Il taglio dei parlamentari è solo populismo?

I sondaggi più recenti ci informano che quasi il 90% degli italiani giudica favorevolmente il taglio dei parlamentari. Dunque, praticamente tutti gli elettori stanno dalla parte della riforma recentemente votata alla Camera ed al Senato; una riforma che è stata tentata per diversi decenni da tutti i governi, o le bicamerali, che si sono succeduti nel corso del tempo, a cominciare dal 1963 per finire con la riforma costituzionale proposta da Renzi, senza mai riuscirci per un motivo o per un altro. E’ curioso ricordare che la limatura approvata lunedì scorso è esattamente quella proposta dalla bicamerale guidata da Nilde Iotti e Ciriaco De Mita nel 1994, sull’onda di Tangentopoli.

Ma come si era arrivati a questo numero di 945 parlamentari (630 alla Camera e 315 al Senato, escludendo i senatori a vita) ed esiste un numero “giusto”? Il percorso, per limitarci all’Italia repubblicana, è molto semplice: la Costituzione del 1948 aveva stabilito che il numero di deputati fosse pari a 1 ogni 80mila abitanti e quello dei senatori a 1 ogni 200mila; era dunque variabile, ed aumentava con l’incremento della popolazione. Nel 1948, ad esempio, furono eletti 574 deputati e 237 senatori, mentre dieci anni dopo furono rispettivamente una ventina e una decina di più, 596 e 246. La riforma costituzionale del 1963 abolì questa variabilità, stabilendo infine la numerosità del Parlamento attuale.

Troppi? Troppo pochi? Impossibile ovviamente dare una risposta a questa domanda. Resta il fatto che l’Italia è il paese che, con quasi un migliaio, detiene oggi il record del maggior numero di parlamentari al mondo di origine elettiva, fatta eccezione della Cina che ne ha circa 3000, ma quello è certo un mondo a parte. Con la riduzione a 600, se il referendum lo confermerà, ci troveremmo invece ad un livello intermedio, in compagnia di diverse altre Nazioni e in linea con le principali democrazie nel rapporto tra eletti e popolazione elettorale.

Le motivazioni che hanno spinto alla riforma le forze politiche, ed in particolare il Movimento 5 stelle che – si sa – ne ha fatto uno dei suoi cavalli di battaglia, sono di due ordini di motivi: il primo è la maggior efficienza di un Parlamento più snello, mentre il secondo, di gran lunga quello più motivante e sottolineato dai proponenti, è il risparmio nei conti pubblici. Che in realtà non è poi così eclatante: le analisi ci dicono che si risparmierebbe una cifra compresa tra gli 80 e i 100 milioni l’anno (circa 250mila euro per ognuno dei 345 parlamentari in meno), pari allo 0,006% del nostro debito pubblico.

Certo, non è molto, né lo sarebbe se si tagliassero anche gli stipendi di chi siede in Parlamento. Ma è sicuramente un segnale, che come si è visto procede nella direzione indicata dalla volontà popolare, che approva questo provvedimento. E’ un segnale di populismo, di demagogia un po’ fine a se stessa? Può darsi. Sono in molti a sottolinearlo, sia tra i politici che tra i commentatori. Le campagne e gli atteggiamenti anti-casta sono da sempre presenti nel nostro come peraltro in molti altri paesi, e i politici rappresentano forse l’emblema di ciò che si ritiene essere una “casta”, tanto che nelle periodiche rilevazioni, sono proprio loro quelli che stanno in fondo alle classifiche sulla fiducia, subito prima dei rom.

Che con questa riforma si voglia solleticare la parte più populistica della popolazione può essere vero, soprattutto se non sarà accompagnata – come promesso – da una vera riforma elettorale che renda questo “snellimento” adeguato ad un reale miglioramento delle funzioni legislative (ed esecutive) del Parlamento (e del Governo). E che, soprattutto, si apra un dibattito costruttivo sulla mai risolta diatriba tra rappresentatività e governabilità, tra sistema proporzionale e sistema maggioritario, tra turno unico e ballottaggio. Questi temi, forse, sono più decisivi per le sorti della nostra democrazia, rispetto al fatto che – magari – il Molise avrà un suo rappresentante in meno nel nostro Parlamento. Ma occorre affrontarli e risolverli. Rapidamente.




