Tutta colpa di Renzi?

Da mesi, se non da anni, il ritornello è sempre il medesimo: se il Pd va male, se il Partito Democratico è uscito dalla scena politica e dall’immaginario collettivo del “popolo della sinistra”, la colpa è soprattutto del suo ultimo segretario Matteo Renzi. Lui è il principale imputato di un trend che ha visto il suo partito passare dal 33.2% del 2008 al misero 18.7% delle ultime consultazioni legislative. La crisi della sinistra e del suo principale referente politico sarebbe addebitabile, quasi in toto, all’ex-sindaco di Firenze, che l’ha portata su posizioni totalmente aliene dalla mainstream della tradizione post-comunista, verso tratti decisamente liberali, se non evidentemente conservatori.

Giorni fa. Intervista televisiva. Un operaio licenziato perché la sua fabbrica è stata acquisita da una multinazionale francese e trasferita nel nord della Francia: è stata colpa di Renzi e del Pd! Ora, dopo anni in cui ho votato Pci e la sinistra, ho scelto la Lega di Salvini. L’unico che può invertire la rotta che ha preso il nostro paese.

Sardegna. Agosto 2018. Festa del porceddu. Tra un discorso e l’altro, un anziano contadino: ho votato Lega, è il vero partito del cambiamento. Renzi ci ha ridotto proprio male, a noi sardi, ci ha ridotto in miseria. E sì che gli avevo pure dato il mio voto, la volta precedente. Purtroppo.

Renzi, Renzi, Renzi. Un fantasma si aggirerebbe dunque per l’Italia, il fantasma di colui che, a dispetto del glorioso partito che tentava di costruire il volto nuovo del paese, l’ha portato sostanzialmente alla rovina. Ma sarà vero? Sarà realmente tutta sua la colpa?

Osserviamo intanto per un attimo il trend dei consensi dell’area vicina al centro-sinistra in questo nuovo secolo, dal 2001 ad oggi (fig.1). Come si può notare, nei primi anni del decennio Ds e Margherita, separati o sotto il simbolo unitario dell’Ulivo, hanno costantemente ottenuto un successo elettorale di poco inferiore ad un terzo dei votanti. L’exploit di Veltroni del 2008, che correva per la prima volta con il neonato Partito Democratico, in realtà non è che sia stato un vero exploit: ha migliorato soltanto di poco, un paio di punti percentuali, il retaggio delle formazioni politiche aggregatisi nel Pd e, considerando  inoltre il fatto che il resto della sinistra (Rifondazione & soci) sia praticamente scomparsa, non si può che giungere alla conclusione che il bacino elettorale di quell’area non riuscisse ad andare molto oltre il 35-36% della popolazione italiana.

Fig 1. Consensi elettorali. Politiche + Europee

Una storia non inedita, peraltro. Una storia che ci riporta agli anni della prima repubblica, quando quell’area (sommando il Pci con le altre piccole formazioni di sinistra, come Democrazia Proletaria) anche allora non otteneva una quantità di consensi molto differente da quella di Pd e Rifondazione. Forse era inutile illudersi: gli italiani favorevoli alla sinistra di allora (o al centro-sinistra odierno) non sono mai stati nemmeno lontanamente prossimi al 40% della popolazione.

Il Partito Democratico, per certi versi, aveva scommesso sull’allargamento di quella base elettorale, tentando di attirare a sé anche una parte inedita di elettori, che avrebbe potuto guardare alla proposta del Pd con occhi nuovi, diversi dal passato. Il Pd, per riuscirci avrebbe dovuto partire dal quel 33% di Veltroni, incrementando anno dopo anno il suo bacino di consenso.

Ma così non è stato. Anzi. Dal 2008 in poi, in tutte le consultazioni legislative (fig.2) il Pd è costantemente retrocesso nel favore degli italiani, prima con Bersani (-8% rispetto a Veltroni) e poi con lo stesso Renzi (un ulteriore -6.5% rispetto a Bersani), in una costante e continuativa incapacità di intercettare quei settori sociali cui puntava per accrescere il proprio appeal. Tutti “colpevoli”, dunque, parrebbe di dover dire. Non soltanto infatti il Pd non è riuscito a diventare il referente di un nuovo elettorato, ma poco alla volta ha perso sia una parte dei suoi antichi estimatori ex-Pci, con Bersani, che anche dei nuovi, di quelli che avevano sperato in un cambio di prospettiva con Renzi.

Fig.2 Consensi elettorali. Solo Politiche – Camera

Perché, se torniamo ad osservare il primo grafico, si può chiaramente individuare un momento in cui, all’interno di questo cammino da gambero, il Partito Democratico ha vissuto una situazione così anomala che oggi molti stentano a credere che sia davvero accaduto. Nelle europee del 2014, pochi mesi dopo il suo insediamento, Matteo Renzi ha davvero compiuto un mezzo miracolo, andando a superare per la prima volta nella storia l’asticella del 40%. Certo, con un numero di votanti inferiore a quelli di Veltroni, ma comunque un risultato simbolicamente significativo.

