​Lettera agli illuminati

​Di che cosa parliamo quando ci dividiamo sull’immigrazione

Oggi a Valencia, porto spagnolo che fronteggia le isole Baleari, dovrebbe attraccare la nave Aquarius, con il suo carico di oltre 600 migranti respinti dai porti italiani per volontà del nostro ministro dell’Interno, il segretario della Lega Matteo Salvini. Giusto ieri la maggior parte dei media hanno riportato i dati di un sondaggio Ipsos che rivela che la maggior parte degli italiani (per l’esattezza il 71% di chi esprime un’opinione) è a favore della linea dura di Salvini, basata sulla chiusura dei porti italiani alle imbarcazioni di soccorso; e, dato forse più interessante, stanno dalla parte di Salvini non solo gli elettori che votano a destra o Cinque Stelle, ma anche circa un terzo degli elettori del Pd.

Personalmente non ne sono stupito affatto: è da anni che invito la sinistra a prendere sul serio le preoccupazioni degli italiani in materia di immigrazione, senza tacciare di razzismo chiunque dissenta dalla linea dell’accoglienza “senza se e senza ma”. Ora però, sull’onda del sondaggio Ipsos, credo siano maturi i tempi per porre la questione in termini più radicali: cari politici progressisti, cari intellettuali impegnati, cari manager illuminati, cari prelati, scrittori, cantanti, professori, conduttori televisivi, giornalisti che ogni giorno vi esercitate in accorati appelli a coltivare il senso di umanità, vi siete mai chiesti perché tanti italiani non la pensano come voi?

Ho l’impressione che, a differenza del passato, non vi sia facile trovare una spiegazione che vi rassicuri. Fino a ieri una spiegazione l’avevate: l’Italia cattiva, xenofoba e razzista, era l’Italia della destra, guidata dal cattivo per antonomasia, l’odiato Cavaliere. Ma oggi? Oggi che la destra si è ridotta a rappresentare poco più di un terzo del paese, mentre gli altri due terzi o guardano a sinistra o guardano al Movimento Cinque Stelle? Oggi che un terzo degli elettori di sinistra sta con quello che per voi è il simbolo stesso del male, anzi della non-umanità?

Piccolo inciso. La copertina dell’Espresso di questa settimana riporta due immagini affiancate, a sinistra quella di un nero (sottinteso: il migrante), a destra quella di Matteo Salvini. Sotto, a caratteri cubitali, la scritta UOMINI E NO, con Uomini sotto il migrante e No (cioè non-uomini) sotto Salvini. Sotto i caratteri cubitali una domanda, rivolta evidentemente a quegli italiani che, di fronte all’alternativa fra Salvini e il migrante fossero ancora un po’ esitanti: “Il cinismo, l’indifferenza, la caccia al consenso fondata sulla paura. Oppure la ribellione morale, l’empatia, l’appello all’unità dei più deboli. Voi da che parte state?”.

Incredibile. “Uomini e no”, per chi fosse troppo giovane per averne memoria, è il titolo di un romanzo di Elio Vittorini uscito nel 1945, che fece discutere già allora, perché la dicotomia si lasciava leggere come contrapposizione fra partigiani-uomini e fascisti-non uomini. Ma usarla oggi che una larga maggioranza degli italiani sta dalla parte del non-uomo Salvini lascia esterrefatti. Dobbiamo pensare che 7 italiani su 10 siano non-uomini?

Forse, anziché usare l’intimidazione morale per squalificare ed umiliare chi non la pensa secondo il pensiero unico progressista, varrebbe la pena sforzarsi di capire perché il dubbio sulle politiche di accoglienza serpeggi persino nell’ultimo avamposto della sinistra, ovvero nell’elettorato del malconcio Pd.

Credo che le ragioni siano tante, ma due prevalgano su tutte le altre. La prima è il sospetto che l’ondata di sbarchi che ha investito le coste italiane fra il 2014 e il 2016 sia, almeno in parte, una conseguenza dei segnali che i nostri governi, ma anche l’Europa nel suo insieme, hanno dato con le vaste operazioni di pattugliamento e salvataggio in mare denominate Mare Nostrum, Frontex, Triton1, Triton2. Non occorre essere esperti di assicurazioni per intuire la logica dell’azzardo morale (moral hazard): tu mi prometti di salvarmi, e io accetto di correre rischi maggiori di quelli che correrei se tu non ti fossi impegnato in questa promessa. Fra gli studiosi, da anni si dibatte su una congettura: il rafforzamento dei dispostivi di salvataggio, incentivando il ricorso a imbarcazioni meno sicure, potrebbe aver aumentato sia il numero delle partenze, sia il numero dei morti in mare. E’ verosimile che, in modi più o meno chiari, congetture del genere si siano fatte strada anche in una parte dell’opinione pubblica, sconcertata dal fatto che tanto spesso a portare i migranti in Italia non siano i soliti pescherecci e i soliti gommoni, ma le navi della nostra Marina militare, della nostra Guardia Costiera, delle numerose Organizzazioni non governative che pattugliano le coste dell’Africa in attesa di raccogliere naufraghi.

