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Politica

Un governo pseudo-Draghi

2 Agosto 2022 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPolitica

O noi o loro. O la Meloni o noi. O sole o luna. Così parlò Enrico Letta, “con occhi di tigre”.

Non sono certo di aver capito chi sia sole e chi sia luna, immagino lui-Letta-sole, lei-Meloni-luna. In compenso ho inteso il messaggio, perché Letta stesso lo ha decrittato: dopo il voto “non ci sarà una terza strada che consentirà di fare chissà cosa, o vincono gli uni o vincono gli altri”.

Mi permetto di dire che, in realtà, la eventualità di una “terza strada” è uno scenario tutt’altro che inverosimile. Supponiamo che, dopo il voto, si scopra che i sondaggi erano sballati (come nel 2006, quando annunciavano il trionfo dell’Ulivo di Prodi) e che il centro-destra non abbia la maggioranza dei seggi. E supponiamo non ne abbia una neanche il “campo aperto” del Pd.

A quel punto si aprirebbero due possibilità. La prima è che, in barba alla dicotomia “o sole o luna”, il sole lettiano riconsideri l’alleanza con i Cinque Stelle, tentando di costruire un governo di salvezza nazionale “contro le destre e l’avanzata del fascismo”. E’ estremamente improbabile che, per una simile soluzione, vi possano essere i numeri in Parlamento, ma scommetterei che – se i numeri vi fossero – Letta ci proverebbe, se non altro perché è già successo. E’ esattamente questo, infatti, che fecero Renzi e Zingaretti nel 2019: un governo di salvezza nazionale per non conferire i “pieni poteri” al pericoloso Salvini del Papeete.

Ma c’è una seconda possibilità, ben più verosimile. In caso di stallo, il Presidente della Repubblica, valorizzando il perdurante consenso per l’operato di Draghi, potrebbe pilotare la formazione di un governo pseudo-Draghi senza Draghi (assumo che Draghi si sia stancato dei partiti).

Che cos’è un governo pseudo-Draghi? E’ un governo con la stessa identica maggioranza del governo Draghi, salvo il fatto che, al posto dei Cinque Stelle, vi sarebbe il drappello dei seguaci di Di Maio. Un governo, dunque, così composto: Pd, Lega, Forza Italia, Azione, Italia Viva, Insieme per l’Italia, Articolo 1, Centristi vari. Ovvero: tutti dentro, eccetto i partiti “estremisti” di Meloni, Conte, Fratoianni e Paragone.

Su quanti seggi potrebbe contare un simile esecutivo?

Tanti, stando agli ultimi sondaggi. Attualmente i partiti dello pseudo-Draghi attirano circa il 55% dei consensi, il che si traduce nella conquista di circa 200 seggi proporzionali su 366. Ma i seggi della parte uninominale, che sono 222, andrebbero  quasi tutti ai partiti dello pseudo-Draghi, eccetto quelli conquistati da Fratelli d’Italia. Anche assumendo che Giorgia Meloni riesca a conquistare 1/3 dei seggi uninominali, ai partiti dello pseudo-Draghi resterebbero circa 150 seggi, che sommati ai 200 conquistati nella parte proporzionale porterebbe il totale a 350 (cui andrebbero aggiunti una decina di seggi per la quota degli italiani all’estero). Poiché nel nuovo parlamento i membri sono solo 600, 360 seggi dovrebbero essere più che sufficienti ad avere una maggioranza sia alla Camera sia al Senato.

Fantapolitica?

Non direi proprio. A rendere verosimile la possibilità di una “terza strada” militano varie circostanze, che è sempre bene tenere a mente.

Primo, il nostro sistema è parlamentare, quindi è normale che la maggioranza di governo non sia decisa dagli elettori. Può piacere o no (a me non piace per niente) ma è così.

Secondo, il trasformismo e la disponibilità ai cambi di casacca sono, da circa 150 anni (ossia dai tempi di Depretis), una costante del nostro sistema politico.

