Di quanto è diminuita la nostra ricchezza dopo il voto di marzo? Aggiornamento all’ultima settimana

NOTA DI AGGIORNAMENTO: settimana 2 – 9 novembre 2018

  1. Le perdite dell’Italia

Nella settimana che va dal 2 al 9 novembre 2018 il bilancio degli operatori finanziari italiani torna ad essere negativo. Dopo tre settimane di relativa calma, i rendimenti dei titoli di Stato sono tornati a salire facendo perdere valore ai titoli pubblici (-6.3 miliardi). La capitalizzazione borsistica perde 2.5 miliardi, mentre (in base alle nostre stime) il valore delle obbligazioni scende di 3 miliardi.

Nel complesso le perdite virtuali dei tre principali mercati italiani ammontano a 11.9 miliardi di euro.

Tabella 1. Perdite e guadagni virtuali complessivi sui tre mercati principali (miliardi di euro)

Ricordiamo che dal calcolo sono escluse sia le perdite di valore dei titoli di Stato detenuti dalla Banca d’Italia e dagli investitori esteri, sia i maggiori oneri per il servizio del debito pubblico. Va poi ricordato che il dato della Borsa si riferisce alle sole società quotate.

Dalle elezioni ad oggi (9 novembre) le perdite virtuali di Borsa, obbligazioni e titoli di Stato (esclusi quelli detenuti da Banca d’Italia e investitori esteri) ammontano a 175.5 miliardi di euro.

Banca d’Italia e investitori esteri detentori di titoli di Stato italiani hanno perso invece (sempre dalle elezioni ad oggi) 93.7 miliardi euro.

Grafico 1. Guadagni virtuali sui tre mercati principali nella settimana dal 26 ottobre al 2 novembre

Grafico 2. Perdite e guadagni virtuali sui tre mercati principali dal 28 febbraio al 9 novembre

Grafico 3. Perdite virtuali sui tre mercati principali dal 28 febbraio al 9 novembre
  1. Le perdite di famiglie e imprese

Secondo le nostre stime, famiglie e imprese hanno perso nell’ultima settimana 8.8 miliardi di euro. Dalle elezioni ad oggi (9 novembre) le perdite virtuali ammontano quindi a 136 miliardi euro.

Tabella 2. Perdite e guadagni virtuali delle famiglie e delle imprese (miliardi di euro)

Ricordiamo che il calcolo è effettuato considerando esclusivamente quella parte della ricchezza finanziaria di famiglie e imprese che è più sensibile alle fluttuazioni di mercato, in particolare titoli del debito pubblico, obbligazioni, quote di fondi comuni, azioni e altre partecipazioni (incluse le società non quotate). Sono invece esclusi i depositi (bancari e postali), i titoli emessi da soggetti esteri, e varie altre forme di ricchezza più resistenti alle fluttuazioni di mercato[1].

 

[1] Diversamente da quanto fatto nelle precedenti pubblicazioni, i tassi di deprezzamento della ricchezza finanziaria in mano a famiglie e imprese sono stati stimati ponendoli uguali al tasso di deprezzamento medio sui tre principali mercati italiani (escluse le banche).
Nei report precedenti le variazioni della ricchezza finanziaria erano state stimate mediante una “forchetta” (±1% rispetto al deprezzamento medio).

 


Di quanto è diminuita la nostra ricchezza?

Premessa

È strano, ma a nostra conoscenza nessuno ha ancora provato a calcolare quanto, complessivamente, ci è finora costata l’incertezza politico-finanziaria che si è instaurata in Italia dopo le elezioni del 4 marzo 2018.

Noi ci abbiamo provato, con i dati disponibili, sommando 3 addendi fondamentali:

a) la variazione della capitalizzazione del mercato azionario italiano (limitatamente alle società quotate);

b) la variazione del valore dei titoli di Stato detenuti da individui e operatori residenti in Italia, al netto di quelli detenuti dalla Banca d’Italia;

c) il deprezzamento dei titoli di debito del mercato obbligazionario italiano.

A parte sono state calcolate le perdite di valore dei titoli di Stato detenuti dalla Banca d’Italia e dagli investitori esteri.

Nel caso delle perdite del solo comparto Italia (senza Banca d’Italia e investitori esteri) abbiamo anche provato ad isolare le perdite sofferte dai settori delle famiglie e delle imprese, questa volta includendo anche le azioni e partecipazioni di società non quotate.

Tutte le stime sono prudenziali: è ragionevole pensare che le perdite effettive siano state maggiori di quelle da noi stimate.

Le perdite calcolate sono ovviamente virtuali, e potrebbero essere riassorbite, o tramutarsi in guadagni, ove la situazione economica e le valutazioni dei mercati nei prossimi mesi o anni dovessero evolvere positivamente.

I vari tipi di perdite sono state calcolate fra 3 momenti temporali:

–  28 febbraio 2018 (pre-elezioni)

–  31 maggio 2018 (insediamento governo)

– 19 ottobre 2018 (terza settimana di ottobre).

Le nostre stime non sono né definitive, né perfette, specie per il mercato obbligazionario, dove le informazioni disponibili sono più disperse che sugli altri due mercati (azioni e titoli di Stato). Le offriamo come una prima valutazione, sperando che altri si cimentino nel medesimo esercizio, producendo stime più accurate e analitiche delle nostre.

I dettagli e le fonti statistiche delle stime sono reperibili sul sito della Fondazione David Hume: www.fondazionehume.it.

1. Le perdite dell’Italia

Le perdite virtuali sui tre mercati esaminati ammontano a 198 miliardi (oltre il 10% del Pil) dal momento del voto, di cui 107 dall’insediamento del Governo.

   Tabella 1. Perdite virtuali sui tre mercati principali (miliardi di euro)

Dal calcolo sono escluse le perdite di valore dei titoli di Stato detenuti dalla Banca d’Italia e dagli investitori esteri, nonché i maggiori oneri per il servizio del debito pubblico. Va inoltre ricordato che il dato della Borsa si riferisce alle sole società quotate.

Grafico 1. Perdite virtuali sui tre mercati principali dalle elezioni ad oggi (miliardi di euro)
Grafico 2. Perdite virtuali sui tre mercati principali dalla nascita del governo ad oggi (miliardi di euro)

2. Le perdite di famiglie e imprese

Le perdite precedenti colpiscono tutti i settori istituzionali. Qui ci concentriamo sulle perdite virtuali subite da famiglie e imprese.

Un calcolo accurato delle perdite è impossibile per mancanza di dati sufficientemente analitici. Usando i dati disponibili sulle consistenze della ricchezza finanziaria (fonte Banca d’Italia) e le nostre stime dei tassi di deprezzamento di azioni, obbligazioni e titoli di Stato, possiamo però farci un’idea dell’ordine di grandezza minimo delle perdite: almeno 122 miliardi dalla data del voto, di cui 68 dal momento dell’insediamento del Governo.

Il calcolo è effettuato considerando esclusivamente quella parte della ricchezza finanziaria di famiglie e imprese che è più sensibile alle fluttuazioni di mercato, in particolare titoli del debito pubblico, obbligazioni, quote di fondi comuni, azioni e altre partecipazioni (incluse le società non quotate). Sono invece esclusi i depositi (bancari e postali), i titoli emessi da soggetti esteri, e varie altre forme di ricchezza più resistenti alle fluttuazioni di mercato.

