Tre false credenze

Comunque la si pensi, e quale che sia l’atteggiamento di ciascuno verso questa crisi di governo, credo sarebbe meglio non ingannarci su quel che è successo, e su come stanno effettivamente le cose. Dico questo perché uno degli effetti di questa crisi a me pare il consolidamento di credenze false. Soprattutto tre.

La prima credenza è che le cose siano andate come sono andate perché Salvini ha sbagliato i tempi: doveva aprire la crisi prima, subito dopo le Europee. La realtà, invece, è tutta un’altra. La ragione per cui l’apertura della crisi, anziché portarci alle elezioni, ha generato un governo rosso-giallo, è semplicemente che il livello di spregiudicatezza e di opportunismo del ceto politico ha superato il livello di guardia. Vale per Zingaretti, che ha sempre detto che bisognava tornare al voto, e vale per Renzi, che ha sempre detto “mai con i Cinque Stelle”.

La cosa interessante è che, almeno a mia conoscenza, non esiste un solo giornalista, studioso, politico o osservatore che, nell’epoca in cui Salvini veniva quotidianamente invitato a staccare la spina, abbia ipotizzato che Salvini non avesse affatto il coltello dalla parte del manico, perché i parlamentari non avrebbero accettato di farsi mandare a casa prima di aver maturato la pensione. Prima di rimproverare Salvini per la sua imprudenza, dovremmo rimproverare noi stessi per la nostra ingenuità.

La seconda credenza è che l’alleanza fra Pd e Cinque Stelle sia contro natura, una sorta di mostro politico, come in effetti lo era l’alleanza fra Cinque Stelle e Lega. No, non lo è. Non solo perché da tempo una parte del popolo di sinistra vota Cinque Stelle, o guarda ai Cinque Stelle con simpatia e interesse, ma perché su tantissimi e decisivi punti, dal salario minimo al reddito di cittadinanza, le rispettive idee convergono. E la ragione è molto semplice: nel Pd convivono una minoranza modernizzatrice, riformista e garantista, e una maggioranza statalista, assistenziale e giustizialista. L’alleanza con i Cinque Stelle si limita a dare ancora più spazio a tale maggioranza e a mettere ancora più nell’angolo la minoranza (per convincersene, basta leggere la bozza di programma di governo che circola in questi giorni). Ma forse sarebbe più esatto dire: con la capriola di Renzi la minoranza riformista non c’è più, come testimonia il fatto che due sole persone (Calenda e Richetti) abbiano preso le distanze dall’alleanza con i Cinque Stelle. La credenza che Pd e Cinque Stelle siano due forze politiche molto diverse poggia solo sugli insulti che si sono scambiati fin qui.

C’è una terza credenza falsa che sta prendendo piede negli ultimi tempi, e cioè che esista in Italia una ampia maggioranza di elettori che vorrebbero un governo di centro-destra, e che il ribaltone di questi giorni avrebbe tradito. La maggioranza di centro-destra probabilmente c’è, a giudicare dalle elezioni europee e dai sondaggi. Ma non è ampia, e tantomeno schiacciante. Schiacciante è solo la maggioranza di centro-destra che, stante l’attuale legge elettorale, si formerebbe in Parlamento. Il tradimento c’è stato, ma è stato innanzitutto un tradimento degli italiani, del diritto dei cittadini a far sentire la loro voce attraverso il voto, in un momento in cui c’è una sola cosa certa: il Parlamento che, per conservare sé stesso, si appresta a far nascere il governo rosso-giallo, non riflette minimamente la distribuzione dei consensi nel Paese.

Una cosa sola, forse, ci può regalare un’amara (e paradossale) consolazione. Allo stato delle cose, né il blocco di centro-destra, né il nascente blocco di centro-sinistra, sarebbero in grado di offrire agli elettori una sintesi, ossia una visione chiara e coerente del futuro, che non nasconda il prezzo che ogni politica porta con sé. Il centro-destra è diviso e irrisolto sul rapporto con l’Europa, il centro-sinistra ha già delineato un programma in cui la fanno da padroni vaghezza, demagogia, e politiche di spesa senza coperture.

