Su sovranisti, sinistra ed elezioni. Intervista a Dino Cofrancesco

Domanda. Sovranisti e popolari insieme, uno scenario possibile per il prossimo parlamento europeo secondo lei?

Non sono un columnist: il teatrino della politica non mi ha mai interessato. Mi considero un osservatore attento del costume politico, degli stili politici, delle ideologie politiche e, pertanto, dichiaro la mia incompetenza per quel che riguarda la possibile composizione del prossimo parlamento europeo. Non credo, tuttavia, che sovranisti (qualsiasi cosa possa significare questo termine) e popolari possano comporre una maggioranza stabile e un’alleanza durevole. Sovranisti e populisti sono particolarmente esposti ai venti delle volubilità popolari e potrebbero esserci inversioni di tendenze, come dimostra il caso spagnolo, a mio avviso molto significativo. Inoltre i popolari rappresentano la vecchia Europa che resta diffidente nei loro confronti.

D. Quali sono le ragioni culturali e politiche che potrebbero portare a un’alleanza di questo tipo? E quali gli ostacoli da superare?

Le ragioni culturali e politiche, facili da individuare, si possono sintetizzare in un anti-, in una contrapposizione all’establishment politico, economico, culturale che può assumere varie volti, a seconda delle diverse storie nazionali, ma che viene percepito come un ceto transnazionale—i Macron, i Monti, i Prodi, gli Junker, i Timmermans—alla cui politica si attribuiscono le difficoltà di ogni tipo in cui versa l’Europa. Gli ostacoli da superare sono tanti. L’anti-establishment può declinarsi in varie forme, da destra a sinistra e i disaccordi possono riguardare valori irrinunciabili che mettono in secondo piano la ‘rivolta contro le élite’.

D. Ma sovranismo è sinonimo di fascismo?

Assolutamente no. E’ l’ora di finirla con questa continua evocazione dell’ombra del Banquo fascista e l’assordante All’armi siamo antifascisti! Il fascismo è quel regime che Renzo de Felice e altri storici ‘revisionisti’ ci hanno descritto e spiegato nelle loro opere e continuare a richiamarsi, contro quanti esaltano il ‘duce’, alle leggi Scelba e Mancino è semplicemente grottesco. Ma soprattutto è inquietante e umiliante: ci dice che lo ‘spirito repubblicano’ non trova di meglio che di contrapporsi a chi da più di settant’anni è scomparso tra le macerie della Seconda guerra mondiale. Ci si definisce non per quello che si è e si progetta ma per quello che si combatte. E più si alzano i toni dello scontro irreale più si rischia di ricalcare le orme assai poco esaltanti di quel vecchio e faziosissimo azionista torinese che chiedeva per i fascisti una ‘notte di S. Bartolomeo’.

D.Perché chi oggi evoca la sovranità è considerato oggi nella migliori delle ipotesi un troglodita?

Siamo un popolo di faziosi e di intolleranti che all’analisi sostituisce l’insulto. La volontà di capire l’altro è una tentazione alla quale si resiste senza difficoltà. Si prenda un quotidiano come ‘Il Foglio’ (e cito un giornale sedicente di area liberaldemocratica): negli editoriali del direttore e dei suoi principali collaboratori non c’è il minimo tentativo di comprendere l’avversario. Solo dileggi, sarcasmi, accuse di ignoranza e di incompetenza, richiami alla scala F di T. W. Adorno. Nessun sospetto che dietro il sovranismo—ovvero, per citare l’Enciclopedia Treccani, la «posizione politica che propugna la difesa o la riconquista della sovranità nazionale da parte di un popolo o di uno Stato, in antitesi alle dinamiche della globalizzazione e in contrapposizione alle politiche sovrannazionali di concertazione» —ci sia un’angoscia epocale ovvero l’azzeramento della dimensione politica e la sua sostituzione con l’economia e col diritto. E’ un azzeramento che viene da lontano se si pensa che nel saggio di Norberto Bobbio, L‘età dei diritti, la politica—gli stati, le nazioni con i loro codici specifici—è del tutto assente. Viviamo in un’epoca in cui i diritti e gli interessi degli individui hanno cancellato tutto e poiché la gente è ritenuta incapace di perseguirli saggiamente, la stessa democrazia liberale entra in crisi, sostituita dal governo dei competenti (Cassese? Calenda? Monti?) che non mette ai voti diritti e interessi. Non ritengo che i sovranisti siano in grado di farci uscire dalle secche in cui si sono arenati i vecchi stati nazionali ma leggere che i Giulio Tremonti, i Paolo Becchi, i Paolo Savona sono ignoranti e irresponsabili mi fa pensare: ma che razza di paese stiamo diventando?

