Potevamo vincere il virus, il Governo ha scelto il turismo. Intervista a Luca Ricolfi

Che cosa ci dicono i dati sull’andamento del virus elaborati dalla Fondazione Hume?
La Fondazione pubblica quotidianamente un termometro dell’epidemia, che monitora l’andamento del numero di contagiati. Ebbene, il termometro segnava 1.5 gradi pseudo-Kelvin alla fine di luglio, oggi sfiora gli 8 gradi. Questo significa che il numero di contagiati è almeno quintuplicato in poco più di un mese.
Un’altra cosa che facciamo è valutare la capacità dei vari paesi di intercettare i contagiati. E’ un’operazione essenziale, perché i dati dei nuovi casi (i più usati dai mass media) sono del tutto fuorvianti: 1000 casi in più in Italia, che ha una bassa capacità diagnostica, sono molto più preoccupanti che 1000 contagiati in più in Germania, un paese che, grazie al numero di tamponi e alla capacità di tracciamento, ha una capacità diagnostica ben superiore alla nostra.

Che evoluzione c’è stata in questi mesi?
Forse, riguardo all’Italia, in questo momento il dato più significativo è l’inversione di tendenza delle curve dei morti e dei ricoverati in terapia intensiva.  In poche settimane abbiamo avuto una triplicazione (decessi) e una quadruplicazione (terapie intensive). La svolta nella curva epidemica risale alla seconda metà di giugno (noi l’abbiamo segnalata il 18 giugno sul sito: www.fondazionehume.it), ma il governo – fino a Ferragosto – è stato del tutto sordo ai nostri allarmi, e non solo ai nostri. Anche la Fondazione Gimbe, con il prof. Nino Cartabellotta, anche virologi autorevoli come Andrea Crisanti e Massimo Galli, si sono sgolati per mesi avvertendo del pericolo di una ripartenza dell’epidemia, ma è stato tutto vano. Il governo non voleva vedere né sentire.

I virologi consigliano di guardare il numero dei ricoverati e non quello dei contagiati per capire l’andamento dell’epidemia: è d’accordo?
Hanno perfettamente ragione, il numero di ricoverati è molto più significativo. Però anche il numero di ricoverati ha dei problemi, due soprattutto. Il primo è che la Protezione Civile non fornisce il numero di ingressi in ospedale (dato di flusso), ma solo quello degli ospedalizzati (dato di stock), che è altamente fuorviante: se avessero fornito il numero di ingressi in ospedale, che non si sono mai fermati, ci si sarebbe accorti che l’epidemia andava assai meno bene di quanto suggerisse la stazionarietà o la diminuzione del numero di ospedalizzati. Il secondo problema è che l’andamento del numero di ospedalizzati sottostima fortemente l’andamento dei contagi quando l’età mediana dei contagiati si abbassa, perché i giovani finiscono in ospedale molto più raramente degli anziani. In concreto questo significa: negli ultimi 30 giorni le persone in terapia intensiva sono “solo” quadruplicate, ma i contagiati potrebbero essere aumentati anche di 7 o 8 volte.

Il governo Conte si è proposto come modello di gestione della pandemia, ma lei ha sconsigliato di prendere l’Italia come esempio. Perché?
Perché, fra le società avanzate (che sono più di 30) ci sono solo 3 paesi che hanno registrato più morti per abitante di noi, e cioè Belgio, Regno Unito, Spagna. Persino gli Stati Uniti, che i nostri media descrivono come un paese dove si è scatenata l’Apocalisse, hanno meno morti per abitante di noi. Ma non è l’unica ragione per cui considero l’Italia come un modello da non imitare, ce ne sono almeno altre due.

Quali?
La prima è che l’Italia ha gestito malissimo il ritorno a scuola, commettendo alcuni errori madornali, primo fra tutti la mancata riduzione del numero di alunni per classe. La seconda è che l’Italia è uno dei pochi paesi che sono riusciti nel capolavoro politico di rilanciare l’epidemia e al tempo stesso affossare l’economia.

Chi bisognerebbe seguire? La “solita” Germania?
Sì, la Germania si è comportata benissimo, era organizzata e pronta già a febbraio con i tamponi e il tracciamento. Ma, se devo indicare dei modelli, più che un singolo paese indicherei una categoria di paesi, che per brevità chiamerò i “paesi disciplinati”. Si tratta di paesi che, per le ragioni più diverse (la religione, la tradizione, la cultura), hanno una ampia riserva di senso civico, rispetto per l’autorità, propensione a seguire le regole. Fra questi c’è sicuramente la Germania, ma ci sono anche altri paesi europei di area germanica o asburgica (Austria, Svizzera, Ungheria), o di religione luterana (paesi scandinavi), nonché buona parte delle democrazie asiatiche più o meno influenzate dal confucianesimo e dal buddismo (Giappone, Corea del Sud, Taiwan). Se si vanno a vedere i tassi di mortalità per il Covid di questi paesi, si scopre che sono tutti molto inferiori a quelli dei maggiori paesi europei, come Regno Unito, Francia, Spagna, Italia.