Ma c’è anche un’altra ragione che turba l’opinione pubblica. Una ragione senza la quale le operazioni di salvataggio in mare sarebbero guardate con assai maggiore benevolenza, come del resto è nell’indole degli italiani, checché ne pensino quanti preferiscono considerarli non-uomini. Questa ragione è, semplicemente, ciò che la gente vede con i propri occhi dopo gli sbarchi. Vogliamo fare un piccolo ripasso?

Su 100 richiedenti asilo solo 7 hanno diritto allo status di rifugiato (in base alla convenzione di Ginevra). Dei restanti 93, una minoranza ottiene altre forme, più o meno temporanee, di protezione “sussidiaria” o “umanitaria”, ma tutti gli altri, circa il 60% dei richiedenti asilo, entrano in una sorta di terra di nessuno, senza doveri né diritti. Nessun organismo riconosce loro il diritto di stare in Italia, ma nessuno organismo (salvo casi eccezionali), è in grado di fargli rispettare il dovere di lasciare l’Italia. E’ per questo che gli sbarchi creano tanta inquietudine: si sa che la maggior parte di quanti entrano in Italia non ne hanno il diritto, ma si sa altrettanto bene che, una volta entrati, nessuno (nemmeno Salvini) sarà in grado di riportarli indietro.

Qualcuno può stupirsi se, con questo sistema, abbiamo accumulato circa mezzo milione (nessuno conosce la cifra esatta) di stranieri irregolari, che come un fiume carsico riemergono nelle due forme fondamentali del dramma migratorio: come manovalanza della criminalità organizzata (gli stranieri irregolari delinquono circa 30 volte di più degli italiani), e come forza lavoro iper-sfruttata, ai limiti della schiavitù, nelle campagne del Mezzogiorno?

A questo spettacolo, già desolante di per sé, all’opinione pubblica non di rado se ne parano davanti agli occhi altri due, non meno inquietanti: quello dei richiedenti asilo che bighellonano con i loro telefonini in attesa che l’iter burocratico dell’accoglienza faccia il suo corso, e quello degli immigrati, spesso giovani, che chiedono l’elemosina per conto dei loro padroni (un business che a Torino, secondo le forze dell’ordine, è gestito dalla mafia nigeriana).

Il nocciolo del problema migratorio è tutto qui: il sacrosanto diritto di emigrare di chi fugge da guerre e persecuzioni (il 7% degli arrivi), si scontra con la circostanza che, su quel medesimo diritto, altri e ben più numerosi soggetti si appoggiano per esercitare aspirazioni (quella di trasferirsi e lavorare in un paese straniero) che sono appunto aspirazioni, più che legittime aspirazioni, ma non diritti. Accanto al diritto degli individui a fuggire dal loro paese quando la situazione diventa insostenibile, sussiste il diritto degli Stati di proteggere i propri confini e regolare gli ingressi.

Questo è il punto che divide l’opinione pubblica. Una parte di noi ritiene che il diritto degli individui di spostarsi fra gli Stati debba essere sostanzialmente illimitato, e l’accoglienza sia una sorta di imperativo categorico, ciò che separa gli uomini dai non-uomini. Una parte di noi ritiene, invece, che quel diritto abbia dei limiti, e che uno Stato abbia il dovere, oltreché il diritto, di proteggere i propri cittadini. Si può essere per l’utopia cosmopolita o per quella comunitaria, ovviamente. Ma è triste che ci si debba sentire non-uomini se non si aderisce all’utopia giusta.

Articolo pubblicato su Il Messaggero il 17 giugno 2018



I due elettorati del nuovo governo

Dopo il “contratto di governo” tra Movimento 5 stelle e Lega, e l’avvio nel giugno 2018 di quella inedita collaborazione, gli analisti hanno cercato di comprendere se e quanto le due forze politiche protagoniste dell’intesa avessero decisivi elementi in comune, dal punto di vista del programma e delle scelte politiche che intendevano effettuare in questo loro primo cammino comune. Elementi che, se presenti, potessero effettivamente prefigurare la formazione di un’alleanza più stabile, al di là delle esigenze più contingenti di dotare il nostro paese di un esecutivo dotato di una forte maggioranza parlamentare, e potesse dunque durare nel tempo, prendendo la forma di una proposta politica unitaria.