D.Quali sono i rapporti tra sovranità e globalizzazione?

Sulla base di quanto ho detto, la risposta è ovvia. La globalizzazione è planetarizzazione dell’economia (il mercato mondiale) e del diritto (i diritti universali degli individui uti singuli indipendentemente dalla loro cittadinanza) e questo comporta sconvolgimenti epocali, sul piano sociale e culturale, ai quali si reagisce con la chiusura comunitaria, col ‘nazionalismo’. Si può dissentire dal modo con cui ci si difende ma solo un cervello eterodiretto dal buonismo universalista (cattolico e laico) può pensare che non c’è nulla da cui ci si debba difendere…e che ci si debba guardare dall’’odio’.(v. l’infelice slogan elettorale di Nicola Zingaretti).

D.Il concetto di nazione è appannaggio esclusivo della destra? E oggi dunque della Lega?

Non parlerei di ‘nazione’—concetto sfuggente e ambiguo quant’altri mai— ma di ‘stato nazionale’, quale è stato messo a fuoco da Pierre Manent e, prima di lui, dal suo maestro Raymond Aron, forse la più alta coscienza etico-politica del secondo dopoguerra europeo. Lo stato nazionale volle essere l’arena istituzionale in cui si potessero tutelare efficacemente i diritti individuali, praticare la solidarietà nei confronti dei ‘fratelli’ più deboli e rimasti indietro, far fluire le correnti impetuose dell’economia tra le sponde sicure dello stato di diritto. In passato la Lega non è mai stata sensibile alla filosofia dello stato nazionale, ha inteso le nazioni come entità naturali, ha stigmatizzato il centralismo soffocatore della vita dei popoli, ha contrapposto all’edificio unitario sabaudo le nazionalità naturali (da Gianfranco Miglio a Paolo Becchi) ha affermato con vigore il diritto di secessione. La Lega inalbera ora quel tricolore sul quale Bossi sputava, meglio così. Se lo stato nazionale è il trait-d’union tra l’universo e la tribù, come dice Manent, neppure la destra tradizionale può rivendicarne l’eredità, giacché del binomio ‘universo/tribù’ salvaguarda solo la tribù. D’altra parte, la sinistra da noi non si è mai nazionalizzata veramente e il Sessantotto ha contribuito in maniera definitiva alla snazionalizzazione delle masse, come ho cercato di dimostrare nel fascicolo di Paradoxa dedicato ali ‘anni formidabili’.

D.Nazione, sicurezza, immigrati…i temi chiave della Lega. Perché oggi sono ancora vincenti in Italia nei sondaggi?

Sono vincenti et pour cause ovvero per le cause messe così bene in luce da Luca Ricolfi. Da parte mia aggiungo: siamo un’economia in recessione, con l’indice di produttività più basso d’Europa, il nostro welfare state è al collasso, il lavoro manca. ’Facciamo entrare tutti?’va bene ma siamo disposti a rinunciare a una parte del nostro reddito per assicurare ai migranti condizioni di vita decenti?. Mi ha colpito molto quanto ha dichiarato Luca Ricolfi, nell’intervista ad Anna Chirico: «Adesso si parla di muri eretti dagli Stati europei, ma la realtà è che la chiusura reciproca fra gli Stati dell’Unione è la conseguenza dell’incauta scelta di non difendere militarmente i confini esterni. Una scelta su cui hanno inciso sia la domanda di forza lavoro a basso costo da parte delle imprese, sia l’ideologia dei diritti umani e della libera circolazione delle persone. Un patto d’acciaio fra liberisti e libertari che è stato compreso tempestivamente da pochi, fra cui qualche intellettuale di estrema sinistra (Slavoj Žižek, ad esempio). L’anticapitalismo radicale, che vede le migrazioni come “deportazioni di massa” a favore dei cattivi capitalisti, ha capito la situazione molto meglio della sinistra moderna e illuminata e pro-mercato, abbagliata dal mito del “gettare ponti” fra le civiltà.

D.Quali errori ha compiuto la sinistra su questo fronte?

Il vecchio PCI, come previde genialmente Augusto Del Noce, è diventato un ‘partico radicale di massa’, ha convertito i desideri individuali in diritti, ha parlato, con ministri come Graziano Del Rio e Pier Carlo Padoan la lingua dell’establishment, ha frequentato più gli ambienti confindustriali che i quartieri operai. Una sproletarizzazione che non sta pagando troppo cara giacché seguita a occupare tutti i bastioni dell’apparato statale con uomini di fiducia e mantiene saldamente nelle sue mani il potere culturale (che la destra ha sempre trascurato e snobbato).