In queste condizioni avremmo tutto il diritto di tornare alle urne ma, forse, dovremmo imparare a farlo con una nuova certezza: il nostro voto conta quasi nulla, perché sono ormai pochissimi, ammesso che ve ne siano ancora, i leader politici che si sentono impegnati a tener fede alle solenni dichiarazioni con cui cercano di strapparci il voto.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 31 agosto 2019



Il semaforo della crisi

E così, dopo 15 mesi di governo giallo-verde, ne avremo non si sa quanti di governo giallo-rosso: il semaforo della crisi tiene fermo il giallo, e prova a sostituire il verde-Lega con il rosso-Pd.

Il ragionamento del neo-segretario Zingaretti, illustrato ieri nella Direzione del partito, si snoda intorno a due passaggi fondamentali.

Il primo è un comprensibile, quanto poco convincente, sforzo di allontanare ogni sospetto di opportunismo. Una excusatio non petita che si nutre di affermazioni come: “un Governo non può nascere sulla paura che qualcun altro vinca la elezioni” (ah no? la paura che Salvini stravinca le elezioni non vi tange?), dobbiamo “evitare ogni accusa di trasformismo e opportunismo” (e come farete, visto che fino a ieri escludevate solennemente qualsiasi accordo con i grillini?); “non siamo quelli pronti a manovre di Palazzo” (e cos’altro sta accadendo in queste ore, nel Palazzo della politica?).

C’è poi il secondo snodo, che in sostanza è una richiesta martellante e ripetuta di “forte discontinuità” rispetto “all’esperienza del governo uscente”. La richiesta, ovviamente, è rivolta ai superstiti del governo uscente, che non hanno alcuna intenzione di uscire come ha fatto Salvini, e contano precisamente sul Pd per rientrare. Messa così, parrebbe un aut-aut ai Cinque Stelle: o voi fate autocritica, e promettete di non fare più i populisti, oppure noi, che il voto lo temiamo meno di voi, vi abbandoneremo al vostro destino.

Arrivati a questo punto il paziente lettore della relazione di Zingaretti si aspetterebbe, come minimo, un’indicazione su quali dovrebbero essere, secondo il Pd, i capisaldi dell’azione del nuovo governo, a partire dalla “mostruosa manovra di bilancio che occorre fare”. Stabilito che, per non far scattare l’aumento dell’Iva, si tratta di reperire almeno 23 miliardi, più altri 7 di spese varie e indifferibili, ed escluso che lo si possa fare in deficit (altrimenti addio discontinuità), saremmo tutti curiosi di sapere dove il Pd pensa di poter reperire i 30 miliardi che occorrono. Nuove tasse? tagli alla sanità? sforbiciata alle agevolazioni fiscali? soppressione di quota 100? soppressione del reddito di cittadinanza?

Non è dato sapere. Invece di fornirci questa preziosa informazione, la relazione di Zingaretti si avventura in una elencazione di cinque richieste tanto perentorie quanto vaghe: “l’appartenenza leale all’Unione Europea, per un’Europa profondamente rinnovata”; “il pieno riconoscimento della democrazia rappresentativa”; “l’investimento su una diversa stagione dello sviluppo fondato sulla sostenibilità ambientale”;  “una svolta profonda nell’organizzazione e gestione dei flussi migratori”; “nuove ricette economiche e sociali in chiave redistributiva”.

Di questi cinque punti, i primi tre (Europa, democrazia rappresentativa, diversa stagione dello sviluppo) sono puro fumo politichese: detti così, troverebbero d’accordo chiunque. Gli ultimi due sono invece inquietanti.

La richiesta di una svolta nelle politiche migratorie elude il problema principale di questi anni: che è di garantire l’accesso in Europa a chi ne ha diritto, senza mandare segnali che non possono non alimentare il traffico di esseri umani. E’ sconfortante che Salvini abbia sostanzialmente risolto il secondo aspetto del problema (disincentivare il business dei naufragi), facendo finta che il primo (diritti dei profughi) non esista. Ma è ancora più sconfortante che chi vuole una discontinuità, il problema manco lo veda, o peggio abbia in mente di invertire l’equazione migratoria, come se esistesse solo il primo aspetto (profughi) e non il secondo (traffico di esseri umani). Difficile non pensare che quel che si vuole, in realtà, sia un ritorno alla stagione dell’accoglienza caotica degli anni pre-Minniti, tanto più che lo sponsor principale dell’alleanza con i Cinque Stelle è Renzi, che di quella stagione si è sempre dichiarato fiero.

