Gli sbarchi e l’inferno libico

Se dovessimo basarci solo sui freddi numeri, dovremmo concludere che il problema degli sbarchi è stato quasi completamente risolto. Fatto 100 il numero medio di arrivi nel periodo anteriore alle “primavere arabe” (dal 1997 al 2010), siamo passati a 780 nel 2016, per poi ripiegare a 214 alla fine dell’era Minniti (gennaio-maggio 2018), e infine sotto quota 100 nell’era Salvini-Di Maio (giugno luglio 2018).

Fu vera gloria?

Per certi versi sì. Checché ne dicano i dirigenti del Pd, che nei giorni scorsi hanno affermato che i morti in mare sono aumentati, è vero il contrario: fra il 2107 e il 2018 i morti in mare nella rotta centrale del Mediterraneo (quella più pericolosa, che porta in Italia) si sono pressappoco dimezzati (la fonte è OIM, Organizzazione Internazionale per le migrazioni).

Ma per altri versi no, non fu vera gloria. Proprio per niente. Intanto bisogna dire che la riduzione del numero dei morti è dovuta solo alla diminuzione del numero delle partenze. La pericolosità dei viaggi, invece, è aumentata: nel 2017 il rischio di perire nella traversata verso l’Italia era già alto, oggi è ancora più alto. Ma il punto centrale è che la frenata agli arrivi, pur avendo ottenuto risultati politici non disprezzabili (sostanzialmente: l’Europa si è scossa dal proprio torpore pluriennale), non ha minimamente scalfito i due problemi fondamentali che abbiano di fronte, come italiani e come europei.

Come italiani il nostro problema fondamentale ormai non sono più gli sbarchi attuali, bensì la somma degli sbarchi passati. Detto crudamente: la massa di centinaia di migliaia di migranti che si aggirano sul nostro territorio senza averne diritto, una massa cui in futuro rischiano di aggiungersi i migranti che noi abbiamo salvato e registrato, che sono passati in altro paese europeo, e che i paesi “fratelli” (specie Austria, Francia e Germania) hanno ogni intenzione di restituirci: una minaccia che nel legnoso linguaggio dell’Unione viene dissimulata sotto l’etichetta “problema dei movimenti secondari”.

Come europei siamo messi ancora peggio. Il problema di fondo dell’Europa è che l’Africa vorrebbe trasferirsi nel Vecchio continente. E lo vuole per un sacco di motivi, alcuni ottimi, altri discutibili, ma tutti reali. Il più importante è che molti paesi africani sono semplicemente invivibili, fra guerre, dittature, corruzione, fame, siccità, carestie, traffico di esseri umani. La complicazione è che “noi” siamo 500 milioni (in calo), “loro” 1 miliardo e 200 milioni, destinati a diventare 2 miliardi e più nel giro di due o tre decenni: giusto il tempo di vedere i nostri neonati di oggi prendere una laurea domani.

Come si risolve questo problemuccio?

Una soluzione, abbastanza gettonata nel mondo progressista, è la rassegnazione entusiasta, se mi si consente questo ossimoro. L’idea è che le migrazioni siano un fenomeno “epocale”, che la mescolanza fra popoli e culture sia più un bene che un male, e che si tratti solo di gestire (con politiche di accoglienza e integrazione) le legittime aspirazioni di diverse centinaia di milioni di persone di trasferirsi in Europa.

A questa soluzione, per ora, si contrappone solo un’idea, tanto rozza quanto confusa, di limitare gli sbarchi e “aiutarli a casa loro”, come è diventato di moda dire oggi. In Italia questa linea prende le vesti di un crescente trasferimento di risorse verso il governo libico (o meglio: verso uno dei tre poteri in lotta fra loro in Libia, quello di Sarraj a Tripoli). Noi regaliamo motovedette, istruttori, soldi, e speriamo che così non facciano partire nessuno, e poco per volta escano dal caos e dalla miseria.

Ma è una soluzione?

A me pare di no. La maggior parte delle testimonianze dirette che giungono dalla Libia ci rivelano che i legami tra governo, milizie e trafficanti sono piuttosto stretti. L’Italia fornisce soldi e mezzi, ma non esercita alcun reale controllo sull’uso che ne vien fatto. Nonostante gli accordi e i protocolli negoziati dal precedente governo, dall’Onu e dagli organismi internazionali con i governi libici, nonostante il successo di alcuni esperimenti (come i rimpatri e i centri sotto l’egida dell’ONU), la situazione nel paese africano resta drammatica, e negli ultimi mesi sta peggiorando rapidamente. In una recente conferenza stampa i rappresentanti dell’UNHCR (l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati) hanno dovuto riconoscere che il sovraffollamento dei campi di detenzione si sta aggravando, e che i numeri sono scoraggianti: a fronte di decine di migliaia di rifugiati, l’Europa si è impegnata ad accoglierne appena 4000, e ne ha di fatto accolti poco più di 200.

Certo non tutti i campi in cui vengono ammassati i migranti sono eguali (alcuni sono illegali e gestiti direttamente dai trafficanti, altri sono governativi, altri vedono la presenza delle Ong), ma le testimonianze di trattamenti inumani, stupri, violenze, estorsioni, ricatti, persino di vendite come schiavi, sono difficilmente confutabili, o derubricabili a eccezioni. Vale per oggi, nell’era Salvini, ma valeva anche ieri, nell’era Minniti, con l’unica mortificante differenza che prima la stampa progressista si barcamenava o chiudeva un occhio, mentre ora si indigna 24 ore su 24: sublime ipocrisia dell’umanitarismo a senso unico.