D.Il capo politico dei 5Stelle Di Maio sta provando, a partire dal richiamo ai valori della resistenza il 25 aprile, ad annoverarsi come l’unica alternativa di sinistra, in opposizione alla Lega con cui governa. Ci sta riuscendo secondo lei nel rapporto con il Pd?

L’antifascismo di Di Maio non ha nessuna credibilità, è mero opportunismo che nasce dalla volontà di posizionarsi più a sinistra di Salvini per sottrarre voti a Zingaretti. Non va trascurato, tuttavia, il fatto che almeno la metà degli elettori M5S viene da sinistra (e talora dalla sinistra estrema). Per Alessandro Di Battista e Roberto Fico, ad esempio, l’antifascismo non è solo retorica.

D.Il Pd è stato sorpassato a sinistra anche sulla vicenda Siri. Come si sta muovendo secondo lei il segretario Zingaretti?

La vicenda Siri è emblematica. In un paese normale, il solo sospetto sulla propria condotta dovrebbe indurre un membro del governo a dimettersi. In Italia, con la magistratura che ci ritroviamo, dimettersi può significare dare un addio alla vita politica. E’ ipocrita dire: «Dimostra in tribunale la tua innocenza, poi ti riprendiamo» giacché passerà tanto di quel tempo tra processo e sentenza che non ci sarà più nessun consiglio di ministri in cui rientrare. In questa vicenda Zingaretti non si mostra né giustizialista né garantista: è come se avesse impresso sulla fronte il marchio del perdente.

D.Mancano venti giorni al voto. Che giudizio dà della campagna elettorale dei competitors in campo?

Un giudizio sconsolato. Specialmente se guardo alla sinistra e ai suoi giornali—dal ‘Foglio’ a ’Repubblica’. Quando il voto è richiesto per fronteggiare un ‘pericolo mortale’ e non per sostenere un programma politico, siamo proprio alla frutta. I grandi protagonisti della politica europei e americani seducevano gli elettori attorno con progetti ambiziosi, a sinistra (Kennedy, Johnson, Blaire etc.) e a destra (de Gaulle, Thatcher etc.). Oggi si chiama a raccolta al grido di ‘no pasaran! ’ contro le camice verdi di Salvini! Come davvero siamo caduti in basso!

Intervista a cura di Alessandra Riccardi, pubblicata su Italia Oggi l’8 maggio 2019



Il bivio della Lega

Nessuno può sapere come finirà l’affare Siri, indagato con l’accusa di corruzione per avere “asservito ad interessi privati le sue funzioni e i suoi poteri” (in sostanza: per avere caldeggiato norme vantaggiose per uno o più imprenditori amici). Fin da ora, tuttavia, non si può non segnalare un’inquietante anomalia di questa vicenda. La campagna politico-mediatica su Siri, che gli imputa rapporti con la mafia, è condotta a sua volta in stile vagamente mafioso, in base a un teorema del tipo: tu sei in rapporti con x, x è socio in affari con y, di y si sospetta (notate: “si sospetta”, non “si sa”) che finanzi la latitanza del boss dei boss, il ricercatissimo e a quanto pare imprendibile Matteo Messina Denaro, dunque tu sei colluso con la mafia.

Non vorrei passare troppo disinvoltamente dalla poesia della lotta alla mafia alla prosa del malgoverno, ma non mi stupirei che, fra qualche mese, qualche anno o qualche decennio, ovvero quando la vicenda giudiziaria di Siri sarà conclusa, la montagna partorisca il topolino, ovvero una verità del tipo: come accade da sempre, e da parte di tutte le forze politiche (comprese quelle che ora si indignano), anche Siri si è dato da fare per far passare emendamenti graditi a particolari gruppi e soggetti privati. Esattamente quel che succede in Parlamento tutti i giorni, con un’intensità parossistica nel mese di dicembre, quando la Finanziaria subisce quello che, giornalisticamente, da sempre chiamiamo l’assalto alla diligenza.

Comunque vada a finire, però, l’affare Siri qualche effetto lo sta già producendo. Il più importante a me sembra quello di mettere la Lega di Salvini di fronte al bivio che, fino ad oggi, ha ostinatamente cercato di non vedere: il bivio fra la prosecuzione dell’avventura con Di Maio, e il “ritorno a casa” nel centro-destra. Perché è inutile nasconderselo, ma ancora una volta, di fronte all’attivismo della Magistratura (dal caso Diciotti alla vicenda Siri), l’unica vera sponda politica di Salvini è Berlusconi, con cui peraltro perdura imperterrita l’alleanza nelle realtà locali, comuni e regioni abbastanza tranquillamente governate da Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia. Ora il caso Siri, con il Movimento Cinque Stelle che spara ad alzo zero contro Armando Siri, e il Pd che (in Senato) presenta una mozione di sfiducia verso il governo, rischia di far precipitare le cose.