Renzi era stato dunque capace di convincere una fetta importante di elettori che, con lui, sarebbe iniziato realmente un nuovo corso, un nuovo partito di centro-sinistra che si smarcava dai retaggi del passato, per guardare ad un futuro diverso. Inedito. La sua colpa, forse, è stata proprio quella di candidarsi ad un modo nuovo di governare, ad una modalità politica inedita per un partito di sinistra, senza averne realmente le capacità “politiche”. Il suo fulgore è durato poco, lo sappiamo, e presto è rientrato nei consueti parametri, inimicandosi inoltre con il suo comportamento gran parte di chi aveva per un attimo creduto in lui. Ma probabilmente la vera anomalia è stata proprio quel suo grande successo, che ha fermato per un attimo il declino inevitabile del Pd. Che poi è ripreso in maniera ineluttabile, con o senza Renzi.




Una manovra coraggiosa?

A proposito della “manovra del popolo”

Il presidente del Consiglio ha definito “coraggiosa” la manovra del suo governo, che rifiuta di ridurre il deficit pubblico e anzi pianifica di mantenerlo per tre anni al 2.4% del Pil. I critici del governo giallo-verde, per parte loro, vedono nella manovra una sorta di svolta epocale, una specie di contro-riforma che capovolge la linea di prudenza adottata dai governi che lo hanno preceduto (Renzi e Gentiloni).

Mi permetto di dissentire radicalmente con entrambi. No, si possono scegliere mille aggettivi per definire questa manovra, ma “coraggiosa” no, quello non è l’aggettivo giusto. Nella lingua italiana un comportamento è coraggioso se comporta l’assunzione di un rischio per chi lo mette in atto, e solo per chi lo mette in atto. Se ti butti in un fiume in piena per salvare un bambino che sta annegando, stai compiendo un atto coraggioso. Ma se induci un tuo amico a fare un investimento che potrebbe anche fargli perdere metà del suo patrimonio, e magari pretendi anche una provvigione per i consigli che gli dai, non ti stai comportando in modo coraggioso, ma semmai in modo opportunista e irresponsabile.

Ora, comunque la si pensi sulla “manovra del popolo”, l’aggettivo giusto non è certo coraggioso. Non pretendo di stabilire quale sia l’aggettivo giusto, perché questo dipende dal giudizio che diamo sulle intenzioni dei nostri governanti e sulle conseguenze delle loro azioni. Ma la gamma degli aggettivi è tutta un’altra: “audace”, se pensiamo che anche loro corrano qualche rischio, “imprudente” se pensiamo che tutti corriamo dei rischi, “miope” se pensiamo che le conseguenze di lungo periodo siano negative per l’Italia, “suicida” se pensiamo che porterà (solo) alla caduta del governo, “incosciente” se pensiamo che porterà anche alla nostra rovina, “avventurista” se pensiamo che porterà alla catastrofe del Paese ma che “loro” troveranno il modo di salvarsi.

Ecco perché parlare di coraggio è del tutto fuori luogo. Coraggioso è un governo che, per il bene del Paese, mette in atto misure impopolari, e perciò corre, consapevolmente, il rischio di perdere il consenso. Una misura popolare, giusta o sbagliata che sia, non richiede alcun coraggio, perché il consenso lo alimenta. Ecco perché della “manovra del popolo” tutto si può dire, tranne che sia coraggiosa.

Detto questo, possiamo almeno ammettere che la manovra, giusta o sbagliata che sia, audace o incosciente, sia comunque una svolta radicale rispetto a quelle attuate dai passati governi?

Prima di provare a rispondere a questa domanda, vorrei far notare una cosa: la tesi della svolta epocale accomuna i critici più feroci e i difensori più accaniti dell’attuale governo. I critici considerano saggi e gloriosi gli anni dei governi Pd, i difensori del governo (specie i Cinque Stelle) non perdono occasione per dire che siamo entrati nella Terza Repubblica, e che ora – finalmente – tutto cambierà. In poche parole: il giudizio sul passato è opposto, ma l’idea di una rottura radicale con esso è perfettamente condivisa.

