I partiti italiani: la crisi della Seconda Repubblica e l’epoca del rigore europeista

I partiti italiani: parte seconda

Il cambio di paradigma: tutte le strade portano a Berlino, ma passando da Bruxelles.

Come dovrebbe essere chiaro leggendo la prima parte di questo scritto, la cosiddetta seconda repubblica entra in crisi per effetto di una pressione esogena dell’Unione Europea, mossa a sua volta da interessi nazionali franco-tedeschi. Non dovrebbe tuttavia essere sfuggito ai lettori che sia Bruxelles che  Berlino e Parigi sono stati (e sono) in realtà gli esecutori (co-interessati) di un disegno più vasto, che affonda le radici nella volontà dei centri di investimento della finanza internazionale e delle grandi imprese multinazionali di adeguare anche i paesi del cosiddetto “sud Europa” a modelli economici e sociali funzionali alla globalizzazione planetaria dei mercati. Modelli che – nelle intenzioni dei detentori dei grandi capitali e di big dell’economia – richiedono che gli stati mettano al primo posto delle rispettive agende di politica economica (non più il benessere dei cittadini, bensì) la produttività del sistema, mettendo in campo, per un verso,  misure tese ad aumentare il PIL aggregato (dunque senza interesse alla distribuzione del benessere medio) e, dall’altro, la redditività dell’investimento in capitale di rischio.

La tesi dei fautori della globalizzazione, che però – come vedremo – in Italia non ha retto alla prova dei fatti, è infatti che la maggiore produttività sul lato dell’offerta, in un sistema di libero scambio tendenzialmente capace di allocare da sé in modo ottimale i fattori produttivi su scala internazionale, consentirebbe a sua volta un progressivo miglioramento del tenore di vita dei cittadini. Il che può essere (in parte) vero per i cittadini dei paesi in via di sviluppo, mentre non lo è invece per quelli dei paesi già economicamente avanzati.

Il modello economico e sociale – praticamente opposto a quello italiano – che la finanza internazionale intende far adottare all’Europa è in particolare quello elaborato progressivamente in Germania nella seconda fase del cancellierato di Angela Merkel (con la “grande coalizione” tra socialdemocratici e popolari) e può essere riassunto nelle famigerate “riforme Hartz”. Si tratta di un modello in cui lo stato resta sostanzialmente neutrale nei confronti della piccola e media impresa, mentre adotta una serie di misure per favorire la produttività delle grandi imprese a scapito della piena occupazione. Questo avviene in particolare attuando una significativa precarizzazione del lavoro dipendente (in Germania, ad esempio, con i cosiddetti “mini job”) e favorendo l’immigrazione per consentire una compressione delle dinamiche salariali. La ricetta in questione prevede anche una riduzione della spesa previdenziale, con aumento dell’età pensionabile e – in generale – misure che tendono all’erosione (o quanto meno alla difficoltà di accumulo) del risparmio privato, con forte incentivo all’indebitamento dei cittadini verso il sistema bancario privato. Il quadro viene completato, sul versante della spesa sociale, con una riduzione degli investimenti infrastrutturali e dei servizi di welfare pubblico, a fronte della previsione di misure assistenziali – mediante sussidi pubblici diretti di integrazione al reddito – ai lavoratori a basso reddito e agli inoccupati.

L’effetto ultimo perseguito da questa politica economica è generare una crescita economica poco inflattiva (che garantisce la “stabilità dei prezzi”, vera ossessione per i tedeschi e – di conseguenza – dell’UE), ma a fronte di una depressione della domanda interna, compensabile solo mediante un aumento della quota di export nella bilancia commerciale degli stati. Tutto questo si traduce, per gli stati che adottano questo modello, nella necessità di esercitare una forte aggressività commerciale in termini di esportazioni. Questi paesi, infatti, hanno in sostanza la necessità di importare, mediante l’export di beni e di capitali, la ricchezza che non può più essere generata dalla domanda interna, depressa dalle politiche economiche volte a limitare salari e capacità di accumulo di risparmio in capo ai cittadini.

Si tratta di stati che, dunque, di fatto si vedono costretti a usare  l’export come strumento per sottrarre ad altri stati (quelli verso cui esportano) la ricchezza prodotta in questi ultimi. Quello tedesco è dunque un sistema per certi versi assimilabile a quello dell’epoca coloniale, dato che gli stati economicamente avanzati vengono messi in competizione tra loro sul terreno di chi “preda” meglio – con l’export di beni e capitali – le economie altrui. Questo spiega del resto perché da alcuni anni è in corso un vasto conflitto internazionale tra stati come Germania e Cina (che perseguono simili politiche e – di conseguenza – generano enormi surplus commerciali) e stati come gli Stati Uniti (che, specie durante l’amministrazione Trump, hanno invece mostrato una politica più sensibile allo sviluppo, e dunque alla protezione, del mercato interno).

La cosa importante da capire è tuttavia che, sul versante interno, la crescita generata (ma sarebbe meglio dire “importata”) dagli stati che adottano il modello in questione, per quanto più moderata, ha come conseguenza, rispetto al modello keynesiano, di generare benefici economici maggiori a favore dei detentori dei capitali delle grandi imprese e ai loro finanziatori, ma a scapito dei lavoratori, specie del settore privato. Si tratta inoltre di un modello che favorisce la concentrazione delle attività d’impresa in poche imprese di grandi dimensioni (dunque è un sistema che tende a creare concentrazioni e oligopoli) e in cui la classe media è assai più ristretta, rispetto ai paesi che adottano il modello keynesiano, in termini numerici. I cittadini benestanti, nei sistemi alla tedesca, sono infatti molto meno numerosi in percentuale rispetto al modello italiano (ma sono assai più ricchi) mentre tutti gli altri – ossia la grande maggioranza delle persone – non possono considerarsi realmente benestanti, in quanto non beneficiano di livelli di reddito sufficienti né per accumulare un significativo risparmio privato né per acquistare quantità significative di beni e servizi differenti rispetto a quelli funzionali alla soddisfazione dei bisogni di base. Ma – soprattutto – il modello tedesco praticamente annulla ogni spazio per l’ascensore sociale, fondandosi sulla necessità di mantenere basso il reddito dei lavoratori, specie se dipendenti, mediante la conservazione di un certo tasso di disoccupazione.

Può dunque anche essere vero anche che ai giorni nostri – ma solo dopo che, da Monti in poi, è cambiato il nostro modello economico per adeguarsi a quello tedesco – l’operaio italiano stia peggio di quello tedesco, ma non è vero che l’operaio tedesco di vent’anni fa (ossia quando l’Italia era libera di portare avanti il proprio modello di politica economica) – in termini di ricchezza reale – stesse meglio di quello italiano. Anzi era vero il contrario. Ma vediamo di approfondire il confronto tra modello tedesco (ma ormai europeo) e italiano.

Ma la questione di cui forse ci si rende meno conto – quanto meno a livello politico (e non solo in Italia) – è che gli anche stati che adottano alla perfezione il modello tedesco (Germania per prima), riducendo la capacità dei loro cittadini di generare risparmio privato, finiscono per divenire sempre più dipendenti (oltre che dalla “predazione” delle altrui economie mediante l’export, anche) dai grandi investitori privati per poter finanziare il debito pubblico medianti i propri titoli di debito. Si tratta insomma di una politica che forse può portare vantaggi a breve ma che, dal punto di vista dei governi nazionali, appare miope, in quanto – da un lato – mette le economie nazionali in competizione tra loro (dunque generando conflitti economici tra stati invece che maggiore integrazione) e – dall’altro lato – mette il debito pubblico di tutti gli stati che vi aderiscono nelle mani dei grandi centri di potere finanziario privato, assoggettando le scelte politiche ciascuno stato (anzi, in special modo di quelli più “virtuosi” secondo il modello in questione) ad una dipendenza dalle scelte di investimento delle finanza privata. Si dice spesso che la Germania, tramite l’UE, sta mettendo il “cappio” del rigore agli stati del sud Europa, ma in realtà è anche la stessa Germania che – accettando di perseguire certe politiche – hanno messo la testa nel cappio della grande finanza. Quando avranno finito di erodere il tenore di vita dei cittadini del sud Europa, i grandi investitori inizieranno a regolare i conti anche con quelli del nord. E i governi dovranno tacere ed eseguire. E’ dunque solo questione di tempo prima che la globalizzazione colpisca anche al di là delle alpi. E’ dunque l’UE il vero esecutore degli interessi della finanza internazionale, non la Germania e tanto meno la Francia, stati che invece – accettando il TUE e il TFUE nella speranza di fare il proprio interesse –  si sono legati mani e piedi a determinati centri di potere economico, di fatto mettendosi in una posizione di sudditanza rispetto ad essi.

La politica mercantilista dell’UE è insomma un perfetto esempio di divide et impera messo in campo dai grandi poteri economici anche ai danni degli stessi stati che, apparentemente, ne beneficiano. Alla fine – con questo sistema – perderanno tutti quanti, tranne i padroni dei grandi capitali. Gli europeisti e i rigoristi di vario genere sparsi per l’Europa questo paiono non capirlo oppure, se lo capiscono, forse hanno interesse a che non lo capiscano le maggioranze votanti. Del resto i politici (quanto meno in Europa) sono preoccupati solo dall’esito dei sondaggi e delle prossime elezioni, non certo dall’interesse oggettivo del loro paese a lungo periodo. Per vincere alle prossime elezioni si alleerebbero dunque anche con il diavolo, cosa che – come si è visto – stanno facendo.

Il mercantilismo nord-europeo del terzo millennio: neo-liberismo all’americana o capitalismo assistito alla pechinese (condito da qualche diritto civile)?

Mentre il modello tradizionale italiano può tranquillamente essere definito di matrice keynesiana in quanto volto a stimolare la domanda interna mediante risorse ed interventi pubblici, il modello tedesco – è bene chiarirlo subito – ben difficilmente può essere definito liberista in senso classico, ma è semmai una forma di dirigismo economico neo-mercantilista, volto cioè a usare le risorse pubbliche e l’intervento dello stato per promuovere, per un verso, la maggiore produttività delle grandi imprese (specie in funzione dell’incentivo all’export di beni e servizi finanziari) e, per altro verso, una più efficace remunerazione del capitale di rischio e degli investimenti del settore finanziario.

Nel sistema in questione, insomma, i lavoratori – ma anche piccoli imprenditori e professionisti – sono messi peggio rispetto a un “vecchio” sistema liberale o liberista, in quanto – nel sistema tedesco – lo stato in realtà investe risorse nel sistema (dunque ha bisogno di spendere e, di conseguenza, di mantenere alta sia la pressione fiscale, specie sul ceto medio, sia l’emissione di titoli del debito pubblico acquistati dal mercato finanziario), ma lo fa appunto allo scopo di favorire il capitale e la grande impresa a scapito del lavoro e della piccola impresa. In questo sistema, dal capitalismo di stato a scopo di welfare non torniamo insomma al vecchio laissez faire liberista, ma passiamo a un vero e proprio capitalismo assistito dallo stato, in cui il lavoro (dipendente e indipendente) viene (tar)tassato al fine di favorire spesa pubblica che va a favore della grande impresa e, sopratutto, del sistema creditizio e finanziario.

La differenza fondamentale tra il dirigismo all’italiana e quello alla tedesca è infatti che, nel primo, lo stato – quando interveniva creando limiti e vincoli ovvero impiegando risorse pubbliche – lo faceva puntando anche allo stimolo della domanda interna con aumento del benessere medio e diffuso dei cittadini, laddove, nel secondo, l’investimento pubblico e l’interventismo dello stato nell’economia – pur essendo altrettanto massiccio (e dunque costoso in termini fiscali) – si indirizza a favore dell’offerta, perseguendo l’efficienza del sistema produttivo in termini aggregati e la remunerazione dell’investimento, mentre – sul versante sociale e del lavoro – taglia il welfare propriamente detto, limitandosi a fornire sussidi assisstenziali diretti, dunque redditi di cittadinanza et similia, per compensare il disagio economico e sociale questo sistema tende a provocare in misura maggiore rispetto ai sistemi più keynesiani.

Anche se dunque oggi si fa un grande parlare di deriva “neo-liberista”, specie negli ambienti marxisti e del socialismo democratico, la mia impressione è che quella del neo-liberismo sia un’etichetta apposta forse troppo facilmente a un modello più complesso e che, per quanto indubbiamente intenda favorire il capitale rispetto al lavoro, di liberista ormai ha davvero ben poco. L’uso (e abuso) di questo termine avviene infatti essenzialmente per giustificare la l’idea secondo cui un puro e semplice ritorno alle antiche ricette keynesiane del dopoguerra sarebbe sufficiente per superare il problema della crisi economica provocata in Italia dal rigore europeista e montiano. Molti tra i keynesiani di oggi (specie tra quelli che economisti non sono, con una particolare frequenza tra i giuristi) sostengono infatti che il sistema attuale sarebbe neo-liberista perché così possono più “comodamente” affermare che basterebbe applicare oggi l’ortodossia keynesiana – quella studiata per porre rimedio alla depressione post-bellica del 1945 e che ha trovato ipostasi normativa ad esempio nella costituzione italiana e nella politica perseguita dalla democrazia cristiana nella prima repubblica – per risolvere i problemi, in termini di distribuzione del benessere e di scarsa crescita, che sta provocando nel nostro paese la progressiva instaurazione del sistema economico (mercantilista e deflattivo) definito nei trattati unionisti europei di Lisbona e Maastricht, insieme alla moneta unica, che rappresenta l’altro fattore (questa volta monetario) che favorisce il mercantilismo tedesco.