All’indomani della consultazione elettorale del 2018, era stato sottolineato come il bipolarismo M5s-Lega avrebbe potuto divenire una originale frattura politica: da una parte una nuova destra “sociale”, che cerca di porre un freno, almeno contingente, a mutamenti epocali, che non possono peraltro essere fermati con qualche provvedimento estemporaneo; dall’altra un movimento di “cittadini”, che si presenta quasi come una sommatoria di proposte mono-tematiche, aliena nel contempo di un progetto complessivo di società, di nuove regole economiche e di welfare. Sarà questa la contrapposizione futura del nostro paese, si chiedevano in molti? o non assisteremo al contrario a ciò che numerosi commentatori ipotizzano, vale a dire una frattura elettorale tra i cosiddetti “sovranisti” e gli “europeisti”? Una netta contrapposizione cioè tra partiti che credono (ancora) nelle capacità di una Unione Europea di farsi interprete delle politiche economiche e sociali del vecchio continente, da una parte, e partiti o movimenti che tendono a rivalutare l’alveo nazionale, senza farsi troppo condizionare dai dettati della Banca Centrale Europea e della stessa UE, dall’altra.

L’avvio del nuovo governo M5s-Lega, varato pur tra molte difficoltà tre mesi dopo le elezioni, darebbe per il momento ragione alla seconda ipotesi, in attesa di comprendere l’evoluzione del quadro politico e della politica delle alleanze future, o degli intenti comuni, a partire già dal prossimo importante appuntamento elettorale, le europee del 2019.

Al di là del “contratto di governo” stipulato tra i vertici dei partiti, è interessante interrogarsi sul livello di vicinanza o di lontananza tra i loro rispettivi elettorati. Vediamo innanzitutto come viene giudicato l’attuale partner di governo. Occorre sottolineare che i dati si riferiscono a indagini compiute da Ipsos durante gli ultimi tre mesi di campagna elettorale, quando cioè gli accordi tra le due forze di governo attuale erano difficilmente pronosticabili. In generale, valutazioni positive sugli altri partiti vengono espresse solamente dal 5% dei pentastellati (oltre 10 punti in meno della media nazionale, già molto bassa). L’unico che riscuote un buon successo è proprio la Lega, giudicata favorevolmente da oltre un terzo degli elettori 5 stelle. È questa peraltro la più rilevante trasformazione intercorsa tra il 2013 ed il 2018: il differente appeal leghista tra i votanti del M5s, che cinque anni prima giudicavano al contrario il partito – allora di Maroni – in maniera non dissimile da quello di Berlusconi, individuando nelle due principali forze politiche di centro-destra una forte comunità di intenti. È probabile che l’avvento del nuovo segretario leghista Matteo Salvini, con l’abbandono dell’enfasi nordista e le sue parole d’ordine maggiormente pragmatiche e meno “ideologiche”, abbiano prodotto un effetto positivo anche nelle opinioni di una parte molto significativa degli elettori pentastellati. La stessa (limitata) positività si riscontra anche per l’elettorato leghista, tra cui il M5s ottiene valutazioni comunque egregie, considerando che era il principale nemico da battere nelle imminenti elezioni, di poco inferiori al giudizio sull’alleato di Forza Italia.

Esistono poi alcune sotterranee sintonie tra i due elettorati, al di là delle evidenti differenziazioni territoriali e, di conseguenza, dell’enfasi delle proposte politiche che hanno come differenti bacini elettorali di riferimento. Tra queste, sono sicuramente le più indicative il tipo di rapporto con l’Unione Europea e la moneta unica; l’interesse per le fasce relativamente più deboli della popolazione, declinate nelle forme più consone alle aree geografiche di riferimento; l’alterità nei confronti dei presunti “poteri forti” ai quali il popolo, e con loro i loro rappresentanti, dovrebbe apertamente ribellarsi. Accanto a queste, ci sono però importanti tematiche che allontano in maniera significata i rispettivi elettorati, e che sottolineano l’impossibilità di attribuire facili valutazioni di stampo “populista” a coloro che hanno scelto il Movimento 5 stelle.