Nell’ipotesi 1 (la più cauta, ovvero ottimistica), il deprezzamento % è pari a quello medio sui tre mercati principali, attenuato di 1 punto percentuale.

Tabella 2a. Perdite virtuali delle famiglie e delle imprese (miliardi di euro) – Ipotesi 1

Nell’ipotesi 2 (la meno ottimistica), il deprezzamento % è pari a quello medio sui tre mercati principali, aumentato di 1 punto percentuale.

Tabella 2b. Perdite virtuali delle famiglie e delle imprese (miliardi di euro) – Ipotesi 2

È il caso di sottolineare che il valore indicato sopra come stima delle perdite virtuali minime di famiglie e imprese (122.4 miliardi dalle elezioni) si basa sull’ipotesi 1 (la più ottimistica), anche se riteniamo più verosimile l’ipotesi 2.

3. Dettagli

Riportiamo qui il quadro analitico completo delle perdite virtuali sui tre principali mercati, compresi i soggetti che abbiamo escluso nella tabella 1.

Tabella 3. Perdite virtuali complessive sui tre mercati principali (miliardi di euro)

La tabella distingue tre tipi di detentori dei titoli di Stato (Banche, Istituzioni finanziarie, Altri residenti) e riporta anche le perdite virtuali della Banca d’Italia e degli investitori esteri, omesse nella tabella 1.

La riga finale, relativa al Totale complessivo, permette di calcolare le perdite virtuali accusate sui tre principali mercati da tutti i detentori di titoli di Stato, obbligazioni, azioni di società quotate, compresi gli investitori esteri e la Banca d’Italia: si tratta di oltre 300 miliardi di euro, di cui circa la metà nel dopo-voto e l’altra metà nel dopo-governo.

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Nota tecnica

Fonti principali

Le stime sono state costruite a partire da dati MEF, Banca d’Italia, Milano Finanza, Investing e Borsa Italiana.

Metodi

La diminuzione del valore di mercato delle azioni è stata calcolata usando come base la capitalizzazione (al 28 febbraio 2018) di tutti i titoli quotati alla Borsa di Milano.

La variazione del valore di mercato dei titoli di Stato è stata calcolata usando come base il valore nominale (al 28 febbraio 2018) dello stock calcolato dalla Banca d’Italia e come saggi di variazione quelli desumibili dall’evoluzione dei rendimenti (suddivisi per duration). In mancanza di dati analitici, abbiamo assunto la medesima composizione del portafoglio per Banche, Istituzioni finanziarie e Altri residenti.

La variazione del valore di mercato delle obbligazioni emesse da Banche, Società non finanziarie, Imprese di assicurazione, Altri intermediari finanziari è stata stimata usando come base il valore delle obbligazioni rilevato dalla Banca d’Italia alla fine di febbraio 2018, e applicando a tale base un tasso di deprezzamento pari alla metà di quello dei titoli di Stato.

Per tutte le voci, la perdita patrimoniale è stata stimata per 3 periodi:

(a) periodo post-elettorale ma pre-formazione governo (dal 28 febbraio al 31 maggio);

(b) periodo post-governo (dal 31 maggio al 19 ottobre)

(c) periodo dalle elezioni a oggi (dal 28 febbraio al 19 ottobre)

Tassi di deprezzamento

I tassi di deprezzamento dei titoli scambiati sui tre principali mercati sono basati sulla capitalizzazione di Borsa e sull’evoluzione di rendimenti e duration dei titoli di Stato. I tassi di deprezzamento relativi alle obbligazioni sono stati posti eguali alla metà di quelli dei titoli di Stato.

Tabella 4. Tassi di deprezzamento stimati

È verosimile che la nostra ipotesi sul mercato obbligazionario sia troppo ottimistica, e che il deprezzamento effettivo sia stato maggiore.

Avvertenza

Tutte le nostre valutazioni della perdita di ricchezza degli italiani sono estremamente prudenti, e quasi certamente rappresentano una sottostima della perdita totale effettiva. Infatti:

a)  nel calcolo delle perdite sui tre principali mercati sono escluse le azioni delle società non quotate e i titoli del debito pubblico diversi dai titoli di Stato;

b)  presumibilmente una parte dei titoli di Stato che la Banca d’Italia classifica come “estero” sono indirettamente detenuti da italiani;

c)  nel calcolare il deprezzamento delle obbligazioni si è scelto di utilizzare le stime più ottimistiche, basate sull’ipotesi che i rendimenti del mercato obbligazionario siano cresciuti molto di meno (circa la metà) di quelli del mercato dei titoli di Stato;

d)    nel calcolo della ricchezza finanziaria delle famiglie e delle imprese abbiamo considerato solo gli attivi più sensibili alle fluttuazioni di mercato, pari a meno di 1/3 degli attivi totali.

Caveat

Il dato delle perdite complessive dell’Italia sui tre principali mercati e quello delle perdite complessive di famiglie e imprese non sono direttamente comparabili. Nel primo dato (Italia), infatti, mancano sia i titoli del debito pubblico diversi dai titoli di Stato, sia le “Azioni e altre partecipazioni” relative alle società non quotate. Nel secondo dato (famiglie e imprese) viene presa in considerazione solo la porzione più vulnerabile della ricchezza finanziaria delle famiglie, ma vengono incluse le “Azioni e altre partecipazioni”.

Entrambi i dati vanno interpretati come stime per difetto.

Ringraziamenti

La Fondazione David Hume ringrazia quanti, in quanto operatori sui mercati finanziari o in veste di studiosi, sono stati prodighi di consigli e di valutazioni. La responsabilità di eventuali errori è ovviamente nostra.

[testo a cura di Luca Ricolfi, Rossana Cima, Caterina Guidoni]



La Quarta Via

Nel 1998, l’allora direttore della London School of Economics, Antony Giddens, scriveva The Third Way: The Renewal of Social Democracy, un saggio in cui parlava di una visione del mondo alternativa sia alle politiche liberiste di ampia fede nelle leggi del mercato, sia alle politiche stataliste di intervento esteso dello stato sui mercati. Giddens delineava appunto una terza via lungo la quale i partiti potessero proporre riforme pragmatiche dall’area politica del centro.

Soluzioni pratiche ai bisogni della gente, come la riforma del welfare introdotta da Bill Clinton nel 1996, con l’obbiettivo di ridurre la povertà e la disoccupazione; o l’espansione del settore privato nel National Health System del Regno Unito, riforma promossa da Tony Blair a partire dal 1997; oppure il programma di riforme sociali, fiscali e del lavoro introdotte da Gerhard Schröder nel 2003 in Germania, a cui molti hanno accreditato almeno in parte la resilienza dell’economia tedesca dopo la Grande Recessione del 2007-2011.

Negli anni Novanta, sembrava che questi leader avessero trovato la ricetta magica per coniugare protezione sociale e crescita economica, diritti dei lavoratori e interessi imprenditoriali, libertà civili ed eguaglianza sociale. Poi nel 2007 è arrivata la recessione, durante la quale i redditi sono caduti e le diseguaglianze sociali sono aumentate. Nel 2017 in Italia, il reddito medio pro-capite rimaneva del 10%  inferiore a quello di dieci anni prima.[1] Negli Stati Uniti, la classe medio-bassa ha perso oltre il 40% di ricchezza nel periodo 2007-2010, mentre la classe medio-alta ha perso oltre il 20% di ricchezza nello stesso periodo, riuscendo entrambe a recuperare solo il 5% nei 6 anni successivi.[2] Poco sorprende se, oggi, pochi parlano ancora di una terza via socialdemocratica.