Quanto all’ultimo punto, l’invocazione di “nuove ricette economiche e sociali in chiave redistributiva e di attenzione al lavoro, all’equità sociale, territoriale, generazionale e di genere”, quel che è inquietante non è tanto la genericità, quanto l’analisi che sembra starle dietro. Un’analisi che si ostina ad attribuire lo stallo del Paese a questa mediocre esperienza di 15 mesi, come se l’Italia non fosse già in stagnazione quando Conte è diventato presidente del Consiglio, e come se negli anni in cui al timone c’era il Pd i nostri conti pubblici fossero in ordine. Ma, soprattutto, un’analisi che ripropone, per l’ennesima volta, la solita diagnosi sui mali del Paese, una diagnosi in cui il problema cruciale – ancora una volta – non è di metterci in condizione di produrre nuova ricchezza, ma è di redistribuire quella che già c’è, finché ce n’è.

Il fatto è che su un punto Zingaretti ha perfettamente ragione: ci vuole una discontinuità radicale rispetto al passato, perché il passato è fatto di demagogia, ricerca ossessiva del consenso, rimozione dei problemi del paese, dilazione delle decisioni difficili. Ma quel passato, bisognerebbe avere l’onestà di riconoscerlo, è il passato comune del nostro ceto politico, non il lascito esclusivo dell’ultima breve stagione di governo.

Articolo pubblicato su Il Messaggero il 22 agosto 2019



La sagra dell’ipocrisia

Ancora una settimana fa pareva certo che, avendo Salvini annunciato l’intenzione di sfiduciare Conte, il governo sarebbe caduto nel giro di pochi giorni, e noi saremmo andati al voto nel giro di pochi mesi. Questa certezza, condivisa dalla stragrande maggioranza degli osservatori (me compreso), si basava su una credenza che si è improvvisamente rivelata errata: e cioè che, non essendovi in Parlamento alternative all’attuale governo, Salvini avesse il coltello dalla parte del manico. Era lui, e soltanto lui, che poteva decidere se far proseguire la legislatura o interromperla. E in entrambi i casi ne avrebbe avuto un vantaggio: andando al voto avrebbe raddoppiato i consensi, restando al governo avrebbe potuto dettare le condizioni all’alleato Cinque Stelle, timoroso di andare al voto e dimezzare i consensi.

Ora sappiamo che le cose stanno diversamente. Una maggioranza alternativa c’è, è il tridente Pd-Cinque Stelle-Leu. Non possiamo sapere se riuscirà ad accordarsi su un programma e a formare un governo, ma sappiamo che l’eventualità è all’ordine del giorno. E’ persino possibile che il nuovo governo duri fino al 2023, e che sia quindi questo Parlamento ad eleggere il prossimo presidente della Repubblica.

Dunque Salvini è all’angolo. La situazione, che sembrava rosea per lui, si è fatta repentinamente nera. Perché se facesse cadere il governo, i Cinque Stelle potrebbero rispondere alleandosi con il Pd. Mentre se rinunciasse a sfiduciare Conte, a parte la figuraccia, si verrebbe a trovare nella classica situazione dell’anatra zoppa: nelle nuove condizioni sarebbero i Cinque Stelle ad avere il coltello dalla parte del manico.

Situazione curiosa. E’ come se fosse resuscitato Bettino Craxi, ma con il triplo dei voti. Che cos’è, infatti, la condotta di Di Maio, se non la riedizione dell’eterna politica dei due forni? Allora Craxi poteva, a seconda del contesto, scegliere fra Dc e Pci, ora Di Maio non sembra farsi alcun problema a passare dall’alleanza (pardon: ‘contratto’) con la Lega a un possibile contratto con il Pd, magari grazie ai buoni uffici dell’estrema sinistra, che su diversi punti (politica economica e regole europee in particolare) è più vicina ai Cinque Stelle che al Pd.

Come è stato possibile tutto questo? E per di più in meno di una settimana?

Da qualche giorno, molti stanno notando che Salvini ha clamorosamente sbagliato i tempi: se voleva andare al voto, doveva farlo subito dopo le Europee, e comunque non in agosto, con la spada di Damocle di una sovrapposizione – a novembre – fra Legge di Bilancio e procedure di insediamento del nuovo governo.