A chi va attribuita la ripresa dei contagi? Ai giovani incontrollabili e amanti del rischio? Alla voglia generalizzata di sfogarsi dopo i mesi di isolamento? O è semplicemente un’evoluzione naturale della malattia alla quale dovremmo adeguarci?
No, il Covid si poteva sconfiggere, anche se non debellare completamente, quando (a giugno) i contagi erano scesi a 2-300 al giorno. Quello era il momento di moltiplicare i tamponi e mettere restrizioni severe ai viaggi per motivi turistici, sia verso l’estero sia verso l’interno. Alcuni governatori, ad esempio quelli della Sardegna e della Sicilia, l’avevano capito, ma sono stati messi a tacere dall’imperativo categorico di salvare la stagione turistica, costi quel che costi.

Le autorità sanitarie dovevano seminare tra la gente ancora più paura del Covid?
No, le autorità sanitarie avrebbero dovuto limitarsi a dire la verità, senza cambiarla a seconda dei giorni, dei programmi televisivi, o di chi fosse l’intervistato di turno.

Che messaggi ha dato il governo ai cittadini in questi mesi con la sequela di regole incoerenti su bus, treni, aerei, scuole, discoteche, aperitivi, mascherine a orario?
E’ molto semplice. Il governo ha scelto di dare messaggi contraddittori, perché ognuno potesse raccontarsi la situazione come voleva. Il governo desiderava che ci sfrenassimo, per risarcirci del lockdown e far ripartire l’economia, ma non poteva dire che non c’erano pericoli, perché sarebbe stato accusato di “procurata epidemia”. Ha scelto di lasciarci credere che i pericoli fossero tutto sommato limitati, senza prendersi la responsabilità di affermarlo esplicitamente.

Perché per la scuola si parla soltanto di regole da applicare, dai banchi mobili a chi deve rilevare la temperatura, senza che nessuno si sia preoccupato di una riforma più complessiva?
E’ da almeno vent’anni che, quando si parla di scuola, si parla solo di cattedre, graduatorie, edilizia, orari, senza alcun riferimento alla funzione di trasmissione culturale. Questo governo si è limitato a continuare sulla strada dei predecessori, dopo essersi liberato dell’unico ministro (l’on. Fioramonti) che sulla scuola e sull’università forse qualche idea ce l’aveva.

Alla fine del lockdown lei disse che il governo si giocava una “scommessa rischiosa”: lasciava riprendere l’economia e consentiva di fare le vacanze sperando che in autunno la situazione sarebbe stata diversa. Scommessa vinta o persa?
Strapersa, direi. Anche perché stagione fredda e influenze non potranno che peggiorare ancora le cose.

Nel suo ultimo libro (La società signorile di massa, La nave di Teseo), pubblicato subito prima dello scoppio della pandemia, lei sostiene che l’Italia si sta trasformando in una “società parassita di massa”. Le decisioni prese finora dal governo a colpi di bonus confermano la sua analisi. E’ una tendenza ineluttabile?
Temo di sì, perché anche a destra le spinte stataliste e assistenziali sono molto forti (quota 100 l’ha inventata Salvini). La realtà è che le forze pro-impresa e pro-mercato, non eccessivamente compromesse con l’assistenzialismo, non rappresentano più del 30% dell’elettorato.

A chi si riferisce?
Fratelli d’Italia, Forza Italia, Azione (Calenda), Italia viva (Renzi), più qualche esponente isolato del Pd, come il sindaco di Bergamo Giorgio Gori.

I soldi promessi dall’Europa serviranno davvero per ripartire o sarà l’ennesima iniezione di assistenzialismo parassitario?
La seconda che ha detto.

Lei ha scritto che del Covid si è parlato finora come minaccia per la salute e per l’economia, e non per la nostra psiche. Che intende?
Che non ci si può dividere stabilmente fra impauriti e incoscienti, e che il Covid è destinato a degradare la rete delle nostre relazioni sociali. Se dura ancora a lungo, diventerà anche un problema psichiatrico, perché l’umanità non è programmata per vivere temendo sistematicamente l’altro, quando l’altro è parte della propria comunità, rete di amici, cerchia famigliare.

Davvero ci avviamo verso una società in cui gli altri sono soltanto un pericolo?
No, perché una società di questo tipo non è una società. Se il Covid dura, e non si trova un vaccino né una cura, quella verso cui ci avviamo è una società di bolle, o monadi, o vasi non comunicanti: piccole cerchie di persone, che si vedono fra loro e minimizzano i contatti con il resto del mondo. Con buona pace della globalizzazione.