NADEF

Se mi chiedessero di indovinare quale ordine sia stato impartito ai tecnici che hanno il compito di stilare la NADEF (Nota di Aggiornamento al Documento di Economia e Finanza) risponderei che, probabilmente, gli hanno ingiunto: “facite ammuina!”. Tale infatti è la confusione di cifre, stime, ipotesi, percentuali che risulta difficile ipotizzare che non sia intenzionale.

E’ vero che, nel tempo, i documenti che illustrano la manovra finanziaria (non meno che altri testi: vedi i regolamenti universitari) sono diventati sempre meno lineari e comprensibili, ma devo confessare che mai ho avuto tante difficoltà a capire che cosa veramente il governo abbia intenzione di fare. E non mi consola certo il fatto di essere in buona compagnia: nei due giorni successivi all’uscita della NADEF su nessun quotidiano sono apparse le consuete dettagliate tabelle riassuntive da cui, tradizionalmente, tutti gli osservatori e gli studiosi cercano di farsi un’idea di quel che ci aspetta.

Devo quindi avvertire che quel che dirò si basa sul pochissimo che si riesce a capire, talora avventurandosi in calcoli resi necessari dalla reticenza del documento, dove insieme a tante cose mal spiegate si incontrano vere e proprie contraddizioni (esempio: i dati sul rapporto debito/Pil di pag. 10 sono incompatibili con quelli di pagina 9).

Ma andiamo con ordine.

La prima cosa che si deduce dalla Nota di aggiornamento è che, per l’anno prossimo, la manovra intende aumentare la spesa corrente un po’ di più dell’aumento già previsto “a legislazione vigente” (18 miliardi): le nuove spese previste sono infatti leggermente superiori alle spese soppresse (spending review). Dunque non c’è alcuno sforzo significativo per combattere sprechi e spesa improduttiva.

Il grosso della manovra consiste nella cosiddetta sterilizzazione (temporanea, ossia per il 2020) degli aumenti dell’IVA (23 miliardi), più una modesta riduzione del cuneo contributivo (2.7 miliardi, da giugno 2020), esclusivamente a vantaggio dei lavoratori.

Ma da dove arrivano questi 25.7 miliardi?

Per quel che si capisce, circa 15 miliardi provengono dalla rinuncia a ridurre il deficit pubblico, che senza manovra sarebbe stato di 24.6 miliardi, mentre con la manovra verrà portato a circa 40 miliardi di euro; quanto agli 11 miliardi mancanti si procederà con aumenti di tasse nella triplice forma di nuove tasse, taglio di sgravi fiscali, “lotta all’evasione”. In breve: per non far aumentare l’Iva ed alleggerire il cuneo fiscale (il che costa 25.7 miliardi), si procederà con 11 miliardi di nuove altre tasse da pagare subito, più 15 miliardi di debito pubblico a carico delle generazioni future.

Ed eccoci alla domanda chiave: ma in definitiva, la pressione fiscale aumenterà o diminuirà fra il 2019 e il 2020? L’aritmetica desumibile dalla NADEF (pag. 42) suggerisce: pagheremo circa 15 miliardi di tasse in più, ma se il Pil nominale crescerà nella misura prevista dal governo la pressione fiscale resterà sostanzialmente invariata. Se invece il Pil nominale dovesse crescere di meno (il che è probabile, perché sia le previsioni sul Pil reale, sia quelle sull’inflazione sono un po’ troppo ottimistiche), allora la pressione fiscale potrebbe crescere leggermente, ma meno di quanto sarebbe successo senza la manovra. Conclusione: tenuto conto che le misure pro-impresa sono sostanzialmente assenti, e che la pressione fiscale nella migliore delle ipotesi resterà costante, il meno che si possa dire della manovra è che non fornisce alcuna apprezzabile spinta all’economia (un punto prontamente rilevato dal presidente di Assolombarda Carlo Bonomi, nell’assemblea generale dell’associazione).

Non è tutto, però. L’altro elemento che emerge dalla NADEF è che il governo giallo-rosso non ha la minima intenzione di correggere i conti pubblici (per il 2020 prevede un deficit fermo al 2.2%, come quello ereditato dal governo giallo-verde), e questo nonostante la prevista diminuzione degli interessi sul debito. E, cosa ancora più inquietante, il nuovo governo pianifica un peggioramento (di 2 decimali) dell’indebitamento netto strutturale, che il governo precedente aveva invece migliorato (di 3 decimali).

Che dire?