Alla luce di quel che sta capitando, e soprattutto del modo istantaneo in cui si è delineato l’asse Pd-Cinque Stelle, mi sto convincendo invece che lo spettacolo cui assistiamo in questi giorni lo avremmo avuto comunque, anche se Salvini avesse sfiduciato Conte uno o due mesi fa. E sto pensando che chi, come me, guarda la politica dall’esterno, attribuendole ancora qualche sia pur debole, circoscritto e remoto movente ideale, ha clamorosamente sottovalutato un fattore cruciale: l’attaccamento al seggio dei parlamentari, una forza formidabile che li rende disponibili ad astrusi “ripensamenti” politici non appena se ne presenti la convenienza.

Non saprei spiegare altrimenti quello che oggi sconcerta tanti elettori. E cioè che i parlamentari renziani, che ingenuamente ci eravamo abituati a percepire come la garanzia che in questa legislatura non avremmo visto un’alleanza Pd-Cinque Stelle, ora si mostrino pronti a rinnegare le scelte fatte fin qui (a partire dall’opposizione alla demagogica riforma che riduce il numero di parlamentari) pur di evitare il voto e la perdita del seggio, che sanno a rischio con il neo-segretario Zingaretti. E che, specularmente e con il medesimo scopo di non perdere i seggi conquistati, il Movimento Cinque Stelle, che aveva fatto quadrato a difesa di Salvini sul caso Diciotti, ora – di fronte al caso della nave Open Arms – capovolga le sue posizioni sulla politica migratoria, pur di attaccare il ministro dell’Interno, passato nella categoria dei nemici.

Alla fine, quel che resta di tutta questa vicenda è l’amarezza per il modo spudorato e ipocrita con cui questi cambi di linea politica ci vengono raccontati, sempre invocando la responsabilità, il senso delle Istituzioni, il bene del Paese, la volontà del popolo, i pericoli per la democrazia. La realtà, purtroppo, è molto più semplice del racconto che i politici tentano di cucirle addosso: Salvini al voto ci vuole andare perché pensa di raddoppiare i seggi, Di Maio e Renzi, perfetti eredi del trasformismo ottocentesco, al voto non ci vogliono andare perché di seggi ne perderebbero troppi.

Pubblicato su Il Messaggero del 17 agosto 2019



La lotteria delle elezioni

La data del voto nessuno la sa ancora con certezza, ma sembra molto probabile che entro la fine di ottobre gli italiani saranno chiamati di nuovo alle urne.

Come andrà a finire?

Gli ultimi sondaggi dànno la Lega in vista del 36-38%, una percentuale che in passato venne toccata solo dalla Dc, negli anni della prima Repubblica, e dal centro-destra unificato da Berlusconi sotto la sigla del Pdl giusto dieci anni fa, alle politiche del 2008.

Dopo la Lega dovrebbero piazzarsi il Pd o i Cinque Stelle, oggi dati in prossimità del 20%, che lotteranno per il secondo posto. Infine, alle spalle dei tre partiti maggiori, dovrebbe andare in scena un duello inedito, quello fra Giorgia Meloni (Fratelli d’Italia) e Berlusconi (forza Italia), per la conquista del quarto posto, con una percentuale di voti dell’ordine del 7-8%. Tutto il resto, sempre stando ai sondaggi, è il solito folklore dei partiti-bonsai, di cui ci si chiede soltanto se troveranno il modo di eleggere qualche deputato o senatore.

Se le cose dovessero andare come i sondaggi ce le dipingono oggi, non ci sarebbe storia: Salvini formerebbe un governo con Giorgia Meloni, e starebbe a Berlusconi decidere se vuole essere della partita oppure no.

Ma le cose andranno così?

Non è detto. Quando si azzardano questo genere di previsioni, si dimenticano infatti alcune cose.