Posso chiederle che cosa voterà al referendum, se voterà?
Vivo buona parte dell’anno a Stromboli, non mi sposto certo a Torino per scegliere fra il sì e il no al referendum. Il problema è che chi vota no rafforza la casta, chi vota sì rafforza l’anti-casta, ma nessuno sa quale delle due fa più danni all’Italia.

Intervista di Stefano Filippi a Luca Ricolfi, La Verità, 14 settembre 2020




Altro che modello italiano sulla pandemia. Intervista a Luca Ricolfi

Un anno particolare, segnato dalla pandemia e da una crisi economica senza precedenti. Dove si torna a discutere del ruolo dello stato sociale e soprattutto della scuola e della sanità pubblica in una società, quella italiana, per la quale Luca Ricolfi, politologo e sociologo, ha coniato l’espressione “società signorile di massa” (una società dove molti consumano ma pochi producono perché si fonda sulla ricchezza accumulata dai padri).

Professor Ricolfi, mancano meno di due settimane all’inizio dell’anno scolastico. Lo considera l’ultimo banco di prova della tenuta dello stato di emergenza? Si sente ottimista?
Né ottimista né pessimista, perché purtroppo mancano (o meglio sono secretati) i dati che permetterebbero di formulare previsioni solide. Quello che posso dire, con i pochi dati che la Protezione Civile e l’Istituto Superiore di Sanità rilasciano, sono essenzialmente due cose.
La prima è che fra i paesi avanzati, che sono una trentina, solo tre – Belgio, Spagna e Regno Unito – hanno un bilancio complessivo di morti (per abitante) peggiore di quello dell’Italia.
La seconda è che, se guardiamo al solo mese di agosto, le cose vanno un po’ meglio per noi: l’Italia è intorno alla metà della classifica fra i paesi avanzati, e fra i grandi paesi solo Germania, Giappone, Corea del Sud, presentano tassi di mortalità più bassi dei nostri.

Didattica a distanza, cattedre vuote, edilizia scolastica in condizioni critiche, è il momento di ripensare tutto il modello della nostra istruzione pubblica oppure non c’è spazio che per la gestione dell’emergenza?
Veramente è da mezzo secolo che sarebbe il momento di ripensare il sistema dell’istruzione. Magari non pensando solo all’edilizia e alle graduatorie dei precari ma anche al fatto che la qualità dell’istruzione (e dei docenti) si è abbassata drammaticamente, e ora con la didattica a distanza si appresta a ricevere il colpo di grazia. Travolte dalle pressioni a promuovere, per dare all’Europa i numeri che pretende, scuola e università sono diventate macchine per produrre false certificazioni, o meglio certificati veri indistinguibili da quelli falsi.

Altri Paesi adesso guardano con interesse al modello Italia, almeno per la gestione sanitaria del Covid-19.  Crede che la nostra consapevolezza e la profilassi ormai entrata nelle abitudini quotidiane ci eviteranno un ritorno al lockdown?
A giudicare dai risultati, sconsiglierei qualsiasi paese di seguire il modello italiano, fatto di ritardi, disorganizzazione, leggerezza nel far rispettare le regole, incapacità di far ripartire l’economia. Siamo al 4° posto in Europa come numero di morti per abitante, e all’ultimo come andamento del Pil 2020. Come si fa a parlare di modello italiano?
Se dovessi additare dei modelli, citerei piuttosto quello della Germania e quello della Corea del Sud, due paesi che molti media stanno descrivendo come attualmente più inguaiati di noi, ma che in realtà si stanno comportando meglio: anche considerando il solo mese di agosto, il numero di morti per abitante della Germania è poco più della metà di quello dell’Italia, e quello della Corea del Sud è circa un sesto.

Emergenza sanitaria ed economia non sono mai stati così correlati. Quando saremo fuori dal pericolo del contagio tornerà il modello economico che è entrato ora in crisi o cambierà qualcosa?
Una cosa nuova ci sarà di sicuro, anche se la pandemia dovesse miracolosamente sparire nel 2021: il mondo occidentale si troverà ad avere perso ulteriori posizioni nella competizione con la Cina.
Sul fatto che possa tornare il modello economico precedente, ho i miei dubbi, almeno per l’Italia. Noi eravamo già una “società signorile di massa” in declino. Questi mesi li abbiamo usati per tappare le falle e congelare tutto, senza la minima attenzione a creare le condizioni di una ripartenza. Quel che mi aspetto, quindi, è un brusco risveglio nel primo semestre 2021, quando ci si accorgerà che non si può andare avanti in eterno con i sussidi e il blocco dei licenziamenti.

Lo smart working secondo lei cambierà il volto delle nostre città e il settore dei servizi?
Sì, lo cambierà, con un abbattimento parallelo dei costi e della qualità.