È strano, molto strano, che a chi proclama di voler limitare gli arrivi, sia esso un “sincero democratico” o un bieco politico “populista”, non venga mai in mente che impedirli con l’intimidazione e la sopraffazione fisica, delegando ai libici il lavoro sporco, non può che moltiplicare la disperazione, e rafforzare la volontà di sbarcare in Europa, costi quel che costi.

Insomma, quel che non capisco, pur condividendo l’idea che in Europa si debba entrare esclusivamente in modo legale, è come mai, oggi come ieri, siamo così timidi quando ci rapportiamo a paesi come la Libia: un paese che, a differenza di altri paesi africani, non ha ancora firmato la convenzione di Ginevra sui rifugiati (1951), e pone non pochi ostacoli alla presenza di osservatori internazionali e all’azione delle organizzazioni umanitarie. Forse siamo timidi perché siamo politicamente deboli e isolati, o semplicemente perché siamo ricattabili a causa dei nostri interessi economici (l’Eni è presente in Libia). Eppure dovremmo riflettere. Se davvero vogliamo “aiutarli a casa loro”, non possiamo non porci il problema, sollevato quasi dieci anni fa da Dambisa Moyo (africana trapiantata negli Stati Uniti), dell’uso dei fondi che affluiscono in Africa, troppo spesso finiti nel circuito della corruzione anziché alle popolazioni cui erano destinati (La carità che uccide. Come gli aiuti dell’Occidente stanno devastando il Terzo mondo, Rizzoli 2010). Soprattutto dovremmo condizionare i nostri aiuti e il nostro supporto a un minimo di garanzie sui migranti, nonché alla possibilità di aprire in territorio africano canali legali e funzionanti di ingresso in Europa (sempre che l’Europa riesca ad essere meno avara di quanto si sta rivelando oggi).

Perché i numeri e i tempi contano. Un flusso ragionevole e ordinato di ingressi in Europa può solo arricchire il Vecchio Continente, ma la finzione che tutto vada bene nell’inferno libico rischia solo di alimentare una bomba che, prima o poi, non potrà che esplodere, travolgendo tutto e tutti.




Immigrazione e decreto dignità, intervista a Luca Ricolfi

Domanda. Il governo giallo-verde ha mosso i primi passi. Tra proclami fatti e provvedimenti adottati, si connota come governo di destra o di sinistra?

Risposta. Entrambe le cose, con una specificazione però: della destra e della sinistra prende le componenti più populiste e anti-moderne. A Salvini il respingimento degli immigrati pare interessare più della flat tax, a Di Maio l’irrigidimento del mercato del lavoro pare interessare di più che la riforma dei centri per l’impiego. Non a caso il Decreto Dignità piace a LeU, e viene criticato solo perché non è ancora abbastanza di sinistra: ma è la sinistra nostalgica, che crede che rimettendo l’articolo 18 il mondo si raddrizzi.

D. Lei sostiene che alle origini dell’accresciuto senso di insicurezza degli italiani non c’è solo la campagna della Lega contro lo straniero. Può spiegarsi meglio?

R. Prima di accusare il popolo di non conoscere “le vere cifre” dell’immigrazione in Italia invito a riflettere sulle cifre degli sbarchi.

D. Quali sono?

R. Sotto i governi di centro-sinistra gli sbarchi sono circa quintuplicati: fatto 100 il flusso prima delle cosiddette primavere arabe (periodo 1997-2010), nel periodo 2011-2016 il flusso era salito a 450 circa. Poi è arrivato Marco Minniti, ministro dell’interno con Gentiloni, che i flussi li ha più che dimezzati, portandoli a 214. Ma si trattava pur sempre di un livello più che doppio rispetto a quello storico, che già suscitava inquietudini nei cittadini italiani.

D. E il governo Conte?

R. L’attuale governo a giugno ha ulteriormente dimezzati gli sbarchi, portandoli a quota 100, esattamente il livello anteriore al 2011. E nei primi 17 giorni di luglio il flusso è sceso più o meno a livello 75, ossia più in basso del livello storico.

D. Lei sta dicendo che il senso di paura non è più motivato?

R. All’origine delle paure ci sono elementi oggettivi: l’aumento degli sbarchi, l’impossibilità di rimpatriare chi non ha diritto, la conseguente crescita di un esercito di immigrati irregolari, di cui solo una parte si sposta in altri paesi europei. C’è poi da considerare un altro fattore: la domanda di sicurezza, che non è alimentata solo dagli imprenditori della paura, ma – molto banalmente – dalla pubblicità, sia quella commerciale, sia quella “progresso”.

D. In che modo la comunicazione incide sulle paure?

R. Da almeno vent’anni siamo ossessionati dai pericoli che correremmo negli ambiti più diversi, da quando ci laviamo i denti a quando saliamo su un’automobile. Le parole «sicuro», «sicurezza», «protezione», «rischio», «pericolo» e i loro sinonimi spadroneggiano sugli schermi dei nostri televisori, e non solo negli intervalli pubblicitari.