Mi limiterei a due osservazioni. La prima è che, come ebbi già modo di notare l’anno scorso in relazione alla manovra di allora, questi governi si presentano come governi di svolta, ma svoltano ben poco. Il Conte 1 non introduceva alcuna radicale innovazione rispetto al piccolo cabotaggio di Gentiloni, il Conte 2 non introduce alcuna radicale innovazione rispetto alla navigazione a vista del Conte 1. Digrignare i denti (come faceva Salvini) non implica, di per sé, mordere nella polpa della spesa pubblica improduttiva; proclamare solennemente la lotta all’evasione, come fa oggi Conte, non comporta automaticamente riduzioni delle tasse ai contribuenti onesti. Finché le aliquote non scendono e i conti pubblici non migliorano, siamo sempre lì, come nel Gattopardo: tutto cambia nel bilancio dello Stato, purché nulla cambi davvero.

La seconda osservazione è che la facilità e la repentinità con cui questo governo ha annunciato di aver “trovato” i 23 miliardi necessari per disinnescare le clausole IVA, la dice molto lunga sulla strumentalità delle critiche che hanno accompagnato il governo precedente, quando Renzi invitava ad aspettare che i giallo-verdi si schiantassero sotto il peso delle loro politiche, e Zingaretti denunciava lo sfascio dei conti pubblici e l’inevitabilità di una manovra “mostruosa”, tutta lacrime e sangue. La realtà, temo, è semplicemente questa: nessuno degli ultimi tre governi ha cambiato veramente l’indirizzo della politica economico-sociale; nessuno ha avuto il coraggio di aggredire gli sprechi; nessuno è stato capace di ridurre la pressione fiscale; tutti hanno preferito rimandare al futuro la correzione dei conti pubblici. L’unica cosa che ha fatto la differenza è stato l’atteggiamento dell’Europa e dei mercati, benevolo quando al governo c’era (anche) il Pd, e comprensibilmente ostile quando al governo c’erano (solo) i populisti, stoltamente impegnati a inimicarsi tutti senza alcuna contropartita.

La conclusione non può che essere amara. Questo governo non è nato per disinnescare l’aumento dell’Iva bensì – più prosaicamente – per disinnescare il rischio che gli italiani potessero tornare al voto, e finissero per scegliere Salvini. Ma Salvini non dà alcun segno di aver capito la lezione: l’Europa non è neutrale rispetto al colore dei governi, e chi abbaia all’Europa senza essere in condizione di mordere, finisce irrimediabilmente per avere la peggio.

Pubblicato su Il Messaggero del 4 ottobre 2019




Il lato oscuro della lotta all’evasione

Sui quotidiani di oggi (28 settembre ndr) avreste dovuto leggere le cifre della cosiddetta NADEF, la “Nota di aggiornamento al Documento di Economia e Finanza”. In poche parole: le intenzioni del governo per la manovra finanziaria che ci attende nel 2019. Invece non troverete nulla perché il governo le sue intenzioni ha deciso di rivelarcele un po’ più in là, ignorando la scadenza del 27 settembre entro la quale la NADEF avrebbe dovuto essere presentata.

Anche se i numeri non ci sono ancora, possiamo però cercare di capire che cosa bolle in pentola partendo da alcuni dati Istat e dalle molte dichiarazioni che sono circolate in questi giorni. Nel 2018, ultimo anno per cui si hanno dati sostanzialmente definitivi, la pressione fiscale è stata del 41.8%, esattamente come nel 2017. Nel 2019, secondo le stime a suo tempo prodotte dall’Ufficio Parlamentare di Bilancio, la pressione fiscale dovrebbe risultare leggermente maggiore dell’anno scorso, verosimilmente poco sopra il 42%. Questi dati sono interessanti se comparati con quelli degli anni precedenti: nel quinquennio che va dal 2012, l’annus horribilis della crisi finanziaria, al 2017, la pressione fiscale era sempre diminuita, sia pure a piccoli passi. Se vogliamo raccontarla in termini di governi, possiamo dire che sotto Letta e Renzi le tasse diminuivano leggermente, sotto Gentiloni erano ferme, sotto Salvini e Di Maio – se l’Ufficio Parlamentare di Bilancio non ha sbagliato troppo i conti – hanno ripreso ad aumentare un po’.

E l’anno prossimo, con il governo giallo-rosso, che succederà?