Più volte lei ha lamentato in passato il rischio di finanziamenti a pioggia per riparare i danni economici di questa crisi. Ma è davvero possibile in un momento simile pianificare interventi a lungo termine?
Certo che è possibile, basta togliere la parola “pianificare”. Non si tratta di pianificare, ma di creare un ambiente – meno tasse e meno burocrazia – che consenta ai produttori di restare sul mercato o di entrarvi. L’alternativa è di diventare una “società parassita di massa”, in cui una piccola minoranza lavora e la maggioranza vive di trasferimenti.

Dalle prime misure di marzo a oggi il governo ha dovuto prendere decisioni poco popolari. Ora che siamo tornati in campagna elettorale crede sia difficile conquistare il consenso degli elettori senza perdere di vista il bene comune?
Era già impossibile prima, figuriamoci oggi. Il governo Conte è un mirabile esempio di esecutivo basato esclusivamente sulla massimizzazione del consenso, anzi del consenso di breve periodo.

A proposito di elezioni, cosa pensa del referendum confermativo sul taglio dei parlamentari?
Penso che qualsiasi cosa si voti si sbaglia. Votando sì, si legittima il qualunquismo grillino, e si rafforza un governo che ha già notevolmente compromesso il nostro futuro. Votando no ci si accoda a un penoso tentativo di vestire di nobili intenzioni (la Costituzione, la Democrazia, ecc.) la fame di posti del ceto politico.

Le Regionali in piena pandemia e durante una conclamata crisi economica che banco di prova rappresentano per il governo?
Nessuno può saperlo. Se hanno avuto il fegato di fare un governo che se ne infischia di un voto politico (quello del 2018), non mi stupirei restassero abbarbicati al potere di fronte a un voto amministrativo, anche dovessero perdere in 6 Regioni su 6. Se proprio devo immaginare degli scenari capaci di mettere in crisi l’attuale governo, le eventualità che mi vengono in mente sono altre, nessuna auspicabile: 1 milione di posti di lavoro distrutti, una tempesta finanziaria, una nuova chiusura di scuole e università, una proliferazione dei focolai e dei connessi lockdown.

Intervista di Pierfrancesco Borgia  a Luca Ricolfi, Il Giornale, 2 settembre 2020




L’economia risarcitoria

Lo so che è doloroso, lo so che preferiremmo tutti non doverci pensare. Ma bisognerà pure, a un certo punto, dirci qualcosa di realistico sull’economia italiana.

Di quanto sarà la contrazione del Pil 2020 in Italia e negli altri paesi avanzati? In quanti anni torneremo ai livelli del 2019? E quanti ne occorreranno per tornare ai livelli del 2007, prima della grande recessione? Quanti posti di lavoro verranno bruciati? Come faremo a ripagare l’enorme debito aggiuntivo che stiamo contraendo con l’Unione europea e con i mercati finanziari?

A giudicare dal dibattito politico in corso, non parrebbe che i nostri governanti se ne curino troppo. Eppure il nostro futuro non dipenderà dall’esito del referendum, né da chi vincerà le elezioni regionali, né dai banchi a rotelle della Azzolina, né da quanti migranti sbarcheranno sulle nostre coste prima che i mari agitati dell’inverno mettano tutti d’accordo. Con ogni probabilità, il nostro futuro dipenderà da due cose soltanto: il successo o insuccesso della scienza nella lotta al coronavirus (vaccino e cure), e la saggezza o stoltezza delle scelte economico-sociali dei nostri governanti.

Sul primo punto, quello della scienza, siamo nel buio più totale. Potrebbe andare bene, ma anche malissimo. Nessuno lo sa, e nessuno può saperlo.

Sul secondo punto, le scelte dei politici, invece qualcosa lo sappiamo. Sappiamo, ad esempio, che finora il partito dell’economia (riaprire prima possibile e convivere con il virus) è prevalso su quello della prudenza (mantenere e far rispettare le misure più severe, come il distanziamento, le mascherine, il divieto di assembramento). Quel che non tutti hanno ancora capito, invece, è quali siano i costi del prevalere del partito delle “riaperture” e delle “ripartenze”. Un costo certo e facilmente prevedibile (e di fatto previsto da molti) è l’impossibilità di riaprire le scuole in sicurezza. Quando si è deciso di tenere aperte le discoteche e chiudere un occhio sugli assembramenti (movida e mezzi pubblici) si è anche scelto, al tempo stesso, di sacrificare la riapertura in sicurezza delle scuole (che non generano Pil) all’imperativo di sostenere l’industria delle vacanze e del divertimento (che un po’ di Pil lo genera). E’ inutile negarlo, o arrampicarsi sugli specchi: questo governo la sicurezza delle scuole non l’ha mai messa al primo posto, altrimenti avrebbe dato ascolto a quanti, anche nel Comitato Tecnico-Scientifico, avvertivano dei rischi.