Sennonché pare a chi scrive che la dialettica storica non abbia mai avuto il tasto reverse e che, di conseguenza, la pretesa di superare il modello proposto dall’UE con una “restaurazione” tale e quale di un modello nazionale che pure ha indubbiamente funzionato bene in passato sia operazione destinata a fallire per il semplice fatto che il sistema attuale ha in certa misura assorbito alcuni elementi di quello precedente. La mia impressione è infatti che, se è vero – come a me pare vero – che il sistema attuale non si riduce a una pura e semplice restaurazione del paradigma liberista, la logica conclusione è che una pura e semplice “contro-restaurazione” della politica economica a suo tempo attuata nella prima repubblica non rappresenta un’alternativa proponibile.

L’impressione è in altre parole che il “neo-liberismo” sia un ologramma creato dai nostalgici della prima repubblica – in sostanza facendo passare per neo-liberista qualunque modello economico differente rispetto a quello dell’epoca d’oro dello sviluppo economico italiano – in modo da avere a disposizione un bersaglio perfetto per poter riproporre tali e quali i tradizionali argomenti di Keynes. Temo tuttavia che una simile operazione – come tutte quelle che utilizzano la tesi per definire l’ipotesi – implica il rischio di combattere un nemico più immaginato che reale. Le soluzioni keynesiane classiche erano state elaborate dal brillante economista britannico (e hanno funzionato assai bene in Italia) per ovviare alle carenze del “vero liberismo” (quello che ha preceduto la crisi del 1929) e in una situazione in cui vi era molto da ricostruire anche sul piano materiale (nel dopoguerra), con la conseguenza che si tratta di soluzioni che – per funzionare anche contro il neo-mercantilismo europeo dell’ultima parte del XX secolo, epoca in cui le varie crisi economiche succedutesi nel tempo hanno intaccato il benessere e le garanzie dei lavoratori senza demolire gli edifici e le infrastrutture che quegli stessi lavoratori potrebbero essere chiamati dallo stato a ricostruire – richiedono probabilmente una rimeditazione.

Si pensi – per fare un esempio – alla nota tesi attribuita a Keynes circa l’opportunità di creare, in momenti di grave crisi economica, impiego pubblico al limite anche solo per scavare e riempire buche (stiamo parlando di posti pubblici creati al solo scopo di generare un reddito per sostenere la domanda interna): il sistema Hartz – dunque quello che in tanti si ostinano a chiamare neo-liberista – ha certamente tenuto presente la questione del sostegno alla domanda interna in momenti di debolezza ciclica, ma lo ha risolto sorpassando in certo senso “a sinistra” lo stesso Keynes, vale a dire proponendo al lavoratore inoccupato o al lavoratore a basso reddito forme di reddito di cittadinanza o altri sussidi diretti e permanenti di integrazione al reddito.

E’ chiaro allora che su questo punto occorre capire che la soluzione di Keynes (una volta esclusa ogni considerazione etica sul valore del lavoro come strumento di realizzazione personale, che in economia lascia il tempo che trova) può essere proposta come alternativa preferibile a quella offerta dal mercantilismo tedesco solo a condizione che si possa sostenere che, nel singolo caso, il posto pubblico presenta una qualunque forma di utilità economica ulteriore rispetto al puro e semplice effetto di dotare di reddito spendibile un disoccupato. Altrimenti finisce che la soluzione (mercantilista) del sussidio di stato garantito al non lavoratore verrà preferita non solo dalle imprese ma anche dagli stessi (non) lavoratori. Analogamente deve dirsi della questione della compressione dei salari, che un keynesiamo risolve con interventi normativi tesi a promuovere la piena occupazione (ad esempio rendendo più difficili i licenziamenti per motivi economici), che a sua volta innesca una dinamica crescente dei salari, laddove il neo-mercantilismo tedesco tratta la questione compensando direttamente con integrazioni e sussidi pubblici i lavoratori a basso reddito.

Anche chi dunque si riconosce nella tradizione socialista – o, economicamente, nella dottrina keynesiana – non può limitarsi a proporre un nostalgico e generico ritorno dell’età dell’oro della prima repubblica democristiana come panacea di tutti i mali moderni, ma deve assumersi il compito di ripensare Keynes alla luce dell’oggi, perché quelli che una volta erano i “liberisti”, vale a dire i grandi capitalisti e le rispettive corti imprenditoriali e politiche, hanno saputo ripensare lo stesso capitalismo andando ben oltre il tradizionale paradigma liberale. Il punto è che i soggetti che controllano le leve del capitalismo finanziario del terzo millennio, non sono affatto dei neo-liberisti, ma – semmai – sono dei capitalisti che si sono fatti furbi a sufficienza per capire che prestare montagne di soldi allo stato stato, accettando di buon grado alcune misure “sociali” (che poi sono quelle assistenziali, che risultano più convenienti per loro) poteva essere nel loro interesse (non solo più del tradizionale modello di stato sociale keynesiamo) ma anche più dell’antico dogma liberale e liberista del “lasciar fare” ai rapporti di forza economica.

Non deve allora stupire più di tanto che gli stessi grandi capitalisti che hanno messo nel mirino – e, per ora, nel sacco – il la socialdemocrazia keynesiana del sud Europa siano quegli stessi soggetti che investono ingenti risorse nel (e guardano con estremo interesse al) modello di sviluppo economico cinese, che naturalmente tutto è tranne che liberista. Il dubbio che infatti mi sta venendo negli ultimi tempi è che il vero nemico del benessere diffuso dei cittadini (cui mirava Keynes, che – è bene ricordarlo – per quanto criticasse il liberismo ma non apprezzava affatto le idee di Marx) sia rappresentato da una sintesi dialettica – attuata da stati ormai connotati da pesanti tratti etici (in senso hegeliano-gentiliano, dunque ideologicamente fascisti) – tra il capitalismo finanziario globalista e l’ugalitarsimo della povertà assistita di stampo marxista. Si tratta di uno scenario che dovrebbe risultare indigesto sia ai socialdemocratici (veri) quanto ai liberali (veri). E invece vedo i liberali che puntano il dito solo contro “la spesa pubblica” mentre i socialdemocratici se la prendono solamente con “il neo-liberismo”, facendo dunque la figura – entrambi – dei capponi di manzoniana memoria.

Il concreto rischio che invece io vedo per l’Europa (e in particolare per l’Italia, che in Europa – nonostante il suo peso storico ed economico – è da tempo trattata come stato periferico di seconda categoria) non è quello di una trasformazione in una specie di nuova America (intesa come far west neo-liberista), ma quello che la demolizione del benessere del ceto medio allargato – specie della piccola e media impresa, dei commercianti e delle attività professionali – trasformi il paese in una piccola pseudo-Cina in cui una ristretta elite politica ed economico/finanziaria controlla la società per mezzo di un pachidermico e soffocante apparato burocratico pubblico e di poche grandi corporation private che occupano la gran parte delle attività economiche del paese, mentre i cittadini sono tutti quanti ugualmente poveri e – rispetto ai cinesi veri – possono tutt’al più esercitare qualche diritto civile in più (ma solo se poco “costoso”), come protestare un po’ sui social network, esercitare il culto che preferiscono, manifestare pubblicamente le più disparate tendenze sessuali, avere a disposizione qualcuno da denunciare se subiscono un danno (e magari denunciare i propri genitori quando tentano di educarli), ma – soprattutto – giocare all’antifascismo per poi poter correre felici a votare in massa i partiti che il sistema dei mass media dipingerà a reti e titoli unificati come i soli davvero impegnati in continue “riforme” verso le splendide e progressive sorti dell’unione e fratellanza tra i popoli europei, in modo da tnere lontani i perfidi sovranisti e populisti.

La crisi della seconda repubblica: i mandanti

Tornando al nostro excursus storico, abbiamo visto che – a cavallo del secondo millennio – la grande finanza internazionale sente l’esigenza, cessata la minaccia sovietica dell’instaurazione manu militari del socialismo reale, di “normalizzare” l’Europa al nuovo vangelo della globalizzazione. Siccome però i modelli (quelli sì, davvero neo-liberisti) adottati in alcuni paesi emergenti ben difficilmente sarebbero stati digeriti facilmente nell’Europa continentale, ecco che – nel vecchio continente – si è optato per il modello mercantilista e oligopolista di matrice teutonica. Questo tentativo di riassetto regionale trova peraltro un preciso suggello giuridico – e una conferma sul piano della verità storica – nel passaggio dalla vecchia CEE (sostanzialmente una zona di libero scambio in cui l’Italia poteva ancora giocare con regole proprie la partita economica per il benessere dei suoi cittadini) alla nuova UE, rigida gabbia dirigista economica e monetaria governata dalle arcigne regole dei trattati di Lisbona e Maastricht e dalle norme sulla moneta unica, dunque da ricette deflattive, rigoriste e volte esclusivamente al perseguimento della stabilità dei prezzi e della competitività con taglio della spesa sociale, e dunque con inevitabile compressione dei salari medi, dei diritti dei lavoratori e di ogni forma di spesa espansiva (ma – è bene ricordarlo ancora – non della spesa pubblica tout court, che può restare alta a patto che venga convogliata verso iniziative utili alle grandi imprese e al sistema creditizio e, sul versante opposto, verso le forme di welfare più assistenziale).

L’avvio di una nuova fase politica post-berlusconiana in Italia (da Monti in poi) va dunque collocato in questo quadro complessivo, trovando in particolare la propria ragion d’essere nella necessità per la finanza e il grande capitalismo nazionale di chiudere la fase della convergenza politica verso il centro causata dall’inatteso ingresso in campo del Cavaliere e dall’adozione di sistemi elettorali maggioritari: fase che – attribuendo ancora un notevole peso politico agli interessi del ceto medio allargato – aveva rallentato e ostacolato l’adeguamento del nostro paese ai modelli del nord-Europa. Quella fase interlocutoria – essendo nel frattempo già andato in porto il grosso dello shopping straniero sulle grandi imprese di stato e sulle partecipate pubbliche italiane – poteva (e dunque doveva) finire.

Ma questa volta l’obiettivo era (e ancora è) quello di far piazza pulita (non più solo dei referenti politici del ceto medio italiano, vale a dire quel che si era a suo tempo tentato di fare con tangentopoli, ma che la discesa in campo di Berlusconi aveva poi impedito), ma dello stesso ceto medio allargato del paese, il cui risparmio e benessere dovevano essere demoliti e che – quanto meno nella sua componente media e bassa – doveva essere poco a poco riproletarizzato (per poi poter essere sussidiato e dunque meglio controllato politicamente) a colpi di “riforme” modellate sulla falsa riga della dottrina Hartz.

L’Italia come colonia del nord Europa: esecutori, complici e vittime designate.

Questo essendo il piano per l’Italia del post berlusconismo, il problema per i “poteri forti” era capire come – e soprattutto con chi – attuarlo. In realtà i soggetti interessati alla demolizione del benessere italiano non mancavano affatto. La decostruzione del modello economico italiano e del ceto medio allargato era infatti anzitutto nell’interesse strategico della Germania, che poteva in tal modo affossare l’industria nazionale (specie piccola e media) nel manifatturiero, dunque il suo concorrente più pericoloso, creando in compenso in Italia un buon mercato per l’export dei suoi prodotti (ad alto valore aggiunto) e servizi finanziari, ma continuando a importare semilavorati e componenti a prezzi ancora più convenienti. La Francia, a sua volta, poteva sfruttare la deflazione italiana e la crisi dell’industria per partecipare alla spartizione, insieme alla finanza di oltre oceano, delle ultime eccellenze nazionali rimaste in piedi nel settore privato.

Ecco dunque spiegato perché l’Unione Europea iniziava spingere sempre più forte per imporre al nostro paese un’agenda fondata sulla progressiva “normalizzazione” del paese (e del sud Europa in genere) al modello tedesco, sia mediante la moneta unica (che impedisce svalutazioni competitive alle economie più deboli mentre consente a quelle forti di operare con una moneta svalutata, dunque colpendo l’export delle prime e favorendo quello delle seconde anche verso le prime), sia con regole come il pareggio di bilancio e il patto di stabilità (che scoraggiano ogni politica economica espansiva e di sostengo alla domanda interna) sia infine portando avanti una politica di “aiuti” consistenti nella concessione di prestiti a condizioni finanziariamente vantaggiose, ma rigorosamente condizionati all’adozione di misure di politica economica – ovviamente tutte quante in senso “teutonico” – indicate dagli stessi organi UE.

Siccome però l’UE non poteva obbligare l’Italia a entrare “di forza” nel sistema della moneta unica, o nel patto di stabilità o in tutti gli altri marchingegni economico-giuridici escogitati per imporle il modello socio-economico ispirato alla dottrina Hartz, occorreva la collaborazione di una primaria forza politica che, dall’interno, consentisse di attuare il piano. E – dopo un primo momento di sostanziale equidistanza – la scelta cadde alla fine sul Partito Democratico.

Per tanti anni il consenso all’adesione alle regole europee (e il consenso alle privatizzazioni) era infatti stato ampiamente bipartisan: tanto il “primo” centrodestra berlusconiano quanto il “primo” centrosinistra prodiano avevano accolto con entusiasmo un po’ tutto quel che proponeva Bruxelles. Quando tuttavia – specie in seguito all’aggravarsi della crisi finanziaria del 2008 – iniziarono a mostrarsi con chiarezza le conseguenze negative, sul tenore di vita del ceto medio e sull’economia nazionale, della scelta di aderire alla moneta unica e ai vincoli imposti dalle regole europee, il centrodestra – specie nella sua componente leghista, ma anche con alcuni ministri di spicco di Forza Italia come Tremonti – iniziò a manifestare i primi dubbi sull’effettiva utilità per il nostro paese di una adesione senza se e senza ma ai modelli economici imposti dall’adesione all’Euro e ai trattati di Lisbona e Maastricht.