Terzo. Nella seconda Repubblica, la costituzione di governi ibridi destra-sinistra, per lo più motivati con l’eccezionalità della situazione, è divenuta una prassi consolidata.

Ma la circostanza fondamentale che rende verosimile la nascita di un governo pseudo-Draghi, è che in nessuno dei due campi avversi è stata fatta l’unica cosa che avrebbe reso (relativamente) credibile la profezia “o Meloni o noi”: una solenne promessa di non fare nuove alleanze dopo il voto.

Giorgia Meloni, dopo averlo invocato per anni, pare aver rinunciato a pretendere un “patto anti-inciucio”, che eviti il ripetersi di quel che accadde nel 2018, quando Salvini ruppe l’unità del centro-destra per formare un governo con i Cinque Stelle.

Enrico Letta, pur escludendo un’alleanza elettorale con i Cinque Stelle, non ha preso alcun impegno esplicito a non cercare una convergenza con il partito di Conte in Parlamento, all’indomani del voto (omissione comprensibile, posto che una parte del partito ha mal digerito la chiusura ai grillini).

Altroché o Sole o Luna. Mi sa che sarà Terra e trasformismo, come sempre.

Luca Ricolfi

I punti deboli del centro-destra

31 Luglio 2022 - di Luca Ricolfi

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Che il centro-sinistra, dopo la rottura fra Pd e Cinque Stelle, si appresti alle elezioni in una situazione di grande difficoltà è evidente a tutti. Una eventuale coalizione Pd+Mdp+Azione+Italia Viva, allo stato attuale, intercetta circa il 30% dei consensi, decisamente poco per competere con il centro-destra, dato intorno al 45%.

Meno evidente, forse, è il fatto che anche per il centro destra la strada che porta alle elezioni è lastricata di difficoltà. Per parte mia ne vedo almeno quattro, dalla meno importante alla più seria.

La prima è la conflittualità interna nella scelta delle candidature e nell’assegnazione dei collegi sicuri. Le ultime tornate amministrative hanno reso evidente che, su questo terreno, i tre leader del centro destra hanno difficoltà a mettersi d’accordo, e qualche volta a trovare candidati convincenti.

La seconda difficoltà sono le tensioni sulla scelta del candidato premier. La regola da sempre in vigore nel centro-destra, secondo cui la scelta del candidato premier spetta al partito che raccoglie più voti, improvvisamente pare non valere più. Interrogati dai giornalisti, i politici (maschi) di Forza Italia e Lega tentennano di fronte alla prospettiva che la regola possa premiare Giorgia Meloni. Difficile pensare che questo nodo irrisolto non inquini i rapporti fra gli alleati.

La terza difficoltà è l’auto-inabissamento di Forza Italia con la decisione di togliere la fiducia al governo Draghi. Specie dopo l’uscita di Gelmini, Brunetta, Carfagna e Cangini, sarà estremamente difficile, per il partito di Berlusconi, conservare i consensi dell’elettorato liberale e moderato. E, simmetricamente, sarà facilissimo per il centro sinistra ridurre il centro-destra al duo “Salvini & Meloni”.

E poi c’è l’ultima difficoltà, la più importante: il programma. Su molte cose i tre partiti di centro-destra vanno relativamente d’accordo, ma ve n’è una – cruciale – su cui le idee di Berlusconi, Salvini e Meloni divergono sensibilmente: la politica fiscale. Berlusconi e Salvini sono per la flat tax, anche se la declinano in modo un po’ diverso, pro famiglie Berlusconi, pro partite iva Salvini. Giorgia Meloni no, anche se pochi paiono essersene accorti.