Se il costo sociale e sanitario della incauta riapertura estiva è evidente, più controverso è un secondo costo, questa volta genuinamente economico. E’ certo che la linea permissiva su viaggi, spiagge, discoteche, movide, vaporetti, autobus, treni, ha generato benefici economici, o se preferite ha contribuito a contenere i danni. Ma non è affatto certo che tali benefici siano maggiori dei danni che, nei prossimi mesi, inevitabilmente deriveranno all’economia dalla moltiplicazione dei focolai e da nuovi lockdown. Se i costi autunnali (nuovi focolai) dovessero risultare superiori ai benefici estivi (più turismo), al danno inferto alla scuola si aggiungerebbe la beffa di aver danneggiato pure l’economia.

Ma torniamo alle domande sull’economia. Le stime più recenti assegnano all’Italia l’ultimo posto nella graduatoria del Pil 2020, con una caduta che potrebbe risultare più vicina al 15% che al 10%. Quanto al futuro, neppure per l’Europa nel suo insieme si attende un ritorno ai livelli del 2019 prima del 2023.

E per l’Italia che cosa è ragionevole attendersi?

Difficile dire che cosa succederà a noi, perché molto dipenderà dall’esito della guerra al virus. Però non è difficile immaginare che cosa faranno loro, i nostri governanti. Lo scenario più verosimile è che continuino sulla linea seguita fin qui, che ha avuto il dono della coerenza, sia sul piano dei provvedimenti economico-sociali che su quello della filosofia che li sorregge.

La logica dei provvedimenti è stata chiara. Distribuire soldi a pioggia (e con ritardo), più per sostenere i consumi che per tutelare i produttori di reddito. Agire come se le risorse che l’Europa e i mercati finanziari ci hanno permesso di spendere fossero a fondo perduto, anziché prestiti da restituire. Congelare tutto con la cassa integrazione e il blocco dei licenziamenti, per spostare il più avanti possibile nel tempo (e comunque dopo le elezioni di settembre-ottobre) il momento della resa dei conti, quando tutti potranno vedere a occhio nudo le macerie, fatte di chiusure, fallimenti e posti di lavoro distrutti.

Si potrebbe riassumere tutto ciò con la consueta accusa di assistenzialismo, un male che ormai ha contagiato quasi tutta la politica. Ma sarebbe riduttivo e semplificatorio, a mio parere. Quello che è emerso, in questi mesi, è qualcosa di più radicale e più pericoloso. La filosofia che ha mosso la politica, e che ha catturato il consenso degli italiani, non è basata sulla vecchia (e nobile) idea che i più deboli debbano essere assistiti, sussidiati, aiutati. No, l’idea che si è imposta in questi mesi è che nessuno dovesse perdere alcunché, e che tutti avessero diritto a un risarcimento. Il sostengo indiscriminato ai redditi e ai consumi, dal bonus vacanze al super-bonus per le ristrutturazioni energetiche, dal bonus monopattino a quello per le partite Iva (intascato da alcuni parlamentari!), non poggiavano solo sulla credenza che il motore della ripresa non potessero che essere i consumi, ma anche su una sorta di dottrina o filosofia del risarcimento. Colpiti nei redditi e repressi nelle abitudini di vita, gli italiani sono stati ritenuti degni di risarcimento su tutta la linea. Così abbiamo sentito non solo promettere l’impossibile (“nessuno perderà il suo lavoro”), ma anche garantire diritti per così dire esistenziali, come quelli al divertimento e alle vacanze senza restrizioni, che i due mesi di lockdown hanno reso sacrosanti come altri e più antichi valori della nostra tradizione politica e civile.

Quel che è sfuggito, e tuttora sfugge ai cultori dell’economia del risarcimento, è la differenza tra un terremoto locale e una guerra. Quando c’è un terremoto, è logico e realistico che la comunità colpita chieda alla comunità più ampia di aiutarla, risarcendola più o meno integralmente delle perdite subite. La stessa logica, purtroppo, non si applica nel caso di una guerra, che produce perdite generalizzate che nessuno Stato centrale è in grado di ripianare. E infatti, in una guerra, nessuno pensa in termini di risarcimenti, o pretende che lo Stato ricostruisca celermente la sua abitazione distrutta da un bombardamento.

Ora, il punto cruciale è che quella contro il Covid è una guerra che stiamo perdendo, e che comunque – anche se domani dovessimo trovare un vaccino – ci lascerà tutti molto meno ricchi di prima. Quella italiana era, fino a ieri, una “società signorile di massa” in lento declino. Oggi è una società che, improvvisamente, si trova a non poter conservare il proprio tenore di vita passato, ma non ha alcuna intenzione di rinunciarvi e prendere atto del cambiamento, preferendo cullarsi nell’illusione che ogni cosa possa presto tornare come prima. La filosofia risarcitoria che tutto e tutti pervade ci sta conducendo a diventare una società parassita di massa, in cui allo Stato viene chiesto di sostenere il reddito di chi non produce nulla, ma non di ripagare i debiti che a questo scopo è costretto a fare.