Con tutta probabilità Berlusconi non era antieuropeista per principio, ma semplicemente si era reso conto a posteriori che una parte del suo elettorato di riferimento – in particolare piccola e media impresa, professionisti e artigiani – non stava traendo affatto i benefici promessi dalle ricette europee (e dall’adesione all’Euro), anzi risultandone danneggiata. Questo aveva indotto il centrodestra italiano a iniziare a sollevare timidamente il tema sui tavoli negoziali europei, promuovendo una discussione su possibili modifiche alle regole dell’austerità, onde renderle più compatibili con il modello di sviluppo economico italiano (e del sud Europa in generale). A quel punto – resisi conto del fatto che il centrodestra non avrebbe più accettato senza fiatare l’agenda di normalizzazione dell’Italia – l’UE, naturalmente spalleggiata dagli ambienti finanziari internazionali, decideva di far fuori quello che ormai era diventato un personaggio potenzialmente ostile.

Dopo che Tremonti aveva proposto alcune modifiche alle regole UE, chiedendo di consentire alla Cassa Depositi e Prestiti italiana di concedere aiuti pubblici alle imprese in modo analogo alla KFW tedesca o alle banche dei Laender (ossia potendo non conteggiarli come debito pubblico), dunque mostrando per fatti concludenti che il centrodestra non avrebbe più accettato regole unioniste create ad hoc per favorire Germania e Francia, veniva messa in campo la famosa manovra speculativa di vendita sui titoli di stato italiani (a quanto pare partita proprio dalla stessa Bundesbank oltre che dai signori di Wall Street) che – anche grazie alla celebre “lettera” spedita al Governo nazionale dalla BCE – generava la crisi di spread che costringeva il governo Berlusconi a dimettersi.

Quel che è forse meno noto, ma invece assai importante politicamente, è che, a quanto pare, in questa manovra (che ormai viene ritenuto da una parte dei commentatori un vero e proprio “golpe finanziario”) avrebbe avuto una parte l’allora inquilino del Quirinale, Giorgio Napolitano, il quale – da politico di lungo corso abituato ad agire in complessi contesti internazionali – aveva probabilmente intuito che prendere decisamente le parti di UE, Francia e Germania in quella crisi avrebbe consentito al suo partito, ossia al PD, di assicurarsi l’appoggio di forze (non solo politiche) che gli avrebbero garantito un grandissimo potere di influenza sulla politica italiana nei futuri decenni. E l’intuizione politica di Napolitano si sarebbe rivelata quella giusta, perché così accadde, seppure in modo progressivo.

La “scommessa europea” del PD: sacrificare il benessere del ceto medio (anche di sinistra) senza perdere troppi consensi.

Per comprendere le ragioni profonde della mossa politica del PD occorre ricordare che il keynesianesimo italiano della prima repubblica aveva creato almeno tre diversi raggruppamenti sociali assai numerosi (e dunque dotati di peso elettorale) all’interno di quello che abbiamo definito come ceto medio allargato: si tratta di dipendenti pubblici, pensionati e lavoratori sindacalizzati delle grandi imprese. Tre categorie che – durante la prima repubblica – votavano o la vecchia sinistra comunista o le componenti di sinistra della DC (che poi erano confluite nel PD, specie nella corrente Prodiana). Dunque la linea politica del PD – sia nella seconda repubblica, ma con una decisa accelerazione da Monti in poi – è stata in sostanza quella di garantirsi l’appoggio dell’UE (e dunque di Germania e Francia così come della grande finanza e impresa multinazionale) abbandonando l’”ecumenismo politico” democristiano – che aveva garantito la prosperità di un vasto ceto medio esteso a categorie sociali anche molto diverse – continuando a tutelare solo la parte di quel ceto medio che in maggioranza già votava le forze e correnti politiche poi confluite nel PD. Il tutto facendo pagare il conto economico e sociale dell’operazione alla parte di ceto medio che, invece, solitamente non votava quelle forze. Si tratta di una scommessa politica che – è bene dirlo – appare assai azzardata.

Dove porta il rigore “alla tedesca”, quando viene lasciato libero di agire sino in fondo per normalizzare sistemi che erano keynesiani, lo ha infatti ormai dimostrato la “gestione europea” della crisi greca, che è stata condotta a livello nazionale – anche in questo caso (e, aggiungo io, non a caso) – da partiti della nuova sinistra greca (dunque da omologhi del PD). Ebbene: le “riforme” imposte dell’UE alla Grecia – e fedelmente attuate dalla “neosinistra” greca – hanno prima messo in ginocchio, con la leva fiscale, le piccole imprese e i professionisti, poi hanno precarizzato i lavoratori dipendenti con pesanti tagli salariali del settore privato. Nel frattempo la Germania ha fatto man bassa a prezzi di saldo di tutte le imprese greche importanti nei settori strategici, specie nel settore pubblico. In seguito – e questo è appunto il pezzo della storia che il PD non riesce a vedere (o magari semplicemente non vuole mostrare ai suoi elettori storici) – sono cominciati i tagli delle pensioni per finire con le riduzioni agli stipendi pubblici e i tagli ai servizi pubblici con conseguenti licenziamenti anche nel settore pubblico. Se al precedente greco aggiungiamo poi il fatto che il PD – con una politica migratoria sempre più improntata alle frontiere aperte anche per i semplici migranti economici – sta importando attivamente un “esercito industriale di riserva” di marxiana memoria (dunque lo strumento ideale per comprimere i salari dei lavoratori autoctoni), chi vota PD – anche se appartiene ad una delle poche categorie ancora “protette” da quel partito – dovrebbe forse iniziare a farsi qualche domanda in più.

Ci si potrebbe chiedere ad esempio se il PD non sia caduto nel medesimo errore – anche se di segno opposto – commesso da Berlusconi quando ha accettato di partecipare alla stagione delle liberalizzazioni, non capendo cioè che benessere di una delle due parti del ceto medio allargato (nella specie, per il PD, quella “di sinistra”, rappresentata da dipendenti pubblici, pensionati e lavoratori sindacalizzati delle grandi imprese) dipende in ampia misura dalla capacità dell’altra parte di quello stesso ceto medio (vale a dire quella “di destra”: piccole imprese, professionisti ma anche da una parte dei dipendenti del settore privato) di creare ricchezza diffusa e, dunque, di sostenere una forte domanda interna.

Questo gioco delle parti era infatti il cuore della “sintesi” che aveva mantenuto in equilibrio – e fatto prosperare – l’Italia durante l’epoca d’oro democristiana: governo e potere politico nazionale a forze di centro-destra, ma compensato da una parte della magistratura ideologicamente schierata a sinistra a tutela dei diritti dei lavoratori, da una forte presenza comunista negli enti locali e da una serie di “poteri di fatto” – sindacali, culturali e nel mondo dell’informazione – pure in mano alla sinistra, che agivano appunto come “calmieratore” a favore delle classi meno agiate. Il punto è che la cancellazione per via giudiziaria di quel centro-destra aveva aperto la strada per una concentrazione di tutto il potere – istituzionale e di fatto – nelle mani degli eredi di quella sinistra, di fatto sbilanciando il sistema e gettando le basi per una frattura dell’equilibrio tra le varie componenti del ceto medio allargato, che avrebbe portato ad una profonda crisi del paese. Questa frattura – e dunque le conseguenze negative sul sistema economico e sociale nazionale – sono state in prima battuta scongiurate proprio dalla discesa in campo di Silvio Berlusconi, che aveva provocato una alternanza al governo del paese tra centro-destra e centro-sinistra capace di evitare che una sola delle due parti del ceto medio allargato finisse per essere impoverita eccessivamente. Abbattuto Berlusconi, però, la frattura si è stata consumata, per effetto della traduzione in azione politica di quella feroce campagna di divisone e di odio sociale che – per tutta l’epoca di Berlusconi – la sinistra non ha mai cessato di alimentare nel suo elettorato.

A voler essere maligni, si potrebbe dunque supporre che il PD sia semplicemente stato scaltro, ben sapendo di poter vendere piuttosto facilmente ai suoi elettori (dopo un paio di decenni di addestramento all’odio antiberlusconiano) l’idea per cui, grazie allo stesso PD, saranno loro i soli a “salvarsi” anche nel sistema del rigore UE, ma a patto che facciano pagare il conto fiscale al ceto medio “di destra” (in cui tutti quanti sono evasori, avidi, brutti e cattivi). In questo modo, infatti, il PD sarebbe non solo riuscito a regolare i conti col suo arcinemico Berlusconi, ma anche – se non soprattutto – a far piazza pulita nel medio periodo addirittura dell’elettorato di riferimento del polo opposto (cui aveva dovuto obtorto collo fare ancora qualche concessione nell’era della convergenza al centro), rappresentato da quel ceto medio benestante attivo soprattutto nel settore privato, verso il quale lo stesso PD poteva far valere ancora la tradizionale invidia sociale – ma forse sarebbe meglio chiamarla “ossessione per il kulako” (oggi “evasore fiscale”) – che alla fine della fiera anima da sempre una larga parte degli elettori che si considerano a vario titolo “di sinistra”.

Tutto questo, peraltro, a fronte dell’accettazione del rischio che – prima o poi, dopo aver ammazzato a furia di tasse e rigore il benessere della componente “di destra” del vecchio ceto medio allargato – i padroni europei possano iniziare – come è accaduto in Grecia con Tsipras – a chiedere allo stesso PD, sotto minaccia delle stesse ritorsioni economiche e finanziarie utilizzate contro Berlusconi, di far pagare dazio anche alla parte “di sinistra” di quel ceto medio, ossia – nell’ordine – ai lavoratori sindacalizzati delle grandi imprese, ai pensionati di medio reddito e in fine anche agli “intoccabili” per eccellenza, i dipendenti pubblici. Accettare vincoli esterni giuridicamente vincolanti per ragioni di tattica politica nazionale è sempre una scelta rischiosa, visto che simili vincoli – spostando fuori dal paese il baricentro decisionale delle scelte politiche – riducono l’autonomia anche degli stessi partiti che dovessero accettarli al solo scopo di usarli come arma politica sul versante interno. Ipotecare l’indipendenza politica del proprio paese per vincere le prossime elezioni o per controllare il paese anche quando si perdono le elezioni – perché questo è quel che sta facendo da diverso tempo il PD – potrebbe dunque non essere stata affatto una buona idea, neppure per il PD (o, quanto meno, per il suo elettorato).

A voler ragionare strategicamente hanno insomma vinto Bruxelles, Berlino e Parigi, alla cui influenza il PD – specie ora che è stata ratificata la modifica del MES e se verranno concessi i prestiti del recovery fund e delle altre misure unioniste di reazione alla pandemia – non avrà più alcun modo di sottrarsi. E’ però anche vero che, una volta accettati i rischi per i loro elettori che implica l’assunzione di ruolo di viceré coloniale, il PD – nel mostrarsi docile esecutore dell’agenda dell’UE – si è assicurato per diversi anni un vantaggio enorme in termini di peso politico nazionale

Come si è già accennato – a differenza del centrodestra, specie quello berlusconiano, che aveva un po’ “tutti contro” nella cosiddetta “società civile” – il PD poteva infatti (e può tuttora) contare sul fervente appoggio di parte della magistratura (specie inquirente) così come di settori strategici dell’impiego pubblico (deep state, istruzione, università, enti locali), dell’informazione pubblica e dei sindacati confederali. Inoltre, il PD aveva creato negli anni – quando ancora era partito comunista – una fitta rete di attività economiche e sociali connesse con gli enti pubblici territoriali, specie in regioni come Emilia Romagna, Toscana e Umbria, creando un “sistema” che si alimentava grazie a continui “scambi” tra economia locale e sistema politico-amministrativo pure locale. A tutto questo va aggiunto l’importante appoggio di una parte del cattolicesimo cosiddetto progressista (specie quello dossettiano e facente capo alle ACLI) e di larga parte del gesuitismo: appoggio che – restato sotterraneo negli anni in cui la chiesa ancora restava fedele al suo magistero sociale tradizionale – è divenuto via via sempre più manifesto per effetto dei bruschi cambiamenti intervenuti col pontificato di Bergoglio.

Questo poderoso sistema di “appoggi” non istituzionali si accompagnava a una estrema attenzione ed abilità politica della sinistra nel gestire le scadenze elettorali in modo tale da non lasciare mai ad esponenti dello schieramento politico avverso la possibilità di influire in modo determinante sulla nomine delle istituzioni di garanzia del paese (Presidenza della Repubblica e Corte costituzionale) così come dei ruoli chiave del deep state, con la conseguenza che – eliminato dal gioco un “potente” come Berlusconi – il PD si è ritrovato a tirare le fila di un sistema di potere ben difficile da contrastare anche per forze politiche che avessero raccolto un ampio consenso elettorale. Si trattava infatti (e si tratta ancora oggi) di un sistema che trova il proprio punto di forza proprio nella sua capacità di riuscire ad esercitare ancora il potere in assenza di una maggioranza parlamentare, potendo valersi – a supporto dell’azione di opposizione (o qualora il PD si trovi in situazione di minoranza relativa nella compagine che sostiene il governo) – di molteplici strumenti (istituzionali e non) in grado di mettere i bastoni tra le ruote anche a governi sostenuti da forti maggioranze parlamentari così come ad eventuali partiti “alleati” che dovessero godere di più ampi consensi elettorali. In questo senso, peraltro, un ruolo di assoluto primo piano viene rivestito ad una parte della magistratura inquirente, la cui azione ha più volte destato il sospetto di essere connotata da una certa “attenzione” alle esigenze della sinistra.

Aggiungere a questa rete di influenze, poteri e connivenze l’appoggio della grande finanza e delle imprese multinazionali e dei pochi grandi capitalisti italiani rimasti (dunque dei mezzi di comunicazione di massa che questi soggetti sono in grado di controllare), il pesante vincolo esterno dell’UE e l’influenza di stati importanti come Francia e Germania, ha dunque sortito l’effetto di rendere il PD senza dubbio il primo partito del paese in termini influenza politica reale, dunque anche a prescindere dai suoi risultati elettorali. Risultato, questo, che – sul piano della tattica politica – si è evidentemente ritenuto che valesse bene qualche disinvoltura ideologica, così come l’accettazione del rischio che a pagare il conto dell’operazione potessero alla fine essere anche gli stessi elettori di sinistra.