E’ su questa analisi comune che vorrei sollevare qualche dubbio. Io vedo tanta, tanta continuità con il passato, sia con quello recente sia con quello remoto. E mi conforta di non essere il solo a notarlo. Come non essere d’accordo, ad esempio, con Giorgia Meloni quando nota che, più che traghettarci nella terza Repubblica, Di Maio sta riesumando le peggiori pratiche della prima, quella dei Fanfani e dei Cirino Pomicino? E’ allora che la politica imparò a comprare il consenso con misure assistenziali (ricordate le baby pensioni? le false pensioni di invalidità?) che fecero esplodere il debito pubblico che ora soffoca l’economia e limita i margini di manovra della politica stessa. Ma non è solo il passato più remoto che ritorna. L’economista Roberto Perotti, per qualche tempo collaboratore del governo Renzi, ha ricordato che nei gloriosi anni del Pd (2013-2017) il disavanzo è sempre stato maggiore di quello programmato, e comunque superiore al 2.4% che ora tanto ci preoccupa. Altri hanno giustamente fatto notare che fu Renzi, appena un anno fa, a proporre di mantenere il disavanzo al 2.9% per ben 5 anni, contro il 2.4% (per 3 anni) dell’attuale governo.

Ma c’è molto di più e molto ancora. Si pensa giustamente che la fretta di Di Maio sul cosiddetto reddito di cittadinanza sia dettata dall’approssimarsi delle elezioni europee (maggio 2019), cui vuole arrivare con una misura-simbolo già in vigore, pur sapendo benissimo che quella misura non potrà che risolversi in pura assistenza finché i centri per l’impiego non saranno stati riformati, e la crescita non avrà acquistato vigore. Ma che cosa c’è di diverso rispetto agli 80 euro di Renzi, anche allora presentati come sostegno alla domanda, ma in realtà concepiti essenzialmente per vincere alle elezioni europee?

E la cosiddetta pace fiscale? Che cos’altro nasconde dietro l’eufemismo “pace” se non l’ennesimo condono, la solita sanatoria, di nuovo in perfetta continuità con la prima e la seconda Repubblica?

Per non parlare dell’orientamento generale della politica economica. Ci viene presentato come un cambio di rotta rispetto all’austerità che avremmo infruttuosamente praticato in questi anni. Ma la realtà è che in questa legislatura, lo ha ricordato più volte l’economista Veronica De Romanis, l’orientamento della politica economica è sempre stata espansivo, non restrittivo. Ancora una volta, la differenza con il passato è solo che, di una medicina che non ha funzionato (siamo tuttora ultimi in Europa per crescita del Pil), ora si prova ad aumentare la dose, anziché cambiare la medicina stessa. So che ricordarlo suscita incredulità (e qualche malumore), ma la realtà è che di austerità l’Italia ha fatto esperienza solo sotto il governo Monti, e l’austerità “buona” – quella che aggiusta i bilanci pubblici riducendo la spesa e tagliando le tasse – semplicemente non l’ha mai sperimentata, né con Berlusconi, né con Monti, né con Letta-Renzi-Gentiloni.

Ecco perché l’opposizione a questo governo è impotente, o addirittura si capovolge in consenso (è il caso della sinistra radicale, da sempre fautrice della spesa in deficit). La ragione è semplicemente che non c’è una differenza qualitativa vera con i governi precedenti, ma solo una differenza di grado, un “salto di imprudenza” mi verrebbe da chiamarlo, perché la medesima politica di prima ci viene somministrata in dosi più massicce, e quindi più rischiose.

Con questo non intendo dire che la politica economico-sociale di questo governo ci porterà necessariamente al disastro, o addirittura a uscire dall’euro. Questo non può saperlo nessuno, e l’opposizione che se ne proclama certa dà solo prova di isteria e di disfattismo. Quel che voglio dire è semplicemente che il cocktail che ci stanno somministrando è pericoloso, molto pericoloso. Non tanto perché il deficit programmato è al 2.4%, ovvero al medesimo livello degli ultimi anni. Ma perché quel deficit si accompagna a due ingredienti altamente infiammabili, se mi si consente l’immagine: una manovra sbilanciata dal lato della spesa, un drammatico deficit di credibilità, aggravato dall’umiliazione inflitta al ministro dell’Economia, uno dei pochi che un po’ di credibilità ce l’aveva.

Per questo, tutto possiamo pensare di questo governo, persino che le cose alla fine andranno bene (dopotutto nessuno ha la palla di vetro), ma su una cosa sarebbe meglio non autoingannarci: ci sono già stati parecchi danni per il bilancio pubblico, per i risparmiatori, per le imprese, e nulla assicura che non ve ne saranno altri, anche molto più gravi, quando dovessero aumentare le rate dei mutui e le banche stringessero i cordoni del credito. Insomma la “manovra del popolo” apre molte speranze, forse anche qualche opportunità reale, ma carica sul popolo stesso una notevole dose di incertezza e di rischio.