Cosa non ha funzionato a dovere? Tra il 1990 e il 2007, pochi hanno messo in luce gli aspetti negativi, soprattutto per alcune fasce sociali, della rapida globalizzazione di merci, servizi, capitali e persone. Così, mentre nel 2000 Bill Clinton  diceva: “La globalizzazione non è qualcosa che possiamo interrompere o da cui possiamo astenerci. È l’equivalente in economia di forze della natura come il vento o l’acqua”,[3] e pochi anni dopo, nel 2005, Tony Blair ribadiva: “Sento persone dire che dobbiamo fermare la globalizzazione e discuterne. Sarebbe come discutere se l’autunno deve seguire l’estate”,[4] la globalizzazione creava distorsioni nel mercato del lavoro di tanti paesi occidentali, aumentando diseguaglianze sociali e, almeno nel breve periodo, creando nuovi disoccupati.

Uno dei pochi “cantori del dubbio” era Dani Rodrik, economista di Harvard, che nel 1997 scriveva un libro premonitore, Has globalization gone too far?, in cui parlava apertamente delle problematiche insite in un mondo globalizzato che coesiste con dinamiche sociali, economiche e culturali necessariamente nazionali. La globalizzazione ha creato da almeno vent’anni una divisione tra fasce sociali con alti livelli di formazione e capacità tecniche, che ne traggono vantaggio, e fasce sociali senza la formazione e le capacità per trarne vantaggio. Una divisione tra vincenti e perdenti, dove i primi non si sono preoccupati del malessere generalizzato dei secondi, né tantomeno di mettere in atto quegli ammortizzatori necessari affinché il contratto sociale reggesse il peso di questo rapido cambiamento epocale. I vincitori non si sono resi conto che avrebbero risentito, ancor di più dei perdenti, dell’instabilità sociale causata dalla globalizzazione.

In un mondo sempre più globalizzato, ma allo stesso tempo basato geo-politicamente su stati-nazione che non vogliono abbandonare le proprie prerogative politiche interne, come si coniugano crescita economica e protezione sociale? Come si rinnova il contratto sociale interno e allo stesso tempo si promuove la pace tra le nazioni? Serve una nuova narrativa politica, che prenda il meglio della radicale offerta riformista, pragmatica e post-ideologica, che sia supportata da rigorosa evidenza empirica e sappia renderla rilevante ai valori e ai bisogni della gente. Serve una nuova visione del mondo semplice, chiara, puntuale e soprattutto una visione che colleghi efficacemente le riforme proposte con le sensazioni fisiche ed emotive della gente, spesso determinanti a formarne la percezione degli eventi ancor più dei fatti.[5] Questa narrativa deve articolare un nuovo modo di stare assieme, che metta al centro l’individuo immerso nelle proprie relazioni sociali locali, ma allo stesso tempo anche parte di un mondo sempre più interconnesso.

Negli ultimi dieci anni, le forze liberal-democratiche e progressiste delle democrazie occidentali sono state incapaci di offrire una narrativa politica che rispondesse in modo efficace e puntuale alle problematiche socioeconomiche sollevate dalla globalizzazione. E anche quando hanno offerto le migliori risposte riformiste ai mutamenti in corso, queste forze hanno peccato di mancanza di umiltà nel connettersi con un mondo che stava velocemente cambiando, e soprattutto nell’elaborare una visione del futuro che recepisse i bisogni e le emozioni della gente. Come si spiega, altrimenti, la mancata rielezione di un democratico alla Casa Bianca nel 2016? Risultato atteso, visto come Barack Obama aveva gestito il recupero dell’economia americana. Sull’orlo del collasso nel 2007, il governo di Obama ha offerto prestiti pubblici per oltre 830 miliardi di dollari a banche, imprese e società di assicurazioni, quando non era scontato che questi prestiti avrebbero aiutato l’economia a risollevarsi, salvando così interi settori industriali e gli annessi posti di lavoro.[6] Il suo successore alla Casa Bianca, Donald Trump, nel suo discorso di inaugurazione del gennaio 2017, ha promesso invece di mettere fine al “massacro degli americani” conseguenza della recessione. Una catastrofica lettura della situazione socioeconomica americana, diametralmente opposta a quella offerta da Obama alla fine del suo mandato, tutta incentrata sullo straordinario salvataggio dell’economia intrapreso con successo dal suo governo.

A partire dal 2000 e sempre di più dopo la grande recessione, sono stati i movimenti populisti che hanno invece saputo offrire una risposta forte e convincente ai problemi della gente, elaborando narrative politiche efficaci e facilmente comprensibili.[7] Nati negli Stati Uniti con la creazione del People’s Party nel 1891, inizialmente mobilitarono contadini e piccoli imprenditori contro le élite che dominavano le grandi aziende e la politica. Nel secolo scorso si diffusero in America Latina, nelle accezioni sia di sinistra che di destra, e in Europa, soprattutto nell’incarnazione fascista. Dal 2000 in poi, in Europa i movimenti populisti hanno promosso e ottenuto la Brexit nel Regno Unito, introdotto la cosiddetta democrazia illiberale in Ungheria, cooptato e accompagnato al governo la destra in Austria e Italia, governato stabilmente in Polonia. Negli Stati Uniti, Trump è al potere, contro ogni aspettativa, da quasi due anni. Fino ad oggi, le fondamenta liberal-democratiche di questi paesi hanno tenuto, incluso in Ungheria e Polonia, anche grazie all’Unione Europea e al forte sistema di checks and balances della democrazia americana. In futuro non sappiamo come e quanto queste fondamenta dureranno. Come si rinnoverà la fiducia nel liberalismo occidentale del XXI secolo?

Il minimo comune denominatore della narrativa politica messa in campo dai movimenti populisti si basa sull’ostilità verso l’immigrazione, su una palese avversione verso lo stato di diritto interno e il sistema globale di relazioni politiche e commerciali, sull’assistenzialismo verso cittadini e imprese, su una buona dose di autoritarismo, e su un utilizzo poco ortodosso del debito pubblico come strumento finanziario per realizzare le proprie proposte. Quasi sempre a ciò si unisce un nemico esterno che assume varie forme tra cui quella dell’Unione Europea, della Cina, delle élite liberal-democratiche, inclusi i tecnici, i professori, gli esperti e i media. Questa narrativa si basa su uno stato di continua tensione durante la quale i cittadini vengono mobilitati per difendersi da un nemico che li ha quasi sempre derubati di ciò che spettava loro “naturalmente”, allontanandoli da uno stato di natura perso da tempo al quale si aspira invece a ritornare. Uno stato di natura che quasi sempre include società e culture omogenee, poco dissenso, poco dibattito su proposte politiche alternative, un’economia tendenzialmente autarchica (“America First!”, “Prima gli Italiani!”) e l’uso della forza reale o figurata come strumento per prevalere politicamente. Questa narrativa si è rivelata efficace perché ha saputo dare una risposta specifica e diretta ai bisogni concreti della gente, ad ambo i lati dello spettro politico, ed è in particolare riuscita ad incoraggiarne la radicalizzazione.