E’ da almeno otto anni che, sulla politica fiscale, le idee di Giorgia Meloni divergono radicalmente da quelle di Berlusconi e Salvini. Lo ha fatto capire nell’ultima campagna elettorale (2018), quando – per non scontentare gli alleati – accettò di includere la flat tax nel programma di Fratelli d’Italia, ma solo limitatamente al “reddito incrementale” (ovvero sull’eventuale, improbabile, aumento del reddito da un anno all’altro). Ma lo aveva già reso chiarissimo nel 2014, quando trasformò in disegno di legge una proposta della Fondazione Hume (denominata maxi-job) che prevedeva di azzerare i contributi sociali alle sole imprese che aumentano l’occupazione. Una proposta così “di sinistra” da ricevere il sostegno di Susanna Camusso, allora al vertice della Cgil.

Aggiungo un ricordo personale. Tre anni fa ebbi occasione di intervistarla in tv nel programma di Nicola Porro e, per stanarla sulla questione fiscale, le sottoposi una sorta di domanda trabocchetto: se lei avesse risorse per 10 miliardi, e dovesse usarle per varare un’unica misura fiscale, preferirebbe detassare le famiglie, detassare tutte le imprese, o concentrare gli sgravi sulle sole imprese che aumentano l’occupazione?

Risposta: non avrei il minimo dubbio, metterei tutte le risorse sulle imprese che aumentano l’occupazione.

Se le cose stanno così, è chiaro che sulla politica fiscale si gioca una partita cruciale. Se dovesse prevalere la linea di Giorgia Meloni, la politica fiscale del centro-destra potrebbe forse essere criticata da sinistra, ma non attaccata frontalmente. Non è neppure escluso che i sindacati ne colgano il lato keynesiano, di strumento di contrasto alla disoccupazione.

Ma è un’eventualità improbabile. Molto più verosimile è che Berlusconi e Salvini impongano a tutto il centro-destra la ricetta di sempre: flat tax + pace fiscale. Questo, a mio parere, è un tallone di Achille notevole, e un assist al centro-sinistra. Perché le (poche) buone ragioni dell’aliquota unica e della clemenza fiscale si possono anche difendere, con qualche sottigliezza tecnica, in un seminario fra esperti di opposte vedute, ma sono destinate a trasformarsi in un boomerang in una campagna elettorale. Dove, inesorabilmente, la ferrea logica della comunicazione politica traduce flat tax in “aiutare i ricchi” e pace fiscale in “premiare gli evasori”.

Luca Ricolfi

Sinistra e destra, scambio di ruoli? intervista di Pietro Senaldi a Luca Ricolfi

10 Maggio 2022 - di Luca Ricolfi

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 (testo integrale dell’intervista rilasciata a “Libero”, uscita lunedì 9 maggio)

Cosa ci fa Ricolfi in un panel per scrivere il programma di Fdi, in particolare alla voce istruzione?

Prima di risponderle, caro Senaldi, una premessa e un ringraziamento. Raramente ho letto tante sciocchezze e tanti travisamenti del mio pensiero come dopo il mio intervento alla convention di Fratelli d’Italia (mi hanno persino accusato di indulgenza pro-Putin). Perciò la prima cosa che vorrei dirle è che sono profondamente grato a lei e a Libero per la possibilità che mi offrite di dire quel che penso effettivamente, al di là delle interpretazioni e dei fraintendimenti.

Dunque, cominciamo da come sono andate le cose. Un paio di mesi fa Giorgia Meloni mi ha chiesto se avevo idee da sottoporre alla loro convention, io ne avevo fin troppe. Avrei parlato volentieri di politicamente corretto (e di censura), di politiche fiscali, di scuola e università. Alla fine, avendo solo 10 minuti a disposizione, ho dovuto scegliere, e ho puntato su scuola e università.

Perché?

Mi stuzzicava l’idea di esporre la pars construens del discorso che, da anni, Paola Mastrocola ed io facciamo sui problemi dell’istruzione e della trasmissione del patrimonio culturale (la pars destruenssta nel nostro libro Il danno scolastico. La scuola progressista come macchina della diseguaglianza, uscito qualche mese fa con La nave di Teseo).