Cinquanta sfumature di UE da Monti a Gentiloni: la consumazione della frattura tra le diverse componenti del ceto medio allargato

La nuova fase post-berlusconiana veniva inaugurata con il governo – definito “tecnico”, ma in realtà destinato ad attuare nel nostro paese la politica economica indicata dall’UE, dunque in sostanza di deprimere la domanda interna – capeggiato da Mario Monti. Si tratta di un esecutivo che attuava con determinazione l’agenda di decostruzione del sistema Italia: eliminazione delle garanzie di stabilità per i lavoratori, tagli pensionistici, regimi fiscali volti a erodere il risparmio privato (introduzione dell’IMU sulla prima casa e legge Fornero sono solo due esempi eclatanti tra i moltissimi in tal senso). Il governo in questione, sul modello delle larghe intese tedesche, veniva sostenuto da tutte le forze parlamentari – incluso il centrodestra – con le sole eccezioni del piccolo partito di Di Pietro (passato all’opposizione subito dopo aver sostenuto la composizione del governo) e, soprattutto, della Lega nord, solo movimento politico che – a differenza degli altri movimenti di centrodestra – a manifestare una aperta ostilità alla normalizzazione dell’Italia ai modelli economico-sociali indicati dall’UE. All’esecutivo Monti seguiva una lunga teoria di governi sempre più costruiti intorno al ruolo egemone del PD (Letta, Renzi e Gentiloni), che proseguivano la politica di austerità deflattiva inaugurata da Monti (ad esempio con il jobs act di Renzi e la rincorsa agli aumenti dell’IVA).

Questo tentativo del centro-sinistra a guida PD di adeguare l’Italia ai modelli tedeschi mediante eliminazione del suo ampio ceto medio benestante ha delle caratteristiche distintive piuttosto evidenti, che vale la pena di riassumere qui di seguito. Anzitutto si tratta di una fase che segna l’abbandono da parte del PD – e in genere di tutta la sinistra non comunista – di ogni posizione di politica economica anche solo lontanamente keynesiana e a favore dei lavoratori.

Il “nuovo” PD non è però un partito neo-liberista, nel senso che – come tutti i partiti socialdemocratici degli altri paesi europei – non è contrario alla spesa pubblica o all’interventismo pubblico nell’economia (ossia a quegli strumenti di spesa – e dunque di distribuzione di risorse – che gli assicurano consenso elettorale); semplicemente usa la spesa e la mano pubblica per attuare una versione all’italiana del modello Hartz: aiuti pubblici (e interventi normativi) ritagliati sulle esigenze e sulle possibilità di grandi imprese e operatori finanziari, incentivo all’afflusso di investimenti stranieri, creazione di adempimenti burocratici complessi e onerosi quasi impossibili da attuare per le piccole imprese, deciso favor per le concentrazioni di imprese specie nel settore finanziario. Tutto questo a fronte del mantenimento di garanzie e dei redditi solo per dipendenti pubblici e lavoratori dipendenti a basso reddito del settore industriale, con limitazione dei servizi sociali gratuiti solo per le fasce più disagiate (il che rappresenta una tassazione indiretta sulla restante parte della popolazione, che deve ricorrere a redditi e risparmi per fruire di servizi sociali pubblici che in precedenza erano gratuiti). La differenza rispetto al passato non è dunque il volume di spesa pubblica, che anche con il PD continua a crescere senza freni, quanto il fatto che questa spesa pubblica viene ora indirizzata, per la parte in cui non serve a coprire gli interessi sui debiti pregressi, a favore di grandi imprese e mondo finanziario e viene finanziata sempre di più con l’erosione di reddito, patrimonio e risparmio del ceto medio “di destra”.

Delle vecchie categorie sociali care alla sinistra, infatti, a valle della conversione del PD ai dogmi mercantilisti euro-teutonici – come si è già detto – solo quattro sono “sopravvissute” alla scure del rigore europeista: l’impiego pubblico, i pensionati a basso reddito, i lavoratori sindacalizzati a basso reddito delle grandi imprese e il mondo dell’informazione e del giornalismo. A queste categorie si sono tuttavia aggiunte una lunga teoria di minoranze etniche, culturali, sessuali e di altro genere, la cui soddisfazione porta altri voti al PD “costando” tutto sommato poco in termini di spesa pubblica. In compenso questo “nuovo” centrosinistra, incassa ora il convinto plauso (nonché voto e appoggio) dei ceti più benestanti, dei rentier, dei CEO delle grandi imprese, del ceto dirigenziale e dei professionisti ad alto reddito nonché – ovviamente – della grande impresa e finanza nazionale e internazionale.

Il grande escluso dall’agenda del PD resta – come si diceva – il ceto medio propriamente detto, che però è stato anche la spina dorsale del sistema economico nazionale: l’operaio o impiegato della piccola e media impresa (quello meno sindacalizzato), il piccolo imprenditore, l’artigiano, il negoziante, il professionista di medio reddito, per finire con i pensionati con trattamenti mensili lordi di una certa entità. Tutte queste categorie, da Monti in poi, vengono sistematicamente colpite e tartassate – specie fiscalmente – ad ogni possibile occasione.

Questa stagione politica segna peraltro anche un ritorno del centrosinistra alla politica “discendente”, ma con una sfumatura coloniale, nel senso che alla neo-sinistra italiana europeista le ricette di politica economica arrivano ormai già confezionate in comode proposte di “riforma” – che di solito condizionano l’accesso a finanziamenti o il placet della Commissione alla legge di bilancio – gentilmente recapitate, su carta intestata di Bruxelles, sui tavoli dei nostri esecutivi nazionali. Se qualcuno anche a sinistra osasse fiatare, del resto, ci penserebbe la finanza internazionale (o qualche dichiarazione della BCE) a scatenare una bella fiammata di spread per far capire chi comanda davvero. Conseguenza di questa situazione è una politica economica nazionale da stato-colonia: eterodiretta nelle sue linee di fondo dalle istituzioni europee (che agiscono di concerto con le cancellerie degli stati egemoni dell’Unione) ed in cui le forze di centrosinistra – sul versante nazionale – non si occupano più della crescita economica e del benessere del paese,  ma esclusivamente di preservare i benefici delle categorie sociali che le appoggiano elettoralmente, facendo in modo che il conto dell’austerità finisca sempre sulle spalle di piccole imprese, commercianti e artigiani, liberi professionisti nonché degli operai e impiegati del settore privato, specie se a medio reddito e non sindacalizzati. Verrebbe da dire che la nuova lotta di classe, nell’Italia del PD, è tra chi per vivere è ancora obbligato a lavorare (e che lavorando ormai per mantenere tutti alla fine sta sempre peggio) e chi invece riesce – a vario titolo e in diverso modo – riesce vivere di rendita (e che sta sempre meglio). Anzi, l’intento pare essere quello di importare dall’estero, non risorse, ma nuovi bisognosi sia da impiegare per ridurre le pretese economiche e le garanzie dei lavoratori autoctoni sia da utilizzare – prevedibilmente dopo averli muniti del diritto di voto con una legge sullo ius soli – per consolidare il proprio consenso politico.

Il tutto – va detto – in perfetta sintonia con i risultati che intendevano ottenere gli ambienti finanziari ed imprenditoriali che, con tangentopoli prima e con la campagna contro Berlusconi dopo, hanno inteso condurre una decostruzione programmata del sistema Italia. Questa è però anche la ragione per cui tra qualche tempo (ossia quando saranno infine esauriti i redditi e soprattutto i patrimoni del ceto medio “di destra”) – al nobile fine di aiutare i nuovi poveri (specie quelli importati in massa) – verrà con ogni probabilità sacrificato sugli altari del rigore europeista anche il reddito e il patrimonio dell’elettore di sinistra. Sventolando la bandiera nobile della solidarietà e dei sacri principi unionisti verrà infatti il momento del rigore anche – nell’ordine – per i pensionati a basso reddito, per i lavoratori della grande impresa e, come gran finale col botto, per la grande parte degli impiegati pubblici (con l’unica eccezione di deep state e magistratura). Si tratta solo di aspettare che – con l’aiuto di qualche bella tassa patrimoniale e/o successoria – vengano prosciugati i risparmi di chi ancora era riuscito a mettere qualcosa da parte. A quel punto inizieranno a piangere anche le categorie che ora si credono al sicuro.

Curare un anemico con i salassi, prima di ammazzarlo …. lo fa arrabbiare.

Basta guardare ai dati macroeconomici (andamento del PIL, consumi e bilancia commerciale) per capire che è bastato un decennio scarso di europeismo “alla piddina” per presentare un conto salatissimo alla maggioranza dei cittadini italiani. Da Monti in poi è infatti proseguita (peggiorando) la tendenza alla decrescita economica nazionale (qui stiamo parlando di tredici trimestri consecutivi di recessione, dunque di una serie storica negativa che non si è avuta neppure durante il secondo conflitto mondiale). Questa crisi è stata causata da una caduta della domanda interna, ampiamente prevista (e anzi voluta) proprio in attuazione dell’agenda rigorista e deflattiva europea, che a sua volta ha innescato l’erosione del risparmio dei cittadini e del tenore di vita medio dei cittadini.

La situazione ha colpito anzitutto i giovani, specie quelli senza titolo di studio, i quali (anche per effetto della concorrenza del già citato esercito industriale di riserva importato dall’estero) si sono trovati a dover accettare lavori sempre più precarizzati e sottopagati senza poter in compenso più contare, come un tempo, sul contributo “start up” garantito dei risparmi e dalle seconde case dei genitori. Erosione del risparmio famigliare e lavoro giovanile sottopagato e reso sempre più precario hanno avuto come conseguenza anche la scomparsa di quell’ascensore sociale intergenerazionale ed interclassista che rappresentava uno dei tratti peculiari – e uno dei punti di forza nonché di coesione ideologica e culturale – della società italiana della prima e, in parte, anche della seconda repubblica. Genitori che lavoravano e risparmiavano non solo per mantenersi ma anche per garantire gli studi e un futuro migliore ai propri figli era infatti la regola d’oro che ha fatto sviluppare in armonia ed equilibrio il paese per decenni. Ora è solo un bel ricordo: tutti sono stati messi contro tutti, genitori e figli inclusi.

L’erosione di reddito e patrimonio del ceto medio e la compressione delle dinamiche salariali ha mandato ancora più in crisi la domanda interna, con pesanti ricadute su numerose imprese – specie nei settori del commercio al dettaglio e del piccolo manifatturiero – che pure in passato avevano operato con estremo successo. Le imprese sono dunque state costrette ad aprirsi ai capitali stranieri (che spesso ne acquisivano il controllo, tagliando l’occupazione in Italia e spostando gli utili all’estero) o ad attuare processi di delocalizzazione della produzione in paesi emergenti, contribuendo alla crisi occupazionale nazionale che – in una spirale perversa – alimentava uleriormente la deflazione. Gli italiani hanno ricominciato a emigrare a decine di migliaia in cerca di lavoro, con l’aggravante che, questa volta, a emigrare – in quota ben più consistente rispetto al passato – ormai erano anche i cosiddetti “cervelli”, vale a dire lavoratori e professionisti su cui il sistema economico italiano aveva già investito ingenti risorse (private e pubbliche) in formazione, ma della cui alta professionalità finiscono per beneficiare economie straniere.

Il mercato dei beni di consumo, in compenso, ha visto una sempre maggiore presenza di prodotti (e di grandi distributori) stranieri nonché l’ingresso sulla piazza italiana di prestatori di servizi finanziari stranieri, che hanno via via soppiantato gli operatori nazionali, specie quelle di piccole dimensioni. La crisi economica e l’erosione dei risparmi ha infatti provocato un sempre più frequente ricorso degli italiani al credito al consumo, che però – in presenza di una crisi occupazionale crescente e di deflazione della domanda interna – ha finito per tradursi in estese sofferenze bancarie che hanno indotto, anche per effetto delle normative unioniste (improntate anche in questo caso al rigore e all’impossibilità di aiuti pubblici), le banche a chiudere i cordoni della borsa.

In tal modo la crisi economica è divenuta anche una crisi nazionale del credito. I finanziamenti alle imprese sono dunque sì stati concessi dalle banche a tassi assai più bassi rispetto al passato, ma si sono sempre più concentrati verso le grandi imprese – che forniscono garanzie maggiori – laddove le piccole e medie imprese hanno dovuto affrontare un significativo credit crunch. I dissesti bancari nazionali – per effetto dei regolamenti di Basilea e delle norme sul cosiddetto bail in – sono stati scaricati sui risparmiatori (ma solo dopo che le banche dei paesi del nord erano già state salvate con bail out finanziati con soldi pubblici). Anche la politica di gestione dei crediti deteriorati imposta dall’UE ha finito per penalizzare gli operatori finaziari nazionali.

L’ingresso di capitali stranieri sotto forma di finanziamenti di venture capuital alle imprese o di prestiti da banche straniere, che nel breve periodo era stato dipinto come la panacea di tutti i mali, iniziava a mostrare il suo lato oscuro dopo qualche anno, quando cioè quei capitali hanno iniziato a tornare all’estero sotto forma di utili e/o di restituzione del capitale con gli interessi.