Negli Stati Uniti, durante la campagna elettorale per le elezioni presidenziali del 2016, Donald Trump ha proposto di costruire un muro con il Messico per arginare il flusso fuori controllo di immigrati, aumentare la sicurezza e dare quindi più lavoro agli americani. Una narrativa chiara, semplice, che risponde al sistema di valori di quella parte della società americana che chiede più sicurezza e più lavoro e teme che l’esistenza della propria cultura sia messa in pericolo dall’apertura degli Stati Uniti al Messico come al resto del mondo. Poco importa se questa narrativa non è supportata da una chiara evidenza empirica.[8] Allo stesso modo, in politica commerciale, Trump ha proposto di alzare le tariffe doganali per proteggere il lavoro e le imprese americane. Anche in questo caso, il messaggio è semplice, diretto, ben collegato ai valori statunitensi di equità e patriottismo. E anche in questo caso, la narrativa non è supportata dai dati.[9]

In Italia la coalizione Lega-M5S oggi al governo, con oltre il 57% del consenso degli italiani a inizio novembre 2018,[10] porta avanti una simile narrativa politica, precisa e costantemente ripetuta nei media. Tra i messaggi chiave, per esempio, la Lega si è focalizzata su “meno immigrazione, perché l’immigrazione porta insicurezza e toglie lavoro agli italiani”. Messaggio semplice e diretto, che dà una risposta concreta al bisogno di maggiore sicurezza e più lavoro. E anche in questo caso la narrativa non è supportata dall’evidenza empirica: oggi l’ingresso di immigrati regolari e irregolari in Italia è drasticamente diminuito rispetto al 2017, la loro presenza non è necessariamente collegata a un incremento della criminalità e gli immigrati non tolgono lavoro agli italiani.[11] Allo stesso modo, il M5S invoca “meno casta e lotta alla povertà”. Il messaggio “meno casta” risponde all’insofferenza popolare verso gli abusi di potere dei politici, ben documentati negli anni da ripetuti scandali. Eppure, la promozione di un approccio pauperistico alla politica è tanto efficace al ritorno d’immagine quanto poco effettivo nello sradicare la corruzione legata alla politica, se non bloccare tanti investimenti in infrastrutture e grandi opere. “Lotta alla povertà” invece risponde al bisogno dei cittadini meno abbienti di protezione sociale. Dalla recessione del 2007-11 in poi, varie fasce di italiani hanno visto il proprio reddito pro-capite stagnare o, al peggio, calare.[12] Ciononostante, la proposta del reddito di cittadinanza non aiuta la classe media, vero motore dello slancio produttivo di cui l’Italia ha bisogno, mentre offre solo un palliativo ai cittadini più poveri che oggi sono aiutati, almeno in parte, dal reddito di inclusione e da altre misure di contrasto alla povertà. Poco importa quindi se le risposte date alla domanda di “meno casta e lotta alla povertà” siano controproducenti o inadeguate.

Quale narrativa è stata proposta sull’altro versante dello spettro politico? Come hanno risposto i democratici americani ed italiani alla visione del mondo proposta dai movimenti populisti su ambo i lati dell’Atlantico? Come hanno saputo leggere gli scompensi socioeconomici provocati dalla globalizzazione e utilizzato le numerose ricette di riformismo radicale a loro disposizione per raccontare un nuovo mondo possibile? Tentennando, nel migliore dei casi, e opponendosi alle narrative populiste, nel peggiore. Fornendo numeri, dati, statistiche, elenchi di cose fatte e da fare, articolando in maniera poco efficace le proprie proposte di soluzione ai bisogni della gente se non addirittura ignorando o negando questi bisogni, come spesso è avvenuto. Al messaggio trumpiano “Costruiamo un muro con il Messico”, che veniva incontro in modo primordiale alle insicurezze e paure della gente rispetto all’immigrazione, Hillary Clinton, nella sua campagna presidenziale del 2016, ha risposto criticando quelle stesse persone proprio per quelle insicurezze, fino a definirle “un cumulo di miserabili”.[13] In Italia, durante la campagna elettorale per le elezioni politiche del marzo 2018, il Partito Democratico ha proposto un programma articolato in 100 punti. Ma che cosa rimaneva alla gente di una proposta politica articolata in 100 punti? Quale visione del mondo sottintendevano questi 100 punti? Quanto facevano sognare e sperare in un mondo migliore?

La visione del mondo proposta dall’area liberal-democratica e progressista è stata carente di spessore narrativo, fatto di storie, aneddoti, metafore, messaggi chiari, semplici e ripetuti, che offrissero alla gente una lettura delle proprie insicurezze economiche reali o percepite, e delle conseguenti riforme necessarie. Decenni di studi e ricerche offrono una lunga lista di soluzioni tecniche, supportate da evidenza empirica, per favorire lo sviluppo economico, combattere la povertà, lottare contro le diseguaglianze, e sostenere le pari opportunità. Ciò nonostante, questo mix di risposte ai bisogni di determinati gruppi sociali, affiorati in particolare durante il rapidizzarsi della globalizzazione, acquista valore solo quando viene costantemente adattato al contesto storico e geografico, e proposto attraverso una narrativa politica che lo metta in relazione ai bisogni, le aspirazioni e le emozioni della gente.

I democratici americani e quelli italiani hanno lasciato l’iniziativa di una nuova narrativa politica, necessaria in un mondo globalizzato, agli avversari, limitandosi a negarne la solidità empirica e implicitamente avvalorandone il costrutto logico-deduttivo. La neurolinguistica ci spiega che opporsi al messaggio dell’avversario politico ne valida la costruzione logica iniziale e, come conseguenza, finisce per rafforzarlo.[14] Per esempio, nel 2015 il M5S ha creato una narrativa politica negativa sul presunto conflitto di interessi del ministro per i Rapporti con il Parlamento Boschi nell’ambito della pubblicazione del “Decreto Salva Banche”.[15] L’obbiettivo era di creare una narrativa secondo la quale il Governo Renzi era amico di banchieri, ne supportava gli interessi e ne nascondeva le malefatte, con la complicità di un proprio Ministro. Sia Renzi che Boschi hanno risposto a questi attacchi negandoli, senza preoccuparsi di smontare nella sostanza quella narrativa per proporne un’altra. Allo stesso modo, i repubblicani americani erano riusciti a infangare il nome di John Kerry, candidato nel 2004 alla presidenza degli Stati Uniti, attraverso l’appoggio indiretto a un gruppo di veterani della guerra del Vietnam, Swift Boat Veterans for Truth, che aveva trasformato efficacemente la percezione di cui godeva Kerry come veterano decorato in quella di un quasi disertore senza coraggio. Donald Trump conosce istintivamente queste dinamiche narrative, dichiarando spesso che “any news is good news”.

Le forze liberal-democratiche e progressiste devono elaborare una nuova narrativa politica che metta esplicitamente in relazione soluzioni tecniche, riforme, politiche pubbliche radicali, efficaci e pragmatiche, basate su evidenza empirica, con i bisogni e le emozioni di persone che vivono in un mondo globalizzato. Mentre Tony Blair e Bill Clinton hanno saputo raccontare un’entusiasmante visione del mondo ai vincitori della globalizzazione, una nuova narrativa politica, che chiameremo Quarta Via, deve narrare una visione del mondo altrettanto entusiasmante dove ci sia spazio sia per i vincitori che per i vinti, alternativa a quella dei populisti ma altrettanto agguerrita, e che utilizzi un proprio linguaggio.