D. Insomma, la sicurezza è un must, al di là della Lega e di Salvini…

R. Quello che voglio dire è che nessuno si stupisce che la gente pretenda più sicurezza sul lavoro o in strada, ma molti si stupiscono che voglia più sicurezza in materia di immigrazione. Eppure la logica è la stessa: gli standard di sicurezza dei cittadini occidentali si sono enormemente alzati negli ultimi decenni, ma lo hanno fatto un po’ in tutti gli ambiti, al punto che l’ultima generazione – cresciuta a pane, internet e genitori iperprotettivi – è considerata patologicamente insicura da molti psicologi. Sul punto consiglierei di leggere Iperconnessi di Jean Twenge, edito da Einaudi.

D. E qual è la differenza allora?

R. La differenza è questa: se la domanda di protezione riguarda criminalità e immigrazione si accusano gli «imprenditori della paura», ma se la domanda di protezione riguarda le donne (stalking) o gli incidenti in fabbrica, a nessuno viene in mente di accusare la Boldrini o la Camusso di essere «imprenditrici della paura». C’è qualcosa che non va, sul piano logico.

D. Quali sono gli errori compiuti dalla sinistra e dagli ultimi governi su immigrazione e legalità?

R. Aver continuato, con i suoi uomini più lucidi, a proclamare che il tema della sicurezza è anche di sinistra, salvo comportarsi come se fosse solo di destra. Sull’immigrazione e gli sbarchi la sinistra, con pochissime eccezioni, è stata sempre e semplicemente negazionista. Un atteggiamento di una miopia incredibile, che mostra quanto nel mondo progressista l’ideologia prevalga ancora sul senso comune.

D. Intanto la cronaca racconta di una migrante salvata da una Ong dopo che da 48 ore era aggrappata a un barcone alla deriva, un’altra donna e un bambino sono stati ritrovati morti. Ed è polemica contro il Viminale e gli accordi presi con i libici. Il pugno duro di Salvini sugli sbarchi potrebbe diventare un boomerang in termini di consenso per la Lega?

R. Non credo, la gente accetta qualsiasi cosa purché gli sbarchi finiscano. Ma questo dovrebbe preoccuparci, perché fermare gli sbarchi non può essere la soluzione di tutto.

D. Perché non potrebbe essere la soluzione?

R. Per almeno tre motivi. Il primo è che non possiamo chiudere gli occhi sulle condizioni di detenzione e di rimpatrio di chi prova a lasciare le coste della Libia. E questo non tanto perché i governi libici sono corrotti e si macchiano di crimini orrendi, decine di altri governi fanno la stessa cosa, ma perché finché noi supportiamo i libici con soldi, mezzi e contratti (L’Eni è in Libia), non possiamo chiamarci fuori. Trovo stupefacente che nessun governo italiano, di qualsiasi colore esso fosse, abbia mai condizionato gli aiuti alla Libia a rigorose condizioni sul rispetto dei diritti umani nei campi profughi, nonché a controlli severi sull’uso degli aiuti stessi.

D. Il secondo motivo?

R. Il problema più grande non sono i flussi annui di 10, 100 o 200 mila sbarchi, ma i 500, 600 o 700 mila immigrati irregolari che circolano in Italia, e che nessuno sa come gestire. Infine, il terzo motivo per cui azzerare gli sbarchi non è la soluzione è che noi comunque di un flusso di migranti, regolare e regolato, abbiamo comunque bisogno. E non bastano certo i complicati meccanismi dei decreti flussi ad assicurarlo.

D. In questi giorni si è consumato uno scontro assai accesso tra il ministro del lavoro, Luigi Di Maio, e il presidente Inps Tito Boeri circa gli effetti del Decreto Dignità: 8 mila posti in meno l’anno, stima l’Inps. Per Di Maio, Boeri così fa politica e dovrebbe dimettersi. Che ne pensa?

R. Indubbiamente Boeri fa politica, le sue posizioni su vitalizi, pensioni e ruolo economico dei migranti non sono asettiche. In certe circostanze, anzi, Boeri ha fatto sponda con Di Maio o viceversa. Ma sul punto degli effetti del decreto dignità Boeri ha pienamente ragione, e Di Maio ha torto marcio.

D. Perché?

R. Lo spiego subito, i numeri dell’Inps, sottoscritti dalla Ragioneria dello Stato, non hanno nulla di politico, sono un mero esercizio contabile, peraltro obbligatorio quando si vara un decreto che ha effetti sul gettito e sulla spesa. Non li si può contestare dicendo che non c’è base scientifica, ma solo proponendo altri numeri, argomentati in modo più convincente. Io li ho esaminati.

D. E che cosa emerge dalla sua analisi?

R. Mi sono formato l’opinione che sì, i numeri di Boeri, ovviamente, non sono indiscutibili, ma non perché i posti di lavoro perduti potrebbero essere meno di 8 mila, ma perché, molto più verosimilmente, potrebbero essere di più. Anche parecchi di più. Insomma, secondo me Boeri è stato fin troppo cauto o, se vogliamo a tutti i costi buttarla in politica, è stato fin troppo filo-governativo.

D. Sul decreto si stanno registrando anche le prime crepe tra Lega e M5s, tra le ragioni delle imprese e quelle del lavoro…la contrapposizione è destinata a sanarsi oppure ad esplodere a breve?