Sono nello specifico gli atteggiamenti nei confronti dei diritti civili, della pena di morte e, in parte, dell’immigrazione che differenziano l’elettorato pentastellato in particolare da quello della Lega, ma in generale anche dalle opinioni medie della popolazione nel suo complesso, il che getta una luce forse inedita sulla diffusa percezione della natura dei votanti 5 stelle. Se non tutte, sono diverse le “anime” che popolano i 5 stelle ad essere attente alla modernizzazione della società in senso più liberal; occorre sottolineare come sia parzialmente errato guardare a questo nuovo movimento politico come si trattasse di un “blocco” elettorale unico e compatto, e non invece composto da diversi tipi di cittadini, alcuni più progressisti accanto ad altri certamente più conservatori.

I diritti per le coppie di fatto devono essere identiche a quelle sposate per quasi l’85% degli elettori a 5 stelle (10 punti in più della media della popolazione italiana e ben 15 in più rispetto ai leghisti); la pena di morte per i crimini più gravi è accettabile soltanto dal 45% dei pentastellati (5 punti in meno della popolazione e 20 in meno dei leghisti); la loro opinione infine sugli eccessivi livelli di immigrazione non si discosta da quella degli italiani (70%), ma è inferiore di ben 20 punti rispetto all’elettorato che ha votato Lega.

Difficile ipotizzare se nel futuro questo tipo di alleanza possa durare, o si andrà incontro al contrario a decisive contrapposizioni su alcune politiche non del tutto condivise (quanto meno dai rispettivi elettorati) come ad esempio quelle più sopra citate relative ai diritti civili. Quello che è certo è che numerose sono le basi per una possibile convergenza, magari limitata nel tempo, pur accanto a temi che evidenziano alcune differenze di fondo tra i votanti leghisti e pentastellati. Forse, l’elemento maggiormente dirimente è proprio la diffusa volontà di cambiamenti importanti e decisivi nella gestione della cosa pubblica, con una netta cesura con le esperienze dei governi passati e con le tradizionali forze politiche, che accomunava Lega e M5s già al momento del voto.

* Una versione ridotta di questo articolo è uscita il 3 giugno sul sito de “Gli Stati Generali”



Un’opposizione spiazzata

Che Pd e Forza Italia abbiano promesso un’opposizione responsabile, non pregiudiziale, e basata sul merito dei provvedimenti, è senz’altro un fatto positivo. Che quasi tutti i partiti di opposizione (con l’importante eccezione di Fratelli d’Italia) siano fermamente intenzionati a difendere la permanenza dell’Italia in Europa e nell’Eurozona è anch’esso un fatto positivo. Così come è positiva la vigilanza sull’evoluzione dei conti pubblici che da quella scelta procede: molto possiamo permetterci, ma non di far ripiombare l’Italia in una crisi finanziaria, che avrebbe effetti nefasti sui risparmi e sull’occupazione.

Se queste sono le premesse, è arduo non rilevare che il comportamento effettivo dell’opposizione, in Parlamento come sulla stampa amica, sia ben poco coerente con esse. Qui non mi riferisco all’impegno profuso nel mettere alla berlina le gaffe e le goffaggini dei barbari appena entrati nel Palazzo, una pratica che in fondo fa parte della commedia della politica, e a cui i nuovi venuti offrono ogni sorta di pretesto. No, quel che mi colpisce è la sostanza politica dei discorsi dell’opposizione quando si parla di cose serie, ovvero di questioni che possono incidere profondamente sulla vita di tutti: tasse, pensioni, sussidi. Perché quando si arriva al punto, ovvero alle promesse del “contratto” giallo-verde, la critica al neonato esecutivo del professor Conte imbocca, contemporaneamente, due strade divergenti.

La prima strada, detto in estrema sintesi, è l’accusa di mettere a repentaglio i conti pubblici e, per questa via, i risparmi (e il futuro) degli italiani. Poiché il governo si guarda bene dallo spiegare dove prenderà i soldi per mantenere le promesse, si avanza (giustamente, a mio parere) il sospetto che finirà per aumentare il deficit, con conseguente ulteriore aumento del debito pubblico. Un sospetto che sarà difficile dissipare finché il partito di Grillo non ritirerà la proposta di legge 520 (ripresentata poche settimane fa), volta a togliere dalla Costituzione tutte le norme che impongono il pareggio di bilancio nei conti dello Stato.

La seconda strada è quella dello sbugiardamento: una per una, le promesse di Lega e Cinque Stelle vengono passate ai raggi X, mostrando che non verranno mantenute, o saranno abbondantemente annacquate. La legge Fornero non sarà abolita, ma solo ritoccata. Il reddito di cittadinanza non partirà subito, perché prima il governo intende rafforzare i Centri per l’impiego. Quanto alla flat tax, nel 2019 scatterà solo per le imprese, le famiglie dovranno attendere il 2021, quando compileranno la dichiarazione dei redditi per il 2020. Il messaggio è chiaro: attenti, cari elettori di Salvini e Di Maio, perché vi hanno promesso la luna, ma presto vi accorgerete che siete stati ingannati.

