un secondo elemento di criticità è l’impatto della flat tax, ovvero di un’imposta unica su tutti i tipi di redditi. L’idea che essa sia incostituzionale (perché la nostra Carta fondamentale prevede la progressività) è una scempiaggine, dal momento che tutte le proposte di flat tax in campo sono progressive (grazie a no tax area, deduzioni, scaglioni, ecc.). Ma il timore che essa, in assenza di una adeguata emersione del sommerso, possa allargare la voragine del debito pubblico o costringere a tagli della spesa pubblica assai dolorosi, è tutt’altro che infondato.  Specie se, anziché adottare la già audace (ma ben articolata) proposta dell’Istituto Bruno Leoni, che prevede un’aliquota unica al 25%, ci si spingesse verso un’aliquota del 23% (Forza Italia) o addirittura del 15% (Lega).

Una terza criticità riguarda il sostegno delle famiglie al di sotto della soglia di povertà, un tema che non può essere eluso da una riforma complessiva del sistema fiscale. Ebbene su questo nessuna forza politica pare aver fatto i conti con un gravissimo problema di giustizia distributiva: calcolare la soglia di povertà in modo nominale, ovvero senza tenere conto del livello dei prezzi (più alto al Nord e nelle città), significa discriminare i poveri delle regioni settentrionali rispetto a quelli delle regioni meridionali, gli abitanti delle città a favore di quelli delle campagne. Fra le proposte in campo, mi pare che solo quella dell’Istituto Bruno Leoni prenda sul serio il problema, ma sfortunatamente il think tank guidato da Nicola Rossi e Alberto Mingardi non è una forza politica.

Ci sarebbe, infine, un’ultima criticità da segnalare. Le proposte fiscali, in Italia, sembrano avere un unico vero scopo: massimizzare il consenso di breve periodo. Non è sempre e ovunque così, nel resto delle economie avanzate. Paesi come gli Stati Uniti, il Regno Unito, la Francia, stanno puntano molto su una riduzione della pressione fiscale sui produttori, a partire dall’abbattimento dell’imposta societaria (Ires e Irap, nel nostro ordinamento). E lo stanno facendo per una ragione molto semplice: solo così, in un mondo in cui la concorrenza internazionale è sempre più agguerrita, possono pensare di attrarre investimenti esteri e dare una spinta significativa al Pil.

Credo che dovremmo pensarci anche noi, perché l’anomalia degli ultimi 20 anni è che il tasso di crescita del Pil e quello dell’occupazione sono rimasti sostanzialmente appaiati, un fatto che significa una cosa soltanto: la produttività media del sistema Italia è sostanzialmente ferma dalla fine degli anni ’90. Forse, anziché incentivare direttamente le assunzioni, dovremmo chiederci se non sarebbe meglio mettere le imprese nelle condizioni di crescere abbastanza in fretta da costringerle ad assumere. Il risultato, verosimilmente, non sarebbe solo una dinamica dell’occupazione più vivace, ma anche un aumento della quota di assunzioni a tempo indeterminato: che non dipende dalla benevolenza degli imprenditori, ma dalla ragionevole convinzione che domani si dovrà produrre più di oggi.

Pubblicato su Il Messaggero




Un paese elettorale in stallo

In attesa delle elezioni, questo è il tempo delle simulazioni. Lo so, mancano ancora molti elementi per poter fornire stime previsive un po’ più sensate. I confini dei collegi del Rosatellum non sono ancora definitivi; le alleanze di coalizione sono ancora lontane dall’essere decise; i candidati nei diversi collegi non sono ancora ovviamente noti; gli orientamenti di voto sembrano cambiare ormai molto rapidamente negli ultimi anni, talora in pochi mesi, e i mesi che ci separano dalle prossime consultazioni sono almeno tre o quattro. Dunque, visto che nessuna simulazione può tener correttamente conto di questi elementi, secondo alcuni critici sarebbe meglio non farle; sarebbero quanto meno fuorvianti, se non del tutto erronee.

E però da queste prime ipotesi di scenario elettorale qualche indicazione, sia pur provvisoria e revocabile, ci arriva sicuramente, ed è opportuno tenerne conto, per seguire gli sviluppi e i movimenti compiuti dalle diverse forze politiche in avvicinamento alla campagna e all’appuntamento di voto. Quali sono dunque queste prime indicazioni?