La scuola è sempre stata una riserva culturale della sinistra in Italia. Dove ha fallito?

Le riforme democratiche e progressiste, specie dopo il 1969, e massimamente dal 2000, hanno fallito su tutta la linea perché l’abbassamento del livello degli studi, coscientemente perseguito in nome dell’inclusione, ha prodotto esclusione, dispersione, nuove diseguaglianze. Non è strano, succede nella storia: Hegel la chiamava eterogenesi dei fini, i sociologi preferiscono parlare di “conseguenze non intese”, o di “effetti perversi” dell’azione sociale.

Nel nostro libro noi mostriamo, anche con strumenti statistici, che l’abbassamento dell’asticella secerne diseguaglianza. Se adottiamo lo schema di Bobbio (sinistra = uguaglianza, destra = disuguaglianza) è inevitabile concludere che negli ultimi 50 anni i politici progressisti hanno fatto politiche di destra. Sempreché, naturalmente, che cosa sia di sinistra e che cosa sia destra lo stabiliamo in base alle conseguenze che produce, non alle intenzioni di chi la impone.

Sta cambiando qualcosa, nel mondo della scuola?

Qualcosina, direi. Ci sono associazioni, movimenti e piccoli gruppi che si stanno battendo per difendere il ruolo classico della scuola: la trasmissione della conoscenza e del patrimonio culturale. Ma sono piccole minoranze, inesorabilmente bollate come nostalgiche, reazionarie, retrograde. Povero Gramsci…

Ma lei non è, o era, di sinistra?

Certo che lo sono. Lo sono sempre stato, oggi lo sono più che mai. Il problema è che “la sinistra non è più di sinistra”, come ebbe a  notare già una ventina di anni fa Alfonso Berardinelli. Quindi chi tiene saldi alcuni principi di sinistra, tipo la difesa dei ceti popolari, la lotta contro la censura, la parità delle condizioni di partenza, deve amaramente ammettere che la sua parte politica, almeno nella sua componente riformista, li ha clamorosamente traditi.

Da sociologo: sta cambiando qualcosa nei valori fondativi e nelle battaglie della destra e della sinistra?

Quello che, per gli osservatori imparziali, è fuori discussione è che la sinistra main stream è diventata bigotta, intollerante, insensibile alle istanze dei ceti popolari, ossessivamente fissata su migranti e diritti civili (rivendicazioni LGBT, eutanasia, ecc.). E noti che questa deriva la descrivono e denunciano gruppi e osservatori di super-sinistra: in Francia il filosofo Jean Claude Michéa, in Italia – ad esempio – Marco Rizzo, segretario del Partito Comunista. Per non parlare delle preoccupazioni di tante femministe, in radicale dissenso con le teorie gender e le rivendicazioni del mondo trans.

Quanto alla destra, il discorso è complicato perché ci sono tre destre. Forza Italia e Lega non innovano granché, restano tutto sommato partiti anti-tasse, anti-migranti, anti-censura.

E Fratelli d’Italia?

Fratelli d’Italia è in evoluzione, da almeno 8-10 anni. Mi colpì a suo tempo (era il 2014) la decisione di Giorgia Meloni di sottoscrivere una proposta di sinistrissima della fondazione Hume (si chiamava maxi-job), che capovolgeva le politiche fiscali liberiste, puntando tutte le carte su politiche di ispirazione keynesiana (decontribuzione per le imprese che aumentano l’occupazione). Mi parve una (sorprendente) mossa di sinistra, non a caso sottoscritta anche da Susanna Camusso, allora segretaria della Cgil.

E ancora di più mi ha colpito, nella relazione introduttiva di Giorgia Meloni alla convention di Fratelli d’Italia, ascoltare una appassionata difesa dell’uguaglianza delle condizioni di partenza come precondizione del merito, e come strumento essenziale per far ripartire l’ascensore sociale.