Curiosamente, ai politici dell’opposizione pare sfuggire che queste due critiche si elidono a vicenda. E’ piuttosto illogico annunciare la catastrofe dei conti pubblici e, contemporaneamente, accusare il governo di voler drasticamente ridimensionare (o diluire nel tempo) le sue promesse.

Delle due l’una. O stanno per spendere una vagonata di soldi, e allora è vero che mettono a rischio i conti pubblici ma non è vero che stanno tradendo il programma. Oppure stanno facendo retromarcia sulle promesse più costose, ma allora dobbiamo attenuare (non certo cancellare) le nostre preoccupazioni sui conti pubblici. Insomma: un’opposizione non isterica dovrebbe compiacersi dell’auto-smontaggio del contratto di governo, anziché criticare l’esecutivo perché si mostra meno avventato di quanto si supponeva.

Ma c’è di più. Se riuscissimo a mettere più attenzione sulla sostanza di quel che bolle in pentola, forse riusciremmo a cogliere meglio alcune notevoli novità delle politiche che ci attendono. Una prima novità è lo stanziamento di 2 miliardi per le “politiche attive del lavoro”, con il rafforzamento dei finora disastrosi Centri per l’impiego. Si può giudicare come buona o cattiva questa misura (io la trovo pessima) ma non possiamo non notare che è precisamente quel che la sinistra riformista predica da anni, e non è mai riuscita a realizzare, né con Letta, né con Renzi, né con Gentiloni. Una seconda importante novità è l’introduzione di un salario minimo legale, un’altra misura cara alla sinistra, ma mai realizzata, anche per le perplessità dei sindacati, timorosi di veder svuotato il proprio ruolo e il proprio potere.

Il segnale di novità più importante, però, a mio parere è il capovolgimento delle priorità della politica fiscale. Finora sia la destra sia la sinistra hanno sempre privilegiato, per ovvie ragioni di ricerca del consenso, la riduzione delle tasse che gravano sulle famiglie. Vale per Renzi, che nel 2014, di fronte al dilemma fra intervenire sull’Irap (che pesa sui produttori) e intervenire sulle buste paga, sceglie quest’ultima strada, che gli spiana la via del trionfo alle elezioni europee del 2014. Ma vale anche per Berlusconi, che nel 2001, al primo punto del “Contratto con gli italiani”, prevede l’abbattimento delle imposte sulle famiglie (le famose due aliquote al 33 e 23%), ma nulla promette alle imprese.

Ora, se dobbiamo prestar fede alle dichiarazioni di Alberto Bagnai (senatore della Lega) il governo si prepara a capovolgere lo schema: prima (2019) le imprese, poi (2020) le famiglie. Una scelta che, se effettivamente farà scendere subito al 20% l’imposizione complessiva sui redditi delle società, delle imprese individuali, delle partite Iva, segnerà un vero cambiamento di filosofia nella politica fiscale. Un cambiamento che, tradotto in parole semplici, si può enunciare così: anziché distribuire a pioggia pochi spiccioli a tutte (o quasi) le famiglie, proviamo a mettere le imprese in condizione di creare occupazione aggiuntiva, e per questa via aumentare il reddito delle famiglie. Può piacere o non piacere, e soprattutto può funzionare o non funzionare, ma è una novità vera.

Forse, anziché limitarsi a lanciare quotidiani (peraltro sovente fondati) rimproveri verso ogni mossa del governo, alle opposizioni non farebbe male cercare di capire quel che di nuovo bolle in pentola. Se non altro per non restare spiazzate quando il nuovo vedrà effettivamente la luce, e magari si rivelerà un po’ diverso da come lo si era dipinto.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 9 giugno 2018



Sacko: lettera aperta al Dubbio (rivolta anche a Giuliano Ferrara)

Caro Direttore, ho letto con commossa, profonda, adesione il tuo editoriale “Hanno fucilato un negro in Calabria? Beh, che vuoi: sono cose che succedono”. Qualche perplessità solo sull’insistita ironia sulla frase di Matteo Salvini «è finita la pacchia». Il leader leghista non mi è congeniale, non ho mai votato per lui né prevedo di farlo in futuro, ma credo che la pacchia si riferisse agli scafisti e alle organizzazioni che hanno fatto dell’immigrazione un business. Comunque non è questo il punto e non voglio certo fare il difensore d’ufficio (non ne ha bisogno) del ministro dell’Interno, azzannato ormai da tutti i giornali – dell’establishment e non.