R. È probabile che l’alleanza si romperà, ma non per i contrasti interni. Se ambedue i partner avessero voglia di governare per 5 anni, un compromesso lo troverebbero senza difficoltà. Il problema è che uno dei due, Salvini presumibilmente, a un certo punto si convincerà che gli conviene tornare al voto, e che quello è il momento buono. A quel punto non ci sarà accordo, contratto o compromesso che possa evitare la crisi.

Intervista a cura di Alessandra Ricciardi pubblicata su Italia Oggi il 19 luglio 2018



I poveri votano a destra, i ricchi a sinistra

Che il voto del 4 marzo, e quelli successivi nelle elezioni amministrative, sia stato un voto di protesta, di alterità verso la “casta”, contro l’establishment, e contro i governi che hanno coinvolto il Pd, dal 2011 ad oggi, ci sono pochi dubbi. E le motivazioni che hanno condotto verso questo comportamento elettorale ce ne hanno dato ampia conferma; sulle cause del successo della Lega c’è una sostanziale omogeneità di pensiero: il traino decisivo è giudicato unanimemente la volontà leghista di combattere efficacemente i problemi di insicurezza derivanti dai postumi della crisi economica, dall’immigrazione incontrollata e dall’aumento, in generale, del clima di pericolosità sociale.

La parole d’ordine di tipo economico-occupazionale, e fiscale, le battaglie sulla legittima difesa e per un controllo più duro nei confronti dei clandestini sono state fondamentali per l’avanzata elettorale del partito di Salvini in tutte le aree settentrionali e centrali del paese, anche in zone dove nel passato la Lega (Nord) era elettoralmente inesistente. E per il suo successivo radicamento, fino a farla diventare, oggi, la forza politica con i consensi più elevati nelle dichiarazioni di voto raccolte nelle ultime indagini demoscopiche, superando il Movimento 5 stelle.

Anche i motivi prevalenti del successo pentastellato possono essere individuati nella volontà di “mandare a casa” la vecchia classe politica, per cambiare radicalmente le politiche pubbliche. Per un nuovo inizio: un orientamento che accomuna le tendenze più diffuse nell’elettorato italiano, dal nord fino al sud del paese. Hanno per questa ragione avuto successo le due forze politiche che maggiormente si fanno paladini della volontà di cambiamento, assieme alle due tematiche ricordate, il rifiuto delle vecchie modalità di fare politica e, soprattutto, il bisogno di maggior sicurezza economica e sociale.

Da questi elementi è nato nel giugno scorso il “contratto di governo” tra Movimento 5 stelle e Lega, un esecutivo che gode attualmente di un consenso talmente elevato, vicino al 70% della popolazione italiana, che sarà difficile nei prossimi mesi immaginare una opposizione capace di contrastarlo efficacemente. Anche perché, tralasciando l’indubbia capacità comunicativa del leader leghista, il motivo più profondo del favore per il governo è che gli elettorati delle diverse forze politiche sono attenti alla risoluzione di problemi piuttosto differenti tra loro. Per l’elettorato di sinistra (o di centro-sinistra), le cose più urgenti da risolvere sono il tema del lavoro e quello dell’insorgente razzismo nel nostro paese, veicolato dai costanti proclami di Salvini stesso. Per gli elettori di centro-destra (e della Lega in particolare) sono invece: l’immigrazione, più o meno clandestina, le tasse e la sicurezza, insieme ovviamente agli effetti della crisi economico-occupazionale.

Ancora differente è la gerarchia degli elettori pentastellati, tra cui soltanto il tema del lavoro tende ad essere egemonico, mentre gli altri problemi non sono considerati rilevanti. Ora, dal momento che l’occupazione, la creazione di nuovi posti di lavoro, la crescita dell’economia, la messa a punto di un quadro di efficace regolamentazione del frastagliato mondo del lavoro (e, se vogliamo, lo stesso problema del razzismo) sono tutte cose che non possono avere una rapida risoluzione, va da sé che la comunicazione di Salvini, così presente e costante, riesca in questo momento a convogliare su di se, e sul suo partito, una crescente quantità di potenziali elettori, cui egli si rivolge.

Durerà nel tempo? Suppongo di sì, perché il suo discorso tocca le corde giuste della popolazione, molto più delle argomentazioni di Di Maio e molto molto di più di quelle della sinistra e del Partito Democratico. Soprattutto perché i destinatari di questa comunicazione e di queste proposte politiche sono in particolare i settori sociali maggiormente in difficoltà, sia dal punto di vista economico che da quello sociale, e che sono certo quelli numericamente più numerosi nel nostro paese, dopo le crisi dell’ultimo decennio. E trovano nelle forze politiche oggi al governo, i 5 stelle ma soprattutto la Lega, un elevato livello di attenzione proprio nei loro confronti.

Non a caso i motivi che, secondo gli elettori italiani, hanno portato alla sconfitta del Partito Democratico, nonostante il premier Gentiloni non fosse così malvisto nemmeno dagli elettori leghisti e pentastellati, risiedano principalmente sull’incapacità del Pd di pensare (anche) ai cittadini con problemi economici e sociali. Viene sottolineato ancora una volta come le proposte e le politiche della sinistra o del centro-sinistra siano percepite – da chi non li vota – come più vicine alla società più garantita, quella dei ceti medi o medio-alti, mentre la fascia più debole della popolazione non viene tenuta in sufficiente considerazione. E il buon successo elettorale in alcune delle aree più benestanti del paese ne è una indiretta conferma, mentre i leader e gli stessi elettori della sinistra non paiono rendersene pienamente conto.