1. Il Rosatellum, ormai è chiaro a tutti, favorisce nettamente il centro-destra e sfavorisce il Movimento 5 stelle. L’unica area politica che, con un impianto proporzionale, avrebbe scarse chance di vittoria, recupera parecchie posizioni competitive in un quadro di collegio uninominale, in particolare per l’assenza di voto disgiunto. Nell’antico Mattarellum, gli elettori di Lega e Forza Italia rinunciavano talvolta a votare candidati dell’altro partito della propria coalizione, preferendo scelte diverse. Oggi non potrebbero farlo, e certo non rinunceranno a votare la propria lista anche in presenza di un candidato proveniente da un altro partito della coalizione.

2. I pentastellati sono la sola forza che non intende coalizzarsi con nessuno, pena la rinuncia della propria specificità, e potrà dunque contare solamente sul suo seguito elettorale, senza l’aggiunta di altri elettorati possibili. Nel proporzionale sarà molto probabilmente il primo “partito”, mentre nella competizione di collegio rischierà spesso di precipitare al terzo posto. Per recuperare questo difetto coalizionale, dovrebbe incrementare di molto il proprio bagaglio di consensi, andando oltre il 35%. Non molto facile.

3. Il Partito Democratico sta un po’ a metà strada tra le due altre formazioni politiche: ha infatti la possibilità di presentarsi in coalizione con qualcuno, per poter vincere in più collegi, ma il suo problema riguarda la scelta dei partiti con cui coalizzarsi (si vedano le tabelle 1 e 2). O, se si vuole, di quali partiti vogliano coalizzarsi con lui. Le simulazioni ci mostrano in maniera evidente che una coalizione con i partiti di centro, unitamente ad altre forze politiche (si parla dei radicali, dei socialisti, di ciò che resta di Scelta Civica), non renderebbe i Dem molto competitivi, e rischierebbero di vincere un numero di collegi simile ai 5 stelle, tra i 50 e i 60, lasciando la fetta maggiore al centro-destra. Una coalizione con la sinistra li renderebbe al contrario molto più forti, ma qui il vero problema sta nella controversa volontà dei tanti gruppi alla sua sinistra di scendere in campo con il partito di Renzi, se Renzi rimane in sella. Un dilemma non da poco.

Ipotesi 1: Centro-Destra unito e Pd+sinistra*

Ipotesi 2: Centro-Destra unito e Pd+Ap+altri*

4. Dal punto di vista territoriale (tabelle 3 e 4), le simulazioni mostrano chiaramente una spaccatura dell’Italia in 3 zone assai differenziate nei risultati elettorali, per quanto riguarda le probabili vittorie all’uninominale. Il Nord vede la netta prevalenza della coalizione di centro-destra, che dovrebbe conquistare oltre i tre quarti dei collegi; il centro-nord (le tradizionali zone rosse) ribadisce la consueta predominanza del centro-sinistra, cui andrebbero almeno i due terzi dei collegi, e ancor di più nell’ipotesi di coalizione con la sinistra; nelle aree meridionali del paese, dal Lazio in giù, la competizione più serrata è tra 5 stelle e centro-destra, con il movimento di Grillo in buon vantaggio, il che sottolinea la evidente meridionalizzazione del voto pentastellato.

Ipotesi 1: Centro-Destra unito e Pd+sinistra*

Ipotesi 2: Centro-Destra unito e Pd+Ap+altri*

5. La situazione al Senato, di cui si parla poco, vedrebbe peggiorare il risultato dei 5 stelle, che perderebbero una fetta importante del proprio elettorato (giovanile), lasciando ancor più collegi al centro-sinistra e soprattutto al centro-destra, dove l’elettorato meno giovane è fortemente prevalente.

6. Ma l’elemento più certo di questo sistema di voto (come peraltro di molti altri), che le simulazioni evidenziano in maniera chiara, è che non pare possa esserci una maggioranza per nessuna forza od area politica e che le stesse possibili coalizioni post-voto, per governare il paese, saranno di difficile attuazione, a meno di un (improbabile) coinvolgimento del M5s. La stessa ventilata ipotesi di un esecutivo Forza Italia-Partito Democratico non ha sicuramente numeri sufficienti, nemmeno con l’altrettanta improbabile cooptazione della sinistra. Saremo in stallo. Poi torneremo a votare?

*Fonte: elaborazioni curate da Paolo Natale sulla base di circa 60mila interviste effettuate da Ipsos di Milano
Ripartizioni utilizzate: Nord-Ovest (Piemonte-Lombardia-Liguria), Nord-Est (Veneto-TrentinoAA-FriuliVG), Centro-Nord (Emilia Romagna-Toscana-Umbria-Marche), Centro-Sud (Lazio-Abruzzo-Molise-Campania), Sud e Isole (Puglia-Basilicata-Calabria-Sicilia-Sardegna)