Vorrei invece richiamare la tua attenzione su un fatto tanto preoccupante quanto indecente ovvero sul buonismo gratuito e irresponsabile diffuso nel nostro paese – e sicuramente più a sinistra che a destra, più tra i cattolici che tra i vecchi e sopravvissuti laici non laicisti. Siamo il paese dell’accoglienza generosa e disinteressata, della mensa del convento aperta a tutti ma poiché il liberalismo è una pianta che da noi non ha mai allignato ci guardiamo bene dal porci la domanda, fondamentale per un amico della “società aperta”: «chi paga?» (Ricordi il saggio di Milton Friedman, Nessun pasto è gratis?). Da una parte, le dottrine sociali della Chiesa-per definizione diffidenti verso ogni comunità chiusa come, indubbiamente è, e non può non essere, lo Stato nazionale-dall’altra, il diritto cosmopolitico dei maîtres-à-penser alla Luigi Ferrajoli, hanno diffuso un’etica pubblica che demonizza ogni diritto a tutelare il proprio spazio geografico e culturale, a “chiudere le porte” agli altri. Naturalmente fanno eccezione le porte della nostra abitazione: siamo tutti fratelli ma nella casa comune dello Stato, dove a “pagare” non siamo noi ma la “collettività”; a casa nostra entriamo solo noi.

Ai poveri diseredati del continente nero, diciamo, “crescete e moltiplicatevi” e se volete venire da noi, le “ragioni umanitarie” non ci consentiranno di ricacciarvi indietro. Posto ce n’è sempre per tutti: le porcilaie sono ampie e spaziose e tra i rifiuti dell’ “uomo bianco” si trova sempre di che sfamarsi. (Quante volte, sotto casa, non ho visto extracomunitari rovistare nella spazzatura…). Leggerezza, superficialità irresponsabilità sembrano essere divenute le nuove qualità degli Italiani, sempre pronti a indignarsi contro i paesi che regolano i flussi migratori (che fascisti gli Stati Uniti quando limitavano quello proveniente dall’Europa orientale e dall’Italia!) dimenticando che, nel racconto biblico, il buon samaritano soccorreva il derelitto, curandogli le ferite, rifocillandolo, affidandolo a una casa amica.

A noi, per metterci il cuore in pace, basta soltanto non impedire lo sbarco. L’inferno che poi accoglierà le migliaia di profughi che fuggono guerre e fame di loro non ci riguarda.

In un bellissimo articolo sul Foglio, “Il martire Spoumayla Sacko e noi che, dal nostro tinello, ci prendiamo la colpa e lasciamo a quelli come lui la punizione” Giuliano Ferrara ha parlato giustamente di martirio – un termine spesso abusato ma questa volta più che pertinente. Condivido il lutto per l’episodio e vado oltre: perché in un paese in cui i monumenti ai politici rientrano nella logica del pirandelliano Vestire gli ignudi, non si eleva un monumento a Soumaya Sacko come a Jerry Massolo – il sindacalista nero ucciso nel 1989 a Villa Literno e che solo tu hai ricordato? Ferrara, però, chiude il suo articolo con la sua martellante polemica contro le «posizioni populiste di destra e di sinistra» che attribuiscono la tragedia calabrese «all’establishment, al sistema, alle elite». E qui non seguo più né il suo sarcasmo, né il tuo silenzio.

E chi dovremmo incolpare della morte di Sacko se non gli apparati pubblici e i governi di oggi, di ieri e dell’altro ieri? Quando mai hanno inviato ispettori del lavoro, forze dell’ordine, funzionari Asl nei recinti calabresi, siciliani, campani dei nuovi schiavi? Cosa hanno fatto per portare davanti ai tribunali i caporali e i loro datori di lavoro? Retate di polizia e processi e condanne esemplari hanno riempito le cronache nere dei quotidiani? Quando su certi giornali si descrivono le condizioni disumane (un eufemismo!) in cui vivono migliaia di africani, c’è sempre il sottinteso: «guardate a cosa portano la logica del profitto, il mercatismo, l’auri sacra fames?» Ci manca poco se i mali del presente non vengono riportati alla Ricchezza delle Nazioni di Adam Smith e a quel capitalismo selvaggio al quale l’Occidente avrebbe venduto la sua anima.

