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Politica

Educazione sessuale e violenza di genere – Il paradosso nordico

26 Febbraio 2025 - di Luca Ricolfi

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Di educazione sessuale a scuola si parla da almeno cinquant’anni, ma la questione è tornata di attualità dopo l’uccisione di Giulia Cecchettin (autunno 2023), una vicenda che molti hanno visto anche come conseguenza di un deficit di educazione sentimentale.

Per molti osservatori gli episodi di bullismo, violenza fisica e sessuale, aggressione, fino allo stupro e all’uccisione, potrebbero essere contenuti ove l’Italia seguisse la strada percorsa dalla maggior parte dei paesi europei, che da tempo hanno introdotto l’educazione sessuale nei programmi scolastici.

Anche su questo sinistra e destra tendono a dividersi. La sinistra non ha dubbi sull’utilità e l’efficacia dei programmi di educazione sessuale, specie se mettono in discussione gli stereotipi di genere e sono attenti alle problematiche LGBT. La destra, invece, di dubbi ne ha molti: è scettica sull’efficacia dell’educazione sessuale come mezzo di contrasto della violenza di genere, pensa che a occuparsene debba essere la famiglia, paventa rischi di indottrinamento woke.

Curiosamente, però, nessuno sembra porsi una semplice domanda: che cosa dicono i dati?

Eppure, se è vero che più di metà dei paesi europei prevede programmi più o meno avanzati di educazione sessuale, e molti di essi li hanno introdotti molto tempo fa (la Svezia nel 1955), non varrebbe la pena analizzare le loro esperienze? Più esattamente, se è fondata la fede progressista nella capacità dell’educazione sessuale di contrastare la violenza di genere, non dovremmo osservare risultati incoraggianti nei paesi che, a differenza dell’Italia, l’hanno già introdotta da tempo?

A prima vista i dati disponibili (fermi al 2022) deludono completamente le aspettative. I casi di violenza sessuale denunciati in Italia sono circa 9 ogni 100 mila abitanti, ma nella modernissima e civilissima Svezia sono 200, più di venti volte tanti. Se allarghiamo l’orizzonte, e distinguiamo fra i 16 paesi europei segnalati come virtuosi in base ai rapporti Unesco (Svezia inclusa) e i rimanenti paesi UE (Italia inclusa), il contrasto si attenua, ma non sparisce affatto: nei paesi con l’educazione sessuale a scuola le violenze sessuali sono 55 ogni 100 mila abitanti, negli altri paesi sono solo 11, ossia 5 volte di meno.

Dobbiamo concludere che l’educazione sessuale è dannosa?

Ovviamente no, perché i fattori che spiegano la violenza sessuale sono anche altri, e potrebbero agire a sfavore dei paesi avanzati. Inoltre, non si può escludere che, essendo i dati delle violenze sessuali basati sulle denunce, i tassi dei paesi avanzati riflettano tassi di denuncia più alti, e quelli dei paesi arretrati siano sgonfiati da tassi di denuncia più bassi.

Per evitare questa possibile fonte di distorsione, conviene rivolgere l’attenzione al numero di donne uccise per milione di abitanti, uno dei pochi reati sostanzialmente privi di “numero oscuro” (ossia di casi non denunciati). Se procediamo così il quadro si fa più complesso. L’Italia ha uno dei tassi di donne uccise più bassi dell’Unione Europea (solo Irlanda e Lussemburgo hanno valori inferiori ai nostri), la civilissima Svezia ne ha il 31% in più, la Danimarca il 69% in più, la Finlandia il 133% in più. È il cosiddetto “paradosso nordico”, che nessuno studio è finora riuscito a spiegare in modo soddisfacente.

Nello stesso tempo, è vero che se – come per le violenze sessuali – confrontiamo il blocco dei paesi virtuosi (nordici e non) con quello dei paesi restanti (mediterranei e non), i conti tornano più in linea con il senso comune: i paesi più avanzati in termini di educazione sessuale hanno meno donne uccise per abitante (anche se va detto che il risultato è fortemente influenzato dal dato della Lettonia, circa 10 volte più severo di quello dell’Italia).

Conclusioni?

Impossibile fare affermazioni perentorie senza prendere in considerazione molti più paesi e molte più variabili. Quel che possiamo dire è solo che, nell’Unione Europea, l’Italia è uno dei paesi meno pericolosi per le donne, almeno per quel che riguarda il rischio di venire uccise. E che, quanto all’impatto dell’educazione sessuale, l’entità (e il segno) dei suoi effetti sulla violenza di genere sono ancora tutti da verificare, come il “paradosso nordico” si incarica di ricordarci. Destra e sinistra dovrebbero farsene una ragione.

[articolo inviato alla Ragione il 23 febbraio]

Il pluralismo preso sul serio. Una riflessione sulla cultura politica italiana

26 Febbraio 2025 - di Dino Cofrancesco

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Nel recente saggio L’incanto del mondo. Un’introduzione al pluralismo (Ed. Meltemi), il filosofo del diritto Mauro Barberis–un profondo conoscitore del liberalismo ottocentesco e autore di importanti studi che si collocano tra la filosofia morale, il diritto, la storia e la politica—ha scritto che :”la maggioranza detta ‘America profonda”, raccolta attorno al Partito repubblicano spesso formata da autentici psicolabili che però ignorano di esserlo, si riconosce in Trump, altro psicopatico che si ritiene normale”. Considerando che il libro è destinato anche (se non soprattutto) agli allievi del suo corso di ‘Teoria del diritto in ambito filosofico’ e che le parole citate si trovano nel capitolo V, “Pluralismo”, ci si chiede se Barberis sia sempre consapevole del fatto che la divisione tra i giudizi di fatto e i giudizi di valore—alla base del pluralismo conoscitivo, che registra appunto i fatti—debba precedere ogni discorso sul tema in questione. Si possono avere tutte le riserve possibili su Donald Trump e la maggioranza degli americani che lo ha votato ma il dovere dello studioso non è quello di riaprire i manicomi a chi non la pensa come lui bensì quello di capire quali valori, bisogni, interessi abbiano inciso su quel voto. Sine ira ac studio, come dicevano gli antichi. Nella celebre lectio, La scienza come professione (1918), Max Weber aveva scritto: “Nell’aula, ove si sta seduti di faccia ai propri ascoltatori, a questi tocca tacere e al maestro parlare, e reputo una mancanza del senso di responsabilità approfittare di questa circostanza — per cui gli studenti sono obbligati dal programma di studi a frequentare il corso di un professore dove nessuno può intervenire a controbatterlo–per inculcare negli ascoltatori le proprie opinioni politiche invece di recare loro giovamento, come il dovere impone, con le proprie conoscenze e le proprie esperienze scientifiche. ”.