La Quarta Via si collega ai valori universali di compassione, fratellanza, libertà, e uguaglianza, come sono stati declinati tradizionalmente dall’area liberal-democratica e progressista a partire dalla Rivoluzione francese. La Quarta Via si fonda su una esplicita ispirazione morale liberale, sul conseguente stato di diritto (rule of law) e bisogno di sicurezza (public order) e per definizione prende posizione sul tipo di soluzioni tecniche che affrontano e risolvono le necessità della gente. Allo stesso tempo, si interroga costantemente sull’evoluzione del concetto di giusto e sbagliato, sull’adeguatezza del contratto sociale esistente e pragmaticamente offre soluzioni tecniche che migliorano la vita dei cittadini. Elemento chiave di questa narrativa è la riduzione di problemi complessi in termini semplici, spesso attraverso una storia o l’uso di metafore che uniscono i fatti e li intrecciano trascendendo le riforme tecniche offerte in partenza, offrendo ai cittadini un contesto dove possano elaborare autonomamente un significato per le proprie azioni e uno scopo per la loro vita.[16] Questo significato aiuta la gente a formare il proprio senso d’identità e appartenenza, e di conseguenza ad interpretare la vita di tutti i giorni.[17]

Per avere successo, la Quarta Via deve vincere i cuori e le menti della gente offrendo speranza in un mondo migliore di quello odierno. Un sentimento di speranza che, quando efficacemente articolato, ha buone probabilità di prevalere sui sentimenti di paura e rabbia sui quali si basa la narrativa politica populista. La Quarta Via non è una nuova forma di comunicazione, in quanto si preoccupa di creare una storia potente ed efficace che cattura l’immaginario collettivo della gente, e non si limita alla ricerca di un modo di comunicare questa storia visivamente e testualmente per attrarre quante più persone possibile. La narrativa, o story-making, interpreta la realtà attuale, offrendo uno o più contesti di interpretazione e propone una visione futura del mondo. La comunicazione, o story-telling, racconta questa realtà attraverso un video o un post, un documentario o un editoriale, un discorso o una chat.

La notte del 4 novembre 2008 le strade di Washington, DC, erano completamente inondate di gente che celebrava l’improbabile vittoria di Barack Hussein Obama alla presidenza degli Stati Uniti. Quando ancora i movimenti populisti stavano crescendo nei consensi ma, almeno nei paesi occidentali, non avevano ancora raggiunto le leve del potere, Obama vinceva le elezioni con una narrativa politica che entusiasmava il popolo americano come non succedeva dai tempi della vittoria elettorale di John F. Kennedy del 1960. Obama si proponeva come l’incarnazione di una società americana post-razziale e post-ideologica, dove le divisioni dettate dal colore della pelle e dalle ideologie di destra o di sinistra non offrivano più le adeguate chiavi di lettura del presente. La sua narrativa politica includeva la riforma del sistema sanitario e quella del sistema finanziario, collegandola ai valori di solidarietà, equità, uguaglianza e libertà, e articolava in modo costante e ripetitivo questi valori adducendo la propria storia personale ad esempio tanto improbabile quanto straordinario: il cambiamento, nell’America del 2008, era possibile, e un uomo nero che fino a meno di centocinquant’anni prima avrebbe potuto essere legalmente schiavizzato, adesso poteva diventare presidente di quello stesso paese. Un mondo migliore era possibile.

Nel 2012, un politico canadese inesperto ma in ascesa, Justin Trudeau, reinterpretava le necessità del popolo canadese elaborando una narrativa politica che offriva soluzioni tecniche imperniate sui valori di tolleranza e apertura. Figlio a sua volta di un Primo Ministro, quel Pierre Trudeau che negli anni Sessanta aveva lottato per tenere il Canada unito quando le forze politiche secessioniste del suo Québec ne minacciavano la disintegrazione, Justin Trudeau va alla ricerca dei valori fondamentali che tengono unito il Canada. Nel suo manifesto politico Common Ground elabora le fondamenta della sua narrativa politica progressista, poi lanciata durante la campagna elettorale vinta nel 2015. Questa narrativa collega quei valori di tolleranza e apertura, a suo dire intrinsecamente canadesi, con politiche pubbliche progressiste tra le quali l’apertura del Canada ai rifugiati e agli immigrati, ingenti aiuti economici a famiglie e studenti, il matrimonio gay, e la liberalizzazione della marijuana.[18] Trudeau elabora una narrativa politica basata sul senso di un destino comune di cui i canadesi contemporanei hanno bisogno data la loro natura di popolo per la stragrande maggioranza composto da immigrati.

Emmanuel Macron rilancia l’idea, nell’agosto 2016, dell’Europa come unico contesto immaginabile entro il quale la Francia possa risolvere i propri problemi e soddisfare i propri bisogni. Non solo vince le elezioni presidenziali dell’anno successivo con oltre il 66% dei voti, a 39 anni e senza il supporto di un partito tradizionale, ma guadagna anche la maggioranza assoluta dei seggi nelle successive elezioni parlamentari con il movimento politico da lui fondato solo un anno prima, la Republique en Marche. Questo successo si basa su una narrativa politica visionaria, imperniata su una Francia che ha tutto da guadagnare dall’apertura al mondo esterno, dove l’Europa è vista come pilastro insostituibile per il progetto francese di un mondo più giusto, sicuro e pacifico. Le politiche pubbliche concrete che propone si ricollegano a questa visione del mondo e vengono pragmaticamente rilette e inquadrate in questo contesto, senza paure dettate dalle gabbie ideologiche che soffocano i partiti tradizionali. Macron risponde alle domande di appartenenza (da dove veniamo?) e destino (dove andiamo?) che i francesi, come tutti i popoli della terra, condividono, e si prende il rischio di interpretarle con successo in chiave europea, in un contesto politico dove la destra populista del Front National aveva invece proposto una visione identitaria e di chiusura.

In un recente saggio sul liberalismo, l’Economist afferma che “il contratto sociale e le norme geopolitiche alla base delle democrazie liberali, e l’ordine mondiale che le tiene in piedi, non sono state pensate per questo secolo”.[19] La Quarta Via allo sviluppo umano, sociale ed economico offre una visione del mondo contemporaneo che include soluzioni tecniche dettagliate che variano da paese a paese, ma che presentano alcuni tratti comuni. Primo, le riforme proposte si basano su evidenza empirica e, qualora questa non esista, includono una misurazione della propria efficacia mentre le riforme sono in corso d’opera. Secondo, queste riforme si preoccupano in primis di dare una risposta agli effetti negativi della globalizzazione di merci, servizi, capitali e persone, con particolare attenzione ai gruppi sociali più disagiati. Terzo, le riforme si collegano efficacemente ai bisogni e alle emozioni della gente. Questa nuova narrativa politica elabora una visione ispirata a valori liberal-democratici e progressisti, riaffermando la speranza di un mondo dove i figli potranno nuovamente vivere in un mondo migliore di quello in cui vivevano i loro genitori.