Si potrebbe pensare che la colpa sia di questo governo, e che un governo diverso farebbe cose sostanzialmente diverse. Ma anche questa è un’illusione. L’opposizione politica è leggermente meno assistenzialista di chi ci governa, ma non è di un’altra pasta. Il copyright di “quota cento” è della Lega, e l’ossessione per la riapertura è ancor più forte fra gli esponenti dell’opposizione che fra quelli di governo.

La realtà è quella di sempre: gli italiani hanno la classe politica che si meritano. I politici fanno molti errori, che saranno evidenti fra vent’anni e nei libri di storia del futuro. Ma se sbagliano è, prima di tutto, perché inseguono le nostre illusioni.

Pubblicato su Il Messaggero del 30 agosto 2020




Emergenza sanitaria o emergenza democratica?

Dunque, il governo sta per prorogare lo “stato di emergenza”. Per altri 5 o 6 mesi potrà ricorrere ai famigerati Dpcm (Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri), senza passare attraverso il vaglio del Parlamento. In sostanza il governo sta per riattribuirsi i “pieni poteri” che già si era preso nel semestre scorso.

Si potrebbe osservare che, più o meno lentamente, stiamo cessando di essere una democrazia, e che il modo in cui stiamo passando a un regime dispotico è paradossale: questo governo è nato (o meglio dice di essere nato) per impedire che libere elezioni conferissero a Salvini i “pieni poteri” che aveva invocato, ma il risultato è che i pieni poteri – quelli veri – se li sta prendendo precisamente questo governo, senza chiedere il permesso a nessuno, e meno che mai a noi cittadini.

Qui però non voglio fermarmi su questo. La domanda cui vorrei provare a rispondere è un’altra: la situazione è così grave da giustificare la richiesta di pieni poteri?

Per certi versi sì. Dopo essermi preso un mese di insulti per aver detto (a metà giugno) che l’epidemia stava rialzando la testa, devo constatare che il fronte dei minimizzatori è oggi meno saldo nelle sue convinzioni. Ormai è l’Organizzazione mondiale della sanità stessa ad avvertire che la pandemia è in espansione, e solo i più ostinati fra i negazionisti continuano ad additare a modello “gli altri paesi europei” che hanno riaperto scuole, fabbriche e viaggi prima di noi.

Aggiungo solo che un’analisi dettagliata delle province italiane, pubblicata nei giorni scorsi sul sito della Fondazione David Hume, ha mostrato che il numero di province in cui i contagi stanno aumentando è in continua crescita. Erano una ventina tre settimane fa, sono quasi il doppio oggi. Il fatto che i dati nazionali mostrino solo una leggera tendenza all’aggravamento della situazione è in realtà il frutto di una polarizzazione fra i territori in cui l’epidemia si sta lentamente spegnendo, e quelli – sempre più numerosi – in cui sta invece ripartendo, non sempre e non solo a causa di specifici, circoscritti e quindi controllabili “focolai”. In breve, per chi è disposto a vedere, la situazione è abbastanza chiara: nonostante il favore della stagione, l’epidemia non si sta spegnendo.

Meno chiaro è perché ciò accada. La mia opinione è che, fondamentalmente, ciò dipenda da una scelta di fondo che le autorità politiche e sanitarie hanno compiuto all’inizio di giugno: traghettarci in un regime di anarchia cognitiva, una sorta di “libero arbitrio” nella lettura della situazione epidemica.

Lo avete notato, parlando con i vostri amici e conoscenti? Ognuno interpreta la situazione a modo suo. Ci sono gli iper-prudenti, che rispettano le regole, e sono spesso considerati “fobici”. E ci sono gli ipo-prudenti che se ne infischiano allegramente, e sono spesso guardati come “untori”: si assembrano, non rispettano le distanze sui mezzi pubblici e nei supermercati, entrano nei negozi senza la mascherina, o con la mascherina abbassata (il che equivale a senza).

Gli uni e gli altri hanno buone ragioni per comportarsi come si comportano. Agli iper-prudenti è sufficiente richiamarsi alle ancora severe regole vigenti, agli ipo-prudenti è sufficiente appellarsi alle sciagurate esternazioni dei virologi ottimisti, e più o meno sottilmente negazionisti (eufemismo). Ma su tutti pesano due mosse cruciali delle autorità politiche, nazionali e locali: ridurre il numero di tamponi e chiudere sistematicamente un occhio sulle numerosissime violazioni delle regole. Due mosse aggravate dall’ostinazione con cui fin qui non si è voluto distinguere fra le regioni (innanzitutto la Lombardia) in cui la gravità dell’epidemia avrebbe richiesto un prolungamento del lockdown, e le regioni (molte del Sud) in cui la tenuità dell’epidemia avrebbe consentito di accorciare la durata della clausura.