Non si possono buttare lì, en passant, opinioni politiche, in privato più che legittime, come se fossero verità autoevidenti. Gli allievi di Barberis debbono leggere gli articoli di Federico Rampini per capire il ‘trumpismo’ e le ragioni del suo successo? Chi vuole studiare seriamente il fascismo non lo farà, certo, leggendo Mussolini il capobanda (2022) di Aldo Cazzullo ma l’imponente opera di Renzo De Felice su Mussolini. Analogamente non sono i furtivi, provocatori, cenni di Barberis a liqui-
dare Trump e quello che ha rappresentato e rappresenta per l’America d’oggi.

ALLE ORIGINI DI UNO STILE

Alle origini di questo stile di pensiero’, c’è un fraintendimento—incomprensibile in uno studioso che da anni legge gli scritti di Berlin– di ciò che significa ’pluralismo’. Nel nostro paese, questo termine, rinvia a valori buoni—quelli della tradizione liberale e democratica—che talora possono confliggere e che dovrebbero, pro bono pacis, trovare un qualche bargaining. Contro la faciloneria di chi mette insieme tutte le cose buone, Norberto Bobbio aveva fatto rilevare in Presente e avvenire dei diritti dell’uomo nell’Età dei diritti (Ed. Einaudi, Torino 1990): “Quando dico che i diritti dell’uomo costituiscono una categoria eterogenea, mi riferisco al fatto che, dal momento che sono stati considerati come diritti dell’uomo anche i diritti sociali, oltre ai diritti di libertà, la categoria nel suo complesso contiene diritti tra loro incompatibili, cioè diritti la cui protezione non può essere accordata senza che venga ristretta o soppressa la protezione di altri. Si fantastichi pure sulla società insieme libera e giusta, in cui siano globalmente e contemporaneamente attuati i diritti di libertà e i diritti sociali; le società reali, che abbiamo dinanzi agli occhi, nella misura in cui sono più libere sono meno giuste e nella misura in cui sono più giuste sono meno libere. Tanto per intenderci, chiamo ‘libertà’ i diritti che sono garantiti quando lo stato non interviene, e ‘potere’ quei diritti che richiedono un intervento dello stato per la loro attuazione. Ebbene: spesso libertà e poteri non sono, come si crede, complementari, bensì incompatibili. Per fare un esempio banale, l’aumentato potere di acquistare l’automobile ha diminuito sin quasi a paralizzarla la libertà di circolazione. Un esempio un po’ meno banale: l’estensione del diritto sociale di andare a scuola sino a quattordici anni ha soppresso in Italia la libertà di scegliere un tipo di scuola piuttosto che un’altra. Ma forse non c’è bisogno di fare esempi: la società storica in cui viviamo, caratterizzata dalla sempre maggiore organizzazione per l’efficienza, è una società in cui acquistiamo ogni giorno un pezzo di potere in cambio di una fetta di libertà. Questa distinzione tra due tipi di diritti umani, la cui attuazione totale e contemporanea è impossibile, è consacrata, del resto, dal fatto che anche sul piano teorico si trovano di fronte e si contrastano due concezioni diverse dei diritti dell’uomo, la concezione liberale e quella socialista”.

LA LEZIONE DI BOBBIO

Parole da meditare quelle di Bobbio—” le società reali, che abbiamo dinanzi agli occhi, nella misura in cui sono più libere sono meno giuste e nella misura in cui sono più giuste sono meno libere”–. specie se si considera che il filosofo rimase sempre legato alla political culture di ‘Giustizia e Libertà’ e agli ideali di Carlo Rosselli e del Partito d’Azione che a lui si ispirava. L’onestà intellettuale gli precludeva facili sintesi ma non di vedere nella libertà e nell’ eguaglianza i valori più alti del nostro tempo. Sennonché, per chi abbia meditato a fondo la lezione di Isaiah Berlin, al di là del conflitto tra libertà ed eguaglianza, ve n’è uno che si riferisce a valori che la cultura politica—si direbbe ‘l’ideologia italiana’—non riconosce come tali. Per citarne qualcuno: l’Autorità, la Nazione, la Tradizione, la Fede, la Famiglia etc.

IL PLURALISTA DIMEZZATO

Il pluralista dimezzato prende in considerazione solo l’area dei valori buoni: i due citati e quelli che contrappongono dimensioni sociali ed etiche talora in guerra—Antigone e Creonte, la Morale e il Diritto, il Mercato e lo Stato—valori presenti in ogni società civile. Il pluralista imparziale– lettore dei magistrali studi di Berlin sul romanticismo politico, su Herder, su Hamann, sui tradizionalisti francesi, studi, peraltro, che inducevano Bobbio a mettere in discussione la qualifica di liberale data al suo pensiero– al contrario, sa che “anche se ne aborriamo le teorie, consideriamo Torquemada, Giovanni di Leida o Stalin–inquisitori e sterminatori– non semplice-mente come agenti umani di questo o quel grado di importanza nel causare cambia-menti storici, ma come esseri umani a cui riconosciamo un valore morale (e politico) positivo, in virtù della sincerità e comprensibilità dei loro motivi” (v. Berlin Isaiah, Tra filosofia e storia delle idee. La società pluralistica e i suoi nemici, Intervista auto-biografica e filosofica, Ed. Ponte alle Grazie,1994). Per il pluralista dimezzato, Autorità Tradizione, Radici, Destino sono la spazzatura della storia. E’ il vaglio della ragione che decide cosa (quel poco) del passato può essere conservato. Immanuel Kant, nello scritto Che cos’è l’Illuminismo del 1784, aveva decretato: “L’Illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità, che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza. Questo è il motto dell’Illuminismo.” Ciò significava che quanto di irrazionale i secoli avevano depositato nella società e nelle istituzioni doveva venir senz’altro rimosso. Sennonché tutti i fini umani fanno riferimento a valori che sono un’eredità non una acquisizione: quelli che riguardano la comunità non sono universalizzabili–ovvero condivisi da tutti in virtù della loro razionalità– ma non per questo sono meno ‘valori’. Come scriveva ancora Berlin, “Tutti i fini sono fini. Il fatto è che non sono mai riuscito a capire la nozione di un fine razionale|… la nozione di un fine razionale| di cui parlano tutti—uno scopo razionale è un concetto filosofico ben noto: esisteva già ai tempi di Platone è per me incomprensibile. Penso che i fini siano semplicemente fini. La gente cerca di ottenere quello che vuole ottenere. Naturalmente non una varietà infinita di fini, ma un numero limitato”.