La prima cosa di cui tener conto è che l’ultimo Documento di Economia e Finanza, partorito dal governo Conte-1, prevede un aumento della pressione fiscale fra il 2019 e il 2020 di 0.7 punti di Pil, pari a circa 13 miliardi di euro. Tale aumento serve a mantenere sotto controllo i conti pubblici, ed è in parte finanziato con l’aumento dell’Iva. Questo, in concreto, significa che se si lascia aumentare l’Iva la pressione fiscale salirà per il secondo anno consecutivo. E se non si lascia aumentare l’Iva?

Se non si lascia aumentare l’Iva la pressione fiscale potrà aumentare, diminuire o restare invariata a seconda degli strumenti che verranno usati per sterilizzare l’aumento dell’Iva. Tutto dipende dal fatto che il mancato aumento dell’Iva sia finanziato ricorrendo al deficit pubblico, diminuendo la spesa, o aumentando le entrate.

Nell’ipotesi che l’aumento dell’Iva sia interamente o prevalentemente finanziato con il deficit, il risultato non potrà che essere un ulteriore aumento del debito pubblico, con conseguente aggravamento del fardello di debiti che i giovani di oggi si troveranno sulle spalle domani. E’ perlomeno strano che i giovani stessi, sempre più persuasi che gli adulti abbiano loro “rubato il futuro”, non scendano in piazza ogni qualvolta il Governo aumenta il debito pubblico.

Nell’ipotesi che l’intero aumento dell’Iva venga finanziato con minori spese, e che alle spese già previste dalla scorsa legge Finanziaria non se ne aggiungano altre, la pressione fiscale diminuirà e l’economia potrà tirare un (piccolo) respiro di sollievo.

Ma questa ipotesi è del tutto teorica, per almeno due motivi. Il primo è che gli esponenti del nuovo governo si sono già sbilanciati su promesse elettorali di ogni genere che comportano maggiori spese (bonus vari per le famiglie) o minori entrate (riduzione del cuneo contributivo). Il secondo motivo – il più importante – è che, a giudicare dalle dichiarazioni degli ultimi giorni, il governo sembra puntare la maggior parte delle sue carte su nuove tasse e sulla cosiddetta lotta all’evasione fiscale.

In entrambi i casi la giustificazione addotta è di tipo etico. Nel caso delle nuove tasse si prova a giustificarle dicendo che le merendine fanno male alla salute dei bambini, o che il carburante dei trattori dei contadini fa male al pianeta. Nel caso della lotta all’evasione fiscale si mette in atto una campagna di delegittimazione delle transazioni in contanti, fino al punto di ipotizzare una tassazione dei prelievi di denaro cartaceo.

Qui non voglio discutere la sensatezza degli scopi di questa offensiva ideologico-morale: promuovere consumi sani, proteggere l’ambiente, far pagare le tasse a tutti sono obiettivi più che degni. Il punto su cui vorrei richiamare l’attenzione è che se lo strumento con cui questi obiettivi vengono perseguiti comporta un aumento della pressione fiscale, o anche semplicemente un aumento degli adempimenti (come pare accadrà alle partite Iva che usufruiscono del regime forfettario) l’effetto non può che essere un ulteriore soffocamento dell’economia, con tanti saluti ai discorsi sul rilancio della crescita e la creazione di nuovi posti di lavoro.

Quello che spesso si dimentica, specie quando si dice che con i soldi dell’evasione fiscale potremmo risolvere una miriade di problemi grandi e piccoli, è che i 110 miliardi dell’evasione non sono soldi depositati su Marte che finalmente entrerebbero in circolo, ma sono soldi che sono già in circolo e che verrebbero sottratti al settore privato se lo Stato – non pago degli 800 miliardi di entrate di cui già si pasce – decidesse di rimpinguare le proprie casse con ulteriori soldi, che presumibilmente spenderebbe altrettanto male di quelli che già riesce a sottrarre all’economia.

Significa questo che l’evasione è un bene e la lotta all’evasione un male?

No, significa esattamente il contrario: l’evasione è un male e la lotta all’evasione è un bene (anzi è un sacrosanto dovere di uno Stato che si rispetti), ma l’unica lotta all’evasione che fa bene all’economia è quella in cui il gettito recuperato viene usato interamente ed esclusivamente per abbassare le aliquote, e quindi non fa entrare un solo euro in più nelle casse dello Stato. Abbassare le aliquote, infatti, significa incentivare l’economia regolare, che è più efficiente di quella irregolare, e disincentivare quella irregolare, che è una delle cause del divario di produttività dell’Italia rispetto agli altri paesi.