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[1] UNU-WIDER, “World Income Inequality Database (WIID3.4)”, Gennaio 2017.
[2] Dettling, Lisa J., Joanne W. Hsu, and Elizabeth Llanes, “A Wealthless Recovery? Asset Ownership and the Uneven Recovery from the Great Recession ”, FEDS Notes. Washington: Board of Governors of the Federal Reserve System, Settembre 2018.
[3] http://www.presidency.ucsb.edu/ws/?pid=1038
[4] https://www.theguardian.com/uk/2005/sep/27/labourconference.speeches
[5] William Davies, “How feelings took over the world”, The Guardian, Settembre 2018.
[6] “Estimated Impact of the American Recovery and Reinvestment Act on Employment and Economic Output from October 2011 Through December 2011”, Congressional Budget Office, Febbraio 2012.
[7] Dani Rodrik, “Populism and the economics of globalization,” Journal of International Business Policy, 2018, p. 13.
[8] “Statistical Portrait of the Foreign-born Population in the Unites States, 1960-2016”, Pew Research Center.
[9] Joseph Francois and Laura M. Baughman, “Does Import Protection Save Jobs? The Estimated Impacts of Proposed Tariffs on Imports of U.S. Steel and Aluminum”, Policy Brief, Trade Partnership, Marzo 2018.
[10] Demos&Pi e Demetra, “Atlante Politico”, commissionato da La Repubblica, 2 Novembre 2018. Campione: 1.001, livello di rappresentatività: 95%, margine di errore: +/- 3.1%.
[11] XXVII Rapporto Immigrazione, Caritas e Migrantes (RICM) 2017-2018, “Un Nuovo Linguaggio per le Migrazioni”, Settembre 2018. Cfr. anche Paolo Segatti e Federico Vegetti, “Rapporto sull’accoglienza degli italiani. Fattore sfiducia”, Il Regno – attualità̀, Nr. 18/2018, pag. 557-571.
[12] Massimo Baldini, “Perché aumenta la disuguaglianza in Italia”, Lavoce.info, 27 Aprile 2018.
[13] https://www.youtube.com/watch?v=PCHJVE9trSM
[14] George Lakoff, “Don’t Think of an Elephant!: Know Your Values and Frame the Debate”, Chelsea Green Publishing, Settembre 2004.
[15] Decreto Legge 183/2015 recante Disposizioni urgenti per il settore creditizio, approvato il 22 Novembre 2015 dal Consiglio dei Ministri del Governo Italiano.
[16] Jeong-Hee Kim, “Understanding Narrative Inquiry”, SAGE Publications, Marzo 2015, p. 190.
[17] Kalypso Nicolaïdis, “Brexit as myth: Exodus, Reckoning, or Sacrifice?”, Standpoint, Luglio/Agosto 2017.
[18] Justin Trudeau, “Common Ground”, HarperCollins, Agosto 2015.
[19] “Reinventing liberalism for the 21st century”, The Economist, Settembre 2018.



L’Italia sta entrando in recessione?

Dopo cinque mesi di governo, per la prima volta si ha la sensazione che qualcosa stia cambiando, sia nei rapporti interni al Governo, sia in quelli con l’elettorato.

Dentro il Governo decreto sicurezza, disegno di legge anticorruzione, condono fiscale, grandi opere, stanno suscitando i primi dissensi veri. Visto dall’esterno, il clima fra gli alleati non sembra armonioso come nei giorni degli sbarchi o in quelli della crociata anti-Bruxelles.

Ma è sul versante dell’elettorato che le cose mi sembrano più in movimento, forse anche perché sono torinese e tocco con mano i primi segni di delusione, che nella mia città sono strettamente legati a due clamorosi no della sindaca Appendino: no alle olimpiadi invernali, che se verranno assegnate all’Italia si terranno a Milano e Cortina; no alla Tav, che se fermata costringerà molte imprese a chiudere o a licenziare. Due no che, almeno qui, paiono indebolire il consenso ai Cinque Stelle sia a livello cittadino, sia a livello nazionale. Qualcuno comincia addirittura a immaginare una nuova “marcia dei 40 mila”, questa volta promossa da un fronte che potrebbe unire imprenditori, sindacati, forze politiche di destra e di sinistra.

Si sarebbe tentati di pensare che il cambio di umori sia legato innanzitutto all’azione dell’esecutivo, assai popolare quando attacca i migranti e l’Europa, assai meno convincente quando tenta di mettere in atto il “contratto di governo”. Credo ci sia del vero in questa impressione, specie per i ceti produttivi, preoccupati del blocco o rallentamento delle grandi opere, ma anche della modestia degli sgravi fiscali alle imprese. Poco per volta, ci si rende conto che, complessivamente, le tasse non diminuiranno affatto, perché gli sgravi sull’Ires e l’Iva sulle piccole imprese (circa 2 miliardi nel 2019) sono più che compensati da nuove tasse e dal venir meno di altre misure di sostegno alle imprese, come l’Ace (che viene soppressa) o l’Iri (che non entra in vigore).

E tuttavia io sospetto che un certo raffreddamento del rapporto con l’elettorato possa avere anche un’altra origine, ben più insidiosa. Forse quello di cui imprenditori, artigiani, commercianti, lavoratori dipendenti cominciano ad accorgersi è che è il ciclo economico stesso a volgere al peggio. Non c’è solo la crescente consapevolezza dei danni prodotti dallo spread a 300 punti base, non c’è solo la preoccupazione per il peggioramento dei rapporti con l’Europa, o addirittura il timore di un’uscita dall’euro. Da qualche giorno, a queste preoccupazioni se ne stanno aggiungendo di assai più concrete e dirette. I dati di settembre sull’export sono pessimi: l’avanzo della bilancia commerciale si è drasticamente ridotto, sia rispetto a luglio sia rispetto a settembre di un anno fa. L’occupazione è in calo, e lo è proprio nella componente che il decreto dignità ambiva a rafforzare, quella dei posti a tempo indeterminato. Ma soprattutto è fermo il Pil, ovvero l’indicatore che tutti gli altri riassume: non succedeva dal 2014, ossia dall’anno di uscita dalla crisi. Perché questa impasse? Perché questi segnali negativi dal versante dell’economia?

Mi piacerebbe avere le certezze di Brunetta, secondo cui la crescita della disoccupazione è “il primo effetto disastroso del decreto dignità”. O quelle di Di Maio, secondo cui, tutto al contrario, il calo dell’occupazione è “l’ultimo colpo di coda del Jobs Act”. E ancora più mi pacerebbe avere quelle del presidente di Confindustria Boccia, secondo cui “se l’economia non cresce è colpa esclusiva delle scelte economiche di questo governo”.

Ma la verità è che, con i dati disponibili, è tecnicamente impossibile stabilire in che misura questi andamenti negativi siano da imputare all’azione del precedente governo, a quella dell’esecutivo attuale, o al rallentamento dell’economia europea, chiaramente avvertibile dal terzo trimestre di quest’anno. Personalmente, ritengo più verosimile che quello cui stiamo assistendo sia il solito film: l’economia italiana si muove più o meno in sincronia con quella degli altri paesi europei, ma a passo più lento, per cui quando “loro” vanno forte noi andiamo piano, e quando (come oggi) loro vanno piano noi stiamo fermi.

Quel che invece mi sento di dire è che è molto pericoloso, per chi governa, mandare all’opinione pubblica messaggi di onnipotenza, per cui l’Italia sarebbe in grado di ignorare le raccomandazioni dell’Europa, i segnali dei mercati, le previsioni dei centri studi indipendenti. Perché a forza di dire che possiamo fare di testa nostra, che tutto dipende da noi stessi, e che la manovra ci farà crescere il doppio del previsto, se poi le cose si mettono storte, e le certezze evaporano sotto i colpi della realtà, si rischia di pagare un prezzo molto alto in termini di consenso.