Giusto per dare il colpo di grazia al sistema, sono stati messi in campo diversi tentativi – per ora falliti – di introdurre, oltre all’IMU e alle tasse locali sulla casa e ai bolli sui conti correnti, ulteriori forme di imposizione fiscale patrimoniale anche su ricchezze di media consistenza, mentre la tassazione sulle rendite finanziarie – per cifre rilevanti – viene mantenuta stabilmente inferiore a quella sul reddito. Anche l’IVA è stata aumentata, con effetto depressivo sui consumi. Insomma, è davvero difficile negare che i governi da Monti a Renzi hanno fatto un po’ tutto quel era in loro potere per distruggere il tenore di vita della parte più attiva e produttiva del paese.

Il concorrere di questi fattori ha ovviamente aumentato le disuguaglianze rispetto al passato: in Italia stiamo assistendo a un aumento della ricchezza dei più agiati, dei rentier e dei manager apicali delle grandi imprese, con caduta in povertà (se non vera e propria riproletarizzazione) del ceto medio basso e significativa riduzione delle disponibilità economiche e del tenore di vita del ceto medio propriamente detto, con l’unica eccezione dei dipendenti pubblici e, ma solo in parte, dei pensionati. Si noti peraltro che le disuguaglianze causate dalle politiche europeiste del PD vengono usate da questo stesso partito per aizzare anche i nuovi poveri contro il ceto medio. In sintesi: per lasciare intatti (anzi aumentare) i benefici dei primi, il PD prima ha allargato la platea degli ultimi, e ora vorrebbe aizzare i “nuovi ultimi” contro i penultimi, in modo da usare i soldi dei penultimi per favorire ancora di più i primi. Gramsci si sta ovviamente rivoltando nella tomba.

Questa essendo la situazione del paese, non deve allora stupire più di tanto che – dopo un pochi anni di governi ultra europeisti a trazione PD – abbiano acquisito un forte consenso nel paese movimenti di opposizione e protesta che – manifestando posizioni “antisistema” più o meno radicali – si sono fatti appunto interpreti degli interessi di questi ultimi e penultimi, ossia – da un lato – della parte di ceto medio produttivo vessato di continuo dalle politiche del “nuovo” centro-sinistra e – dall’altro lato – di tutte quante le varie altre “vittime sacrificali” dell’adeguamento forzato del nostro paese al rigore mercantilista della dottrina Euro-Hartz.    E’ proprio su questi presupposti sociali ed economici che nel vecchio continente inizia – non solo in Italia (ma in particolare in Italia) – una nuova fase politica differente rispetto alla seconda repubblica – ed attualmente ancora in corso – che vede progressivamente emergere una nuova dialettica storica tra movimenti “europeisti” (ed “elitisti”) e movimenti “sovranisti” (e “populisti”). Proprio di questa nuova fase – e dei suoi possibili sviluppi futuri – avremo però modo di parlare nell’ultima parte di questo scritto, che dovrebbe essere pubblicata sempre sul sito della fondazione Hume nei prossimi mesi.

 




Stop and go?

Chi è abbastanza vecchio da avere memoria degli anni ’70, o è abbastanza curioso da averli studiati, ricorderà di sicuro la politica dello stop and go, o “politica del semaforo”, con cui, in quel periodo, molti paesi occidentali cercavano di domare l’inflazione, senza però frenare troppo l’economia. La conseguenza era una crescita a singhiozzo, in cui a brevi periodi di espansione seguivano altrettanto brevi periodi di rallentamento, per tenere l’inflazione sotto controllo.

Qualcosa di simile, forse, si sta preparando ora sul versante della gestione dell’epidemia, con il Covid in un ruolo simile a quello che fu dell’inflazione. Se davvero, come appare sempre più verosimile, il 3 dicembre il governo consentirà una serie di riaperture, in modo che la corsa ai regali di Natale dia un po’ di ossigeno all’economia, e se nel periodo delle feste dovessero esserci di nuovo limitazioni, più o meno volontarie, magari seguite da un nuovo allentamento delle regole a gennaio, allora sì, dovremmo concludere che il governo ha deciso per lo stop and go.

Il che significherebbe: non riusciamo a stroncare l’epidemia, ma nemmeno vogliamo che ci arrivi in faccia la terza ondata, quindi navighiamo a vista. Teniamo aperto finché gli ospedali respirano, tiriamo il freno appena ci accorgiamo che gli ospedali potrebbero riempirsi di nuovo di pazienti Covid.

E’ razionale questa strategia?

Probabilmente sì, se l’obiettivo è solo di non far saltare il sistema sanitario e dare un po’ di ossigeno all’economia. E, naturalmente, se i sensori del governo sono meno arrugginiti di quelli usati fin qui, rivelatisi incapaci di avvisare in tempo dell’arrivo della seconda ondata.

Se però l’obiettivo fosse quello di minimizzare sia i morti sia i punti di Pil perduti, non sono sicuro che mesi e mesi di andamento a fisarmonica, con le Regioni impegnate in una danza senza fine fra i quattro colori di cui possono fregiarsi (verde-giallo-arancio-rosso), sarebbero la via più efficace. E questo per due motivi, uno relativo alla salute, l’altro relativo all’economia.

Sul versante della salute, non si può non osservare che mantenere le terapie intensive costantemente un po’ sotto il livello di guardia (diciamo al 20% della capacità anziché al 30%), obiettivo comprensibilissimo dal punto di vista dell’equilibrio del sistema sanitario, comporta circa 300 morti al giorno, dunque oltre 100 mila all’anno: più o meno 100 volte il numero annuo di morti sul lavoro, che già ci appare inaccettabilmente elevato.

Sul versante dell’economia i conti sono più ardui, perché mancano due informazioni cruciali: quanti saranno i mesi di vera apertura all’anno, e quanta mobilità in meno (spostamenti e consumi) comporterà lo stato di paura permanente indotto da un regime di stop and go, specie se nulla cambia nella medicina di base (una quota importante delle nostre paure è dovuta alla credenza, del tutto fondata, che in caso di infezione difficilmente riceveremo cure domiciliari). Secondo un recente studio del Fondo Monetario Internazionale, il rischio che la paura congeli la mobilità, e la mancanza di mobilità spenga l’economia, è molto forte. Se la paura non scende sotto un certo livello, è inutile illudersi che l’economia riparta.

Immagino che qualcuno, arrivati a questo punto, obietterà: e il vaccino? Non sarà il vaccino la nostra salvezza? Perché pensare a un lungo periodo di stop and go quando il vaccino è alle porte?

Personalmente nutro un misto di ammirazione e di invidia per chi è dotato di tanto ottimismo. Può darsi che, a differenza del vaccino influenzale, il vaccino contro il Covid arrivi presto, ed entro l’estate prossima sia disponibile per tutti. Può darsi che la maggior parte della popolazione si vaccini con entusiasmo, e non dia alcun credito alle cautele del prof. Crisanti, secondo cui assumere un vaccino non testato è rischioso (“senza dati a disposizione, io non farei il primo vaccino che dovesse arrivare a gennaio”).

Ma temo che lo scenario più verosimile sia un altro. E cioè che il vaccino diventi per qualche mese l’argomento preferito dei talk show, e insieme uno specchietto per le allodole che permette ai politici, ancora una volta, di eludere le domande importanti e di non fare le molte cose che spetta loro di fare. A partire dai dieci punti della petizione che, in 35 mila, abbiamo firmato una decina di giorni fa, e cui né il premier Conte, né il ministro Speranza (ai quali era indirizzata), hanno sentito il dovere di dare una risposta.

Pubblicato su Il Messaggero del 21 novembre 2020




Gli italiani e la pandemia: più lungimiranti dei loro governanti

Un paio di decenni orsono, insieme all’amico e collega Giorgio Grossi, elaborai un indicatore che oggi è divenuto patrimonio comune di gran parte della ricerca demoscopica. Esso si basa sulla considerazione che, per capire l’approccio al voto da parte del cittadino-elettore, sia indispensabile considerare non soltanto il suo orientamento di voto individuale, ma anche la sua specifica “percezione” dell’ambiente che lo circonda, del clima pre-elettorale in cui si trova inserito.

È stato dunque predisposto un indicatore robusto e semplice nello stesso tempo, che consiste nella pura richiesta all’intervistato di cosa – a suo parere – sarebbe successo nelle elezioni considerate, cioè di chi avrebbe vinto. Insomma: l’elettore come oracolo. O meglio, l’insieme delle previsioni individuali come “predittore” del vincitore. Per questo, l’abbiamo etichettato con il termine di “winner”. L’utilizzo di questo indicatore si è dimostrato negli anni molto affidabile: sia applicandolo ad elezioni locali che ad elezioni nazionali, il campione di intervistati evidenzia costantemente capacità predittive talora superiori a quelle degli studiosi e ai responsi dei sondaggi demoscopici.

La storia di “winner” mi è tornata alla mente in questo periodo pandemico, rileggendo i risultati di diverse migliaia di interviste effettuate da Ipsos durante i mesi di giugno e luglio scorsi, perché anche in quel frangente i cittadini interrogati sul decorso futuro del Covid-19 parevano aver compreso, oserei dire molto prima e molto meglio di quanto abbiano fatto politici e governanti, che il virus non si sarebbe arrestato tanto facilmente. Un po’ come accade appunto con la corretta profezia del vincitore, la stragrande maggioranza della popolazione pareva aver fiutato che le cose non si sarebbero risolte tanto facilmente o tanto velocemente, come qualche leader partitico o qualche presidente di Regione aveva al contrario proclamato agli albori della scorsa estate con lo slogan: riapriamo tutto!

Alla semplice domanda sulla possibilità che nei 6 mesi successivi ci saremmo trovati nella condizione di fronteggiare una seconda forte ondata di contagi in Italia, quasi l’80% degli italiani rispondeva che la ripresa pandemica era molto o abbastanza probabile. E che occorreva prepararsi per tempo, non quando saremmo stati nella sua fase più acuta.

E alla questione successiva: “Secondo Lei l’allentamento del lockdown e le riaperture delle attività decise nelle scorse settimane faranno aumentare il numero di contagi in Italia?” soltanto uno sparuto 14% degli intervistati dichiarava che “il trend di diminuzione dei contagi proseguirà più o meno come in questi giorni estivi”. Certo, magari il comportamento di alcuni dei nostri connazionali non è stato adamantino, proprio in quel periodo, ma è indubbio che la lungimiranza dei cittadini interrogati fosse di gran lunga maggiore di chi ha il potere decisionale, che come è stato da molti sottolineato in questa situazione è stata piuttosto carente, se non del tutto deficitaria.

Infine, anche sulla proroga dello stato d’emergenza si dichiarava d’accordo il 78% del campione, per una durata di almeno tre mesi per alcuni, ma per molti ancora di più, fino a 6 od oltre i 6 mesi. Il senso di responsabilità degli italiani sembrava superare (anche) in questo frangente quello dei governanti, preoccupati al solito della consueta ricaduta elettorale. Non a caso, tra coloro che minimizzavano il pericolo, erano soprattutto gli elettori di Lega e Fratelli d’Italia, sospinti dai rispettivi leader di partito, a ribadire che il peggio era ormai alle nostre spalle, che il virus era definitivamente sconfitto, e che occorreva tornare alla vita di sempre. Potere dello “storytelling”!




I partiti italiani: cenni costituzionali e breve storia dal dopoguerra alla seconda Repubblica

Nell’era dell’antipolitica mi sono chiesto in che misura i movimenti presenti in parlamento possano ancora essere definiti partiti, nel senso in cui lo erano i partiti tradizionali della prima Repubblica. Mi sono poi anche chiesto quali siano di destra e quali di sinistra, sempre che le categorie in questione abbiano conservato un proprio significato, ossia se ai termini “destra” e “sinistra” corrisponde ancora un minimo comune denominatore in termini o di uniformità ideologica o quanto meno di interessi e categorie sociali di riferimento. Per rispondere alla prima domanda è occorre definire il quadro costituzionale dell’attività dei partiti, dal momento che è proprio dalla definizione che la carta fondamentale dà di queste organizzazioni che consente di verificare se anche i movimenti politici di oggi rientrano della nozione giuridica di partito.

L’art. 49 della Costituzione, contenuto nel titolo relativo ai rapporti politici, dispone che “tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Si tratta di una norma che, nella carta fondamentale, si trova collocata dopo quella sul suffragio universale e sul il diritto/dovere di voto dei cittadini.

Il fatto che l’articolo 49 Cost. parli di partiti come “libere associazioni” di cittadini ci dice intanto che un partito, per essere tale, deve essere espressione di autonomia e, dunque, della libertà di chi sceglie di aderirvi. In Italia non può esistere alcun “partito di stato”. Questo significa che il nostro ordinamento prevede una distinzione tra l’attività politica in seno alle istituzioni (anche rappresentative), che resta soggetta a regole e vincoli di garanzia, e la dinamica politica sociale in cui invece vale il principio di piena libertà.

La preoccupazione dei costituenti era duplice: da un canto volevano evitare che i partiti politici potessero restare soggetti a qualunque forma di controllo da parte dei poteri pubblici e, per altro verso, intendevano scongiurare il rischio della costituzione di partiti-organo come il vecchio PNF (ma anche ai comitati direttivi dei partiti comunisti sovietico e cinese): partiti-organo in cui – di fatto – viene decisa la linea politica dello stato del tutto al di fuori delle procedure e garanzie previste per l’attività politica istituzionale, di guisa che le istituzioni finiscono per assumere un ruolo di mera ratifica formale. Si badi bene, tuttavia: anche ora in via di fatto avviene così (è noto che le segreterie di partito si accordano prima sulla linea di governo e di opposizione e anche sui singoli provvedimenti), ma la differenza essenziale rispetto al sistema dei partiti-organo è che comunque si tratta di attività che resta confinata nella sfera della libertà dei singoli partiti, mentre le decisioni con valore vincolante sono esclusivamente quelle che traducono gli accordi politici in atti formali delle istituzioni politiche adottati con le previste procedure.