Pensando alle categorie classiche Gemeinschat/Gesellschaft (Comunità/Società) mirabilmente fissate da Ferdinand Toennies, si può dire che il pluralista dimezzato vede valori solo nella Gesellschaft e ricaccia tra le deità infernali tutto ciò che ha a che fare con la Gemeinschaft. E poiché il punto di approdo della comunità è ritenuto  universalmente—ma discutibilmente– il fascismo (sono le radici che portano al Lager) tutto ciò che ne proviene diventa una figurazione—sempre diversa nel tempo—del Male. Se si obietta che anche il razionalismo illuministico degenerato in ingegneria sociale porta al Gulag, la risposta è che il secondo processo nasce da un ‘errore fatale’ mentre la degenerazione della comunità ne rappresenta un esito naturale.

INTENDERE I MOVIMENTI TOTALITARI

Non è casuale che, nel nostro paese, l’area culturale più vicina al neo-illuminismo sia quella meno attrezzata intellettualmente per intendere il fascismo e, in genere, i movimenti totalitari. Non li vede come vini andati a male ovvero vini tramutati in aceto per colpa di classi dirigenti liberali incapaci di cogliere i bisogni di sicurezza e di identità dei popoli, per colpa di assetti internazionali di potere che non facevano spazio, crollati i grandi imperi nel 1918 ,alle autodeterminazioni nazionali, per colpa di un’intellighèntzia desiderosa di mettersi a capo della riforma morale e intellettuale dei connazionali (riforma che il liberale Benedetto Croce demolì in un memorabile passo delle Pagine sulla guerra mostrandone le potenzialità illiberali): li vede come malattie mortali, che minacciano la fine del genere umano. Per la cultura che, si richiama al pluralismo senza intenderne a fondo lo spirito, il problema è quello delle masse “psicolabili che, però, ignorano di esserlo” e si riconoscono in psicopatici che si ritengono normali, per citare Barberis. La rebelión de las masas (ma non nel senso del grande Josè Ortega u Gasset il cui libro è più citato–per il titolo–che letto) è il passe-partout che consente di comprendere tutto ciò che, in qualche modo, viene collocato al fuori della ‘società aperta’, nazionalisti e populisti, postfascisti e vannacciani, tradizionalisti politici e fondamentalisti religiosi, meloniani e salviniani. Il neo-illuminismo, insomma, fa di tutte le erbe ed erbacce un solo fascio: non è questa la lezione del grande Isaiah Berlin.

La frattura tra ragione e realtà 10 / La finanza impazzita 1 – Miss BCE e l’inflazione

21 Febbraio 2025 - di Paolo Musso

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Con questo articolo cominciamo l’annunciato viaggio tra le follie della finanza internazionale. Una delle principali (e di particolare attualità) è la convinzione che alzare i tassi di interesse serva a combattere l’inflazione, come è stato fatto dopo l’esplosione dei prezzi del gas nel 2022 dalla neopresidente dalla BCE (nonché ex direttrice del FMI) Christine Lagarde. In realtà non solo questa misura è inutile, ma penalizza i poveri, già colpiti più degli altri dall’inflazione, arricchendo invece le banche e gli speculatori. Una dura lezione da imparare a memoria, soprattutto ora che la speculazione sul prezzo del gas ha rialzato la testa e tutto rischia di ricominciare da capo.

Una domanda ovvia, ma anche no

Assumereste un manager che non ha mai raggiunto gli obiettivi fissati dalla sua azienda? O un cuoco i cui piatti non piacciono mai a nessuno? O un chirurgo che uccide tutti i suoi pazienti? O un autista che ogni volta che si mette al volante provoca un incidente? O un calciatore che in ogni partita si fa un autogol? O un consulente finanziario che manda in rovina tutti i suoi clienti?

Non solo in un mondo normale, ma perfino nel mondo gravemente anormale in cui viviamo la risposta a queste domande (e alle molte altre analoghe che si potrebbero fare) è ovviamente no. Tranne che in un caso: l’ultimo.

Infatti, nel 2019, come successore di Mario Draghi a capo della Banca Centrale Europea (BCE) è stata nominata Christine Lagarde, che negli otto anni precedenti era stata direttrice del Fondo Monetario Internazionale (FMI), una delle istituzioni più funeste della storia umana, che nei suoi quasi 80 anni di attività non ha mai risolto un solo problema, dimostrando di possedere un’unica, vera, straordinaria abilità: quella di trasformare i problemi in disastri e i disastri in catastrofi.

Il che è precisamente quello che la signora Lagarde aveva sempre fatto durante il suo mandato alla guida del FMI e che ha puntualmente rifatto durante il suo mandato alla guida della BCE, nel colpevole e complice silenzio di tutto l’establishment europeo.

Miss BCE vs Mister BCE

Lasciamo stare la pessima gestione del periodo del Covid, di cui su questo sito abbiamo già parlato a sufficienza e in cui peraltro è stata in ampia (e pessima) compagnia e concentriamoci soltanto sugli ultimi due anni, in cui la signora Lagarde ha dato il peggio di sé.

Per onestà intellettuale, va detto che almeno la trasformazione in disastro del problema iniziale, cioè il vertiginoso quanto ingiustificato aumento del prezzo del gas a seguito dell’invasione dell’Ucraina da parte della neo-URSS di Putin, per una volta non è principalmente colpa sua, bensì della UE.

Infatti, a mandare alle stelle il prezzo del gas non è stata la sua reale mancanza, bensì la paura che potesse venire a mancare, che a sua volta ha innescato i soliti fenomeni speculativi, che sono sempre esistiti, ma si sono enormemente amplificati da quando nelle Borse sono entrati i computer, che gestiscono ormai la maggior parte delle transazioni. Tuttavia, ciò che ha davvero fatto schizzare a valori assurdi il prezzo del gas non sono stati i fenomeni speculativi in sé stessi, ma il fatto che l’Europa stabiliva il prezzo del gas in base alle sue quotazioni alla Borsa di Amsterdam.