Ai buonisti antimercatisti bisognerebbe consigliare la lettura di una straordinaria pagina delle Lezioni di politica sociale [1949] di Luigi Einaudi: «coloro i quali vanno alla fiera, sanno che questa non potrebbe aver luogo se, oltre ai banchi dei venditori i quali vantano a gran voce la bontà della loro merce, ed oltre la folla dei compratori che ammira la bella voce, ma prima vuole prendere in mano le scarpe per vedere se sono di cuoio o di cartone, non ci fosse qualcos’altro: il cappello a due punte della coppia dei carabinieri che si vede passare sulla piazza, la divisa della guardia municipale che fa tacere due che si sono presi a male parole, il palazzo del municipio, col segretario ed il sindaco, la pretura e la conciliatura, il notaio che redige i contratti, l’avvocato a cui si ricorre quando si crede di essere a torto imbrogliati in un contratto, il parroco, il quale ricorda i doveri del buon cristiano, doveri che non bisogna dimenticare nemmeno sulla fiera. E ci sono le piazze e le strade, le une dure e le altre fangose che conducono dai casolari della campagna al centro, ci sono le scuole dove i ragazzi vanno a studiare. E tante altre cose ci sono, che, se non ci fossero, anche quella fiera non si potrebbe tenere o sarebbe tutta diversa da quel che effettivamente è».

Nel meridione d’Italia non ci sono né carabinieri, né guardie municipali, né pretori ovvero ci sono ma le loro mani sono legate da camorra, mafia, ndrangheta. E questa «assenza della legge e dell’ordine» a chi si deve se non «all’establishment, al sistema, alle elite» che, assieme ai sindacati – operai e padronali – hanno sgovernato e massacrato il bel paese? Ormai termini come “populismo” e “sovranismo”, come già fascismo, stanno diventando gli spaventapasseri su cui riversare tutto il marcio che ci circonda. È lo stile ideologico italiano che non riusciremo mai a scrollarci di dosso: invece di chiederci se quanti avversiamo e certo non a torto— dai fascisti di ieri ai populisti di oggi– non abbiano, per caso, qualche buona ragione da far valere, preferiamo criminalizzarli, nel peggiore dei casi, ridicolizzarli, nel migliore, ma sempre relegandoli nella matta bestalitade da cui doverci guardare per non esserne contaminati.

ORMAI TERMINI COME “POPULISMO” E “SOVRANISMO”, COME GIÀ FASCISMO, STANNO DIVENTANDO GLI SPAVENTAPASSERI SU CUI RIVERSARE TUTTO IL MARCIO CHE CI CIRCONDA

Articolo pubblicato su Il Dubbio il 06 giugno 2018



Pietà per i nostri carnefici (populisti)

Francesco Damato, nel suo meditato articolo, Giustizialisti l’album di famiglia – Il Dubbio del l° giugno – tesse le lodi di Angelo Panebianco che, nell’editoriale I politici sovranisti non vengono da Marte – Corriere della Sera del 28 maggio – sostiene la tesi che le forze politiche emergenti oggi in Italia sono ostili alla democrazia rappresentativa (liberale) e che il  «diffuso rigetto nei confronti della democrazia rappresentativa, delle sue regole, e delle istituzioni liberali che la sorreggono, è il frutto di una trentennale, martellante, propaganda che ha dipinto la politica rappresentativa come un verminaio, il concentrato di tutte le lordure e le brutture, e i suoi esponenti come gente per la quale vale l’inversione dell’onere della prova: è ciascuno di loro che deve dimostrare di non essere un corrotto. Il lavaggio del cervello a cui il “circo mediatico-giudiziario” ha sottoposto per decenni tanti italiani, ha funzionato». Damato fa rilevare giustamente che a quel “circo” il Corriere della Sera non ha fatto mancare il suo contributo. Gli autori del libro La casta. Così i politici italiani sono diventati intoccabili (2007), Sergio Rizzo e Antonio Stella, facevano parte, infatti, dello staff di Via Solferino e tale circostanza «ha dato un po’ il sapore freudianamente autocritico al titolo assegnato all’editoriale di Panebianco “Album di famiglia”», con immancabile riferimento all’articolo di Rossana Rossanda, su Il Manifesto, in cui le BR venivano riconosciute come una costola della sinistra.