La prima è che l’elettorato italiano è diventato estremamente volubile. Anche in passato succedeva che un leader a lungo osannato perdesse repentinamente il consenso, come accadde a Mussolini e a Craxi, per citare i due casi più clamorosi. Ma di solito il consenso durava a lungo, prima di essere ritirato. Oggi non è più così, un leader può cadere nel giro di 2-3 anni. Forse ce ne siamo scordati, ma era già successo con Walter Veltroni. Corteggiato, osannato, considerato l’unico in grado di ridare un’anima alla sinistra, venne incoronato segretario del neonato Partito democratico nel 2007, ma già due anni dopo, nel 2009, veniva indotto a dimettersi da una sconfitta elettorale (in Sardegna) ma soprattutto dalle faide interne al nuovo partito. Pochi anni dopo è toccato a Matteo Renzi, anche lui acclamato e considerato l’unico in grado di innovare il Pd, ma sonoramente sconfitto e abbandonato alla fine del 2016 (referendum costituzionale), meno di 3 anni dopo la sua ascesa alla presidenza del Consiglio. E’ naturalmente possibile che Salvini duri qualche decennio, ma i precedenti di Veltroni e di Renzi suggeriscono molta cautela. Anche perché non è detto che l’elettorato apprezzi la mossa di Salvini di far cadere il governo anzitempo.

Una seconda cosa, ancora più importante, che si tende a dimenticare è che l’esito di un’elezione non dipende solo dalla domanda politica degli elettori, ma anche dall’offerta politica. I sondaggi che in questi giorni vengono freneticamente consultati dai leader politici degli attuali partiti nulla possono dire su come reagirebbe l’elettorato se scendessero in campo nuove forze politiche, o se quelle attuali cambiassero drasticamente linea politica.

Qualcuno, ad esempio, ha fatto osservare che un’eventuale rottura dei Cinque Stelle con la Lega, con conseguente ritorno alla purezza originaria del movimento, potrebbe anche riportare all’ovile una parte dell’elettorato grillino, rifluito verso il non voto e verso il Pd. Ma la fonte di incertezza più significativa è la possibile nascita di nuove forze politiche, specie al centro, in quell’area che in passato era presidiata dai cattolici (ricordate la Margherita?) e dalle forze moderate, come il partito di Mario Monti. Non sappiamo se nascerà un partito del Sud (anche di questo si parla da qualche tempo), o un partito di Renzi, o un partito di Calenda, o un partito di Conte, o un partito di qualche imprenditore della politica tentato dall’avventura elettorale, ma quel che è certo è che, se alle elezioni dovesse presentarsi una forza politica nuova e credibile, di voti ne potrebbe attirare parecchi, con conseguente indebolimento dei maggiori partiti, e probabilmente anche di Forza Italia (e se fosse questa la ragione dello strappo di Salvini, timoroso che – con il passare del tempo – il centro possa essere occupato da altri)?.

C’è poi la grande incognita sulle maggioranze parlamentari. Il centro-destra pare sicuro di poter raccogliere il 45% dei voti (Lega + Fratelli d’Italia) senza Berlusconi, e di poter andare oltre il 50% includendo i consensi a Forza Italia. E’ un calcolo verosimile, ma di nuovo occorre ricordare che i sondaggi nulla possono dire su eventuali nuovi attori in campo, e che la regola empirica per cui con il 40% dei voti si conquistano il 50% dei seggi è, appunto, una regola empirica, che dipende da circostanze non facilmente prevedibili, ovvero quali forze politiche non supereranno la soglia di sbarramento, e che cosa succederà nei collegi uninominali della parte maggioritaria, che assegna il 37% dei seggi.

C’è, infine, l’incertezza sul Governo. Se una cosa ci ha insegnato la presente Legislatura, è che i partiti possono benissimo presentarsi alleati e poi dividersi, oppure presentarsi da acerrimi nemici e poi allearsi per formare un Governo.

Insomma, i giochi sembrano chiusi, ma non lo sono. In tre mesi possono cambiare tante cose.

Pubblicato su Il Messaggero del 10 agosto 2019



Dai vecchi partiti-chiesa alle Srl minestrone di oggi. Ne è valsa la pena?

I vecchi partiti politici, che in Europa hanno scritto due secoli di storia e che quasi dovunque stanno esaurendo la loro carica vitale, hanno rappresentato qualcosa che forse ci toccherà rimpiangere a lungo.