Non occorre essere esperti di economia per capire che a questo si poteva porre rimedio in molti modi e, soprattutto, in pochi giorni, come dimostra il fatto che, quando finalmente la UE si è mossa, è bastato l’annuncio che sarebbero stati presi dei provvedimenti in tal senso per far crollare quasi istantaneamente i prezzi del gas, riportandoli a valori quasi normali, cioè corrispondenti alla realtà, che era anch’essa quasi normale. Il problema è che per decidersi l’Europa ci ha messo nove mesi.

Non per nulla, perfino Mario Draghi ha detto cose terribili sul suo comportamento irresponsabile e ottuso, anche se i giornali italiani, pur non potendo evitare di dare la notizia, hanno cercato in tutti i modi di minimizzarla e poi dimenticarla il più presto possibile: non sia mai che il campione dell’europeismo, colui che ha salvato l’euro e con esso la UE, porti acqua al mulino dell’euroscetticismo dei “populisti”!

Purtroppo, però, qui non si tratta di europeismo o antieuropeismo, ma, tanto per (non) cambiare, ancora una volta di pura e semplice stupidità. Alla fine, infatti, ci hanno rimesso tutti, perché l’aumento tanto spropositato quanto ingiustificato del costo del gas ha fatto schizzare alle stelle le bollette dell’elettricità. Ciò ha portato a un aumento generale dei costi di produzione di pressoché qualsiasi cosa, risvegliando così, per la prima volta da quando esiste l’euro, il mostro dell’inflazione, «la più iniqua delle tasse», come la chiamava Luigi Einaudi, perché colpisce allo stesso modo ricchi e poveri.

Certo, come aveva giustamente notato Ricolfi (https://www.fondazionehume.it/economia/nel-segno-dellinflazione/), una prima spinta inflattiva c’era già stata all’inizio del 2022 per l’aumento dei prezzi delle materie prime (iniziato nella primavera del 2020 a causa del Covid e delle conseguenti difficoltà di approvvigionamento, ma giunto ai prezzi al consumo solo due anni dopo). «La guerra ha ovviamente peggiorato le cose», concludeva Ricolfi, «ma non è l’origine delle tensioni attuali sui prezzi, che risentono anche della ripresa della domanda, favorita dagli stimoli fiscali dei governi e dall’ingente risparmio accumulato durante la pandemia», il che è sicuramente vero.

Tuttavia, se la guerra – o, più esattamente, la speculazione sulla guerra – non è stata l’origine dell’inflazione, ne è stata però senza dubbio alcuno il moltiplicatore. Il modo in cui essa è letteralmente esplosa quasi da un giorno all’altro e in perfetta concomitanza con l’altrettanto improvvisa esplosione del prezzo del gas dimostra che senza quest’ultima avremmo sì avuto un po’ di inflazione, ma certamente non questa inflazione.

Ora, è chiaro che sulla speculazione la BCE non poteva intervenire direttamente. Però è altrettanto chiaro che se la sua presidente avesse messo in gioco tutto il prestigio della sua carica, accusando pubblicamente i governi della UE di comportarsi in modo irresponsabile, rischiando di impoverire tutta la popolazione europea, qualcosa sarebbe certamente cambiato. Mario Draghi l’avrebbe fatto.

Anzi, l’ha fatto. Solo che, non essendo più il capo della BCE, ma “solo” del governo italiano, chi non voleva dargli ascolto ha avuto gioco facile a bollare le sue parole come dettate dalla difesa degli interessi egoistici del suo paese. Salvo poi accorgersi – ma troppo tardi – che invece erano nell’interesse di tutti e che a difendere i propri interessi egoistici erano proprio quei paesi nordici che ci fanno sempre la morale, anzitutto la Danimarca (che voleva proteggere i profitti abnormi della sua Borsa) e la Norvegia (che è una grande esportatrice di gas naturale).

Con questo suo “peccato di omissione” la Lagarde, in perfetto stile FMI, ha contribuito, insieme ai nostri inetti governanti, a trasformare un problema relativamente facile in un disastro di difficile soluzione. Ma il suo capolavoro, di cui è invece l’unica responsabile, l’ha realizzato dopo, quando l’inflazione era ormai decollata e lei, per fermarla, non ha trovato di meglio che alzare sempre più, fino a livelli assurdi, i tassi di interesse, col consenso entusiasta della FED (la banca centrale USA), che ha fatto lo stesso, nonché della maggior parte degli economisti.

Poi, un bel giorno, lo scorso agosto, sono arrivati i dati negativi sull’occupazione negli Stati Uniti e improvvisamente sui mercati finanziari è esploso il panico e le Borse sono crollate, temendo l’arrivo imminente di una nuova recessione. Allora, di punto in bianco, sono esplose anche le critiche a BCE e FED per non avere ancora abbassato i tassi benché l’inflazione fosse già da tempo tornata a livelli quasi normali. Poi, però, il panico è passato (forse proprio grazie a questo cambio di rotta o forse per altri motivi meno chiari o addirittura senza nessun particolare motivo: con la folle finanza attuale succede spesso) e anche le critiche si sono ridimensionate, sicché l’abbassamento dei tassi sta sì avvenendo, ma in modo irragionevolmente lento, sia in Europa che in USA.

In questo modo, di nuovo in perfetto stile FMI, la Lagarde ha trasformato il disastro, che già aveva contribuito a provocare, in una catastrofe completa, da cui non siamo ancora usciti del tutto e da cui, comunque vada, usciremo tutti più poveri – o meglio, tutti tranne gli speculatori e i banchieri. Proprio come è sempre successo tutte le volte che il FMI ha cercato di “risolvere” a modo suo un qualsiasi problema in un qualsiasi paese del mondo.

L’unica parziale giustificazione che Miss BCE può accampare è che non si è trattato di una sua levata d’ingegno personale: come già detto, infatti, gran parte degli economisti ritengono il rialzo dei tassi di interesse una misura efficace contro l’inflazione, benché sia facile capire che non è vero.