Vorrei ricordare che, tecnicamente, un paese è considerato in recessione se il suo Pil diminuisce per due trimestri consecutivi. E se al Pil piatto del terzo trimestre 2018 dovessero seguire due trimestri di Pil calante, l’Italia potrebbe venirsi a trovare ufficialmente in recessione già a fine aprile prossimo, giusto un mese prima delle elezioni europee. Se questo dovesse accadere, presumibilmente dipenderebbe poco dalle scelte di questo governo e molto dall’evoluzione della congiuntura europea. Ma difficilmente l’opinione pubblica sarebbe di questo avviso. E’ una questione di logica: se oggi ci vien detto che possiamo fare quel che vogliamo, contro tutto e contro tutti, quel che potrà accadere domani sarà considerato una conseguenza delle nostre azioni, non del “destino cinico e baro”.




A proposito della morte di Desirée: perché lo Stato è impotente

Nell’ora della pietà, dello sconcerto, della rabbia per la morte di una ragazza sedicenne, stuprata e uccisa da un gruppo di immigrati irregolari in un quartiere degradato di Roma, ho provato a fare un passo di lato, lontano dalla cronaca. Una sorta di esercizio, o esperimento mentale. Mi sono chiesto: se fossi il ministro dell’Interno, se fossi al posto di un Salvini o di un Minniti, e avessi la ferma volontà di impedire il ripetersi di fatti del genere (il caso di Desirée è solo l’ultimo di una serie), che cosa potrei fare?

Ci ho pensato a lungo, e la conclusione cui sono approdato è: poco, molto poco, almeno nel breve periodo.

Le ragioni del mio pessimismo sono molte. Penso per esempio che, poiché sono decenni che chiudiamo un occhio su ogni genere di trasgressione – in famiglia, a scuola, all’università, sugli autobus, per strada, sui treni, nei rapporti con il fisco – la violazione delle norme è entrata nel nostro DNA culturale. Per alcuni, succede addirittura che la violazione delle regole diventi un fattore identitario, se non di orgoglio personale: poiché ritengo che una data regola sia ingiusta, mi sento in diritto di violarla.

Non c’è solo la hybris, lo smisurato orgoglio del singolo: c’è anche l’opportunismo e la codardia dello Stato. Non è da oggi, e non è certo solo a Roma o nelle grandi città, che le forze dell’ordine hanno deliberatamente scelto di considerare extraterritoriali, o zone franche, intere porzioni del territorio nazionale, o interi quartieri di una città. Vale per le volanti che si guardano bene dall’entrare in certi territori, per i vigili che non osano entrare in certi edifici, ma anche per i magistrati, per i quali, a dispetto dell’obbligatorietà dell’azione penale, ci sono notizie di reato che non meritano indagini e approfondimenti.

Poi c’è la cultura finto-progressista, per cui la delinquenza comune, dal furto allo spaccio, è una conseguenza della povertà e della diseguaglianza, e dunque va trattata con riguardo. Come con riguardo vanno trattate le occupazioni di case, le occupazioni di scuole, le invasioni dei cantieri, tutte azioni illegali ma di cui si suppone che siano compiute per una giusta causa, o con sufficienti attenuanti per essere tollerate. Una visione del mondo per cui, da almeno vent’anni ci viene spiegato: “La politica, una buona politica, dovrebbe prendere in carico le paure degli italiani e dimostrarne l’infondatezza” (copyright Livia Turco, firmataria della legge Turco-Napolitano sull’immigrazione).

Infine, naturalmente, c’è il problema degli immigrati irregolari, una massa di 500 mila persone (o forse più) che vagano per l’Italia, talora lavorando in nero, talora chiedendo l’elemosina, talora delinquendo, e che nessun ministro dell’Interno è in grado di espellere, perché per molti di essi mancano accordi di rimpatrio con i paesi d’origine.

Insomma sono molte, purtroppo, le ragioni per cui è difficile, molto difficile, far sì che quel che è successo a Desirée (e prima di lei a Pamela, e a tante altre e altri) non abbia a ripetersi in futuro. Siamo tutti troppo assuefatti al disprezzo delle regole per poter sperare che qualcosa di sostanziale cambi, non dico domani, ma nemmeno da qui a qualche anno.

Però c’è una ragione che, a mio parere, sovrasta tutte le altre, almeno quando parliamo di reati, ossia di condotte illegali. Questa ragione è l’evoluzione della legge penale e della prassi giudiziaria. Un’evoluzione che, da molti anni, è stata guidata da un unico principio di fondo: rendere quasi impossibile scontare la pena in carcere. Un’idea astrattamente assai nobile, perché punta alla rieducazione e al reinserimento, ma che ha come effetto pratico di togliere allo Stato la sua arma più importante nella lotta al crimine: la cosiddetta “incapacitazione”.

Che cos’è l’incapacitazione? E’ far sì che il soggetto che ha commesso un delitto sia materialmente impedito di ripeterlo (o di commetterne un altro) per un tempo congruo, ossia per la durata della detenzione in carcere. Non è questo il luogo per ricostruire i numerosi cambiamenti normativi, della legge penale e della legge carceraria, che nel giro di pochi decenni hanno condotto alla situazione attuale. E non è neppure il caso di infierire sulle responsabilità della sinistra, che quei cambiamenti ha voluto e promosso, un po’ per mentalità, un po’ per compiacere l’Europa, che giustamente denunciava il sovraffollamento e le condizioni disumane delle nostre prigioni. Ma almeno una cosa va detta: il fatto che si possa iterare un reato innumerevoli volte senza finire in carcere, il fatto che molti giudici tendano a infliggere il minimo della pena, il fatto che reati di forte allarme sociale prevedano pene modeste o la possibilità di accedere a pene alternative al carcere, non può che produrre due conseguenze cruciali: chi delinque matura un sentimento di impunità e onnipotenza, chi dovrebbe impedirgli di delinquere  matura un sentimento di impotenza e di frustrazione.

Quante volte capita, a poliziotti e carabinieri, di dover esclamare: “sì, lo conosciamo, l’abbiamo già beccato più volte ma non c’è niente da fare, noi lo arrestiamo e domani è di nuovo fuori”. E questo non solo di fronte al singolo ladro, spacciatore, estorsore, ma anche di fronte ai gruppi che occupano e controllano determinati territori. Credo che quasi tutti gli abitanti di grandi città abbiano avuto modo di constatarlo più volte nella loro vita: ci sono pezzi di città, quartieri, isolati, marciapiedi in cui brulicano attività illegali, è pericoloso abitare e passare, i criminali assumono atteggiamenti arroganti e intimidatori. In questi luoghi può succedere che i cittadini protestino, facciano esposti, chiedano disperatamente alle autorità di intervenire, e che le Istituzioni (polizia, magistratura, talora anche la Chiesa) si mostrino sorde. Ma può anche succedere, come a quanto pare è accaduto nel caso di San Lorenzo e della povera Desirée, che intervengano ripetutamente ma del tutto inutilmente: la criminalità che occupava un determinato luogo vi torna la settimana dopo, o semplicemente si sposta di un isolato, o cambia zona della città.