Questo è il motivo per cui possiamo chiamarla come vogliamo, ma non coraggiosa. Almeno finché continuiamo a pensare, con il dizionario della lingua italiana, che coraggioso è chi mette in pericolo sé stesso a beneficio degli altri, non chi il rischio lo fa correre a un intero paese e si comporta come se il rischio fosse zero. Proprio come, ironia della sorte, facevano le (giustamente) vituperate banche fallite, che vendevano obbligazioni ad alto rendimento senza avvertire i risparmiatori dei rischi che si assumevano.

 




Quel che non funziona nel reddito di cittadinanza

Intanto cominciamo a chiamare le cose con il loro nome: quello su cui si polemizza in questi giorni non è il reddito di cittadinanza, che non esiste in nessuna parte del mondo (quello dell’Alaska è un modesto bonus di meno di 200 dollari al mese), e in Svizzera è stato rifiutato dalla maggioranza dei cittadini in un recente referendum. Quello di cui si parla è semplicemente il reddito minimo, una misura universale di sostegno del reddito che esiste da anni in tutti i paesi dell’Unione europea (tranne che in Grecia), e in Italia è stata progressivamente, e molto limitatamente, introdotta dagli ultimi governo di centro-sinistra.

In linea generale il reddito minimo è un sussidio che viene erogato a chi non raggiunge una certa soglia minima di reddito, ed è legato al rispetto di alcune condizioni, tipo frequentare corsi di formazione, cercare attivamente un lavoro, essere disponibile ad accettare (ragionevoli) offerte di lavoro. La filosofia è sostanzialmente la medesima di quello che i Cinque Stelle si ostinano a chiamare “reddito di cittadinanza”, sicuramente un’espressione più glamour che “minimo vitale”, o “sussidio ai poveri”, o “social card”.

Ma quando si può dire che una misura di reddito minimo funziona bene?

Le condizioni base sono tre.

La prima è che la misura sia destinata ai poveri veri e propri, che sono solo i poveri assoluti, ossia chi fa parte di famiglie che non sono in grado di acquistare il cosiddetto “paniere di sussistenza”, ossia l’insieme minimo di beni e servizi che assicurano un’esistenza dignitosa. Se anziché essere agganciato alla povertà assoluta il reddito minimo venisse agganciato a quella relativa (guadagnare meno di metà della famiglia media) si assisterebbe al paradosso per cui il sostegno potrebbe aumentare anche quando non si è più poveri (solo perché l’economia cresce), o diminuire quando l’economia va male (perché l’asticella della povertà relativa si abbassa).

La seconda condizione è che la definizione di povertà assoluta adottata tenga conto del livello dei prezzi, che in un paese come l’Italia è molto differenziato, non solo fra Nord e Sud ma anche fra piccoli e grandi centri. Un punto questo su cui hanno più volte attirato l’attenzione l’Istituto Bruno Leoni, con la proposta di un “minimo vitale” agganciato al livello dei prezzi, e le associazioni del Terzo settore, con varie proposte e piani di lotta alla povertà.

La terza condizione è che il reddito minimo non disincentivi troppo la ricerca di un lavoro, e soprattutto non favorisca eccessivamente comportamenti opportunistici, come accade quando si rinuncia a un lavoro per non perdere un sussidio, o si lavora in nero per conservarlo. Questa è chiaramente la condizione più difficile da rispettare, perché, contrariamente a quanto talora si sente affermare, la capacità dei centri per l’impiego di trovare un lavoro ai percettori del sussidio non dipende tanto dalla efficienza e dalle risorse dei centri stessi, quanto dalla crescita dell’economia: se, come oggi in Italia, il Pil ristagna e ci sono quasi 3 milioni di disoccupati, è inevitabile che la maggior parte dei percettori del sussidio non riceva alcuna offerta di lavoro.

Vediamo ora le due principali proposte in campo, quella vigente del Pd (il Rei) e quella imminente dei Cinque Stelle. Il Rei, o “reddito di inclusione”, tendenzialmente rispetta la prima condizione (si rivolge ai poveri assoluti), ma non la seconda (non è agganciato al livello dei prezzi). Quanto alla terza (non disincentivare la ricerca di un lavoro), la rispetta solo perché il sostegno è molto modesto e probabilmente soggetto a troppe condizioni.

Il reddito minimo in versione Cinque Stelle, invece, non rispetta nessuna delle tre condizioni che abbiamo esposto. In primo luogo, perché si propone di sostenere chi è in posizione di povertà relativa, anziché i veri poveri, ossia chi è in condizione di povertà assoluta. In secondo luogo perché non tiene conto del livello dei prezzi, e quindi taglierà fuori buona parte dei poveri del centro-nord e dei grandi centri urbani. In terzo luogo perché non prevede alcun meccanismo per evitare che chi percepisce il sussidio, ben sapendo che i centri per l’impiego non saranno in grado di trovargli un lavoro, si adagi nella condizione di sussidiato, tanto più che il sussidio colma interamente la differenza fra il reddito percepito e la soglia di povertà relativa, posta vicina a 10 mila euro l’anno per un singolo, e oltre 20 mila per molte tipologie familiari.