Oggi ce lo siamo scordato, ma quando Mario Draghi pronunciò il  suo ormai proverbiale “Whatever it takes” non ci fu affatto il coro di consensi che oggi, a posteriori, gli viene tributato. Gran parte degli economisti erano infatti convinti che l’acquisto a tasso zero dei titoli del debito pubblico da parte della BCE avrebbe provocato un’enorme inflazione.

Probabilmente lo temeva anche Draghi, che è cresciuto alla loro stessa scuola. La differenza, però, è che, di fronte all’evidenza che altrimenti tutto il sistema sarebbe collassato, lui ha deciso di seguire le indicazioni della realtà anziché quelle della teoria (nel che consiste l’essenza del metodo scientifico e, più in generale, di qualsiasi metodo conoscitivo efficace): e la realtà l’ha premiato. La Lagarde, invece, sempre in perfetto stile FMI, ha deciso di andare contro la realtà pur di seguire la teoria (nel che consiste l’ideologia): e la realtà l’ha punita.

Il problema è che, insieme a lei, ha purtroppo punito anche tutti noi. Infatti, il rialzo dei tassi di interesse non è stato “soltanto” inutile: è stato (appunto) catastrofico.

Inflazione da domanda vs Inflazione da costi

Come aveva già spiegato Ricolfi nell’articolo prima citato, la logica di questa strategia è molto semplice (anche se sarebbe più esatto definirla semplicistica): se il denaro costerà di più, allora ce ne sarà di meno in circolazione, il che farà calare la domanda e, di conseguenza, i prezzi. Ma, notava Ricolfi, questo funziona solo se l’inflazione è causata da un eccesso di domanda rispetto all’offerta. Se invece l’aumento dei prezzi è determinato essenzialmente da un aumento dei costi, come è il caso attuale, «allora le politiche restrittive rischiano di essere poco efficaci, se non addirittura controproducenti». Ed è facile capire perché.

I prezzi, infatti, devono necessariamente essere superiori ai costi, altrimenti chi vende non guadagna nulla e va in rovina. Di conseguenza, se i prezzi sono saliti perché sono saliti i costi, far diminuire la domanda non farà diminuire i prezzi, bensì i guadagni dei venditori, alcuni dei quali falliranno, danneggiando l’economia, mentre altri cercheranno di rifarsi aumentando i prezzi e quindi facendo salire l’inflazione. Si innesca così un circolo vizioso, che non porta al calo dell’inflazione, ma a quello dell’economia, rischiando di provocare una recessione: guarda caso, proprio quello che si è temuto potesse accadere ad agosto.

Ma in realtà è molto peggio di così. Ricolfi, infatti, è stato ancora troppo moderato: le politiche restrittive non funzionano neanche per l’inflazione da domanda e sono sempre controproducenti, oltre che inefficaci.

L’equivoco nasce dall’espressione ingannevole “costo del denaro”. Se salgono i tassi, infatti, non è tutto il denaro che “costa di più” e, di conseguenza, “circola di meno”: gli stipendi, le pensioni, gli incassi dei commercianti e dei liberi professionisti – tutto questo e molto altro ancora “costa” e “circola” esattamente come prima. È solo il denaro preso a prestito che costa di più e che quindi potrebbe circolare di meno. Ma è davvero così?

Nella nostra società i prestiti concessi dalle banche rientrano tutti in poche e ben definite categorie:

  • per i privati cittadini: a) casa; b) automobile; c) elettrodomestici, d) mobili;
  • per gli imprenditori: a) avviamento dell’attività; b) espansione dell’attività in momenti di prosperità; c) salvataggio dell’attività in momenti di crisi.

Ora, un rialzo significativo dei tassi di interesse potrebbe indubbiamente scoraggiare chi vuole comprare casa (a meno che sia così ricco da potersi permettere di pagarla coi propri risparmi), dato che si tratta di un investimento molto impegnativo, che non si fa da un giorno all’altro e per il quale, data la sua entità, anche una differenza di pochi punti percentuali può tradursi in una grossa differenza in valore assoluto. E in effetti un certo calo del mercato immobiliare in questi due anni c’è stato, benché non di grande entità.

Molto più difficile è invece che si abbia un calo significativo nelle vendite di automobili, che non solo i ricchi, ma anche i semplici benestanti possono comprare senza bisogno di prestiti, mentre i poveri lo fanno solo quando è assolutamente necessario (principalmente per recarsi al lavoro) e in tal caso è verosimile che preferiscano tirare un po’ la cinghia piuttosto che rinunciarvi. Ancor più improbabile è che possano esserci effetti significativi sugli acquisti a rate di articoli per la casa, giacché, data la loro piccola entità, l’aumento in valore assoluto è risibile.

Quanto agli imprenditori, a rinunciare a chiedere prestiti a tassi elevati sarebbero principalmente alcuni di quelli che intendono espandersi, causando così un grave danno all’economia, mentre altri lo chiederanno comunque, scaricando il maggior costo sui prezzi e facendo così salire l’inflazione. Quelli con l’acqua alla gola, avendo come unica alternativa il fallimento, perlopiù il prestito lo chiederanno comunque e cercheranno di rifarsi aumentando i prezzi: chi ci riuscirà contribuirà di nuovo a far salire l’inflazione, mentre chi non ce la farà chiuderà bottega, con ulteriore danno per l’economia. Chi chiede il prestito per avviare l’attività, infine, perlopiù lo chiederà comunque, dato che in genere sono previste condizioni speciali che non vengono toccate dal rialzo dei tassi. Chi non si sentirà di farlo, invece, rinuncerà ad avviare un’impresa che avrebbe potuto portare benefici all’economia, danneggiandola quindi ulteriormente.

Inoltre, tutto ciò vale soltanto per chi il prestito deve ancora chiederlo. Chi l’ha già ottenuto, infatti, deve comunque restituirlo. Per quelli che hanno scelto il prestito a interesse fisso (che in questo momento dovrebbero essere la maggioranza, dato che veniamo da un lunghissimo periodo di tassi bassissimi) non cambia nulla, mentre chi ha scelto il tasso variabile dovrà pagare di più, impoverendosi a vantaggio delle banche. Di nuovo, alcune imprese non saranno in grado di pagare e falliranno, con ulteriore danno per l’economia, mentre altre, di nuovo, scaricheranno i maggiori costi sui prezzi, facendo anch’esse salire l’inflazione.