Naturalmente non è difficile capire la logica di queste scelte: non allarmare la popolazione, favorire la ripartenza dell’economia, salvare la stagione turistica. Come se una pandemia potesse essere domata lasciando le briglie sciolte sul turismo internazionale, allentando le regole di distanziamento sugli aerei, e più in generale incentivando la circolazione delle persone.

Ed eccoci allora al punto. La situazione è grave, e forse richiede davvero la ri-proclamazione dello “stato di emergenza”, ma la situazione stessa è diventata grave perché il governo, coscientemente, ha permesso che lo diventasse. Il regime di libero arbitrio sanitario, in cui uno vale uno e l’analisi della situazione si fa nei salotti televisivi, è il risultato della schizofrenia governativa: lasciare in piedi regole molto severe, e al tempo stesso permettere che siano sistematicamente violate.

Ecco perché rispondere alla domanda sulla sensatezza o meno di una proroga dello stato di emergenza è difficile. Sì, verrebbe da dire, perché occorre – ma soprattutto potrebbe occorrere in autunno – una nuova stretta (ma allora perché il governo continua a tollerare le violazioni?). No, perché questo governo ha già dimostrato di non saper governare l’epidemia: l’aggravamento della situazione sanitaria non è dovuto a un meteorite piovuto dal cielo, ma è stato favorito dall’inerzia dell’esecutivo, che proprio così si è costruito le pre-condizioni e il pretesto per invocare un ulteriore aumento dei propri poteri.

C’è poi un’ultima osservazione, che lascio lì sotto forma di dubbio. Siamo sicuri che lo stato di emergenza di cui ora si parla durerà solo altri 6 mesi? La maggior parte degli scienziati ritiene che, da oggi a dicembre, la situazione sia destinata a peggiorare drasticamente già solo per ragioni climatico-ambientali, e che a fine anno, quando lo stato di emergenza dovrebbe finire, la situazione non potrà che essere peggiore di quella odierna. Dunque, facendo 2 + 2: fanno finta di chiedere altri 6 mesi di pieni poteri, ma la richiesta verrà rinnovata in inverno, così quello che di fatto stanno chiedendo è un altro anno di pieni poteri, che si aggiungono ai 6 mesi già consumati.

Ma diciotto mesi di pieni poteri non sono un po’ troppi per un governo che si è lasciato sfuggire di mano la situazione e, per quanto formalmente legale, non ha alcuna legittimazione democratica?

Pubblicato su Il Messaggero dell’11 luglio 2020




Sul populismo fiscale

Non sono particolarmente incline all’ottimismo. Tendo a pensare che questo governo ce lo terremo il tempo sufficiente a distruggere l’economia del paese, un’impresa per completare la quale – dopo tutto quel che (non) si è fatto – basta ancora davvero poco. Altri sei mesi così, e neanche Mandrake potrà fare il miracolo. Però dentro di me albergava ancora, fino a pochi giorni fa, un lumicino di speranza. Pensavo: magari adesso hanno capito che devono assolutamente fare qualcosa per salvare l’economia, e magari sanno persino che cosa. Magari nei prossimi mesi vedremo un altro film, magari Renzi – che ci ha messi in questo guaio – prova anche a tirarcene fuori.

Poi, pochi giorni fa, è arrivata una trasmissione televisiva (credo fosse “In Onda”), e quella domanda di uno dei conduttori al ministro dell’economia. Più o meno diceva così: signor ministro, si rende conto che, a forza di scostamenti di bilancio, a breve il rapporto debito/Pil schizzerà dalle parti del 170%, e a quel punto ci sarà poco da fare, o aumenti le tasse o riduci la spesa pubblica, “tertium non datur”, insomma altre alternative non ce ne sono.

A questa osservazione perfettamente ragionevole del conduttore, il ministro dell’economia accennava un sorrisetto di soddisfazione, e ribatteva che no, non è vero, “tertium datur”, un’alternativa c’è.

Non ero affatto curioso di sapere che cosa questo “tertium” potesse essere, perché credevo di saperlo già. Dentro di me mi sono detto: ecco, adesso ripeterà il solito discorsetto degli ultimi 10 anni, tanto elegante quanto evanescente: il problema non è ridurre il numeratore (il debito) ma far crescere il denominatore (il Pil). Il che tradotto significa: se cresciamo abbastanza, il rapporto debito/Pil può diminuire senza aumentare le tasse o tagliare la spesa pubblica, due cose che nessun politico ama fare per paura di perdere voti.