Questo non tanto per l’iniziativa del Pd, che essendo contro il governo nel suo insieme avrà il solo effetto di ricompattarlo, quanto per l’asse che è dato intravedere fra Di Maio e il premier Conte. Quest’ultimo, incredibilmente, in dieci giorni non ha ancora trovato mezz’ora per incontrare direttamente Armando Siri (pare che lo vedrà lunedì), ma in compenso ha rilasciato dichiarazioni, sulla particolare “sensibilità per l’etica pubblica” del suo governo, che fanno presagire quantomeno una presa di distanza da Siri, con conseguente peggioramento dei rapporti con Salvini, fermamente intenzionato a blindare Siri, lasciando che sia la giustizia, e non la politica, ad occuparsi del caso.

Ecco perché la situazione della Lega e di Salvini non è facile. Se pensa alle cose da fare, soprattutto in materia di tasse e di giustizia, è chiaro che la priorità non può che essere liberarsi quanto prima della zavorra pentastellata, un impasto di giustizialismo e assistenzialismo che non piace ai ceti produttivi del Nord. Ma se invece pensa al futuro della Lega, alla sua immagine, alla sua identità, al suo sogno di radicamento nazionale, è altrettanto chiaro che l’alleato Cinque Stelle, con la sua novità e il suo radicalismo, è assolutamente prezioso, mentre un ritorno fra le braccia di Berlusconi, nel ruolo del figliol prodigo, sarebbe esiziale per il progetto di Lega che ha in mente.

Detto in modo un po’ irriverente, alla Celentano: con Di Maio Salvini è rock, con Berlusconi è lento.

Certo, penso anch’io che, prima o poi, la Lega tornerà nel centro-destra, e proverà a prenderne il comando. Ma perché questo accada davvero, forse dovremo attendere che, in quel campo, la stella di Berlusconi sia tramontata davvero, anziché solo nella mente dei suoi nemici.

Pubblicato su Il Messaggero il 27 aprile 2019



Boomerang elettorale?