In definitiva, dunque, l’impatto diretto dell’aumento del costo del denaro sulla domanda sarà comunque limitato già di per sé e rischierà di essere ulteriormente ridotto o addirittura annullato dagli effetti perversi che produce.

Maggiore potrebbe essere l’impatto indiretto, nel senso che chi deve pagare maggiori interessi sui prestiti potrebbe sentirsi meno propenso a spendere per altre cose. Ma, anche se ciò dovesse produrre un significativo calo della domanda (il che è tutto da dimostrare), difficilmente potrebbe provocare un altrettanto significativo calo dei prezzi, perché, come abbiamo visto, tale calo della domanda sarebbe stato ottenuto facendo salire i costi a carico delle persone e delle imprese.

In altre parole, il rialzo dei tassi di interesse trasforma una parte dell’inflazione da domanda in inflazione da costi e tale parte diventa sempre maggiore quanto maggiore è il rialzo dei tassi.

Da ciò deriva il seguente paradosso: quanto più alziamo i tassi per scoraggiare la domanda, tanto più riduciamo l’incidenza della domanda sull’andamento dell’inflazione e, di conseguenza, anche l’efficacia del rialzo dei tassi.

Detto ancor più in sintesi: il rialzo dei tassi di interesse distrugge progressivamente l’efficacia del rialzo dei tassi di interesse. E poiché per ottenere un impatto significativo su un’inflazione elevata bisognerebbe alzarli di un bel po’, sembra inevitabile concludere che è molto dubbio che questa strategia serva a far scendere l’inflazione da domanda, mentre è certo che non farà scendere quella da costi e che in entrambi i casi provocherà gravi danni all’economia. E ora ditemi: con simili prospettive, chi, se non un pazzo, sceglierebbe questa strada?

La Lagarde l’ha scelta…

Magia vs Scienza

Ma l’inflazione sta finalmente scendendo, obietterà qualcuno. E questa non è forse la prova che la strategia di Miss BCE, nonostante tutto, ha funzionato?

Beh, no.

Questo ragionamento, infatti, è un tipico esempio della fallacia logica nota come “post hoc ergo propter hoc” (poiché una certa cosa segue ad un’altra, allora la prima è la causa della seconda), che secondo David Hume sarebbe il modo in cui la scienza stabilisce i nessi di causa ed effetto tra i fenomeni, che per questo egli riteneva invalidi.

Mi spiace dover criticare il nume tutelare della Fondazione che così generosamente ospita i miei sproloqui, ma questo è piuttosto il modo in cui funziona la magia: così, infatti, si può dimostrare qualsiasi cosa, il che è lo stesso che non dimostrare nulla. Non a caso, questo è il trucco che invariabilmente usano tutti i ciarlatani per truffare le persone fragili in cerca di facili rassicurazioni. Per farlo basta scegliere una qualsiasi strategia, seguirla fino a quando l’evento desiderato si verifica e a quel punto rivendicare alla nostra strategia il merito di averlo prodotto.

Naturalmente è possibile che le cose stiano davvero così. Ma anche no, perché l’evento in questione potrebbe essere stato prodotto da una qualsiasi altra causa. Per dimostrarlo, quindi, la mera successione temporale non basta, proprio come diceva Hume (che perciò su questo aveva ragione): bisogna inoltre spiegare esattamente perché l’effetto seguirebbe da quella che noi abbiamo identificato come sua causa e poi andare a vedere se questa spiegazione funziona, il che è esattamente ciò che fa la scienza (e perciò su questo Hume aveva invece torto).

Ora, abbiamo appena visto che la spiegazione della supposta efficacia del rialzo dei tassi di interesse non funziona. Sembra quindi inevitabile concludere che si tratta di un falso rimedio e che l’inflazione è scesa per i fatti suoi, essenzialmente perché era frutto di un fenomeno speculativo, per cui, sgonfiatosi quello, si è sgonfiata anche lei, anche se ci ha messo un po’ più di tempo (perché le dinamiche dell’economia reale sono molto più lente di quella della finanza e anche perché dentro ad essa c’era pure, come abbiamo detto, una parte di inflazione reale da effetto Covid).

Ma il meglio, cioè il peggio, deve ancora arrivare.

Ricchi vs Poveri

Anzitutto, infatti, chi ha più necessità di chiedere prestiti sono i poveri o gli imprenditori in difficoltà, che sono già i più colpiti dall’inflazione e ora vengono colpiti pure dal rialzo dei tassi. Al contrario, i ricchi non solo possono comprarsi ciò che vogliono coi propri soldi, senza chiedere prestiti e quindi senza essere toccati dal rialzo dei tassi, ma possono addirittura trarre vantaggio dalla situazione, investendo i propri risparmi in titoli del debito pubblico dal rendimento particolarmente alto o, meglio ancora, speculando sulle sue variazioni.

Ma c’è di più. L’aumento dei tassi, infatti, ha un’altra conseguenza devastante, soprattutto nella situazione attuale: fa aumentare gli interessi del già enorme debito pubblico degli Stati, facendolo ulteriormente crescere e rendendo di conseguenza sempre più difficile mettere in atto interventi a favore dei più poveri, che vengono così colpiti per la terza volta.

Pertanto, se tutto questo è vero, non è poi così importante stabilire se quella attuale è un’inflazione da domanda o un’inflazione da costi. Infatti, perfino se fosse un’inflazione interamente da domanda, il rialzo dei tassi voluto dalla Lagarde potrebbe avere avuto (nel migliore dei casi) solo un influsso molto limitato, ottenuto a prezzo di impoverirci tutti, tranne le banche e gli speculatori: cioè, esattamente quello che ha sempre fatto il FMI.

Se poi, come sembra evidente, questa è invece essenzialmente un’inflazione da costi, allora va ancora peggio, perché anche quella già abbastanza incerta possibilità di un piccolo influsso positivo scompare, mentre restano, ancor più amplificati, gli effetti negativi, che peggiorano la situazione di tutti, ma in particolare dei più poveri.

Che queste idee dissennate siano oggi difese soprattutto dalla sinistra “liberal” è un’ulteriore conferma di quella “mutazione” (per dirla con Ricolfi) che ha condotto la sinistra a diventare il partito della borghesia anziché del popolo.