Sempre secondo l’art. 49 Cost., la funzione costituzionale del partito – dunque la funzione che consente di definirlo come tale nel nostro ordinamento – è di concorrere a determinare la politica nazionale. Il partito ha insomma funzione di mediatore politico tra cittadini e istituzioni di rappresentanza politica, nel senso che il suo compito costituzionale è di raccogliere e organizzare il consenso popolare consentendo che si traduca in una rappresentanza parlamentare articolata in gruppi omogenei sotto il profilo ideologico e/o programmatico. Questa funzione deve però, secondo la carta fondamentale, essere esercitata dai partiti “con metodo democratico”, dunque appunto tramite la rappresentanza elettorale a suffragio universale. Il che significa che può essere considerata “partito” qualunque associazione privata tra cittadini costituita con lo scopo di presentare candidati ad elezioni sulla base di un programma politico. In sintesi, dunque, partiti per la costituzione sono organi non istituzionali di rappresentanza politica. E’ proprio il fatto di organizzare – al di fuori delle istituzioni – il consenso dei cittadini a fini politici per presentarsi alle elezioni che consente dunque di distinguere i partiti da altri movimenti – ad esempio di opinione, culturali o sindacali – che pure hanno struttura collettiva e volontaria nonché, almeno in parte, oggetto o scopo politico.

Questo significa che un qualunque ente che riunisce una pluralità di persone, che è regolato dall’autonomia privata degli aderenti e che si prefigge di presentare delle candidature ad una qualunque elezione sulla base di un programma o di una serie di principi di azione politica può “giuridicamente” essere ritenuto partito. In questo senso, si deve allora concludere che tutti i movimenti attualmente presenti in parlamento, così come quelli esclusi che avevano partecipato (o si prefiggono di partecipare) ad elezioni politiche o amministrative, possono essere considerati altrettanti partiti politici.

Il primo novecento

Smarcata la questione giuridica, resta da capire ancora in che misura – politicamente parlando – i partiti di oggi sono assimilabili a quelli della prima repubblica e se ha ancora senso parlare di destra e sinistra. Per rispondere a simili interrogativi è tuttavia necessario fare un po’ di storia – seppure soltanto a spanne – della politica nazionale degli ultimi decenni. A questa breve ricostruzione storica sarà dunque dedicata la prima parte di questo scritto per la fondazione Hume, laddove la seconda parte (che verrà pubblicata nei prossimi mesi sempre sul sito della fondazione) cercherà – proprio sulla base dei risultati della prima – di tirare le fila del ragionamento stodico in modo da fotografare il presente dei movimenti che animano la politica nazionale contemporanea, tentando una sintesi sui rispettivi orientamenti politici di fondo.

Partiamo dalla storia, dunque, e anche da piuttosto lontano, per segnalare che in epoca pre-novecentesca i partiti esercitavano più o meno tutti quanti una funzione politica che potremmo definire “discendente”, nel senso che si presentavano come interpreti e attuatori di differenti ideologie contrapposte (o, come va di moda dire oggi, di “grandi narrazioni”) che esistevano prima e al di fuori dei partiti stessi. I partiti dunque traducevano in prassi i fondamenti dei sistemi ideologici cui si ispiravano: i socialismi intendevano tradurre in prassi i principi del marxismo, mentre le destre storiche facevano la stessa cosa col liberalismo. L’ideologia cui si ispiravano i diversi partiti consentiva anche di individuare piuttosto facilmente gli interessi e le categorie che intendevano rispettivamente promuovere (o, secondo i marxisti, per converso erano gli interessi di classe che i partiti tutelavano a consentire di definirne l’ideologia): fatto sta che i partiti della sinistra storica esprimevano e tutelavano in via di principio gli interessi dei proletari (identificati grosso modo con i lavoratori dipendenti di basso reddito, che erano la grande maggioranza) mentre quelli della destra storica si occupava degli interessi della borghesia (identificata con i proprietari terrieri e con la grande borghesia proprietaria mezzi produttivi e finanziari, ma anche con la piccola borghesia di commercianti e artigiani). Si trattava di un mondo politico vagamente manicheo e, dunque, tutto sommato facile da decifrare.

La prima vera crisi del modello avviene col fascismo, che – tentando, con Gentile, di tradurre in prassi politica alcune teorie di Hegel – mirava a superare tanto la tradizionale dialettica parlamentare quanto quella classista dei marxisti, proponendosi di cercare, a livello di partito unico, la sintesi degli interessi di tutte le categorie sociali. Nell’era del fascismo maturo (parliamo dunque della fase post-squadrista, ossia di quella del partito-stato e del sistema corporativo) il PNF (ovviamente partito unico) si trasforma in una sorta di meta-istituzione dello stato, rendendo superflua la dialettica politica parlamentare fondata sul voto a maggioranza, per cercare la sintesi politica (dialettica, appunto) sul terreno del confronto “puro” di interessi delle varie categorie economiche e sociali all’interno del partito stesso, alla luce del comune e superiore interesse dello stato italiano, inteso come collettività e tradizione nazionale, di cui il PNF intendeva farsi garante.

Questo spiega la singolare situazione di un partito unico che, alla stregua di una istituzione pubblica, tutto governa, ma che è tutt’altro che ideologicamente unitario: il partito nazionale fascista, ancora in pieno ventennio, era infatti notoriamente diviso in correnti – che facevano capo a gerarchi spesso in aspro conflitto tra loro – che si ponevano come espressione di interessi e gruppi sociali differenti e a volte confliggenti (dei lavoratori, delle grandi imprese, dei diseredati del primo conflitto mondiale, dei monarchici, di una parte del mondo cattolico etc. etc..) con il capo partito, Mussolini, che per quanto dinanzi al popolo il ruolo assumesse il ruolo di decisore ultimo, all’interno del partito-stato sostanzialmente esercitava una funzione di mediazione e garanzia delle varie “anime” del partito. Solo in questo modo si spiega il fatto, piuttosto inusuale in un regime totalitario, che il dittatore sia stato destituito dal ruolo di capo del governo niente meno da una votazione a maggioranza del gran consiglio del fascismo, dunque – in sostanza – dai vertici dello stesso partito fascista di avrebbe dovuto essere il capo indiscusso.

Il dopoguerra e la prima repubblica

Finita l’era fascista, con la costituzione del ’48 si ritorna al tradizionale modello di confronto in sede parlamentare tra una pluralità di partiti “ideologicamente” ispirati a diverse visioni di mondo. La peculiarità dello scenario politico postbellico è tuttavia rappresentato dall’affermazione di un “nuovo” soggetto politico tanto inafferrabile secondo le categorie tradizionali (ossia quelle di destra e sinistra) da venire riassunta in un toponimo che non dice nulla se non, appunto, che non si tratta né di sinistra né di destra: il “centro”. La nascita di un forte “centro” nell’Italia del dopoguerra, in realtà, potrebbe stupire solo chi non ha capito cosa intendeva essere il fascismo maturo di Gentile e non è disposto a riconoscere quanto importante sia stata, per la politica italiana del primo novecento, l’incapacità di destre e sinistre storiche (divise su quasi tutto tranne che sull’anticlericalismo) di trattare adeguatamente la questione romana, invece risolta dal concordato fascista.

Il centro politico del primo dopoguerra sostituisce infatti il fascismo come forza di opposizione al socialismo massimalista e al comunismo, ma declinando questa opposizione in chiave geopolitica (dunque atlantica ed antisovietica) assai più che per vera e propria pregiudiziale ideologica, come invece aveva fatto il fascismo. Ma non solo: il concetto di “centro” nasce infatti anche come ipostasi politica del ritorno nell’agone parlamentare del cattolicesimo romano, che – non essendo all’epoca né liberale né socialista, ma essendo stato pochi anni prima contrario tanto ai liberali quanto ai socialisti – appariva tuttavia in linea, a livello di prassi, con alcuni aspetti di entrambe le parti politiche. Il centro dell’era della DC di De Gasperi, per quanto nasca come centro cattolico (quindi non fascista, non socialista e non liberale), ha insomma ben poco a che vedere con il partito popolare di Sturzo, svolgendo piuttosto una funzione di sintesi politica analoga a quella tentata dal fascismo, ma declinandola in un contesto democratico, in sostanza assorbendo (e traducendo in altrettante correnti del partito, come faceva appunto il fascismo) le idee e gli interessi che, per quanto fondate su ideologie differenti, non apparivano a livello di prassi radicalmente incompatibili con il suo baricentro ideologico, che restava cattolico. Così facendo la DC iniziava ad attrarre progressivamente nei propri programmi politici diverse idee di liberali e socialisti, ma moderandone gli aspetti più estremi. Non è infatti un caso che uno degli aggettivi che si usano più di frequente per definire le forze centriste sia quello di “moderate”: la moderazione deriva infatti proprio da un processo di sintesi per attrazione tra le idee cattoliche della DC e quelle dei partititi esistenti nell’epoca precedente al fascismo. E così, dal dopoguerra in poi, si è andati avanti per diversi decenni – anche grazie a leggi elettorali proporzionali – con un centro anticomunista a parole ma che mostrava all’occorrenza di sapere essere “moderatamente socialista” (in senso keynesiano). Un centro che ruotava intorno al pivot rappresentato dal partito – formalmente cattolico ma politicamente ecumenico – della Democrazia Cristiana, che governava il paese insieme ad alcune forze politiche minori (eredi dei vecchi partiti storici) riunite nel pentapartito, cambiando maggioranze e governi di frequente, ma a fronte di una sostanziale continuità di linea politica.

A questa continuità politica delle forze di governo, faceva da contraltare una sinistra comunista, che – nonostante godesse di ampio consenso nel paese – restava all’opposizione in parlamento (solo perché parte dell’internazionale socialista a trazione sovietica laddove l’Italia era invece membro del patto atlantico). A questa forte sinistra comunista – come compensazione per la mancata partecipazione al governo nonostante i vasti consensi elettorali – veniva tuttavia consentito di partecipare alla dinamica politica e sociale del paese – e dunque al suo governo di fatto – per mezzo di strumenti non istituzionali (o, per usare il lessico comunista, gramsciani); i movimenti cooperativi, il sindacalismo organizzato nella CIGL, l’egemonia negli ambienti culturali e del giornalismo e – infine ma molto importante – una forte influenza su una parte della magistratura e della pubblica amministrazione, specie in settori come la pubblica istruzione, l’università e gli enti locali.

Il quadro politico era completato dall’MSI, movimento che – al di là dei numeri parlamentari – non aveva reale influenza sulla politica nazionale, essendo a priori escluso, in quanto erede ideale del fascismo, da ogni possibilità di alleanza politica con altri movimenti sulla base della dottrina del cosiddetto “arco costituzionale”.

Si noti che in questo lungo periodo – a fronte di una sinistra rappresentata da un partito ideologico ancora rigorosamente “discendente”, essendo ispirato al marxismo-leninismo e di un partito ideologico di destra, analogamente “discendente” in quanto ispirato invece al fascismo repubblichino – i partiti della coalizione, a furia di assorbire, mescolare e moderare idee cristiane, socialiste e liberali, perdevano progressivamente i rispettivi riferimenti ideologici tradizionali. Addirittura il più ideologico di essi – vale a dire il partito cattolico, rappresentato dalla DC – col tempo aveva fortemente attenuato la propria linea politica confessionale (si pensi al divorzio e all’aborto, in cui la DC aveva assunto una posizione di fatto “morbida” nonostante la dura opposizione della chiesa), per diventare un partito in cui le diverse correnti esprimevano ormai solo altrettante sfumature di centrismo. Questo processo merita di essere sottolineato in quanto è molto importante per la nostra storia politica, segnando il passaggio – nel mondo politico italiano (quanto meno in quello non comunista) – dalla vecchia dinamica politica “discendente”, in cui cioè è il partito a proporre all’elettore un’idea di mondo e società, a una dinamica che potremmo definire “ascendente”, in cui il partito diventa sostanzialmente agnostico sul piano ideologico, assumendo il compito di “raccogliere” le istanze delle diverse categorie di elettori di cui intende captare il voto, per poi tradurle in provvedimenti di legge o in un indirizzo politico di governo che mirino a soddisfare quegli interessi. La fase del pentapartito segna dunque in Italia il definitivo tramonto delle ideologie non socialiste.

La repubblica keynesiana italiana e la nascita del ceto medio allargato

Questa lunghissima fase di stabilità politica (inaugurata da De Gasperi, proseguita da Andreotti per concludersi infine con la caduta di Craxi) si traduceva – con il consenso tacito anche dei comunisti che pure formalmente erano all’opposizione – in una politica economica connotata da un significativo intervento pubblico nell’economia (sia in chiave di capitalismo di stato che di tutela del lavoro dipendente, con un numero significativo di assunzioni di impiegati pubblici e con cospicui investimenti pubblici infrastrutturali e in servizi sociali di welfare). La politica del grande centro della prima repubblica era insomma chiaramente di stampo keynesiano, dunque con scopo (ed effetto) espansivo in termini di stimolo di domanda interna. L’inflazione generata dalle politiche in questione veniva compensata da un meccanismo di adeguamento automatico per legge dei salari al costo della vita (la cosiddetta “scala mobile”) e dalla debolezza della moneta nazionale (gestita dal tesoro con periodiche svalutazioni) che consentiva di finanziare l’inflazione con un export in continua espansione. Anche il sistema bancario, controllato dallo stato, contribuiva a sua volta alle politiche espansive incentivando e tutelando adeguatamente il risparmio privato e finanziando le piccole e medie imprese.