Hanno fatto un certo scalpore, nei giorni scorsi, domande e risposte transitate sul sito dell’Inps a proposito del cosiddetto reddito di cittadinanza. La vicenda ha indubbiamente un lato folcloristico, visto il tenore di certe domande e delle relative risposte, ma anche il tono dei commenti che certi dialoghi hanno suscitato sui social. Pare che alcuni addetti Inps alla comunicazione si siano presi qualche libertà, prima fra tutte quella di non comunicare in burocratese e quella di rispondere senza salamelecchi. Chi si rivolge all’Inps con un italiano imbarazzante, chi sa navigare sui social per intrattenimento ma per acquisire una password pretende di essere assistito, chi chiede come ottenere il reddito di cittadinanza per il figlio che lavora in nero, ha ricevuto risposte che, a seconda dei punti di vista, possono essere considerate offensive o sacrosante (per me sacrosante, secondo l’Inps offensive: ha già chiesto scusa).
Al di là del folclore, tuttavia, c’è pure un lato serio. Questi primi giorni di interazione Inps-cittadini hanno fatto emergere anche molta delusione, specialmente in due casi: quello in cui la domanda non è stata accettata, e quello in cui la domanda è stata accettata, ma la cifra erogata è risultata molto inferiore alle aspettative (poche decine di euro, anziché il vagheggiato sussidio di 780 euro al mese).
Forse è presto per capire con esattezza a che cosa si deve questa partenza frenata del sussidio, ma è difficile non rilevare che c’è qualcosa che non va. Sono anni che l’Istat ci informa che la povertà assoluta coinvolge più di 1 milione e mezzo di famiglie, in cui vivono circa 5 milioni di persone. Come mai, a fronte di queste cifre, le domande finora presentate sono solo 800 mila e quelle accolte sono meno di 500 mila?
Una prima ragione è sicuramente il fatto che circa 1 povero su 3 non è cittadino italiano, e la legge pone condizioni di accesso piuttosto severe agli stranieri. Una seconda ragione è che la misura è appena partita, ed è possibile che una parte degli aventi diritto abbia deciso di fare domanda in un secondo tempo (ma perché? non è chiarissimo). Una terza ragione potrebbe essere che il numero di poveri effettivo sia sensibilmente minore di quello stimato dall’Istat, soprattutto a causa del lavoro nero. Dal momento che la legge prevede il carcere per chi usufruisce del reddito e lavora in nero, non si può escludere che molti disoccupati che lavorano in nero, prima di fare domanda attendano di capire se ci saranno controlli o se, come è assai più probabile, i controlli saranno così pochi da rendere trascurabile il rischio di essere scoperti.
Quel che si può dire fin d’ora, però, è che questa partenza lenta e un po’ contrastata del sussidio targato Cinque Stelle potrebbe produrre qualche conseguenza non prevista, sia in ambito economico sia in ambito elettorale.
Sul piano economico, il fatto che il numero di domande accolte possa essere sensibilmente inferiore al previsto potrebbe dare un po’ di sollievo ai conti pubblici, ridimensionando le preoccupazioni (e le critiche) delle opposizioni.
Sul piano politico, il fatto che, prima delle Europee, la platea dei beneficiari effettivi possa risultare molto più ristretta di quanto si pensava, e che molti si siano vista respingere la domanda, potrebbe rendere il risultato elettorale dei Cinque Stelle particolarmente deludente, o addirittura trasformare l’arma del “reddito di cittadinanza” in un boomerang elettorale.
Ma la conseguenza più importante potrebbe essere di tipo sociale. Se fossero numerosi i casi in cui il reddito di cittadinanza viene percepito ma non è dovuto, e inoltre non risultasse possibile occultarli, l’introduzione di questa misura, pensata in chiave essenzialmente solidaristica, potrebbe avere conseguenze paradossali. Anziché rafforzare la coesione sociale, il sussidio potrebbe attivare sentimenti di frustrazione e di invidia sociale, l’esatto contrario di quanto si propone. Chi campa con un reddito modesto, e osserva il vicino che lavora in nero, difficilmente potrà sopportare che quest’ultimo lo cumuli con il reddito di cittadinanza.
Possiamo pensare, naturalmente, che i casi in cui si accede al reddito in base a false autocertificazioni saranno pochissimi, e che la maggior parte degli italiani facciano dichiarazioni veritiere. Purtroppo nelle occasioni in cui sono stati fatti controlli a campione (penso, in particolare, alle autocertificazioni per le tasse universitarie e i ticket ospedalieri) il verdetto è stato un altro: le false dichiarazioni non sono mai risultate una piccola percentuale, e in diversi casi hanno coinvolto da un terzo alla metà dei casi. E questo per l’ottimo motivo che i controlli sono così rari, e le sanzioni così raramente irrogate, che i cittadini sanno perfettamente di non correre alcun reale pericolo dichiarando il falso, o stiracchiando a proprio vantaggio la verità.
C’è solo da sperare che, con un governo che si proclama “del cambiamento”, questa volta le cose vadano diversamente.

Articolo pubblicato su Il Messaggero



Giovanni Amendola eroe del liberalismo che amava la nazione (e capì il fascismo)

Giovanni Amendola. Una vita in difesa della libertà (Ed. Rubbettino) è il titolo del volume collettaneo, a cura di Elio d’Auria, lo storico che ha dedicato un’esistenza allo studio e alla raccolta di scritti del leggendario capo dell’opposizione aventiniana al fascismo. Della complessa e poliedrica personalità di Amendola vi vengono analizzati quasi tutti gli aspetti: dal filosofo (Girolamo Cotroneo, Angelo Sabatini), al pubblicista (Mario Pendinelli, Sandro Rogari, Gerardo Nicolosi), dallo statista (Federica Guazzini) al teorico di una nuova democrazia (Fabio Grassi Orsini, Luigi Compagna). Non mancano capitoli di grande interesse sulle ‘amicizie politiche’ di Amendola (Sergio Zoppi, Lucio D’Angelo), sulle sue idee economiche (Guido Pescosolido), sulla sua analisi del fascismo (Giuseppe Bedeschi).

Sintetizzando il significato più profondo dell’impegno etico-politico amendoliano, ha scritto d’Auria: «La battaglia che egli combatté in difesa della libertà e della democrazia, si concentrò nel ridare allo Stato l’autorità di organismo al disopra delle parti che risolveva i conflitti sociali e politici attraverso la libera partecipazione dei cittadini all’esercizio degli affari pubblici» Alla forte valenza mazziniana di tale battaglia si era richiamato il prestigioso storico cattolico Gabriele De Rosa: «Tutta la pubblicistica amendoliana—si legge in un saggio del 1961— si muove attorno a una concezione mazziniana della democrazia, attorno a una concezione, cioè, in cui l’istanza parlamentare è subordinata all’idea dello Stato nazionale, come espressione degli interessi e delle aspirazioni ideali di una comunità che non esaurisce la sua vita pubblica in quella delle classi e dei partiti».