Invece, sorpresa: il “tertium” che il ministro dell’economia ha in mente per ridurre il rapporto debito/Pil è un massiccio recupero di evasione fiscale. Un’idea non nuova, ripetuta per decenni sindacalisti e politici convinti che “se tutti pagassero le tasse, l’Italia risolverebbe tutti i suoi problemi”.

A quel punto ho perso ogni speranza. Perché si può anche ipotizzare che un’idea simile sia un parto solitario del ministro dell’economia, ma la realtà – temo – è che è il governo nel suo insieme che a questo punta: ridurre l’extra-debito rimpinguando le casse dell’erario (e dell’Inps) con i proventi della sacrosanta “lotta all’evasione fiscale”.

Che questa idea, che agli ingenui e ai moralisti pare una genialata, sia invece catastrofica, lo si può capire da due semplici considerazioni.

Primo, una parte non trascurabile dell’evasione fiscale è “di necessità”, come da anni coraggiosamente ripete Stefano Fassina, il che significa che, se dovessero pagare le tasse con le attuali aliquote, centinaia di migliaia di piccole attività semplicemente chiuderebbero, distruggendo un numero enorme di posti di lavoro. Ma c’è anche una seconda considerazione, ancora più decisiva. Supponiamo che, domattina, un fisco improvvisamente divenuto onnisciente ed efficiente, riuscisse a scovare tutti gli evasori, e che nessuna impresa fallisse. Anche ammettendo questa eventualità (chiaramente impossibile), il risultato sarebbe un aumento spaventoso della pressione fiscale, già oggi a livello record, perché i soldi eventualmente recuperati non verrebbero da Marte, come tanti parrebbero credere, ma verrebbero prelevati dalle tasche di produttori e consumatori, con conseguente drastica contrazione del reddito disponibile e della domanda aggregata. Qualcuno può pensare che, con un incremento della pressione fiscale di 7-8 punti di Pil (a tanto ammonta l’evasione fiscale e contributiva) l’economia non riceverebbe il colpo di grazia?

Si può obiettare, naturalmente, che i soldi recuperati con la lotta all’evasione dovrebbero andare a ridurre le aliquote che pesano sull’economia regolare, ma è proprio qui che il ragionamento del ministro dell’economia va in cortocircuito: se non si vuole aumentare la già insostenibile pressione fiscale attuale, e quindi tutti i proventi della lotta all’evasione fiscale vengono (molto opportunamente!) usati per ridurre le aliquote, alla fine non resta un solo euro per ridurre il debito pubblico. Questo è il duro, e inaggirabile, nocciolo del problema.

Giunti a questo punto, si potrebbe supporre che io auspichi che il timone dell’economia passi ad un ministro espressione dell’opposizione, che della riduzione della pressione fiscale ha fatto un articolo di fede. Sfortunatamente, però, anche questa non è una via rassicurante. Uno dei drammi dell’Italia attuale è il populismo fiscale, che vagheggia riduzioni generalizzate delle aliquote senza fare i conti con la realtà, ed è purtroppo radicato sia in buona parte della sinistra giallo-rossa sia in buona parte della destra verde-azzurra. Riduzione dell’Iva e dell’Irpef, taglio delle aliquote contributive, flat tax per tutti e su tutto: di questo parlano i maggiori partiti, a destra come a sinistra. E se la sinistra di governo preoccupa per la sua incapacità di individuare delle priorità e scegliere una politica fiscale realistica, ancor meno rassicura la destra quando Salvini ripropone forme più o meno mascherate di condono fiscale per finanziare la flat tax, o quando dice che la Lega è pronta ad appoggiare qualsiasi riduzione delle tasse, come se questo non equivalesse a confessare di non avere delle chiare priorità.

Posso sbagliarmi, ma la mia impressione è che in materia fiscale le forze più avvedute, e avvedute in quanto capaci di scegliere, non siano quelle con il maggiore seguito elettorale. A sinistra, solo i piccoli partiti di Calenda e Renzi paiono in grado di formulare delle priorità, ancorché talora un po’ vaghe (detassare le imprese e il lavoro). A destra solo Giorgia Meloni, sia pure molto cautamente, ha più volte dato segni di capire che occorre scegliere, e procedere con gradualità: premiare innanzitutto le imprese che aumentano l’occupazione, introdurre la flat tax solo sul reddito incrementale (sui maggiori guadagni da un anno all’altro), unificare le tutele sul mercato del lavoro, superando la frattura fra garantiti e non garantiti.

Una situazione che lascia un enorme spazio al populismo fiscale. Perché la politica economica del governo la fanno Cinque Stelle e Pd, non certo il partitino di Renzi. E, a destra, la linea continua a dettarla Salvini, non certo il partito di Berlusconi, né quello di Giorgia Meloni. Per adesso.

Pubblicato su Il Messaggero del 4 luglio 2020