Un’analisi empirica che mette in relazione, a livello comunale, le scelte di voto ed il reddito pro-capite dei cittadini lombardi mostra in maniera evidente quanto è stato finora argomentato. La correlazione tra il voto al centro-sinistra e la ricchezza pro-capite appare significativamente alta e positiva (con un coefficiente pari a +0.45): all’incremento del reddito si incrementa anche la percentuale di consensi aggregata (Partito Democratico + LeU + Potere al Popolo) per le formazioni di sinistra; risulta al contrario negativa (r = -0.52) la stessa correlazione con i partiti di centro-destra, mentre non è significativa – benché con un segno positivo –  la correlazione tra voto ai 5 stelle e il reddito pro-capite.

Mentre nei comuni della provincia di Milano nessuna delle correlazioni, per nessuna delle formazioni politiche, appare significativa, e occorre quindi operare un’analisi più approfondita, esse sono non a caso particolarmente accentuate nelle province pedemontane (Brescia, Bergamo, Sondrio, Varese, Como e Lecco), vale a dire nelle maggiori roccaforti della Lega e del centro-destra, con coefficienti (negativi) che si avvicinano a 0.60. Come dire: più i comuni sono poveri, più si vota Salvini; più sono ricchi, più si vota Partito Democratico.




Cosa fu davvero Weimar

La lettura dell’articolo di Francesco Cundari, Corrispondenze da Weimar (‘Il Foglio del 7/8 luglio) -una lunga recensione del saggio di Benjamin Carter Hett, La morte della democrazia ( The Death of Democracy: Hitler’s Rise to Power and the Downfall of the Weimar Republic, Penguin Books 2018)- ci riporta una stagione storiografica che sembrava passata dopo decenni di revisionismo. È come se, per Cundari, Ernst Nolte, George L. Mosse, Renzo De Felice, Walter Laqueur, Domenico Settembrini, Andreas Hillgruber, François Furet, Augusto Del Noce, Hannah Arendt non fossero mai esistiti. Non è il ritorno, il suo, alle interpretazioni più o meno marxiste e gramsciane dei Nicola Tranfaglia, dei Guido Quazza, dei Domenico Losurdo, ma al loro stile di pensiero che divideva la storia in pecore bianche e in pecore nere e a queste ultime non riconosceva né ragioni, né ideali ma, nel migliore dei casi, l’imbecillitas di chi si lascia mobilitare in difesa di interessi non suoi. Scrive Cundari, citando Hett, «la chiave per capire perché molti tedeschi sostennero Hitler stava anzitutto nel “rifiuto nazista di un mondo razionale basato sui dati di fatto |…| Il trauma della sconfitta spinse milioni di tedeschi a credere a una particolare narrazione della guerra non perché fosse oggettivamente vera ma perché era emotivamente necessaria”. È dunque questo impasto di vittimismo e aggressività, ricerca del capro espiatorio e paura del futuro, narrazioni autoconsolatorie e calcoli sbagliati, a spianare la strada a Hitler». Forse è il mio impenitente revisionismo a indurmi a ritenere che “autoconsolatorio” sia proprio il modo di spiegare l’ascesa irresistibile del Fuhrer con la cecità dei suoi elettori e con le loro paure indotte ad arte dagli imprenditori del panico. Conta poco che il nocciolo duro del giudizio storico di Hett e del suo entusiasta recensore italiano si differenzi da quello marxista classico per quanto riguarda l’identità del nemico ontologico della democrazia, ieri il capitalismo, oggi il rigetto della globalizzazione. Sostituire alle semplificazioni di un tempo quelle odierne non porta lontano. Dire che il nazismo «fu anzitutto un “movimento di protesta nazionalista contro la globalizzazione”» è ancora più privo di senso che definirlo «l’espressione degli interessi degli ambienti più reazionari e più aggressivi della borghesia monopolistica», giacché, nel secondo caso, il diavolo è un soggetto sociale ben determinato, nel primo è una tendenza storica, per lo più indicata con un termine “globalizzazione” il cui significato odierno trasposto nella Germania e nell’Europa di cent’anni fa non rinvia a fatti precisi del passato ma a obiettivi polemici del presente. E infatti non mancano riferimenti a Trump, ai populisti e ai “sovranisti”, né ci viene risparmiato il monito del grillo parlante: stiamo attenti, non siamo diversi dai tedeschi degli anni Venti e Trenta, anche noi abbiamo i nostri imbonitori dediti allo smercio della paura e masse di individui sempre disposti a dare credito alle loro fake news giacché il mondo è vulgo.