In un’epoca, come la nostra, in cui il Risorgimento, i suoi ‘eroi’, i suoi simboli sembrano tramontati nelle coscienze e nel ricordo degli Italiani, non può che apparire inattuale la lezione del  filosofo napoletano che rivendicava con forza il nesso tra lo stato nazionale, la democrazia e i diritti di libertà: un nesso che le giovani generazioni, va detto francamente, non sentono più, anche per colpa dei petulanti revisionismi storici che, presenti persino in trasmissioni televisive di grande ascolto (v. ‘Made in Sud’), dileggiano la fede dei ‘nostri padri’—di Francesco De Sanctis, di Benedetto, Croce, di Giustino Fortunato, di Gaetano Salvemini, di Gioacchino Volpe, di Rosario Romeo etc. etc.—riproponendo vetusti luoghi comuni come il ‘saccheggio piemontese’.

Introducendo la raccolta dei suoi scritti politici, chiestagli da Piero Gobetti, Amendola ricordava con orgoglio il principio ideale a cui aveva ispirato tutta la sua vita di filosofo e di combattente. «Tale direttiva si riassume in una appassionata ed incrollabile fede nello Stato nazionale, concepito come la sola creazione veramente rivoluzionaria in un millennio di storia del popolo italiano, e come la sola garanzia efficace del suo avvenire; ed in una consapevole volontà di azione rivolta ad introdurre tutto il popolo nella vita dello Stato, allargando, profondando e consolidando le sue fondamenta in tutta 1’estensione spirituale della coscienza italiana». Di qui, altro motivo della sua inattualità, il suo liberalismo anti-individualista che lo portava a scrivere: «L’individuo non ha diritti assoluti contro la tradizione e contro la società; perché tradizione e società entrano a costituirlo in larga misura. Pertanto l’autonomia del singolo, su cui è fondata la libertà civile, non assolve l’individuo dalle sue responsabilità verso il passato, il presente e l’avvenire della società in cui egli vive; ma anzi le rende più precise ed imperative».

Ne derivava una strategia dell’attenzione verso Mussolini—v. il magistrale saggio Bedeschi—nutrita di illusioni comuni a gran parte dei liberali del suo tempo (sulla possibile costituzionalizzazione del fascismo) ma, altresì, capace di porre problemi cruciali che la retorica antifascista e resistenziale ha azzerato. Non si tratta per lui solo di riconoscere che contro la ‘minaccia del bolscevismo dissolvitore’ il fascismo (siamo nel 1922!) «rappresenta una tutela, la cui persistenza continua ad essere necessaria, una garanzia per l’avvenire del nostro Paese» ma di ben altro: del tentativo, appunto, di «introdurre tutto il popolo nella vita dello Stato», nella fattispecie, «l’Italia di Vittorio Veneto». Per Amendola la vera tragedia italiana sta nel fatto che una reazione ‘sana’, quella fascista, si sia trasformata nella demolizione dello ‘Stato di diritto’ e che il rimedio sia risultato peggiore della malattia. Risposta sbagliata a un problema reale, quindi: è quanto una storiografia anpista e faziosa si ostina ancora a non vedere.

Alla luce di questi rilievi, ci si chiede davvero chi possa essere interessato al pensiero di Amendola: non gli antisovranisti duri e puri, per i quali lo Stato nazionale è un fantasma di cui ci si deve disfare al più presto; non i neo-liberali per i quali un liberalismo anti-individualista sarebbe un ossimoro; non gli idolatri del nuovismo, per i quali destra e sinistra non stanno sullo stesso piano, giacché l’una è la reazione e l’altra il progresso (Amendola aveva denunciato il ‘bacillo deleterio’ che portava a non riconoscere più nello stato democratico il garante della civile competizione tra destra e sinistra); non i fanatici della globalizzazione, che non intendono più il nesso aristotelico, chiaro ad Amendola, tra la forza delle classi medie e la vitalità della democrazia liberale. (v. l’opportuno cenno di Pescosolido).