In un certo senso, erano delle vere e proprie chiese, sia che si ispirassero alla moderna laicità illuministica sia che traessero alimento spirituale dal cristianesimo, cattolico o protestante. A caratterizzarli era una Weltanschauung, una impegnativa visione del mondo alla luce della quale veniva giudicato il passato e si elaboravano programmi di riforma della società, non necessariamente in senso progressista. Ogni partito presentava tre volti: l’ideologia – la sua specifica political culture – il programma elettorale (che poteva mutare, almeno in parte, di volta in volta), le battaglie concrete con cui voleva essere identificato – ad es., il divorzio, la nazionalizzazione dell’energia elettrica, l’adesione alla Nato etc. etc. In genere, nessuno si prendeva la briga di leggere i programmi – spesso ampollosi, troppo tecnici, sostanzialmente noiosi – ma si era molto attenti agli obiettivi specifici per cui un partito s’impegnava a battersi. E ancor più, va sottolineato, all’ideologia che fissava l’identità etico-sociale del militante e dell’elettore abituale. Quando si entrava nella grande sala con le pareti piene dei ritratti dei nobili antenati – si chiamassero Filippo Turati o Giacomo Matteotti, Luigi Sturzo o Alcide De Gasperi, Luigi Einaudi o Benedetto Croce, Antonio Gramsci o Palmiro Togliatti – si era disposti a ingoiare più di un rospo se i leader del partito decidevano politiche o contraevano alleanze poco gradite. Si tolleravano scelte tattiche discutibili giacché si era rassicurati dal far parte di una comunità etico-politica su cui vegliavano i grandi del passato.

L’ideologia era, nel senso di Guglielmo Ferrero, il collante di legittimità dei partiti, il garante della loro continuità nel tempo, il deposito bancario sul quale si poteva sempre contare nei periodi bui. “Basta esporre la vecchia bandiera socialista e avremo di nuovo migliaia di iscritti”, pare avesse detto un vecchio socialista al rientro in Italia dopo l’esilio cui l’aveva costretto il fascismo. Quella bandiera era un simbolo quasi religioso, rinviava a idealità, a storie esemplari, a “filosofie”, nel senso forte del termine, che non si esaurivano certo nelle pur condivise richieste della Repubblica e della Costituente (parole d’ordine lanciate, con la sua foga generosa, da Pietro Nenni). Alla stessa maniera, lo scudo crociato indicava la casa in cui si sarebbero potuti raccogliere tutti i cattolici, almeno quelli che avevano accettato lealmente le regole e le istituzioni della democrazia liberale e, abbandonando ogni posizione temporalista, la separazione tra Chiesa e Stato. I più “moderati” potevano anche accettare l’alleanza tattica con i partiti “atei e materialisti” della sinistra giacché a rassicurarli era, per così dire, la “comunità di partito” ovvero la “famiglia spirituale” le cui tattiche – anche le più spregiudicate – rimanevano sempre in funzione di una strategia lungimirante volta a impedire che il processo di modernizzazione si risolvesse in una devastante secolarizzazione.

In Italia, grazie a magistrati integerrimi come Francesco Saverio Borrelli, quel mondo non esiste più: i partiti non sono più familles spirituelles ma, absit iniuria verbis, comitati d’affari (in prevalenza) della borghesia. Ci si unisce, si smantellano le vecchie federazioni, si formano nuove formazioni politiche in vista di obiettivi limitati e, spesso, in nome di un anti invece che di un pro. Fermare la “resistibile ascesa” di Craxi, di Berlusconi, di Renzi, di Salvini porta a vedere a braccetto in una stessa formazione politica Monica Cirinnà e vecchi democristiani, atei razionalisti e quanti si richiamano (dicono di richiamarsi) a Sturzo e a De Gasperi. Ci troviamo dinanzi a “società a responsabilità limitata” dove ciascun azionista pensa di rimanere se stesso giacché gli è garantita libertà di coscienza sulle grandi questioni etiche. In questa maniera, però, mi sembra difficile “salvarsi l’anima” e il rischio reale è quello di diluire le vecchie identità del passato in una marmellata ideologica, che si traduce nella statua di Aldo Moro con l’Unità in tasca.