Ma non è tutto. Nel reddito di cittadinanza in formato Cinque Stelle ci sono altre due insidie, di cui una è stata notata pochi giorni fa da Salvini, l’altra potrebbe essere notata da una sinistra fedele all’ideale dell’eguaglianza.

L’insidia-Salvini è che, se non si delimitano accuratamente i requisiti per godere del reddito minimo, circa un terzo delle risorse non andrebbero agli italiani, bensì agli immigrati, che – pur essendo l’8% della popolazione, sono il 30-35 % dei poveri. Può essere giustissimo sostenerli (non siamo per l’integrazione?), ma in quel caso non sarebbe semplicissimo spiegarlo a coloro cui si è raccontato che spendiamo troppi soldi per l’accoglienza.

L’insidia egualitaria, di cui stranamente né il Pd né Leu si sono ancora accorti, è che se i Cinque Stelle riuscissero a varare il reddito minimo secondo le linee del loro disegno di legge, l’effetto sarebbe una crescita clamorosa delle diseguaglianze negli strati medio-bassi della popolazione. Tutto infatti lascia prevedere che, nel giro di pochi anni, a una minoranza di poveri che lavorano duramente e galleggiano intorno alla soglia di sussistenza, si affiancherebbe un esercito di poveri che percepiscono un reddito decoroso ma, non per colpa loro bensì a causa di un mercato del lavoro asfittico, possono permettersi di non lavorare.

Ma forse non dobbiamo stupirci troppo. Dopotutto siamo già abituati a una sinistra che fa la destra, non sarà così difficile abituarci a una destra che fa la sinistra. Sì, perché le ragioni dell’equità, in questo caso, non le difende la presunta sinistra dei Cinque Stelle, ma la presunta destra della Lega, l’unica forza che sembra aver intuito il lato oscuro del cosiddetto reddito di cittadinanza.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 22 settembre 2018




Elezioni europee, contano i migranti. Intervista a Luca Ricolfi

Domanda. La campagna elettorale per le Europee di maggio sta entrando nel vivo con larghissimo anticipo. Un antipasto è stato il voto europeo sulle sanzioni ad Orban. Che ci dice la condanna al premier ungherese?

Risposta.  Ci dice che l’Europa è debole, debolissima, anzi impotente. Giuste o sbagliate che siano le sanzioni che l’Europa infligge agli Stati membri, o le raccomandazioni con cui li irrora quotidianamente, il punto è che le autorità europee (Commissione, Consiglio, Corte dei diritti dell’uomo ecc.) non sono assolutamente in grado di far rispettare le regole che tutti hanno sottoscritto. Vale per i conti pubblici, ma anche per le violazioni dei diritti dell’uomo, o l’obbligo di redistribuzione dei migranti.

E quando ci si erge a custodi delle regole, e poi si permette a (quasi) tutti di violarle, è naturale che si affermi l’idea che ogni Stato può fare un po’ quel che vuole.

D. Questo caos che rapporto ha con il ritorno dei nazionalismi?

R. Il primo combustibile che ha fatto rinascere i nazionalismi è stato fornito dall’Europa stessa, che prima ha formulato regole non applicabili a tutti, poi ha permesso a molti Stati (comprese Germania e Francia) di infischiarsene delle regole. E ci stupiamo che Orban pretenda di fare lo stesso?

D. Il presidente francese Macron avversa Orban per misure contro l’immigrazione che nei fatti ha preso la stessa Francia. Che partita è quella tra Francia, e con essa la Germania, contro Ungheria e anche l’Italia di Salvini? Quali sono i blocchi in campo?

R. Non vedo veri blocchi, ma tanti piccoli interessi di partito, prima ancora che nazionali. Ogni leader europeo pensa alle prossime elezioni, e così contribuisce alla distruzione dell’edificio comune. Quanto a Emmanuel Macron e alla Francia, penso che il presidente francese non faccia che continuare una politica che dura da anni, e che è stata ben documentata da Roberto Napoletano nel suo libro sulla crisi (Il cigno nero, ndr). La Francia ha interessi economici opposti a quelli dell’Italia sullo scacchiere libico, e non da ieri ci vede come un regime arretrato e illiberale (si pensi all’asilo concesso ai terroristi rossi, motivato con il presunto regime di polizia instaurato in Italia negli anni della lotta alle Brigate Rosse).

D. Come spiega il voto di Forza Italia su Orban? Ha abbandonato il Ppe per sposare le ragioni della Lega di Matteo Salvini.