A me non sono mai piaciuti i giornalisti come Stella e Rizzo «di indiscussa bravura ma spesso lasciatisi prendere la mano nella loro campagna contro la “casta”» (Damato), e ho sempre pensato che ci fosse “qualcosa di marcio in Danimarca” se il libro-denuncia di Raffaele Costa, L’Italia del privilegi (Mondadori 2002) non ha venduto il milione e duecentomila copie che in soli sette mesi fecero della Casta un best seller. Probabilmente al libro di Costa mancava, del “circo mediatico-giudiziario”, la seconda componente, quella giudiziaria, che fu la carta vincente dei due PM della carta stampata distaccati alla redazione del quotidiano milanese. Detto questo, però, bisogna mettere in guardia della tentazione di ritenere che i citati muckraker (‘rastrellatori di scandali’) abbiano instillato nell’immaginario collettivo l’idea falsa (o quanto meno esagerata) che siamo il paese più corrotto del mondo e che stiamo sprofondando nel baratro della decadenza morale, sociale e politica. Non è affatto vero che, quanto a corruzione politica, il nostro paese sia ai primi posti, ma il problema non è questo. Il problema è che abbiamo una classe politica che, con la complicità dei grandi corpi dello Stato, dei sindacati, della Confindustria (quella più legata alle commesse statali), ha fatto a pezzi il Paese, ha creato una  spaventosa voragine del debito pubblico, che ora ci impedisce di fare la voce grossa in Europa perché non si è mai visto che debitori quasi insolventi mettano in riga i loro creditori, ha minato lo stato di diritto con sentenze a orologeria, che «applicano le leggi agli amici e le interpretano per i nemici», ha distrutto la scuola con le lauree facili e le moltiplicazioni delle sedi universitarie sul territorio, (è stato calcolato che se chiudessero quelle di Imperia e di Savona e la Regione Liguria  ospitasse nei migliori alberghi di Genova gli studenti delle due province, ci sarebbe un risparmio per le casse pubbliche di almeno il 50%), non si vergogna di un sistema carcerario che ricorda il film di Alan Parker Fuga di mezzanotte (1978).

Qualche volta autorevoli opinion maker ci ricordano che abbiamo la classe politica che ci meritiamo e se i governanti lasciano a desiderare i governati non sono certo esempi preclari di virtù civiche. E’ ovvio ma non si dimentichi quanto sapevano bene gli antichi, che «l’esempio viene dall’alto» e, soprattutto, non si perda di vista la differenza fondamentale tra chi fa le leggi e chi le subisce. A distinguere la sfera politica dalle altre dimensioni della convivenza umana è il fatto che la prima emana decisioni vincolanti erga omnes e può farle valere con le sanzioni previste dai codici per i disobbedienti laddove la società civile esercita influenza, ma non potere, sui costumi, sugli atteggiamenti collettivi, sulle mentalità e la comunità religiosa prescrive a quei pochi che ne fanno ancora parte precetti la cui infrazione comporta sanzioni che non sono di questo mondo.

Sì, cari Panebianco e Damato, siamo tutti colpevoli: i nostri Hykson «li abbiamo allevati noi» ma ci sono colpe e colpe: noi uomini della strada abbiamo potuto chiedere favori e raccomandazioni illecite ai nostri politici ma il potere di soddisfare le nostre richieste -con espressione altisonante “l’autorità dello Stato” – ce l’avevano loro, non noi. Una civil society, priva di ogni senso dell’interesse collettivo, può aver ottenuto provvedimenti e leggine volte a favore di questa o quella categoria sociale ma quei provvedimenti e quelle leggine sono state concesse da parlamenti e governi che avevano in una mano la spada e l’altra mano libera, avendo gettato per terra la bilancia del diritto.

Al direttore di un grande quotidiano storico, un tassista napoletano rimbrottato per aver votato il 4 marzo per un partito populista, recplicò «Dottò, ce stanno tre tassì: une saie che t’arrobbane; n’ate vide che fiete e merda; nu tierze, nun saie che cazz’è: agge vutate pe ‘o’ tierze!». Temo che nei prossimi mesi impareremo a nostre spese che cosa ci riservi il terzo taxi, quello del Governo Conte. Per citare Panebianco, mi spaventa, tra l’altro, il proposito di abolire «la prescrizione dei reati» che «neanche ai fascisti era mai venuto in mente» ma dobbiamo essere consapevoli che, se siamo a questo punto, la colpa è soprattutto di chi ci ha governato finora. E di quell’establishment fatto di prestigiosi giuristi, di alti ‘servitori dello Stato’(sic!), di economisti di regime, di maitres-à-penser della carta stampata, di presunti “cavalli di razza” della politica che hanno ferocemente denunciato le crepe del Palazzo ma non hanno mai spiegato che cosa abbiano fatto, loro che ci abitano confortevolmente da anni, per porvi rimedio. La colpa è sempre dell’uomo qualunque, ignorante e irresponsabile, che si lascia abbindolare dai Simon mago di turno? Se questo è populismo, ebbene sì, sono un populista anch’io pur non avendo votato (né penso di votare in futuro) per i gialloverdi.