Gli apologeti di Weimar possono tirare fuori dai loro bauli magici ogni sorta di demoni però non debbono esagerare nell’alterare i fatti o meglio, nel puntare i riflettori soltanto sulle zone luminose del loro Lost Eden. Mi scuso per la lunga citazione ma mi sembra emblematica del modo di narrare la storia di Hett/Cundari: la Germania di Weimar «aveva il più avanzato movimento per i diritti degli omosessuali. Aveva un attivo movimento femminista che, avendo ottenuto il diritto di voto, andava verso il diritto all’aborto. Il movimento dei lavoratori si era guadagnato la giornata di otto ore. E la Germania degli anni Venti non era all’avanguardia solo in campo politico e sociale. Dalla pittura espressionista all’architettura del Bauhaus, dalla letteratura alla scienza, non c’era campo del pensiero e delle arti in cui non sembrasse primeggiare. In quegli anni Bertolt Brecht rivoluzionava il teatro. Il cinema tedesco, con registi come Fritz Lang e Murnau, si imponeva sulla scena internazionale. Per non parlar delle scienze, in un tempo in cui circa un terzo delle riviste di fisica al mondo erano scritte in tedesco, e a Berlino insegnava un certo Albert Einstein».

Di qui la domanda che già vent’anni fa, dopo essere stati a scuola dai grandi storici revisionisti del Novecento, ci saremmo vergognati a porre: «Come fu possibile, dunque, che nel cuore di una democrazia così illuminata, moderna, si affermasse d’improvviso la barbarie nazista?». Ormai ce l’hanno spiegato centinaia di saggi, articoli, libri che riempiono intere scaffalature (nella mia modesta biblioteca occupano una parete!) ma, evidentemente, non sono degni di considerazione, forse perché non possono venir usati, in America, contro gli elettori di Trump e, in Italia, contro le orde di Salvini e di Di Maio.

Cundari, però, sa bene che il rifiuto di un mondo razionale non fu solo nazista ma caratterizzò una corrente di pensiero, la rivoluzione conservatrice, i cui aderenti forse non erano ottusi e imbecilli. Non potevano certo dirsi “barbari” Thomas Mann, Oswald Spengler, Othmar Spann, Arthur Moeller van den Bruck, Rainer Rilke, Hugo von Hofmannsthal, Ernst von Salomon, Ernst Jünger, Gottfried Benn, Carl Schmitt, Werner Sombart, per non parlare di uno dei massimi compositori del Novecento, Richard Strauss. Non tutti i conservatori rivoluzionari, è vero, aderirono al nazismo ma se non si riconobbero nelle istituzioni e nel clima di Weimar ci sarà stata pure una ragione.

Forse tutti condivisero il disgusto di Stefan Zweig «Ber­lino si trasformò nella Babele del mondo. Bar, parchi di divertimento, pub crebbero come funghi. Ragazzi truccati, i fianchi messi in rilievo dalla vita assottigliata ad arte, passeggiavano per la Kurfürstendamm, e non erano soltanto professionisti. Ogni studente di liceo desiderava raggranellare qualche soldo e nei bar con le luci abbassate si potevano vedere pubblici funzionari e magnati della finanza adescare senza vergogna marinai ubriachi. Neppure la Roma di Svetonio conobbe orge pari ai balli dei travestiti a Berlino, dove centinaia di uo­mini in abiti femminili e donne vestite da uomo danzavano sotto gli occhi indulgenti della polizia. Nel generale collasso dei valori, una sorta di pazzia parve cogliere proprio quegli strati della classe media che fin a quel momento erano parsi incrollabili nel, loro ordine. Giovani signore andavano van­tandosi con orgoglio delle loro perversioni e per una sedi­cenne essere in odore di verginità sarebbe stato considerato un’ignominia in tutte le scuole di Berlino».

«Non tutto è esagerazione nel racconto di Zweig», commenta Peter Gay, ne La cultura di Weimar (Ed. it. Dedalo, Bari 1978) ma se solo un terzo del racconto di Zweig fosse vero, non si dovrebbe essere più comprensivi nei riguardi dei tedeschi, che vedevano sconvolta la loro “casa in ordine” e crollare quel mondo della Tradizione, nutrito di luteranesimo, di senso del dovere, di spirito di servizio che aveva fatto la loro grandezza e li aveva resi così potenti da sconfiggere due imperi (quello degli Asburgo e quello di Napoleone III) nel giro di cinque anni? Del resto non è un caso che il recente Babylon Berlin del regista Tom Tykwe abbia riscosso un tale successo da sfidare i colossi americani. Come scrive Michela Tamburrino, su La Stampa, «Tutto il fascino ruggente di un periodo storico in passato solo sfiorato; siamo nei folli Anni Venti, a Berlino, capitale cosmopolita nella quale si incontrano gli estremi: lusso e povertà, femministe, omosessuali, nazisti, comunisti, in un’ubriacatura che precede la grande crisi finanziaria e l’inflazione, quando gli echi della Grande guerra non si sono spenti e si intravedono le premesse del disastro a venire». Si comprende che i tedeschi siano rimasti sconvolti da un’opera che non rievoca giorni radiosi ma un incubo senza fine, terminato in una tragedia da crepuscolo degli dei. »

Già prima di Babylon Berlin, però, un grande film, Cabaret di Bob Fosse (1972) ispirato ai racconti berlinesi di Christopher Isherwood, ci aveva mostrato l’ambivalenza di Weimar, la tolleranza, nel cabaret, per l’unione di un uomo e di una grossa scimmia e la scena campestre in cui ragazzi biondi in divisa nazista intonano un inno patriottico che commuove tutti i presenti.