Questo esteso sostegno alla domanda interna favoriva la creazione e il consolidamento negli anni di un ampio ceto medio benestante con caratteristiche peculiari rispetto al resto dei paesi europei: si trattava di un ceto benestante “allargato”, nel senso che si estendeva dall’operaio e impiegato del settore privato, al dipendente pubblico, all’artigiano e al commerciante, al libero professionista e al piccolo imprenditore manifatturiero. A partire dagli anni sessanta e almeno fino al termine degli anni ottanta, in altre parole, l’Italia è stato un paese che ha goduto di prosperità non solo crescente in misura almeno pari al resto dell’Europa (diventando quinta potenza mondiale in termini economico), ma anche – e soprattutto – di un benessere distribuito e diffuso in misura superiore rispetto ad altri paesi europei. Questo accadeva perché proprio il “centro” politico riusciva bene ad esprimere e tutelare i differenti interessi di questa vasta “borghesia allargata”, laddove la sinistra comunista – per quanto all’opposizione – riusciva a rappresentare un contrappeso al potere economico della grande borghesia industriale, mantenendo una consistente pressione politica e sociale sul governo per il mantenimento di quelle politiche keynesiane che stavano alla base di un modello economico espansivo che, alla fine dei conti, conveniva a tutti, anche se non sempre per ragioni economiche.

L’esistenza di una ampia classe media benestante in Italia conveniva infatti al grande capitale finanziario e industriale (sia nazionale che straniero) per ragioni strategiche: il benessere della classe media allargata evitava infatti che il partito comunista – in un tempo in cui una guerra di invasione sovietica rappresentata ancora un rischio reale per l’Europa occidentale – portasse avanti in Italia una linea politica aggressiva, in chiave anti-occidentale e anti-capitalsita, come aveva fatto negli anni cinquanta. Nel primo dopoguerra i comunisti italiani era infatti non solo forti a livello parlamentare sia anche molto attivi (per non dire minacciosi) a livello sociale e, di conseguenza, era nell’interesse dei grandi capitalisti fare in modo che l’economia di mercato, grazie ai correttivi keynesiani, fosse percepita da più italiani possibile – specie nella classe medio-bassa di impegnati e lavoratori – come un sistema tale da assicurare (almeno in prospettiva futura) un adeguato benessere. Una piccola dote di “cose da perdere” anche per l’operaio e l’impiegato era insomma la migliore polizza a favore dei grandi capitalisti per scongiurare il rischio di innescare derive politiche nazionali troppo sbilanciate verso il socialismo reale. Per questo erano disposti a pagare il premio.

Ecco spiegato perché che il “sistema italiano” – in cui in sostanza il debito pubblico veniva usato in funzione espansiva, ossia per creare una diffusa ricchezza privata – fino alla caduta del muro di Berlino era stato accettato di buon grado non solo da chi ne beneficiava (il ceto medio allargato) ma anche da chi ne veniva in certa misura danneggiato in termini di ripartizione del plusvalore (dunque dai grandi capitalisti sia stranieri che di casa nostra). Questo significa però anche che il “modello Italia” (e dunque il benessere diffuso che aveva consentito) è stato in sostanza per alcuni decenni solamente “tollerato” dal capitalismo nazionale e internazionale per precise ragioni geo-politiche. E questo spiega anche perché – una volta caduta l’URSS – l’Italia, che ancora si ostinava a praticare ricette economiche espansive volte a garantire anzitutto il benessere della maggioranza degli italiani, sarebbe ben presto finita nel mirino di chi faceva girare i soldi sua nel nostro paese che a livello planetario.

Il muro di Berlino, il Britannia, tangentopoli e la nascita della seconda repubblica

Negli anni novanta del ventesimo secolo, con un effetto domino di una rapidità che ha stupito tutti quanti, cadono uno a uno i regimi dei paesi del Patto di Varsavia e, poi, l’URSS. La caduta del socialismo reale sovietico ed europeo provoca dunque sul piano geopolitico sia il venir meno della pregiudiziale atlantica contro i partiti socialisti occidentali sia l’utilità  – per la grande finanza e impresa (internazionale e nazionale) – delle tradizionali politiche economiche keynesiane volte a mantenere nel benessere il ceto medio allargato del nostro paese. Siamo all’epoca dell’ormai celebre incontro riservato tenutosi nel 1992 sul panfilo Britannia tra esponenti del modo politico e istituzionale nazionale e grandi nomi dell’impresa e finanza internazionali: incontro in cui – verosimilmente – si è proprio discusso del “futuro” del modello Italia.

Il terremoto geopolitico della caduta del socialismo reale europeo, in Italia porta come conseguenza tangentopoli, fenomeno che verosimilmente può essere attribuito al fatto che – caduta l’Unione Sovietica – le potenze atlantiche, e gli interessi a queste potenze tradizionalmente vicini, non avevano più un forte interesse strategico ad opporsi a che gli ex comunisti potessero partecipare al governo del paese. La contropartita per il disco verde all’ex PCI al governo in Italia era che la grande finanza internazionale – insieme alle grande famiglie capitaliste nazionali – avrebbe acquisito il controllo delle migliori imprese e banche italiane (specie tra le partecipate pubbliche, che non erano certo poche e per di più erano attive in settori di importanza strategica ed economica). La magistratura venne dunque lasciata libera – per usare un eufemismo – di azzerare il vecchio pentapartito (cosa facilitata dal già ricordato tradizionale allineamento a sinistra di una parte consistente della magistratura inquirente) per spianare dunque la strada del governo agli ex comunisti. Il tutto allo scopo ultimo di liquidare il modello keynesiano italiano per sostituirlo, come vedremo più avanti, con un modello economico più favorevole alle grandi imprese e al capitalismo finanziario.

Nonostante questo, la sinistra post-comunista – così come i centri di interesse che avevano voluto (o almeno appoggiato) la distruzione del vecchio sistema del pentapartito, essenzialmente onde favorire il passaggio in mani private del capitalismo di stato nazionale e la dismissione delle tradizionali politiche di welfare keynesiano care al nostro sistema – non aveva tenuto conto del fatto che la morte politica dei vecchi partiti di centro, non aveva fatto venir meno né l’esigenza di una sintesi tra gli interessi delle varie categorie che componevano la “borghesia allargata” del nostro paese né la predilezione del popolo italiano per il metodo – inaugurato e perfezionato per decenni dalla DC – della politica “ascendente”. In sostanza, tangentopoli era riuscita ad eliminare i partiti di riferimento di una parte del ceto medio allargato, ma non aveva eliminato il ceto medio, che (a differenza della grande impresa e della finanza) non era ancora disposto ad affidare il proprio voto a una sinistra che, dopo svariati decenni di allineamento sovietico, si era all’improvviso dichiarata post-comunista.

Per questo – e specie appunto perché, in quella fase, gli ex comunisti non avevano fatto sforzi eccessivi per apparire diversi dalla “vera sinistra” da cui discendevano – il testimone politico lasciato cadere dal pentapartito veniva agevolmente raccolto da Forza Italia, che – sbandierando il vessillo dell’anticomunismo – poteva assumere il ruolo di una parte della vecchia DC, vale a dire di collettore degli interessi di quella parte di “borghesia allargata” che ancora diffidava di un partito comunista che – a quell’epoca – aveva cambiato nome ma non faccia (e facce). Quello che mancava a questa “nuova DC” era però la capacità (ma forse la sensibilità politica) per capire che, se voleva tutelare davvero gli interessi dei propri elettori, doveva opporsi alla massiccia dismissione del sistema del capitalismo di stato e alla riduzione delle politiche keynesiane che era stato portato avanti in passato dalla “vera” DC. Dichiarandosi invece apertamente come movimento di ispirazione liberale, in sostanza per fornire di un credibile substrato ideologico la sua esigenza di porsi come movimento contrapposto alla sinistra, il partito di Berlusconi finiva invece per fare l’opposto, dunque non opporsi all’agenda di privatizzazioni e dismissioni pubbliche che interessava alla finanza internazionale e avviando tagli del welfare pubblico, non accorgendosi che – in quel modo – avrebbe aperto la via che avrebbe consentito qualche anno più tardi ai suoi avversari del PD di prendere il potere per iniziare a demolire scientificamente il benessere proprio di quello stesso ceto medio che invece Berlusconi affermava di voler tutelare. Berlusconi, politicamente parlando, è stato dunque un eccellente tattico ma un pessimo stratega. O forse è stato anche un eccellente stratega, a voler dar conto alle opinioni che leggono la sua discesa in campo come la conseguenza della necessità di tutelare soprattutto gli interessi delle imprese di famiglia, che la caduta della prima repubblica aveva messo in pericolo.

La convergenza al centro come conseguenza della discesa in campo di Berlusconi e di un sistema elettorale maggioritario

Al di là degli interessi che hanno mosso il Cavaliere ad entrare nell’agone politico, è un dato di fatto che l’entrata in scena della nuova “DC di destra” targata Forza Italia, movimento che sbaragliava alle elezioni la gioiosa macchina da guerra apparecchiata dai postcomunisti (macchina su cui, come si è detto, avevano puntato la finanza internazionale e i salotti buoni nazionali), sortiva l’effetto che gli ex comunisti – ormai orfani di Marx e del Cremlino e restati ancora all’opposizione – mandava definitivamente in soffitta la sua tradizionale dinamica politica discendente per adottare quella ascendente, trasformandosi da partito socialista a movimento liberal (nell’accezione che di questo termini viene data nei sistemi politici anglosassoni). Una simile mutazione a sinistra veniva causata soprattutto dalle leggi elettorali maggioritarie che – in seguito alla stagione referendaria seguita agli scandali di tangentopoli – avevano sostituito i vecchi sistemi proporzionali.

L’esigenza di creare due vaste coalizioni contrapposte per competere in modo efficace in sistemi elettorali maggioritari, aveva infatti indotto il centro destra di Berlusconi ad assorbire in Forza Italia gli ex democristiani di destra, i liberali, i socialisti craxiani e parte dei repubblicani, laddove il partito che era stato PCI assorbiva la maggioranza degli ex comunisti, i socialisti non craxiani e una consistente fetta del mondo cattolico facente capo alle vecchie correnti di sinistra – specie quella dossettiana, di cui Prodi era il rappresentante – della democrazia cristiana e tutto l’insieme di interessi e voti orbitanti attorno al sistema delle ACLI. Sempre per effetto del sistema elettorale maggioritario, i maggiori partiti dei due poli di centrodestra e centrosinistra, stringevano altrettante alleanze elettorali con le (poche) forze che all’epoca erano ancora polarizzate ideologicamente: a destra con il partito di Alleanza Nazionale (che aveva raccolto l’eredità politica conservatrice del vecchio MSI, sfrondando i cascami ancora troppo legati al fascismo) e a sinistra con Rifondazione Comunista.

Una menzione a parte merita la Lega Nord, nata e cresciuta negli anni novanta come movimento territoriale di protesta autonomista (dunque con una sua linea ideologica, ma svincolata dalla tradizionale contrapposizione tra liberalismo e socialismo) e poi finita nell’aggregazione di centro-destra, in cui tuttavia manteneva una posizione di relativa autonomia di linea politica, laddove l’altro alleato – Alleanza Nazionale – si sarebbe invece sempre più allineato sulle posizioni di centro moderato di Forza Italia, in sostanza puntando ai voti della borghesia allargata meno liberale e più conservatrice.

Questo spiega perché i principali partiti di riferimento dei poli di centrodestra e centrosinistra, ormai costituiti da altrettanti conglomerati di residui di forze politiche precedenti non molto omogenee ideologicamente, adottavano sempre più decisamente modelli di dinamica politica ascendente, in cui entrambi i poli, per conseguire il successo alle elezioni, tentavano in sostanza di recepire le istanze di alcune categorie e gruppi sociali senza in compenso elaborare o proporre ai rispettivi elettorati ideologie e narrazioni di sintesi strutturate secondo un determinata visione di mondo e di società. Dalla politica delle idee e dei dibattiti si è così passati – per effetto della crisi della prima repubblica e del conseguente passaggio a un sistema elettorale maggioritario – alla politica delle grandi aggregazioni elettorali, degli interessi delle singole categorie e dello strapotere dei sondaggi. Conseguenza ultima di questo stato di cose era che entrambi i poli politici – potendo già contare sulla fedeltà di voto degli elettori che erano ancora restati ideologicamente schierati a destra e a sinistra – si confrontavano soprattutto per ottenere il consenso dell’elettorato di centro, dunque dell’ampio ceto medio (per il momento ancora benestante), i cui interessi continuavano dunque ad essere ben rappresentati in parlamento.

Questa situazione – insieme alla tradizionale foga che da sempre contraddistingue il dibattito politico italiano – induceva le forze politiche ad adottare modelli di propaganda conflittuale tesa alla costante polarizzazione dell’elettorato moderato, in cui i partiti – per occultare il fatto che in sostanza proponevano agli elettori analoghe ricette – si sforzavano di convincere l’elettore (specie quello cosiddetto “moderato”) a non votare l’avversario. Mentre tuttavia nelle precedenti fasi politiche questo avveniva mediante un tentativo di discreditare l’idea avversaria, ora – dovendo combattere per il consenso di soggetti che guardavano ai propri interessi concreti e dunque ben difficilmente sarebbero stati convinti da discorsi ideologici – era necessario screditare l’avversario con argomenti “morali”. E così, dall’avversario politico (che meritava comunque rispetto, anche se professava idee ritenute sbagliate) si arriva al politico avversario eticamente “impresentabile”. Questo spiega perché, nella fase politica di battaglia per il centro combattuta negli anni novanta del secolo scorso che prende il nome di seconda repubblica, aveva assunto un ruolo politicamente sempre più importante l’intervento del potere giudiziario, specie inquirente.