Conclusioni

Dopotutto, Einaudi si sbagliava.  Esiste una tassa ancor più iniqua dell’inflazione, che colpisce tutti allo stesso modo, indipendentemente dal reddito: è il rialzo dei tassi di interesse, che colpisce tutti in modo inversamente proporzionale al reddito. E di questa scoperta dobbiamo ringraziare Miss BCE-FMI, ovvero la (poco) gentile signora Christine Lagarde.

Chiunque abbia letto i miei precedenti articoli (chi non li ha letti può sempre farlo ora) non può di certo pensare che stia dicendo quello che sto dicendo a causa di un’avversione ideologica per l’economia di mercato, viste tutte le cose terribili che ho scritto (e che confermo) sul comunismo e sul suo persistente e nefasto influsso sulla civiltà occidentale.

Ho perfino difeso (almeno entro certi limiti) le cattivissime multinazionali, cecando di spiegare perché è sbagliato pretendere che siano l’incarnazione stessa del Male.

Ma il FMI lo è davvero.

E il peggio è che non si tratta innanzitutto del FMI come istituzione (che pure ha colpe sue specifiche e gravissime), ma piuttosto delle idee folli su cui si basa, che purtroppo sono condivise da quasi tutti gli economisti – o almeno da quasi tutti quelli “che contano”.

Ne riparleremo.

Chi ha paura di Kennedy Ministro della Salute?

21 Febbraio 2025 - di Alberto Contri

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Per capire cosa sta succedendo in Italia e nel mondo, occorre occuparsi di tecnica della comunicazione, il che non sarebbe affare dei cittadini, che della comunicazione sono destinatari. Solo impegnandosi nel dare un’occhiata dietro le quinte si vengono finalmente a scoprire trame troppo frettolosamente archiviate come argomenti da complottisti. Quando oramai si dimostra sempre più vero l’aforisma secondo il quale il complottista è uno che spesso ci ha visto giusto prima degli altri. Lo aveva detto persino Andreotti: “A pensar male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca”.

Per non stare alle illazioni, conviene partire da un dato reale, e poi impegnarsi nell’esercizio di unire i puntini, come si fa nel famoso giochino della Settimana Enigmistica.

Dopo la vittoria elettorale di Donald Trump e il suo insediamento, nel Parlamento americano ha cominciato a scatenarsi un terremoto creato da nomine che fino a poco tempo fa erano considerate solo una minaccia.

Dopo Tulsi Gabbard insediata al vertice della CIA, giovedì il Senato Americano ha approvato definitivamente la nomina di Robert Kennedy Jr. come Segretario Generale della Salute. Ebbene, nei TG e nei cosiddetti grandi quotidiani italiani, nemmeno una virgola né un secondo sono stati impiegati sul tema.

Perché questa macroscopica omertà? È più che probabile che si tratti di paura per un vento americano che si è messo a soffiare in senso totalmente inverso a quello in cui aveva soffiato per anni.

Ovviamente anche e soprattutto il vento della scienza.

Solo pochi giorni fa il Corriere della Sera aveva pubblicato a pagina 17 un trafiletto nel quale si accennava al fatto che persino la CIA considerava probabile l’origine artificiale del virus Covid19. Di fatto nascondendo la notizia, dopo che per almeno due anni erano state spese paginate nel convincerci che si trattava di normale zoonosi, e che il Premio Nobel Montaigner era un pericoloso rimbecillito, nonostante avesse subito capito che la zoonosi non era possibile a causa dell’inserimento di quattro sequenze di DNA non presenti in natura in quel modo.

Così, noti virologi e grandi firme nostrane si sono egualmente affannati nel descrivere Bob Kennedy come un altrettanto pericoloso no-vax (anche se i figli li ha vaccinati…).

Adesso la paura di essere sbugiardati si sta facendo palpabile, e comincia a incombere il terrore di perdere la reputazione.

I motivi sono molti: si sanno già i nomi di chi andrà ai vertici delle istituzioni regolatorie americane, come NIH, CDC, FDA: si tratta di autorevoli accademici stigmatizzati e perseguitati dalla cerchia di Fauci per i loro dubbi critici sula gestione della pandemia e sulle gravi scorrettezze scientifiche commesse nella frettolosa approvazione di terapie sperimentali vendute come vaccini.

L’intenzione di Bob Kennedy è di ricostruire un corretto rapporto tra l’industria farmaceutica e i cittadini/pazienti, motivo per cui ha subito cominciato istituendo una Commissione che dovrà far luce sui rapporti tra riviste scientifiche, case farmaceutiche e media in generale. Su questo tema, un caso di scuola è costituito dalla demonizzazione dell’Ivermectina, un farmaco antiparassitario, molto usato anche in veterinaria. Appena alcuni medici sostennero di averne scoperto interessanti doti antivirali, fu pubblicato su Lancet un lavoro che stroncava tale ipotesi, ripreso a man bassa e a lungo da tutti i mass media. Qualche mese dopo l’articolo fu ritirato – ma in gran silenzio – in quanto si era scoperto che il lavoro era basato su dati scorretti. Ma i mass media continuarono come se nulla fosse con l’opera di demonizzazione, nonostante sempre nuove doti del farmaco venissero scoperte. Qual era il problema? che il farmaco potesse rivelarsi molto utile…ma costando pochissimo.

A questo proposito, grazie all’opera di Elon Musk , che non ha perso un secondo nel suo lavoro di scovare sprechi e abusi della pubblica amministrazione, è venuto a galla lo scandalo dell’Agenzia USAID. Si è scoperto che oltre a finanziare ovunque centinaia di ONG e di progetti Diversity&Inclusion molto cari ai democratici, si finanziavano nel mondo mass media, social media e fact-checkers perché si sostenesse la narrazione di chi stava al comando, scienza medica e climatica incluse. Qualche mese fa, chi era tenuto all’oscuro di cosa stava per succedere (grazie a sondaggi rivelatisi fasulli ma largamente diffusi) rimase molto stupito della lettera aperta in cui Marc Zuckerberg si scusava per aver fatto seguire a Meta gli ordini impartiti dal Governo Biden su cosa pubblicare e su cosa censurare.

Si scopre così che molti milioni di dollari dei contribuenti americani sono stati spesi per sostenere lo story-telling filo-woke e LGBTQ+ dei democratici, finanziando e condizionando anche l’industria dell’informazione e dell’intrattenimento.