In realtà, il fallimento di Weimar fu dovuto all’incapacità di tenere assieme la Gemeinschaft, la dimensione comunitaria (le tradizioni, lo spirito  nazionale, i “costumi della mente e gli abiti del cuore”, che sono irriducibili e non universalizzabili in quanto appartengono a un popolo particolare e non a un altro) e la Gesellschaft, la dimensione societaria (in cui maturano i diritti universali dell’uomo e del cittadino, le scienze, le grandi creazioni artistiche destinate a diventare “patrimonio  dell’umanità”). I momenti trasgressivi di Weimar non erano modalità dell’umano che chiedevano di essere riconosciute e inserite in un quadro di valori autenticamente pluralistico (come nei paesi anglosassoni) ma pugni nello stomaco della vecchia, putrefatta, società borghese che trovava nei disegni di George Grosz la sua crudele caricatura e nella satira di Bertolt Brecht la sua implacabile Erinni.

Un autentico liberale, come Raymond Aron, in poche righe, nel Saggio sulla destra. Il conservatorismo nelle società industriali (1957) -Ed. Guida, 2006- aveva detto l’essenziale «Cresciuto all’ombra della monarchia, il parlamento (della Repubblica di Weimar) avrebbe potuto ottenere la sovranità e condividere il prestigio delle istituzioni tradizionali. Promosso di colpo all’onnipotenza, dopo una rivoluzione involontaria, venne schiacciato dal disprezzo di chi si definiva nazionale, dal risentimento delle masse e dall’amarezza frutto di una sconfitta della quale aveva raccolto l’eredità». Senza “il prestigio delle istituzioni tradizionali” una democrazia non dura: Aron tirava in campo la “legittimità politica”, un concetto ormai incomprensibile nell’era dell’imperialismo del diritto e dell’economia.

Articolo inviato a Il Foglio




Parole di nebbia

Sul piano dei contenuti, questo governo non somiglia granché a nessun governo del passato. I governi del passato, infatti, o guardavano a sinistra, o guardavano a destra, o si barcamenavano fra destra e sinistra, alla ricerca di un compromesso, di un punto di equilibrio. Ora no: a giudicare dai programmi e dai primi atti questo governo cerca di essere, al tempo stesso, molto di destra e molto di sinistra, a settimane alterne. Ora un colpo inferto ai migranti (blocco dei porti alle Ong), ora un colpo inferto alle imprese (decreto dignità). In attesa del colpo definitivo, quello ai conti dello Stato (flat tax e reddito di cittadinanza).

Se sul piano dei contenuti tutto è cambiato, sul piano del metodo, dello stile di governo, dei modi di comunicazione, la continuità con il passato è perfetta. Come i governi che l’hanno preceduto, anche l’esecutivo Conte non esita ad abusare dello strumento del decreto legge, contando sul fatto che la prassi ormai è quella, e nessuno può impedire a un governo di fare ciò che è sempre stato concesso ai governi precedenti. Il cosiddetto “decreto dignità”, ad esempio, viola due principi fondamentali, l’uno stabilito dalla Costituzione, l’altro dalla legge 400 del 1988. Secondo il primo lo strumento del decreto può essere utilizzato solo “in casi straordinari di necessità e urgenza”. Quanto al secondo, la legge stabilisce che “i decreti devono contenere misure di immediata applicazione e il loro contenuto deve essere specifico, omogeneo e corrispondente al titolo”. Basta dare una scorsa all’accozzaglia di materie di cui si occupano i 15 articoli del cosiddetto decreto dignità per rendersi conto che il loro contenuto non è omogeneo, e che per nessuna di esse sussistono condizioni di necessità e urgenza, tantomeno di “straordinaria” necessità e urgenza (a meno di considerare straordinariamente necessaria e urgente l’esigenza di Di Maio di recuperare consenso e togliere spazio a Salvini).

Quel che più mi colpisce, però, non è la somiglianza con il passato nell’abuso dei decreti legge; quel che mi colpisce è l’abuso manipolatorio delle parole, accuratamente scelte per indorare la pillola che viene somministrata ai cittadini, nascondendo la sostanza di cui è fatta. Faccio tre esempi.

Pensioni d’oro. Nell’immaginario collettivo una pensione d’oro è una pensione di importo altissimo, non giustificata dal lavoro e dai meriti del beneficiario, tipicamente percepita da un membro della “casta”. Nelle dichiarazioni dei Cinque Stelle, e nel discorso di insediamento del presidente Conte, il concetto è stato esteso a chiunque percepisca una pensione alta con una componente retributiva. Ma alta quanto? Ancora a giugno Di Maio e Conte assicuravano che il taglio dei compensi avrebbe riguardato solo le pensioni sopra i 5000 euro netti. Poi, qualche settimana fa si è cominciato a parlare di 4-5000 euro, senza specificare se netti o lordi. Negli ultimi giorni la soglia è scesa a 4000 euro. Così un provvedimento, più o meno condivisibile, che colpisce (retroattivamente) i ceti medio-alti, viene presentato come sacrosanto intervento contro gli ingiustificati e intollerabili privilegi della “casta”.