E’ come se i due principali partiti italiani si fossero scambiati i ruoli. Al Pd non di rado piacciono cose che fino a ieri avremmo definito di destra, a Fratelli d’Italia talora piacciono cose che eravamo abituati ad associare alla sinistra.

Perché c’è stato questo scambio di ruoli?

E’ un discorso lungo e complicato, che ho cominciato ad affrontare in Sinistra e popolo, (Longanesi 2017) e che sto sviluppando in un nuovo libro. Qui vorrei però menzionare  un aspetto particolare, su cui sto riflettendo: non sarà che stare quasi sempre al governo ha reso il Pd iper-sensibile alle istanze dell’establishment, e stare quasi sempre all’opposizione ha lasciato più libertà di movimento, ma anche di elaborazione politica, al partito di Giorgia Meloni?

C’è un’intolleranza della sinistra verso il pensiero alternativo, che viene pertanto criminalizzato?

Il guaio della sinistra è che, quando adotta una posizione, non riesce a pensarla come una posizione politica fra molte possibili, ma tende a considerarla alla stregua di una scelta etico-morale: di qui il Bene, fuori di qui il Male. Che si tratti di migranti, diritti civili, tasse, campagna vaccinale, guerra in Ucraina, la postura del principale partito di sinistra è sempre quella: noi siamo illuminati, voi siete opportunisti, disertori, retrogradi, incivili, disumani. L’intolleranza è una conseguenza logica della credenza, profondamente illiberale, di avere il monopolio del Bene.

Perché la sinistra non vuol più rappresentare i poveri?

Non so se non vuole, quel che è certo è che non ci riesce. Non credo vi sia una singola ragione, se non altro perché il distacco dai ceti popolari è iniziato almeno 30-40 anni fa, più o meno dopo la morte di Berlinguer. Fra i fattori strutturali che hanno aiutato questa involuzione però ne metterei in evidenza almeno due: la terziarizzazione, che ha drasticamente ridotto le dimensioni della classe operaia industriale, e l’arrivo massiccio dei migranti, che a una sinistra riformista molto imbevuta di cristianesimo sociale sono parsi i veri “ultimi” di cui occuparsi.

Lei parlò di società signorile di massa: ora cosa siamo diventati e cosa diventeremo?

Siamo una società in cui la maggior parte della popolazione abile al lavoro non lavora,  i consumi sono ancora opulenti, l’economia ristagna. Consumo, gioco, intrattenimento, socializzazione, cura di sé, sono diventati i nostri imperativi, il lavoro e lo studio sono tollerati come inconvenienti da sopportare.

Già nel 2019, quando pubblicai il mio libro, era evidente che così non si poteva andare avanti. Dopo il Covid e lo scoppio della guerra in Ucraina dovrebbe essere evidente che il nostro futuro è fatto di minore reddito, minori consumi, e – temo – anche minore libertà. Lo sforzo dei governanti è, comprensibilmente, di farci credere che non è così.

Si sta facendo il funerale del sovranismo: è prematuro?

Mah, bisognerà anche intendersi, prima o poi, su che cosa voglia dire sovranismo, e soprattutto su che cosa sia il suo contrario. Io non vedo affatto bene un’evoluzione dell’Europa in cui ogni paese sia abbarbicato all’interesse nazionale, come prospettano i conservatori con l’idea di un’Europa Confederale. Però, al tempo stesso, non posso non vedere che noi, oggi, abbiamo sia i danni del sovranismo (Francia, Germania, Ungheria difendono con le unghie e coi denti i loro interessi, noi no), sia il peggio dell’europeismo (l’Europa non è stata minimamente in grado di tutelare l’interesse europeo, come la crisi energetica sta mostrando in modo lampante).

E’ una cosa nuova quella uscita dalla tre giorni milanese della Meloni dello scorso fine settimana?