Circola su X (Musk viene quotidianamente attaccato proprio per questa attività di trasparenza) la fotocopia di un contratto tra la DARPA e l’agenzia di informazioni Reuters per il finanziamento di un progetto dal titolo “Inganno sociale su larga scala 2018-2022”. E l’utente Massimo Montanari si domanda: “Avrà avuto a che fare con il Covid? Quindi l’avevano già programmato?”. Non può non colpire il fatto che, sicuri di agire nella totale impunità, intitolassero i documenti con il loro vero nome.

Domanda complottista quella di Montanari, figuriamoci, ma con più di una ragione.

Anche perché, dopo nemmeno due giorni si viene a sapere che Ursula von der Leyen ha fatto spendere 132 milioni di Euro della EU per ottenere buona stampa in vista delle elezioni 2024.

Davvero curioso che Elon Musk venga accusato di ingerenza nelle elezioni tedesche per aver intervistato su X e a spese sue la leader di AFD, mentre di fronte al rifiuto della Presidente della Commissione di rivelare i destinatari dei finanziamenti da lei pilotati, nessuna grande o piccola firma abbia scritto nulla.

Grazie a chi si è incaricato di chiedere la pubblicazione obbligatoria di questi atti, prima o poi avremo la misura di quanto sono effettivamente liberi i media sedicenti democratici. Che per ora si rifugiano nell’omertà, sicuramente perché il vento in arrivo dagli Stati Uniti diventerà ben presto una tempesta sulla testa di virostar, ministri, uomini di governo, membri delle istituzioni, che o sono stati ingannati o hanno accettato di farsi ingannare. Tertium non datur.

Sul discorso di Vance – Tradimento dei valori occidentali?

19 Febbraio 2025 - di Luca Ricolfi

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Sulla condotta della guerra in Ucraina da parte dell’Europa e degli Stati Uniti si possono avere le idee più disparate. Non è palesemente irragionevole la posizione di quanti paventano il pericolo che la Russia voglia annettersi altre porzioni dell’Europa, e dunque pensano che abbia fatto bene la Nato a fornire aiuto alla “resistenza” ucraina. Ma non è neppure palesemente irragionevole la posizione diquanti fanno notare che la precedente espansione a est della Nato, con l’obiettivo di includere l’Ucraina nel blocco occidentale. sia stata una mossa quantomeno azzardata.

Quello che invece, personalmente, ritengo sia stato irragionevole (e anti-democratico) è la chiusura a riccio che l’informazione main stream ha adottato dallo scoppio della guerra, silenziando quasi tutte le voci esplicitamente critiche. Sulla guerra, come pochi anni prima sul Covid, i grandi media hanno scelto di tappare la bocca alle voci dissenzienti con la linea ufficiale (vaccini + armi), costrette a rifugiarsi su testate minori o siti eterodossi, con conseguente perdita di ogni possibilità di incidere sul discorso pubblico articolando punti di vista alternativi o sollevando utilissimi dubbi.

È anche a causa di questa lunga stagione di conformismo e autocensura collettiva che l’Europa si trova oggi completamente spiazzata, quasi incredula di fronte al fatto che le cose non sono andate come aveva sperato, e come fino all’ultimo si è ostinata a credere che stessero andando. Eppure non ci voleva molto ad accorgersi che la guerra di Putin era solo il secondo tempo della guerra del Donbass, o che l’espansione della Nato ai confini della Russia poteva essere percepita come una minaccia, o che le sanzioni facevano più male a noi che alla Russia, o che la controffensiva ucraina era fallita da tempo. E non occorreva essere raffinati strateghi per capire che, trattando Zelensky come una star mediatica e un eroe (ricordate i parlamenti europei collegati e
plaudenti nei primi mesi di guerra?) e Putin come nient’altro che un criminale di guerra, diventava automaticamente impossibile ritagliarsi quel ruolo di mediatori e facilitatori di un compromesso da cui ora si viene brutalmente estromessi dall’attivismo del neo-eletto presidente degli Stati Uniti.

Alla luce di queste riflessioni, non vedo nulla di strano, o di sorprendente, nei toni e nella sostanza dei discorsi di Donald Trump e di James David Vance (suo vice) quando tendono a escludere l’Europa dalla trattativa con la Russia, stante il fatto che l’Europa stessa è rigidamente schierata dalla parte di uno dei due contendenti, non ha fatto tentativi credibili di fermare la guerra, e per di più è militarmente debolissima, se non irrilevante. Dove invece il discorso tenuto nei giorni scorsi da Vance mi appare paradossale, anzi spudorato, è quando accusa l’Europa di avere tradito i valori occidentali, e in particolare la difesa della libertà di parola, il principio del free speech. Ora, è vero che Vance ammette le responsabilità del suo Paese, ma il punto è che le scarica tutte sull’amministrazione Biden (2021-2024) e sul suo ricorso alla censura con il pretesto della lotta alla disinformazione e ai discorsi d’odio. Non si può sorvolare sul fatto che proprio negli Stati Uniti è nato il politicamente corretto, è negli Stati Uniti che, intorno al 2012-2013 (ben prima dell’era Biden), è avvenuta la sua mutazione in “follemente corretto”, è dagli Stati Uniti che l’Europa ha importato quel morbo. E l’aspetto più grave del fenomeno, i licenziamenti dei professori e l’intimidazione degli studenti non allineati al credo woke, non è certo venuto meno durante il primo mandato di Trump (2017-2020), che ne ha anzi visto una recrudescenza, sotto i colpi del MeToo e del movimento Black Lives Matter, esploso dopo l’uccisione di George Floyd.

Resta il fatto, comunque, che il discorso di Vance – al di là della grande questione del modo di terminare la guerra in Ucraina – ha posto sul tappeto un tema vero: quali siano, oggi, i “valori condivisi” dell’occidente, ammesso che ne esistano. Non solo il free speech, su cui è difficile dargli torto, ma anche la democrazia stessa, messa in forse – secondo Vance – dall’annullamento delle elezioni in Romania, ma anche dal mancato rispetto della volontà popolare in materia di politiche migratorie. E, aggiungerei io, dal mancato rispetto della medesima volontà popolare in America, ai tempi dell’assalto dei trumpiani a Capitol Hill.

Ma questo, evidentemente, Vance non poteva dirlo.

[articolo uscito sulla Ragione il 18 febbraio]

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