Se vogliamo che l’Italia torni a crescere è essenziale evitare che, con il pretesto della lotta all’evasione, la pressione fiscale del 2020 sia maggiore di quella del 2019. E’ su questo, innanzitutto, che sarà bene giudicare la manovra che il governo si accinge a presentare la settimana prossima.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 28 settembre 2019



A che servono i liberali?

Da un po’ di tempo si torna a parlare del ruolo dei liberali. Alla tradizione liberale si richiama Berlusconi, impegnato in due missioni (quasi) impossibili: fermare l’emorragia di consensi di Forza Italia, mettere un freno alla deriva populista dei suoi alleati Salvini e Meloni. Ma alla tradizione liberale si richiamano anche i due partiti virtuali, ipotetici o futuribili di Renzi e di Calenda, entrambi ostili al giustizialismo e alla cultura assistenziale del Movimento Cinque Stelle, ma anche alla deriva del Pd, sempre più lontano dalla cultura riformista e modernizzatrice che Renzi aveva tentato di imporgli.

C’è spazio, oggi in Italia, per le forze che hanno qualche cromosoma liberale nel loro DNA? Secondo i sondaggi, il consenso potenziale delle formazioni liberali, talora impropriamente qualificate come centriste o moderate, è attualmente compreso fra il 10 e il 20% dei consensi. E in futuro?

In futuro qualcosa potrebbe cambiare, perché il consenso dipende anche dalla leadership. Non si può non notare che, nelle graduatorie di popolarità dei politici italiani prodotte a getto continuo dai sondaggi, i leader delle due principali formazioni di matrice liberale (Forza Italia di Berlusconi, e Italia viva di Renzi), occupano le due ultime posizioni. Detto altrimenti, e un po’ crudamente, al momento Forza Italia e Italia viva sono “zavorrate” dallo scarso credito che riscuotono i rispettivi leader. Domani si vedrà: Berlusconi potrebbe cedere ad altri il comando di Forza Italia, Renzi potrebbe scrollarsi di dosso parte dell’antipatia e dell’ostilità che attualmente lo circondano. In questo caso lo spazio dei liberali potrebbe allargarsi ancora un po’, anche se difficilmente fino al punto di far nascere un “partito liberale di massa”. Quel progetto, infatti, ha già dimostrato – con Berlusconi prima, con Renzi poi – di essere difficilmente realizzabile in Italia, dove la cultura liberale è sempre rimasta estremamente debole.

La domanda più importante, però, è un’altra: a che cosa può servire, in un’epoca come la nostra e in un paese come l’Italia, la presenza di alcuni partiti di ispirazione liberale?

Credo che la risposta sia molto diversa a seconda che volgiamo lo sguardo a sinistra, dove dominano Pd e Cinque Stelle, o a destra, dove dominano la Lega e Fratelli d’Italia.

A sinistra un presidio liberale può essere utile soprattutto sul terreno della politica economica, per neutralizzare l’involuzione anti-crescita e anti-imprese del Pd, indotta dall’alleanza con i Cinque Stelle. Un compito paradossale, visto che a consegnare il Pd ai Cinque Stelle è stato proprio Renzi. E nondimeno un compito necessario, se si vuole evitare che l’Italia prosegua nel percorso di “argentinizzazione lenta” in cui si è incamminata da una ventina di anni.

A destra una formazione liberale funzionante, esentata dalla stanca ripetizione del copione berlusconiano, avrebbe una funzione ancora più importante, quella di rendere di nuovo possibile (come nella seconda Repubblica) l’alternanza al governo fra centro-sinistra e centro-destra. Se una cosa ci hanno insegnato le recenti vicende che hanno portato dal Conte 1 a l Conte 2 è che l’approccio muscolare (e illiberale) di Salvini non può funzionare, e che l’ostinazione con cui viene ribadito e riproposto in ogni circostanza e in ogni contesto (compreso quello cruciale dell’Europa), è un formidabile ostacolo alla conquista e alla conservazione del governo.

Certo si può obiettare che il gioco politico è truccato, perché l’establishment europeo non è neutrale, e usa sistematicamente due pesi e due misure con i governi italiani: inflessibile con quelli populisti, indulgente con quelli progressisti. Ma proprio la consapevolezza di questa circostanza dovrebbe indurre i leader populisti a considerare preziosa l’alleanza con le forze di matrice liberale, senza il cui scudo corrono un rischio mortale: la costituzione di una “conventio ad excludendum” come quelle che in Italia per decenni tennero lontani dal governo i fascisti e i comunisti, e in Francia tuttora sbarrano il passo al partito di Marine Le Pen.