R. Orban fa parte del Partito popolare europeo. Mi pare più esatto dire che nel partito popolare ci sono idee diverse. Probabilmente Silvio Berlusconi, più che sposare le idee della Lega, pensa che l’atteggiamento dell’Europa verso Orban sia discutibile. Perché le preoccupazioni dell’Europa sull’Ungheria sono comprensibili su certi versanti (limitazioni della libertà di stampa, o dell’indipendenza della Magistratura), ma opinabilissime sul versante migratorio. La malattia dell’Europa è il rifiuto della storia. Dopo aver accelerato imprudentemente l’ingresso nell’Unione degli stati ex comunisti, l’establishment europeo ha voluto ignorare le enormi differenze storiche ed economiche fra Europa occidentale ed Europa dell’Est. Di qui l’idea che, per il solo fatto di aver aderito all’Unione, paesi le cui istituzioni e le cui economie assomigliano alle nostre negli anni ’50 e ’60 potessero istantaneamente adottare la nostra mentalità, i nostri valori, i nostri costumi.

D. La scommessa era che l’ingresso nella Ue ne avrebbe accelerato i processi diciamo di occidentalizzazione.

R. Ma la storia non funziona così. Può accelerare, bruciare alcune tappe, ma non saltarle tutte. Lo sanno i nostri governanti che nella civilissima Francia di De Gaulle, Pompidou, Giscard D’Estaing, la gente veniva ancora ghigliottinata? E che si dovrà attendere l’elezione di Mitterand, nel 1981, per vedere l’abolizione della pena di morte? Per non parlare dei tempi lunghi dell’economia.

D. Ma questo cosa c’entra con il rifiuto dell’accoglienza dei migranti?

R. C’entra. Come si fa a non comprendere che l’atteggiamento di un popolo verso gli immigrati non dipende solo dal suo (presunto) livello di civiltà ma anche dal Pil e dal mercato del lavoro? Un paese come l’Ungheria, che negli ultimi anni si è duramente opposto agli ingressi legali, lo ha fatto con un livello di benessere e un tasso di occupazione fra i più bassi d’Europa; mentre i paesi che hanno generosamente accolto migranti lo hanno fatto in una condizione di benessere, con milioni di posti di lavoro che i nativi non erano più disposti ad occupare.

D. Salvini sembra stia tessendo una vera rete in Europa, dopo Orban ora con l’estrema destra austriaca capitanata dal vicencancelliere Strache.

R. Più che blocchi fra Stati, vedo alleanze fra famiglie politiche. In Europa il populismo è prevalentemente “di destra”, con le rilevanti eccezioni di Syriza, Podemos, Cinque Stelle. Quindi un esperimento populista-sovranista come quello italiano diventa difficile da immaginare. Più verosimile è che si formi, dopo le elezioni, un’alleanza fra partiti di destra “rispettabili” (tipo Ppe) e partiti di destra “scavezzacollo” (tipo Lega, Fronte Nazionale, Alternative für Deutschland, ecc.). Sempre che, naturalmente, i partiti che hanno governato l’Europa in questi 40 anni, ossia socialisti, popolari, conservatori, liberali, non riescano nel miracolo di ottenere più del 50% dei voti.

D. Quanto della sfida europea si giocherà sul terreno dell’immigrazione?

R. Temo più del 50%, perché i temi economici sono troppo complicati. Ma soprattutto perché mancano del tutto idee-forza, salvo la solita contrapposizione fra chi vuole sforare il deficit del 3% e chi raccomanda austerità.

D. Macron, che sfida i sovranisti, ha annunciato una misura populista come il reddito di cittadinanza, che è il cavallo di battaglia del Movimento5stelle. Che cosa ci dice questa scelta?

R. Che il ragazzo è sveglio, e ha capito che senza idee nuove (o che sembrano nuove) si scompare molto rapidamente. Però, per quel che se ne sa, la proposta di un “reddito universale di attivazione” è poco incisiva in termini di risorse stanziate, e ha il consueto difetto di tutte le misure di reddito minimo: può funzionare solo se l’economia cresce e i centri per l’impiego hanno un elevato numero di offerte di lavoro da sottoporre a chi percepisce il sussidio. In caso contrario la misura diventa di tipo assistenziale, e disincentiva la ricerca di un lavoro.

D. Che risultato si aspetta per l’Italia dal voto alle prossime europee?

R. Quasi tutto dipenderà da quanti e quali errori faranno di qui a maggio i partiti di governo. Tendo a pensare che ne faranno pochi, e potrebbero incassare un buon risultato, soprattutto la Lega.

D. Uno scenario per la stessa Italia?

R. Penso che, ancora una volta, crederemo che tutto sia cambiato, salvo accorgerci – fra qualche anno – che l’Italia è rimasta quello che è sempre stata dagli anni ’70 in poi: un paese incapace di grandi scelte, prigioniero delle tribù che se ne contendono le spoglie.