E tuttavia il ‘superato’ Amendola fuori d’Italia non si troverebbe oggi in cattiva compagnia. Da anni, infatti, in Francia come nei paesi anglosassoni, la demonizzazione dello Stato nazionale è oggetto di profonda revisione critica. Autori come Abigail P. Aguilar, Yoram Hazony, Pierre Manent, David Miller, Roger Scruton, Yael Tamir parlano di «liberal nationalism» in un senso che sarebbe piaciuto molto al grande antifascista. Uno dei più importanti sociologi del nostro tempo, Edward Shils  nel 1995 aveva scritto in Nazione, nazionalità, nazionalismo e società civile: «I diritti nascono dall’essere membri di una collettività indipendentemente dal fatto di venire etichettati come ‘diritti umani’. Essi sono rivendicazioni nei confronti degli altri membri della collettività, non sono diritti che un individuo  possiede per il semplice fatto di appartenere alla specie homo sapiens; egli chiede e ottiene diritti come conseguenza dell’essere membro di una collettività.». Amendola avrebbe condiviso toto corde.

Articolo pubblicato su Il Giornale del 5 aprile 2019



Flat tax e Iva, la grande ammuina

Prepariamoci. Fino alla fatidica data delle elezioni europee (26 maggio), ma anche dopo – se il governo sopravviverà – siamo destinati ad essere sommersi da una girandola di cifre, aliquote, clausole, scaglioni, detrazioni, deduzioni, sgravi, regimi fiscali speciali o agevolati, con cui cercheranno di acquisire il nostro favore, cioè il nostro voto. Possiamo stare certi che sentiremo decine di ipotesi di “rimodulazione” delle aliquote, innumerevoli dichiarazioni sull’assoluta esigenza di alleggerire il carico fiscale delle famiglie, disinnescare l’aumento dell’Iva, combattere l’evasione, introdurre più o meno rapidamente la flat tax. E poiché, come sempre, mancheranno cifre certe e dettagli essenziali, sarà difficilissimo capire che cosa davvero ci viene gentilmente promesso.
In questa situazione, però, una bussola relativamente chiara c’è. E’ un numeretto semplice-semplice, che non dice tutto sulla politica economica di un governo, ma dice molto. Anzi moltissimo. Questo numeretto è la pressione fiscale, ossia il rapporto fra le entrate totali della Pubblica Amministrazione e il Pil. Se la pressione fiscale diminuisce (come quasi tutti promettono, in campagna elettorale), allora vuol dire che il governo sta dando ossigeno all’economia. Se invece aumenta, allora significa che il governo sta soffocando l’economia. Certo quel numeretto non dice tutto, perché non è la stessa cosa prelevare ai ricchi o ai poveri, alle imprese grandi o a quelle piccole, all’economia regolare (inasprendo le aliquote) o a quella irregolare (costringendo gli evasori a pagare il dovuto). Però resta il fatto che dentro quel numeretto c’è l’essenziale, perché fornisce il segno della politica fiscale.
Il vantaggio di ragionare sulla pressione fiscale, anziché sulle singole misure, è che neutralizza il comando “facite ammuina” che, a giudicare dalle dichiarazioni, dalle interviste e dai tweet, tutti i governi paiono indirizzare ai loro ministri quando le risorse sono scarse rispetto alle promesse. Lo scopo del facite ammuina (confusione, in dialetto napoletano) è inondare l’opinione pubblica di presunte misure di alleggerimento fiscale, senza menzionare le contromisure, anch’esse di natura fiscale, che finanziano e quindi neutralizzano più o meno integralmente le prime. Fra tali contromisure vorrei ricordarne una ovvia e due che lo sono molto di meno.
La contromisura ovvia è l’aumento di altre tasse, di cui si parla pochissimo o si parla ideologicamente, per non dire infantilmente (far piangere i ricchi, punire le banche cattive, ecc.). Le due contromisure meno ovvie sono la cosiddetta lotta all’evasione fiscale e la riduzione delle cosiddette tax expenditures, ossia il disboscamento della selva delle esenzioni, crediti di imposta, deduzioni e detrazioni varie.
Questi ultimi due tipi di misure sono interessanti perché, a prima vista, sono meritorie (e in parte lo sono davvero), in quanto capaci di eliminare iniquità e privilegi. Chi non è d’accordo sul fatto che è ingiusto che il carico fiscale pesi sui contribuenti onesti, e che una miriade di professionisti, artigiani, partite iva, esercizi commerciali, microimprese evadano in tutto o in parte le tasse? Chi non si chiede come mai certe categorie di imprese, associazioni, settori produttivi debbano godere di speciali agevolazioni e sgravi, che sono invece negati ai contribuenti “normali”?