In altre parole, non assistiamo alla laicizzazione dei partiti ma a un melting pot culturale che ne stravolge i connotati tradizionali. Partiti divenuti “leggeri” sono ormai uniti da un’inconsapevole ideologia “leggera” anch’essa: ma, a guardare bene, solo in apparenza. Per fare un esempio, Alcide De Gasperi è ormai quello di Pietro Scoppola – è l’uomo di centro che guardava a sinistra – Luigi Sturzo è l’interlocutore di Piero Gobetti se non di Antonio Gramsci, Luigi Einaudi è l’antisovranista per antonomasia, rivendicabile anche da Critica liberale (organo di un laicismo fazioso, alla Ernesto Rossi, che si riteneva scomparso per sempre). Le giornate degasperiane del Trentino vengono affidate all’appeal di Ferruccio de Bortoli e di Lella Costa (famiglia Gad Lerner)! Anche nelle iconografie risorgimentali si vedevano a braccetto Pio IX, Vittorio Emanuele II, Giuseppe Mazzini e Giuseppe Garibaldi, ma allora il problema era quello di “fare l’Italia”, di costruire la nazione e uno Stato moderno, non quello di rifondare il sistema politico contro “nemici” che in una “democrazia a norma” si dovrebbero riguardare (e rispettare) come “avversari”.

Nelle aggregazioni dell’epoca post-partitica, i colori si sono come diluiti, i volti della storia ormai si somigliano tutti, i valori si sono omogeneizzati, le opposte scelte di campo di un tempo sono state riassorbite (in fondo anche per Berlinguer la Nato era uno scudo protettivo!) e del tanto esaltato Piero Gobetti si rimuove l’appello intransigente ognuno al suo posto!: ovvero resti ciascuno fedele alle sue memorie e alle sue tradizioni. Intendiamoci: che un deputato cattolico su questioni rilevanti – come il welfare state, la politica estera, l’immigrazione – si allei con chi è a favore del divorzio, dell’aborto (e lo scrivente ha votato per l’uno e per l’altro), del matrimonio e adozione gay, non è certo motivo di scandalo, ma che faccia parte dello stesso partito della Cirinnà, la cui concezione della famiglia è antitetica a quella di Papa Bergoglio (per citare un pontefice in odore di anticapitalismo terzomondista) è qualcosa che si spiega solo con la retrocessione di una questione etico-politica grande come una montagna – la questione della famiglia, appunto – a fatto privato, a “problema di coscienza”. Non esprimo giudizi morali – non è compito dello studioso – mi limito a constatare un fatto e mi chiedo se un mutamento epocale come questo ci renda migliori o peggiori. Specie se si pensa che le sintesi leggere fanno pagare ad ogni elemento versato nell’infuso il prezzo della mutilazione ovvero la rinuncia “a prendere troppo sul serio” i valori che lo avevano fatto entrare nella storia. Ha ragione, pertanto, Eugenio Scalfari – e ha torto Franco Carinci che lo critica – a porre nel codice genealogico del Pd capostipiti come Piero Gobetti, i fratelli Rosselli e forse anche Guido Dorso e Altiero Spinelli. Se è vero, infatti, che “i nomi citati non sono collocabili fra i fondatori e sostenitori del PCI”, non è così scontato che “appartengono tutti alla cultura democratica” (dopo quanto ne hanno scritto Giuseppe Bedeschi, Ernesto Galli della Loggia, Luca Ricolfi)?. In realtà, quei nomi, quei simboli, rinviano a una sinistra et/et, socialista e “liberale”, nazionale e internazionalista, italiana ed europea, europea e cosmopolitica, non più nemica del capitalismo ma sempre, sotterraneamente, antiamericana, dove ciascuno può trovare quel che gli piace e nessuno è tenuto a fare i conti col proprio passato, non dovendo rispondere dell’accusa di apostasia.

Dovevano, certo, abbandonare le scene i partiti “forti”, disciplinati e dogmatici ma senza sottrarsi alle loro colpe storiche oggettive e, semmai, rivendicando fieramente i valori che li avevano indotti a guardare con interesse ai regimi politici poi crollati. Diventando un “partito radicale di massa”, come previde genialmente Augusto Del Noce in anni lontani, le vecchie sinistre hanno perso la loro anima ma non hanno reso un buon servigio al Paese giacché gli stanno fornendo – e da tempo – un “minestrone ideologico” che sta insieme solo con lo sputo, inventandosi di volta in volta un’invasione barbarica (di nazionalisti, di sovranisti, di razzisti) alla quale i loro antichi elettori non credono più.

Pubblicato su Atlantico il 6 agosto 2019