Decreto dignità. Se si vara un decreto “a tutela della dignità dei lavoratori e delle imprese” ci si aspetta che esso intervenga con urgenza per impedire violazioni della dignità di questi due soggetti. Ma se mi si parla di “dignità”, e per di più si aggiunge che l’intervento ha carattere di “straordinaria necessità e urgenza”, a me vengono in mente fenomeni come la richiesta del pizzo (che offende la dignità delle imprese), e il caporalato nelle campagne (che offende la dignità dei lavoratori). In questo secondo caso, data la stagione estiva, sussisterebbe anche il requisito di urgenza. Pensate che bello: dopo anni in cui tutti i governi hanno preferito chiudere un occhio, il governo giallo-verde decide di stroncare il caporalato, ispezionare i campi e le baraccopoli, garantire ai lavoratori (spesso immigrati dall’Africa, quasi sempre privi di contratto) condizioni di lavoro e di salario umane. E invece no: se andate a leggere il decreto dignità, in mezzo a un guazzabuglio di norme che con il lavoro nulla hanno a che fare, quel che trovate sono soprattutto norme che rendono un po’ più difficile e costoso per le imprese attivare alcuni tipi di contratto perfettamente regolari, e che certo non offendono la dignità del lavoratore.

Reddito di cittadinanza. Non sappiamo ancora che forma prenderà il reddito di cittadinanza, se e quando verrà varato. Ma già sappiamo, perché esistono progetti e disegni di legge, che non sarà un reddito di cittadinanza, ma una normalissima misura di reddito minimo per le famiglie povere. Per reddito di cittadinanza si intende un reddito dato a ogni individuo (anche ai ricchi) senza alcuna condizione. Per reddito minimo si intende un reddito dato esclusivamente alle famiglie povere, sotto condizioni stringenti: ricerca attiva di un lavoro, corsi di formazione, prestazioni di lavoro gratuite, disponibilità ad accettare offerte di lavoro. Le proposte dei Cinque stelle sono proposte di reddito minimo, camuffate da reddito di cittadinanza. La loro filosofia è molto simile a quella del reddito di inclusione varato dal Pd, con due sole differenze: tante nuove assunzioni nei centri per l’impiego, molti più soldi (se troveranno le coperture) ai beneficiari. Ed è curioso che il Pd continui a dire che reddito di cittadinanza significa “dare i soldi alla gente perché non lavori”, anziché andare a vedere che cosa effettivamente c’è scritto nei progetti del Movimento Cinque Stelle.

A che serve chiamare reddito di cittadinanza quello che ovunque, in Europa e nella letteratura scientifica, si chiama reddito minimo?

Dal punto di vista del Pd serve a differenziare il Pd stesso dai Cinque Stelle (noi vogliamo creare posti di lavoro, voi volete tenere la gente a casa). Dal punto di vista dei Cinque stelle serve a nascondere la sostanza economica della loro proposta, che peraltro è la medesima del reddito di inclusione del Pd: sussidiare il Mezzogiorno. Chiamandolo “reddito di cittadinanza” se ne sottolinea il carattere universalistico, di provvedimento equo in quanto rivolto a tutti i cittadini. Eppure i dati dicono chiaramente che, a parità di condizione economica, la possibilità di beneficiare di misure come il reddito di inclusione o il cosiddetto reddito di cittadinanza, sarà sensibilmente maggiore per un cittadino del Sud che per uno del Nord e, a parità di zona geografica, per un abitante di un piccolo comune che per uno di una grande città.

La ragione è assai semplice: nonostante il livello dei prezzi sia diversissimo da Nord a Sud, nonché fra grandi e piccoli centri, la soglia di accesso è definita in termini nominali anziché in termini reali. Così può accadere che, a parità di potere di acquisto, due famiglie siano l’una inclusa e l’altra esclusa solo a causa del luogo in cui risiedono (zona del paese, ma anche comune grande o piccolo). E infatti, secondo gli ultimi dati disponibili, il Nord ha il 37% dei poveri assoluti ma solo il 18% dei beneficiari (in gran parte immigrati). Il Centro ha il 15% dei poveri, ma solo il 12% dei beneficiari. Il Sud ha il 48% dei poveri ma il 70% dei beneficiari. Questo tipo di iniquità territoriale è il difetto comune di tutte le misure di sostegno delle famiglie povere, dalla social card di Tremonti al Sia di Letta, dal Rei di Renzi al cosiddetto reddito di cittadinanza di Di Maio (l’unica proposta che non ha questo difetto è il minimo vitale dell’Istituto Bruno Leoni, ovviamente ignorato dalla politica). Ed è anche uno dei più grandi errori delle politiche di sostegno alle zone svantaggiate del passato, che troppo spesso hanno preferito elargire sussidi impropri e dunque iniqui (qualcuno ricorda le false pensioni di invalidità?) piuttosto che fare investimenti e creare posti di lavoro.

Dunque: si parla di pensioni d’oro per non riconoscere che si tagliano le pensioni alte, si parla di dignità per non dire che si irrigidisce (un pochino) il mercato del lavoro, si parla di cittadinanza per nascondere i clamorosi squilibri nell’accesso al sussidio. Non è una novità: già nel 1981, parlando della comunicazione pubblica, Natalia Ginzburg denunciava con sgomento: “il fine è dare della nebbia, e ottenere, con la nebbia, rispetto e venerazione”. Sono passati quasi 40 anni, ma siamo sempre lì: le parole della politica sono solo nebbia che circonda le cose, le indora, o semplicemente le traveste, le maschera, le camuffa. Parole che, in ogni caso, non dicono la verità.