Del resto, è precisamente questo che è successo in Italia nelle ultime settimane. Di fronte a un Salvini del tutto disinteressato al dialogo con le autorità europee, e radicalmente demagogico nelle sue esternazioni, per gli “altri” è stato un gioco da ragazzi inventare, e far credere reale, una inesistente (o quantomeno gonfiatissima) “emergenza democratica”, e rispedire l’aspirante dittatore al Papeete.

Io penso che, almeno nel prossimo futuro, il panorama politico italiano continuerà ad essere dominato dalle forze più grandi e più demagogiche, ovvero Lega, Cinque Stelle e Pd, e che il consenso alle forze di ispirazione liberale resterà limitato, specie a destra. Nello stesso tempo, però, penso che il ruolo delle formazioni politiche liberali potrebbe essere cruciale. Non tanto perché, nel caso di un (non improbabile) ritorno al proporzionale, esse potrebbero risultare decisive per la formazione di una maggioranza di governo, quanto perché senza di esse quel che il futuro potrebbe riservarci è una grottesca riedizione della stagione del “Pentapartito”, a ruoli invertiti. Da una parte una coalizione di 4 o 5 formazioni di sinistra, esclusivamente interessate alla conservazione del potere, dall’altra un partito (la Lega) o una diade (Lega e Fratelli d’Italia) perennemente confinata all’opposizione, come lo fu il Partito comunista italiano per la maggior parte della sua storia.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 21 settembre 2019



Le rose che non colsi

L’uno-due di Renzi, che prima ha imposto al Pd l’alleanza con i Cinque Stelle, e un istante dopo lo ha abbandonato al suo destino per farsi un partito tutto suo, non ha precedenti nella storia d’Italia. Come non ha precedenti, a dispetto della tradizione trasformistica dei parlamentari italiani, un simile capovolgimento delle proprie idee e convinzioni. Fino a ieri i Cinque Stelle erano giustizialismo, assistenzialismo e decrescita infelice, oggi sono la salvezza dell’Italia contro la calata degli Hyksos. Ieri ci si batteva per un sistema elettorale che permettesse, la sera delle elezioni, di sapere chi ha vinto, ora si dichiara di essere pronti a un ritorno al sistema proporzionale “se lo prevede l’accordo di governo”.

Se il livello di spregiudicatezza raggiunto da Renzi (e non solo da lui) è senza precedenti, lo stesso non si può dire per il metodo. Anzi, forse è il caso di sottolineare la continuità fra il comportamento odierno di Renzi e la storia della sinistra italiana negli ultimi 100 anni. Se ci volgiamo all’indietro non possiamo non ricordare che la scissione, ovvero l’uscita dal partito principale per creare un nuovo partito, è sempre stato il modo in cui, a sinistra, si sono affrontate le divergenze politiche. Il Partito Comunista è nato, il 21 gennaio del 1921, da una scissione guidata dall’ala sinistra del Partito Socialista, ansiosa di instaurare anche in Italia la “dittatura del proletariato”, seguendo le orme dei bolscevichi in Russia. Dopo di allora di partiti socialisti e pseudo-socialisti se ne sono visti parecchi, fra fusioni e ricomposizioni (ricordate il Psi, il Psdi, il Psu, lo Psiup?), e lo stesso Partito Comunista si è diviso più volte, anche se con modalità diverse. Nel 1969 sarà il partito stesso a radiare il gruppo del Manifesto, guidato da Rossana Rossanda e Luigi Pintor. Nel 1991, invece, saranno la “svolta della Bolognina” di Occhetto e il cambio del nome (da partito Comunista a Partito della Sinistra) a provocare la nascita di Rifondazione Comunista. Ma non era finita. Sia il ramo principale della sinistra, sia le correnti nostalgiche del comunismo, di scissioni e ricomposizioni ce ne regaleranno ancora innumerevoli, in un tripudio di alchimie, sigle e ridenominazioni: Pds, Ds, Pd, Asinello, DL, Margherita, Ulivo, Unione, Sinistra Arcobaleno, Rivoluzione civile, Potere al popolo, giusto per ricordare le prime che mi vengono in mente.