Mi pare di sì, perché già solo il fatto di parlare di contenuti, e farlo anche con esponenti più o meno dichiarati della sinistra, è un atto di grande apertura. Ma in questo giudizio sono influenzato da una mia idea personale, che molti non condividono: e cioè che quello del rapporto con il fascismo sia un non-problema. O meglio un problema che è stato archiviato 27 anni fa da Fini, con la svolta di Fiuggi. Chiedere ulteriori abiure sarebbe come se, alla fine degli anni ’80, qualcuno avesse chiesto ai socialdemocratici tedeschi di ribadire il loro distacco dal comunismo, avvenuto a Godesberg nel 1959.

Quali differenze trova con il progetto originario del centrodestra di Berlusconi del 1994?

Almeno due. Primo, la politica fiscale: liberista quella di Berlusconi, keynesiana (cioè pro-occupazione) quella di Meloni. Secondo, scuola e università: aziendalista la visione di Belusconi (ricordate le “tre i”: inglese, internet, impresa), egualitaria e meritocratica quella recente di Fratelli d’Italia (almeno a giudicare dalla relazione di

Forza Italia era la riedizione della Dc, la Lega di Salvini un’operazione sovranista. Qual è la via italiana dei conservatori?

Lo vedremo, mi sembra che manchi ancora un’elaborazione teorica ampia e coerente.

La forza di FdI è di non essere una destra liberale, visto che l’Italia è Paese allergico al capitalismo spinto e al liberalismo?

Sì, è uno dei punti di forza.

Ma come si fa in Italia ad avere fiducia nello Stato, che fallisce inesorabilmente?

Il problema è che, sull’istruzione, il mercato ha già fallito. Dove sono le borse di studio per i “capaci e meritevoli” che, secondo l’articolo 34 della Costituzione, hanno diritto di “raggiungere i gradi più alti degli studi”, anche quando sono “privi di mezzi”?

Sotto campagna elettorale contro la Meloni la sinistra agiterà lo spettro neofascista: quanta presa ha ancora sull’elettorato italiano?

Secondo me ha ancora presa, quindi – dal suo punto di vista – fa bene la sinistra ad agitarlo. E’ cinico, ma la politica funziona così.

Il centrodestra è molto diviso sul tema della leadership, che invece il centrosinistra ha risolto a favore del Pd: ci sono speranze di comporre i dissidi?

Non molte, direi. Berlusconi e Salvini venderanno cara la pelle.

Al centrodestra non converrebbe, viste anche le divisioni, fare un’operazione in stile Ulivo, cercando un personaggio terzo, per arrivare al potere, come fece D’Alema con Prodi, che poi sostituì?

Forse funzionerebbe, se trovano il nome giusto. Ma sarebbe poco coerente: la destra ha sempre rivendicato l’autonomia della politica.

Berlusconi si è orientato su Salvini per garantire un futuro a Forza Italia. E’ pensabile che, in nome del pragmatismo che lo contraddistingue, cambi cavallo?

E’ pensabilissimo, Berlusconi è imprevedibile. Ma sarebbe un segno di debolezza.

Qual è la ragione della perdita di consensi di Salvini e quante possibilità ha di risalire la china?

Le ragioni sono tante. Gli errori e le gaffe, innanzitutto: caduta del governo giallo-verde, giravolte per l’elezione del presidente della Repubblica, legami inquietanti con il partito di Putin. E poi l’eccessivo semplicismo della linea politica della Lega attuale, molto più rozza della Lega che progettava le riforme federaliste. Oggi Berlusconi e Meloni sono molto più articolati di Salvini.

Gli italiani sono contro la guerra ma i partiti apertamente atlantisti (Pd e FdI) sono i primi e Draghi è il leader più popolare: contraddizioni?

Gli italiani preferiscono Pd e FdI a prescindere dalle posizioni sulla guerra. Il primato (sondaggistico) di Letta e Meloni precede lo scoppio della guerra. Le posizioni sulla guerra possono, tutt’al più, regolare i rapporti fra Pd e Cinque Stelle.