Ecco perché, quando si dice che una certa tragedia era “annunciata”, e si accusano le autorità, siano esse politici, amministratori, Forze dell’ordine, di non aver ascoltato, di non aver risposto, di non aver provveduto, io sento un certo fastidio, o forse imbarazzo. Insomma, qualcosa non mi torna. Non tanto perché il mantra di questi giorni, riqualificare le periferie, è “un vasto programma” che ben pochi politici anteporrebbero a più redditizie promesse elettorali, ma perché la precondizione di tutto è che lo Stato sia messo in condizione di tornare a fare lo Stato.

Questo, spiace dirlo, dipende in misura minima dal ministro dell’Interno, e in sommo grado dal Parlamento. Che può continuare con la vecchia linea: depenalizziamo tutto il possibile; riserviamo il carcere ai crimini più gravi (e, barbarie, ai presunti innocenti in attesa di giudizio!); per migliorare le condizioni di detenzione svuotiamo le carceri con indulti e amnistie. Oppure può trovare il coraggio di fare macchina indietro, e di riappropriarsi dello strumento dell’incapacitazione: cambiando le norme penali, limitando il ricorso alle pene alternative, destinando qualche miliardo all’edilizia carceraria.

Se così agisse il Parlamento, le Forze dell’ordine non penserebbero più che il loro lavoro è vano, o che i loro sgomberi sono fatiche di Sisifo. Perché, arrestando qualcuno, confiderebbero di non ritrovarselo la settimana dopo nello stesso posto, a fare le stesse cose, con le stesse compagnie.

E forse i cittadini ricomincerebbero ad avere fiducia nello Stato, a non sentirsi stupidi se rispettano le leggi. Perché, checché continuino a pensarne certi politici, non è vero che “le paure dei cittadini sono infondate”: le paure dei cittadini sono fondatissime, verso la criminalità degli immigrati come verso quella degli italiani. E quelle paure, solo uno Stato che torni a fare lo Stato ha qualche possibilità di spegnerle.




Pd, difendere l’Europa non basta

Questa volta, per la prima volta da 40 anni, ossia da quando esiste il Parlamento europeo (1979), le elezioni europee saranno quel che sempre avrebbero dovuto essere e mai sono state: un confronto sull’Europa, le sue politiche, il suo futuro. Quanto all’Italia, il 26 maggio prossimo sarà un banco di prova decisivo per almeno due soggetti politici: il governo giallo-verde (ammesso che sia ancora in sella) e il Partito Democratico, l’unica forza di opposizione che riscuote ancora un consenso a due cifre (16%, secondo gli ultimi sondaggi).

Ma come si presenterà il Pd al cruciale appuntamento di maggio? Chi lo guiderà?

Qui la nebbia è totale. Per alcuni il Pd dovrebbe addirittura essere sciolto, per far spazio a una formazione politica nuova di zecca. Per altri il Pd dovrebbe aprirsi alla società civile e diventare il perno di una larga alleanza. Per altri ancora l’unico modo per scongiurare la dissoluzione dell’Europa è la nascita di un “fronte repubblicano”, da Tsipras a Macron. Riguardo alla leadership, tramontata a quanto pare l’ipotesi di una candidata donna, le possibilità vere al momento paiono solo tre: Nicola Zingaretti, Matteo Richetti, Marco Minniti (se scioglierà la riserva); sempre che Carlo Calenda non ci ripensi, e scenda in campo pure lui.

Personalmente sono molto scettico sull’idea di un fronte europeista e anti-sovranista. L’ultima volta che la sinistra ha provato a coalizzarsi in un fronte è stato nel 1948, e sappiamo come è andata: trionfo della Dc (48%) e débâcle del fronte popolare, fermo al 31%. Per non parlare del paradosso che si produrrebbe oggi: visto che il popolo sta con Salvini e Di Maio, quello che vedremmo nascere sarebbe una sorta di “fronte anti-popolare”, concetto curioso e difficile da digerire.

In realtà, più che di formule vincenti, o capaci di limitare il disastro, quello di cui si sente la mancanza sono le idee. Dicendo “idee” non mi riferisco a minuziosi programmi di riforma, o ai soliti proclami di politica economica. No, quello che mi pare manchi completamente sono un bilancio onesto sugli errori commessi dalla sinistra (non solo Pd), e risposte chiare alle due domande su cui Lega e Cinque Stelle hanno sfondato: la richiesta di protezione da criminalità e immigrazione, e la richiesta di protezione economica.

Su questo l’attuale campo progressista mi pare balbetti, o si mostri già ampiamente diviso. Penso al caso delle occupazioni di case, o quello del sindaco di Riace. Una parte della sinistra (maggioritaria, suppongo) ritiene che, anche ove emergessero irregolarità e violazioni di legge, la buona causa in nome della quale sono state commesse assolva i loro autori. Quando una legge è sbagliata, e viola principi che la nostra coscienza (o la nostra interpretazione della Costituzione) ritiene fondamentali, è giusto ribellarsi, come sotto i regimi autoritari; una posizione, peraltro, abbastanza simile a quella della destra, quando per difendere gli evasori parla di “evasione di necessità”, giustificata da tasse troppo alte. Un’altra parte della sinistra pensa invece che, in un regime democratico, le leggi si rispettano, e se non funzionano si cerca di cambiarle. Analogo discorso si potrebbe fare sugli sbarchi: una parte del popolo di sinistra è per l’accoglienza senza se e senza ma, un’altra parte condivide la linea dura di Minniti, che Salvini ha un po’ spettacolarizzato ma che resta sempre la stessa: gli ingressi irregolari in Europa (e in Italia) debbono essere combattuti con determinazione.

Ma penso anche a un altro tema, quello della lotta alla povertà e alla disoccupazione. Una parte del popolo di sinistra trova meravigliosa l’idea del reddito di cittadinanza, e si duole soltanto che a pensarci siano stati i Cinque Stelle anziché il Pd. Un’altra parte non ritiene ancora persa la battaglia per creare nuova occupazione, e considera il reddito di cittadinanza come una misura assistenziale, da usare con cautela perché mina dalle fondamenta la civiltà del lavoro.

E ancora. Una parte del popolo di sinistra ritiene che la riduzione della pressione fiscale e contributiva sia un obiettivo sacrosanto, per stimolare la crescita, un’altra parte pensa che i nostri problemi li risolveremo solo con maggiori imposte sul reddito e sul patrimonio (secondo il celebre slogan del 2006: “far piangere i ricchi”). Una parte dell’elettorato progressista crede che il debito non sia un problema, e anzi sia necessario per far ripartire l’economia, un’altra parte pensa che sia un ingiusto fardello sulle future generazioni.

Si potrebbe continuare con gli esempi. Ma quello che voglio dire è solo questo: su queste divisioni i candidati alla guida del campo progressista tendono a non prendere posizioni nette, perché sanno che scontenterebbero una parte, una parte troppo grande, dei loro potenziali sostenitori. Il rischio è che, non essendo nella condizione di spiegare in modo chiaro se e come intendano dare risposte nuove alla domanda di protezione che ha portato al successo dei movimenti populisti, non trovino di meglio che unirsi in una santa alleanza a difesa dell’Europa e della moneta unica.

Sarebbe un disastro. Non perché Europa ed euro non siano risorse cruciali per il nostro futuro, ma perché quella è solo la cornice. E la cornice non basta, ci vuole un pittore che trovi il coraggio di riempire la tela.

Pubblicato su Il Messaggero del 20 ottobre 2018