Dunque, collocata su questo sfondo, la scissione di Renzi non dovrebbe stupire nessuno. Scindersi e ricomporsi è lo sport preferito dei politici di sinistra, e la sola differenza importante con il passato è che un tempo le scissioni, per quanto favorite da disegni di potere e ambizioni personali, erano politicamente comprensibili. Tutti capivamo le ragioni che conducevano Achille Occhetto a ripudiare il comunismo,  come capivamo quelle che inducevano Cossutta a rimpiangerlo. Così come, vent’anni prima, avevamo capito su che cosa quelli del Manifesto litigavano con i dirigenti del vecchio Pci, e perché ne venivano cacciati via. E ancora poco tempo fa, sia pure a fatica, riuscivamo a capire le ragioni di D’Alema e Bersani per uscire dal Pd. Nessuno, invece, è oggi in grado di capire che cosa costringa Renzi ad abbandonare il Pd, dopo aver spinto Zingaretti nelle braccia di Grillo.

Riuscirà, Renzi, nell’intento di rimodellare la sinistra? E’ ragionevole aspettarsi che, accanto ai Cinque Stelle e al Pd (riunificato con i transfughi di Leu), sorga un moderno partito liberal-riformista, che non si limiti a vietare “Bandiera rossa” alle feste di partito?

Penso che molto dipenderà dal sistema elettorale ma che, anche con un sistema proporzionale, l’impresa sarà difficile. E questo non solo perché, diversamente dal passato, questa volta la sostanza politica della scissione è invisibile, ma anche per un’altra ragione, che ha a che fare con la forma mentis del popolo di sinistra. Proprio perché viene da una lunga e dolorosa storia di divisioni e di scissioni, l’elettorato di sinistra ha maturato nel tempo una profonda idiosincrasia per i “cespugli” che di volta in volta hanno provato a gravitare intorno al partito principale. Una idiosincrasia che lo ha portato a dare poco credito al progetto radicale di “rifondare il comunismo”, ma anche a tributare un consenso limitato e perlopiù effimero ai rari esperimenti di partito personale che si sono succeduti nella seconda Repubblica: la Rete di Leoluca Orlando (1991), Rinnovamento Italiano di Lamberto Dini (1996), l’Italia dei Valori di Di Pietro (1998), Scelta Civica di Mario Monti (2013). Tutti partiti che hanno ballato per una o due stagioni elettorali, e solo in un caso (quello della meteora Mario Monti) sono riusciti a superare la soglia del 5% dei consensi.

Il destino del partito di Renzi può essere diverso?

Credo che la risposta sia che avrebbe potuto essere diverso, e che Renzi, guardando al proprio passato politico, non possa che rimpiangere, come Guido Gozzano, “le rose che non colsi”. Se avesse fondato un partito quando il vecchio establishment del Pd tentava in ogni modo di sbarrargli il passo, e il profilo innovatore, riformista e liberale dello sfidante erano chiari a tutti, il progetto di affiancare agli ex comunisti una forza di sinistra giovane, dinamica e moderna, qualche chance di successo l’avrebbe avuta. Perché Renzi all’apice del suo successo era un catalizzatore di speranze (parlo anche per esperienza personale), mentre ora è un enigmatico collettore di delusioni, se non di rancori. Fondare un partito personale di successo non è impossibile (Berlusconi docet), ma la scelta dei tempi e dei contenuti è cruciale.

Il problema è che i tempi sono sbagliati (perché la popolarità di Renzi è ai minimi, persino inferiore a quella del Berlusconi attuale) e i contenuti sono spiazzanti. Profondamente spiazzanti. Il fatto è che, comunque lo si giudichi, il marchio Renzi è associato al binomio Jobs Act + Mare Nostrum (accoglienza dei naufraghi). Esattamente il contrario di quel che predicano i Cinque Stelle, che hanno contestato ferocemente tanto il Jobs Act (con il decreto dignità) quanto l’operazione Mare Nostrum (con le Ong definite “taxi del mare”).

E’ certamente possibile che vi sia, nell’elettorato di sinistra, un segmento che apprezza il Jobs Act ed è orgogliosa delle politiche di accoglienza del triennio renziano. Ma è difficile immaginare che, proprio perché crede nel vecchio marchio-Renzi, non si faccia la domanda cruciale: se i Cinque Stelle rappresentano l’esatto contrario del renzismo, perché mai dovremmo dare il voto a chi li ha sdoganati?

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 18 settembre 2019