Da tangentopoli in poi – per effetto delle riduzioni delle tradizionali guarentigie parlamentari costituzionali incautamente votate da tutti i partiti politici sull’onda emotiva suscitata dagli scandali politici – la lotta per la conquista del centro da parte della sinistra è stata infatti accompagnata da un florilegio di inchieste penali sui politici di centrodestra, tanto da portare alla situazione in cui sono state le procure – dunque funzionari pubblici non eletti – a decidere, con un arresto o con un avviso di garanzia (dunque prima di qualunque condanna definitiva) le sorti di governi e maggioranze parlamentari. Questo fenomeno era facilitato dall’ampia cassa di risonanza mediatica che – a differenza di un tempo – veniva fornita dai mass media (alle inchieste giudiziarie sui politici. Una simile pressione giudiziaria (ma soprattutto mediatica) nei confronti del polo di centrodestra, con ogni probabilità si piega con il fatto che Berlusconi – oltre a non piacere alle correnti della magistratura ideologicamente schierate a sinistra – aveva guastato i piani della sinistra (non solo politica) – e soprattutto di certi ambienti finanziari e della grande impresa – che avrebbero voluto consegnare il paese all’ex PCI, per ragioni che spiegheremo tra poco.

La fine delle grandi privatizzazioni come punto di crisi della seconda repubblica

Il sistema del bipolarismo aggregativo convergente verso il centro (che alcuni, per sottolinearne la discontinuità rispetto al passato consociativo, hanno chiamato “seconda repubblica”) era dunque nato dalle ceneri della guerra fredda per impulso della grande impresa e finanza nazionale e internazionale, ma – per effetto dell’imprevista discesa in campo di Berlusconi – il progetto originario (che – come vedremo più avanti – era quello di normalizzare l’Italia al contesto di una “nuova” Unione Europea governata da un centro-sinistra che, in luogo delle tradizionali ricette keynesiane, avrebbe dovuto attuare dottrine neo-mercantiliste) era però andato a monte, trasformandosi in due decenni di alternanza al governo dei poli di centro-sinistra e di centro-destra, che però – essendo accomunati da una dinamica politica ascendente e dovendo contendersi soprattutto il voto dell’elettorato di centro – portavano avanti agende politiche centriste ben poco diverse tra loro e – soprattutto – non erano in grado di distaccarsi del tutto (o quanto meno nella misura in cui avrebbero desiderato la finanza internazionale e la grande borghesia italiana) dalle politiche keynesiane del passato.

La seconda repubblica restava tuttavia ancora conveniente per i centri di interesse che avevano promosso la caduta del vecchio sistema della prima, in quanto entrambi gli schieramenti politici – da Berlusconi a D’Alema a Prodi – si erano mostrati tutti quanti assai disponibili tanto alla progressiva dismissione del capitalismo di stato nazionale quanto all’indebolimento – mediante tagli di alcuni comparti del welfare pubblico e le prime timide riforme del mercato del lavoro – della tradizionale politica economica di stimolo espansivo e supporto alla domanda interna. Se guardiamo infatti ai conti pubblici nazionali di quegli anni vediamo abbastanza chiaramente che l’avanzo primario italiano dal 1990 ad oggi è quasi sempre stato, salvo rarissime eccezioni, in terreno ampiamente positivo (questo significa che la spesa pubblica corrente e per investimenti si è mantenuta al di sotto alle entrate pubbliche da tassazione). Il debito pubblico è dunque aumentato in questi stessi anni per effetto – non della spesa pubblica, che invece veniva ridotta – bensì a causa dell’onere degli interessi sul debito pregresso che doveva ancora essere pagato a tassi altissimi per effetto delle errate previsioni da parte del tesoro negli anni precedenti. In particolare il tesoro si era indebitato a lunghissimo termine a tassi alti (oltretutto adottando strumenti finanziari rischiosi per l’emittente e assai favorevoli per i grandi operatori finanziari privati che acquistavano gli strumenti), non prevedendo l’abbassamento ulteriore dei tassi sui titoli pubblici, con la conseguenza di trovarsi negli anni successivi a dover finanziare il rinnovo di titoli pubblici con titoli che rendevano assai meno rispetto a quelli che dovevano essere rinnovati.

Questo consente intanto di confutare la narrazione, assai comune a livello di informazione mainstream, secondo cui gli italiani, ancora verso la fine del secondo millennio, avrebbero vissuto al di sopra delle proprie possibilità per effetto della spesa pubblica, giacché – da tangentopoli in poi, dunque già all’epoca di Berlusconi e Prodi e ben prima dell’inizio del rigore montiano – gli italiani avevano in realtà già affrontato riduzioni di spesa pubblica tali da consentire una serie quasi ininterrotta di significativi avanzi primari di bilancio, non riuscendo a ridurre il deficit e il debito per ragioni essenzialmente legate alla dinamica internazionale dei tassi di interesse sui titoli del debito sovrano (che in quell’epoca stavano scendendo sempre di più sia per effetto dell’adesione all’euro sia di una politica monetaria che – a livello globale – appariva sempre più imperniata sul controllo dell’inflazione piuttosto che non sull’espansione economica).

La riduzione delle politiche espansive e la stagione delle privatizzazioni non si erano peraltro tradotte in un immediato e sensibile calo della domanda interna nazionale (e dunque del benessere complessivo), essenzialmente per due ragioni: per un verso gli italiani avevano accumulato negli anni precedenti un grande risparmio privato e laute pensioni cui potevano attingere per compensare la riduzione del welfare pubblico e, per altro verso, la già ricordata discesa progressiva dei tassi di interesse a livello globale – che aveva interessato non solo il debito pubblico ma anche l’attività creditizia – aveva favorito, in un primo tempo dopo l’adesione all’Euro, un più facile ricorso al credito per le imprese e per i consumatori, specie per acquistare beni importati dall’estero (che avevano prezzi inferiori a quelli nazionali). Il ceto medio allargato, nella seconda repubblica, non percepiva dunque ancora le conseguenze del cambio di paradigma avviato con la seconda repubblica – di guisa che la domanda interna si manteneva a livelli ancora capaci di sostenere bene il tessuto delle piccole e medie imprese – solo perché gli italiani, per compensare la riduzione del welfare, avevano iniziato a utilizzare i propri risparmi e le rendite pensionistiche nonché a indebitarsi (a basso costo) per acquistare beni di importazione (a basso costo).

La cosiddetta seconda repubblica va dunque avanti secondo questo schema per un paio di decenni fino a quando gli stessi ambienti e interessi che avevano decretato il crollo della prima (e che, da tangentopoli in poi, avevano ampiamente stimolato la dismissione del capitalismo di stato nazionale e l’indebolimento delle politiche keynesiane tanto care alla vecchia DC) decidevano che – essendoci ancora poco da privatizzare e da acquistare – era arrivato infine il momento di “normalizzare” anche l’Italia al modello economico e sociale (che vedremo essere quello tedesco) che più si conformava ai loro specifici interessi. Le ragioni di un simile attentato al tenore di vita della maggioranza dei cittadini del nostro paese (perché di questo, come vedremo, si è trattato e ancor oggi si tratta) meritano tuttavia un apposito approfondimento, che per esigenze di spazio dobbiamo rinviare alla seconda parte di questo scritto, che dovrebbe essere pubblicata nelle prossime settimane sul sito della fondazione Hume e sarà dedicata, appunto, ad una approfondita analisi delle ragioni della crisi del modello del bipolarismo convergente al centro che rappresenta la quidditas della seconda repubblica.




Il debito e il sonno dei mercati

Capisco che sentirsi seduti sopra una montagna di euro sia inebriante. E’ la sensazione che doveva provare lo zio Paperone quando si tuffava fra le monete del suo deposito. E dev’essere la sensazione che provano i nostri governanti quando parlano dei 209 miliardi in arrivo dall’Europa.

Ci sono due importanti differenze, tuttavia. I soldi che arriveranno in Italia non saranno dollari, bensì euro. Ma soprattutto: lo zio Paperone sedeva su soldi propri, perché li aveva guadagnati. Invece i nostri governanti si accingono a sedersi su soldi altrui, che dovranno essere restituiti.

Qualcuno potrebbe obiettare: una parte dei soldi che attendiamo dall’Europa, più di 80 miliardi, sono a fondo perduto. Ma è un’illusione. Chi ha provato a fare i conti, come l’Ufficio Parlamentare di Bilancio, avverte che, dal momento che l’Italia è contributore netto al bilancio europeo, il beneficio effettivo per il nostro paese potrebbe aggirarsi sui 46 miliardi. Che sono meno della metà del nuovo debito che il Governo ha contratto con i tre scostamenti di bilancio approvati durante il primo semestre, e circa un terzo dell’incremento del debito pubblico intervenuto in appena 5 mesi, da febbraio a luglio di quest’anno.

In poche parole: i soldi “veri” (diversi dai prestiti) che prima o poi arriveranno dall’Europa non bastano nemmeno a ripianare il debito aggiuntivo (più di 100 miliardi) che abbiamo già accumulato nella prima parte dell’anno. L’occasione meravigliosa e “senza precedenti” che l’Europa ci offre è di aggiungere ai debiti già contratti nei mesi scorsi altri 130 miliardi di ulteriori debiti, destinati a diventare quasi 170 se ci decideremo a ricorrere anche al MES.

E’ in questa situazione che, da qualche giorno, è partito l’assalto alla diligenza delle “risorse” in arrivo dall’Europa. Centinaia e centinaia di progetti si contendono l’accesso ai nuovi fondi, come se si trattasse solo di decidere che cosa è importante per il nostro futuro. Parole fumose e astratte si inseguono nella speranza di incontrare la comprensione e la benevolenza delle autorità europee cui spetta approvare i nostri progetti di spesa: digitalizzazione, innovazione, transizione ecologica, rivoluzione verde, infrastrutture, istruzione, formazione, equità, inclusione sociale.

Quel che resta del tutto in ombra è il punto decisivo: a conti fatti la manna che arriverà dal cielo europeo è fatta solo di prestiti, e i prestiti andranno restituiti. Il che significa: il problema non è di spendere in cose che riteniamo utili al paese (su questo ognuno ha ovviamente le sue idee), il problema è di far sì che, alla fine, ogni euro speso generi più di un euro di nuovo Pil. Solo così potremo rimborsare domani i prestiti che ci vengono erogati oggi.

E’ questo che i vari piani e progetti dovrebbero essere in grado di garantire, o perlomeno rendere verosimile. E non è affatto un requisito facile. La spesa pubblica corrente di norma distrugge più risorse di quante ne crei, e gli investimenti stessi non sempre sono in grado di far crescere il Pil più di quanto costino. Molto dipende dai settori in cui si investe, dalla qualità dei piani, dai manager chiamati ad attuarli, ma ancor più da un fattore che troppo spesso trascuriamo: l’ambiente economico e istituzionale in cui l’investimento avviene. Se la burocrazia soffoca l’iniziativa privata, la giustizia civile non funziona, il mercato del lavoro è ingessato, il fisco asfissia i produttori, anche i migliori investimenti e i migliori stimoli all’economia rischiano di generare benefici modesti, o addirittura nessun beneficio netto.

Perché la politica non si pone il problema della restituzione del debito? Perché si parla e si ragiona come se i prestiti fossero finanziamenti a fondo perduto, o come se il creditore potesse dimenticarsi del debitore, o rimettere i suoi debiti “come noi li rimettiamo ai nostri debitori”?

Sinceramente non lo so. Alle volte penso che sia la nostra cultura cattolica che ci rende così irresponsabili. Come il peccatore pecca e ripecca sereno in attesa della prossima confessione o indulgenza che lo laverà di tutti i suoi peccati, forse allo stesso modo il politico pensa che alla fine si troverà una quadra, e che i debiti non debbano essere davvero restituiti.

Altre volte, invece, mi capita di pensare che dietro la rimozione del problema del debito vi sia un calcolo preciso, e cioè: il problema riguarda chi verrà dopo, noi intanto spendiamo e acquisiamo consenso, poi chi vivrà vedrà. Può darsi che sia così, che il governo giallo-rosso pensi di durare fino al 2023, spendendo allegramente i 209 miliardi del Recovery Fund, e che la restituzione del debito tocchi a Salvini-Meloni-Berlusconi, quando sarà il loro momento.

Se fosse così, sarebbe un calcolo alquanto cinico. Però, a mio parere, sarebbe anche un calcolo azzardato. La scommessa di poter fare tranquillamente le cicale per 2-3 anni, lasciando a chi verrà dopo la gestione della bancarotta del Paese, non tiene nel debito conto un’eventualità tutt’altro che remota: i mercati finanziari, che in questi mesi sono stati drogati dalle politiche dei bassi tassi di interesse, potrebbero anche svegliarsi. I calcoli della Fondazione Hume sui rendimenti dei titoli di Stato dei paesi europei segnalano che, in questi mesi, gli interessi richiesti alla maggior parte dei paesi dell’Eurozona (compresa la Francia, ma escluse Germania e Irlanda) sono molto più bassi di quanto i fondamentali dei vari paesi suggerirebbero e giustificherebbero. Il che significa: domani potrebbero essere più alti, anche molto più alti.  A quel punto i paesi indebitati fino al collo, come l’Italia, la Grecia, e il Portogallo potrebbero salvarsi da una spirale di innalzamento dei rendimenti (come quella del 2011) solo se le loro economie fossero state nel frattempo risanate, e poste su un robusto sentiero di crescita.

Perché è inutile illudersi: il debito “buono” non è quello che serve a fare le cose che i politici di turno ritengono prioritarie per il paese, ma è quello che i mercati giudicano rimborsabile. E, quando il rapporto debito/Pil è molto alto, ci sono due modi soltanto di rassicurare i mercati: l’austerità (più tasse e meno spese), che serve a diminuire il numeratore, e la crescita, che serve ad aumentare il denominatore.

Ecco perché l’enfasi esclusiva su “come spendiamo questa montagna di soldi”, e la demonizzazione delle riduzioni fiscali (fra le poche misure in grado di dare una spinta alla crescita) sono estremamente pericolose. Certo, potrebbero creare problemi solo ai governi successivi, quando i mercati si sveglieranno. Ma ne potrebbero creare anche al governo in carica, ove esso dovesse durare più a lungo del sonno dei mercati.

Pubblicato su Il Messaggero del 19 settembre 2020