La guerra rafforza o indebolisce la Ue?

La indebolisce, perché mostra due cose: che non siamo affatto uniti, e che siamo a rimorchio degli Stati Uniti.

Perché la destra è pro-pace, il Pd pro guerra e l’estrema sinistra pro-pace?

Credo sia più esatto dire che tutti sono pro-pace, ma dissentono sui tempi e sui modi per raggiungerla, sul prezzo che siamo disposti a pagare, e sui rischi che siamo pronti a correre.

Ritiene che l’opinione pubblica italiana possa reggere a lungo la guerra?

No, l’opinione pubblica è semplicemente stata tenuta all’oscuro delle conseguenze economico-sociali della guerra.

Che effetti avrà la guerra sulla società italiana?

Se ci sarà la terza guerra mondiale, o anche solo molta radioattività in Europa perché è saltata una centrale nucleare, tutti diranno che avevano ragione Sergio Romano, Barbara Spinelli, Luciano Canfora, Alessandro Orsini, eccetera. Se invece avremo “solo” una guerra lunga, con povertà, disoccupazione, e milioni di profughi, il governo Draghi sarà accusato di imprudenza e irresponsabilità. Se, infine, dovesse cadere Putin, l’Ucraina perdesse solo il Donbass, e vi fosse un ritorno abbastanza rapido a una quasi-normalità, tutti esalterebbero la fermezza del fronte occidentale, e la lungimiranza del premier Draghi.

Il punto è che, allo stato attuale delle conoscenze economiche, militari, strategiche, nessuno conosce le conseguenze delle proprie azioni. Che cosa sia razionale e che cosa irrazionale lo deciderà l’esito del conflitto. E sarà comunque, anche quella, una lettura arbitraria, perché domani, è vero, potremo osservare le conseguenze delle nostre scelte, ma nessuno – mai – potrà sapere con ragionevole certezza come sarebbero andate le cose se avessimo fatto scelte diverse. Per questo, un po’ più di umiltà e di dubbi da parte di tutti non stonerebbero.

Punire o fermare Putin?

2 Maggio 2022 - di Luca Ricolfi

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Da qualche tempo a questa parte, di pace, negoziati, compromessi, nuovi equilibri si parla poco. Al loro posto, profezie di vittoria: Putin può vincere, l’Ucraina può vincere. Quel che non è chiaro, però, è che cosa significhi vincere. E se significhi la stessa cosa per tutti.

Per Putin pare che la condizione minima per potersi proclamare vincitore sia il mantenimento della Crimea e l’annessione del Donbass, possibilmente collegati fra loro attraverso la striscia di terra che, lungo il mare di Azov, va da Mariupol alla Crimea.

Ma per l’Ucraina, e per i paesi che la sostengono?

Qui le cose sono molto meno chiare, o meglio sono chiare solo per Usa e Regno Unito (e per Zelensky). Per loro, vincere significa cacciare Putin dall’Ucraina, o con le armi o grazie a un cambio di regime a Mosca. Il fatto che l’impresa possa richiedere anni, comportare la completa distruzione materiale dell’Ucraina, nonché il sacrificio di centinaia di migliaia (se non milioni) di vite umane sembra importare poco. L’idea di fondo è che l’invasore vada punito, perché solo così si potranno evitare ulteriori, future aggressioni della Russia nei confronti di altri paesi europei.

Il mistero si fa fitto, invece, quando cominciamo a domandarci quale sia l’obiettivo dell’Europa, o almeno dei principali paesi europei. Apparentemente è il medesimo degli Stati Uniti, e magari lo è davvero, perché i nostri governi, in nome della unità e compattezza dell’Occidente, hanno accettato di seguire Biden e Johnson nella loro crociata anti-Russia.