E tuttavia, se ci si riflette attentamente, non è difficile accorgersi dell’altra faccia della luna. Ogni azione di riduzione dell’evasione fiscale e delle agevolazioni, oltre a produrre pesanti riflessi produttivi e occupazionali, comporta inesorabilmente un aumento della pressione fiscale. Questo non significa che non si debba cercare di ridurre evasione e privilegi fiscali ingiustificati, ma che la domanda che dobbiamo farci sempre è del tipo: ok, il tale governo promette una riduzione di una o più imposte, ma si può sapere se, e in che misura, quelle lodevoli riduzioni saranno finanziate, e quindi vanificate, da aumenti di gettito in altri punti del sistema?
Ecco perché, alla fine, il numeretto della pressione fiscale è cruciale. Una riforma dell’Irpef, dell’Irap, dell’Ires o di altre imposte che riduca alcune aliquote e si accompagni anche a una riduzione della pressione fiscale è positiva perché restituisce un po’ di ossigeno all’economia. Una riforma che riduca certe tasse, magari scelte fra le più impopolari, ma aumenti la pressione fiscale è negativa perché soffoca l’economia.
Questa seconda eventualità è, purtroppo, quella in cui siamo incagliati attualmente. Con la legge di bilancio dell’anno scorso, che ora sta dispiegando i suoi effetti, si è deciso di ridurre alcune tasse ma se ne sono aumentate talmente tante altre che la pressione fiscale complessiva è salita (nel 2019 è prevista al 42.4%, contro il 42.0% dell’anno scorso). Per l’anno che viene rischia di andare anche peggio. Mentre si favoleggia di flat tax (che flat comunque non sarà, visto che si parla di 2 aliquote), si cercano disperatamente le risorse (23 miliardi) per evitare l’aumento dell’iva, che questo governo ha messo nella legge di bilancio per evitare la bocciatura dell’Europa. Ma le uniche fonti di finanziamento strutturali ipotizzate sono la spending review (per un importo ridicolo: circa 2 miliardi nel 2020) e il taglio delle cosiddette tax expenditures, ossia delle esenzioni e agevolazioni, un’azione che per definizione fa salire la pressione fiscale: tagliare gli sgravi, infatti, significa precisamente aggravare il peso del fisco sui contribuenti. Le previsioni che circolano, forse fin troppo ottimistiche, ipotizzano un ulteriore aumento della pressione fiscale nel 2020, che salirebbe dal 42.4 al 42.8%. Ma state sicuri che, quel numeretto, si farà di tutto per avvolgerlo con una fitta nebbia, perché rivelarlo significherebbe far crollare il castello di carte della politica fiscale: che consiste nel fingere che tutto cambi, nascondendo il dato cruciale, ossia che complessivamente pagheremo più tasse di prima.
Dunque la cruda realtà è questa. Proprio perché la pressione fiscale aumenterà anche l’anno prossimo, al governo gialloverde non resterà che la consolidata tecnica del “facite ammuina”. E’ facile prevedere lungo quali linee. L’aumento dell’Iva ci sarà, ma sarà presentato come un “rimodulazione”, in modo che non sia troppo evidente che complessivamente l’imposta è aumentata (anche se meno di 23 miliardi, si spera). La cancellazione di sgravi ed esenzioni sarà presentata come una grande operazione di “riordino”, per nascondere il fatto che, anche qui, si chiede agli italiani di pagare più tasse. Infine, per dare l’impressione che sulla flat tax qualcosa si sia cominciato a fare, qualche tassa e qualche aliquota sarà ritoccata verso il basso, naturalmente attingendo al gettito delle tasse che si sono aumentate o degli sgravi che si sono cancellati.
Però attenzione: è molto probabile che le poche aliquote che saranno un po’ alleggerite saranno quelle dell’Irpef, che grava sulle famiglie, e non quelle dell’Ires o dell’Irap, che gravano sulle imprese. Perché la stella polare di chi ci governa, non solo in Italia e non da oggi, è la massimizzazione del consenso. Con un’importante differenza rispetto al passato. Un tempo gli studiosi di politica economica, per segnalare il fatto che, sotto elezioni, le decisioni dei governi diventavano demagogiche, parlavano di “ciclo elettorale”, ossia di un’anomalia che si presentava periodicamente, ogni 4 o 5 anni, in prossimità delle elezioni politiche. Oggi parlare di ciclo elettorale non ha più senso, perché i politici sono sempre in campagna elettorale, a prescindere dall’imminenza di scadenze elettorali. L’idea che, valicato l’appuntamento elettorale, possa esservi, se non un ritorno alla ragione, almeno un allentamento del calcolo del consenso, è completamente fuori della realtà. Ormai i politici sono in campagna elettorale sempre, ogni anno, ogni mese, ogni, giorno, ogni minuto. E la qualità delle decisioni politiche è esattamente quella che, in queste condizioni, è lecito aspettarsi.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 13 aprile 2019