D. Non può mancare una domanda sul centrosinistra. Nel confronto sull’immigrazione così come sull’Europa l’opposizione, a partire dal Pd, pare non esistere, essere afona. Tutta colpa dei media?

R. Colpa dei media? Io li trovo fin troppo gentili, sia con il governo che con l’opposizione. Se avessimo una vera opinione pubblica, e i media facessero il loro dovere fino in fondo, nessuno dei politici attuali resisterebbe più di una settimana sulla scena.

Il centro-sinistra non ha bisogno dell’ostilità o dell’indifferenza dei media per estinguersi: bastano i suoi dirigenti. In tanti anni che osservo la sinistra, non avevo mai visto un vuoto di idee così spinto, e così poca consapevolezza degli errori commessi.

D. Dopo la guerra delle cene con Nicola Zingaretti, l’ex ministro Pd Carlo Calenda ha detto che l’unico segretario possibile per il partito è un buono psichiatra. Stiamo a questo punto?

Sì, siamo a questo punto. E lo siamo per una ragione molto semplice: a differenza di quel che succedeva con il Partito comunista, la maggior parte dei dirigenti del Pd è priva di idee, di cultura e di autentica dedizione a una causa che vada oltre la promozione di sé stessi. In queste condizioni è del tutto naturale che quel che residua siano quasi esclusivamente gli interessi personali. I quali non creano problemi in un’azienda, in una squadra di calcio, in un’emittente televisiva, perché lì fa parte delle regole del gioco che ognuno promuova sé stesso, mentre ne creano di enormi in un partito, perché lì la finzione che si pretende di mantenere viva è quella di avere a cuore soprattutto il bene comune. Insomma, per i politici di oggi mantenere quella finzione richiede dosi troppo grandi di falsa coscienza, di autoinganno. La mente rischia di andare in pezzi. E quando la mente vacilla, si pensa giustamente allo psichiatra. Sì, Calenda ha colto perfettamente nel segno.

Intervista a cura di Alessandra Ricciardi pubblicata su Italia Oggi il 19 settembre 2018



I partiti politici hanno rovinato l’Italia?

A Roberto Pertici

Nei giorni 10 e 11 settembre si è svolto a Santa Margherita Ligure, col patrocinio del Comune, della Regione Liguria, del Ministero degli Affari Esteri, del Corpo Consolare di Genova, il primo Festival della Politica in Liguria. A organizzarlo è stata l’Associazione Culturale Isaiah Berlin, intitolata al grande filosofo liberale di Oxford che trascorreva diversi mesi dell’anno nella sua villa sulle alture tra Santa Margherita e Portofino. Sono stati giorni di civilissimo confronto tra giuristi, economisti, storici, filosofi, politici di diversa area ideologica ma alieni dall’insulto, dalla criminalizzazione dell’avversario, dal processo alle intenzioni che ormai caratterizzano dibattiti televisivi, talk show, interviste sui quotidiani e, soprattutto, twitter. Temi caldi come la crisi della democrazia, la globalizzazione, il sovranismo, il populismo sono stati affrontati in maniera chiara e pacata: ciascun relatore, nelle sei tavole rotonde, ha esposto le sue ragioni senza aver l’aria di possedere la verità in tasca. Qualcosa a cui non si era più abituati.

Intervenendo, anch’io, sul tema della crisi della democrazia, mi è scappato di dire, incautamente, che «a rovinare l’Italia sono stati i partiti». L’ho sempre pensato ma affermazioni come questa non si fanno en passant : se manca il tempo per motivarle storicamente e teoricamente, è meglio lasciar perdere. Giustamente, quindi, mi è stato fatto rilevare che, in Italia, sono stati i partiti a tenere unito il paese dopo la catastrofe bellica, a selezionare la nuova classe dirigente repubblicana, a porre le basi della democrazia rappresentativa. Se hanno invaso la pubblica amministrazione, ha aggiunto qualcuno, lo si deve al fatto che lo Stato controlla direttamente o indirettamente più del 50% dell’economia e, quindi, è forte la tentazione dei partiti di entrare nella “stanza dei bottoni” per assicurare vantaggi e risorse alle proprie truppe.

Per chi, come me, vede nel pensiero di Raymond Aron un muro maestro dell’edificio liberale, si tratta di considerazioni scontate. Il fenomeno dei partiti, nella società contemporanea, scriveva il grande filosofo-sociologo della Sorbonne, «diventa essenziale poiché l’unicità o la pluralità dei partiti determina la modalità della rappresentanza». Chi teme le dittature di ogni colore e ama la “libertà dei moderni”, pertanto, non può non riconoscere la funzione decisiva dei partiti politici.

 In Italia, però, non va dimenticato, bisogna fare i conti col fattore effe (fascismo) e con i suoi eredi sicché tutto quello che si può concedere ai miei critici è che, in ogni caso, la partitocrazia è il meno peggio rispetto a qualsiasi altro regime—che, ormai, non potrebbe essere più il regime del partito unico, ma il governo degli esperti, sempre più auspicato da quanti, in nome della “competenza” e dell’antipopulismo, vorrebbero tornare a Saint-Simon e alla tecnocrazia.

Che cosa significa il fattore effe? In parole semplici, significa che c’è un partito, il PNF, che non si pone al servizio della “comunità politica” (tradizioni, istituzioni, mentalità, credenze religiose, culture politiche più o meno consolidate da tempo), ma la definisce e la fonda. Non c’è un libro sacro che i sacerdoti debbono interpretare, ma sono i sacerdoti stessi che ne scrivono uno, escludendo dalla protezione dello Stato e delle leggi tutti coloro che non lo riconoscono (da ultimo toccò agli ebrei).

I partiti del CLN (in sostanza DC, PCI e PSI, i cespugli del tempo contano poco) vanno considerati, a mio avviso, i veri eredi del PNF, con la differenza fondamentale che la loro pluralità ha garantito oggettivamente quel minimo di libertà civili e politiche che il fascismo aveva azzerato. La pretesa, però, è la stessa: quella di rifondare la comunità politica, non di riconoscerla nei suoi valori secolari, e di definirla, a differenza del fascismo, in un testo costituzionale (dove, tra l’altro, si riconosce il diritto di proprietà solo per la sua “funzione sociale”, lasciando nell’ombra il significato di “funzione sociale” e gli organi che dovrebbero accertarla) che, in sostanza, vanifica la politica a favore del diritto. (Vedine gli esiti estremi nei giuristi cosmopolitici per i quali le “frontiere” sono un attentato contro i diritti universali dell’uomo).

Questo dato storico, che non trova riscontro in altri paesi occidentali—neppure in Francia dove il conflitto politico è/è stato non meno incandescente che in Italia—spiega assai bene certe modalità della politica italiana. A cominciare dalla natura carismatica dei partiti che, in quanto portatori di legittimità sostanziale, sono superiorem non recognoscentes: l’immagine di uno Stato forte e neutrale diventa, nella loro ottica, ideologia, falsa rappresentazione: un prefetto, un questore, un generale, un direttore di quotidiani, un editore etc. sono simboli di istituzioni vuote, che vanno riempite di contenuti etico-sociali concreti, che nel ventennio erano sfornati da un solo partito e, a partire dal secondo dopoguerra, da una pluralità di partiti. Il funzionario che “non guarda in faccia a nessuno” da noi è quasi un “cavaliere inesistente” che pretende di far rispettare la legge e l’ordine anche ai rappresentati consacrati dal voto popolare ma si muove come un’armatura vuota. I partiti non sono il braccio armato e intercambiabile (le loro fortune dipendono dalle urne) dello Stato, ma i suoi servi padroni o, meglio, non sono gli interpreti delle sue volontà ma coloro che ne indicano le direzioni, che dicono alla volontà ciò che deve volere.

Anni fa, in Francia, i socialisti subirono un grave scacco elettorale perché sospetti di voler mettere le mani sulla Pubblica Amministrazione. Oltralpe i diritti civili sono assicurati—con buona pace dei retori liberisti e libertari dell’anticentralismo—giacché i vari regimi politici non erodono la pianta dello Stato, accampandosi sulle sue rovine come i barbari del tardo impero. I servizi pubblici funzionano (dalla Sanità alle ferrovie) perché i politici—Parlamento ed esecutivo—esercitano funzioni doverose di mero controllo: nel nostro paese, al contrario, le nomine alla direzione degli enti diventano un terreno di scontro politico, volendo ciascun’area politica imporre “i suoi uomini”, per far valere la propria concezione del bene pubblico. Questo brutto costume di casa, paradossalmente, era ancora tollerabile quando erano vivi e vegeti i partiti tradizionali che si richiamavano a forti ideologie: l’interesse generale, allora, si identificava con quello di una parte ma questa parte riteneva, a sua volta, di battersi per i grandi valori (la solidarietà cristiana interclassista, l’ascesa del proletariato, il riscatto delle campagne etc.). Finita l’era dei “grandi racconti”, rimane solo la lotta per il potere fine a se stessa, che si svolge in un’arena—lo Stato—sempre più evanescente e privo di veri difensori, impensabili ove manchino il “senso delle istituzioni” e, me lo si lasci dire, l’orgoglio dell’appartenenza alla comunità nazionale. Valori irrecuperabili per sempre se si pensa che ci si sente italiani (forse) solo all’estero giacché a definirci sono, soprattutto, le nostre opinioni politiche e le nostre collocazioni regionali.

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