Ma non occorre essere fini strateghi per rendersi conto che i nostri interessi sono molto diversi da quelli americani. Primo, perché le sanzioni che infliggiamo alla Russia sono catastrofiche per le economie europee (specie di Germania e Italia), ma fanno appena il solletico all’economia americana. Secondo, perché un eventuale allargamento del conflitto toccherebbe innanzitutto l’Europa, mentre difficilmente metterebbe a repentaglio la sicurezza degli americani. Terzo, perché, per vari motivi, il rischio nucleare che corre l’Europa è incomparabilmente superiore a quello degli Stati Uniti (le centrali nucleari a rischio sono tutte in Ucraina, l’eventualità di un attacco nucleare russo agli Stati Uniti è estremamente remota).

Questa asimmetria fra interessi Usa e interessi europei è particolarmente pronunciata per quanto riguarda la durata della guerra. Per gli Stati Uniti la prospettiva di una guerra che dura 10 anni, in stile Afghanistan, è tutto sommato accettabile, per l’Europa è catastrofica. E lo è innanzitutto per una ragione aritmetica, o meglio di calcolo delle probabilità: se in un generico giorno il rischio di un incidente (ad esempio un missile che cade su una centrale nucleare) è trascurabile, o comunque piccolissimo, in un arco di un anno diventa ragguardevole, e in dieci anni diventa una quasi certezza.

In statistica, è il paradosso del taxista di New York: la probabilità di essere ucciso da un cliente in una singola corsa è quasi zero, ma il rischio di esserlo nel corso di una intera carriera, fatta di decine di migliaia di corse, è altissimo, e fa di quel mestiere una delle professioni più pericolose al mondo.

Se le cose non stanno troppo diversamente da come le abbiamo descritte, diventa fondamentale che l’Europa esca dallo stato di ipnosi in cui Zelensky l’ha precipitata, e cominci a prendere atto dei rapporti di forza reali, nonché degli interessi dei popoli che la compongono. Aiutare gli ucraini a difendersi dall’invasione russa è non solo giusto, ma è nell’interesse dell’Europa. Inasprire e prolungare il conflitto nella speranza di cacciare i russi da tutta l’Ucraina è (forse) nell’interesse degli Stati Uniti, ma non in quello dei cittadini europei, cui la guerra infliggerebbe anni di recessione, una sequela di crisi umanitarie, per non parlare della spada di Damocle degli incidenti nucleari e dell’allargamento del conflitto.

Il vero interesse dell’Europa non è punire Putin costi quel che costi, ma fermarlo. Il che significa convincere Putin stesso e Zelensky a sospendere i combattimenti, sedersi a un tavolo, e cercare un compromesso ragionevole, che fermi l’escalation in atto, e assicuri un minimo di stabilità all’Europa tutta, “dall’Atlantico agli Urali”, come direbbe De Gaulle. Quel che servirebbe, in altre parole, è una grande e coraggiosa iniziativa politica, che finora è mancata perché il problema è stato posto in termini etici (punire l’aggressore) anziché in termini, appunto, politici (minimizzare il danno per i popoli europei, ucraini inclusi). E forse anche perché l’unico leader europeo in grado di tentare l’impresa – Macron – era in altre faccende affaccendato.

Eppure dovrebbe essere chiaro. Arrendersi a Putin non è etico, ma l’alternativa non può essere esporre l’Europa al rischio di una guerra lunga e sanguinosa, e il pianeta a quello di una catastrofe nucleare. Forse, più che dar prova di fedeltà incondizionata all’alleato americano, è giunto il momento per l’Europa di mostrarsi non solo determinata, ma anche saggia, e pienamente consapevole di quale sia il bene dei popoli che la abitano.

Luca Ricolfi

(www.fondazionehume.it)

Perché non festeggio la vittoria di Macron

26 Aprile 2022 - di Dino Cofrancesco

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Se avessi la cittadinanza francese, avrei votato anch’io per Emanuel Macron ma non mi associo ai festeggiamenti per la sua vittoria. Macron, infatti, è poco amato dai Francesi, ha uno scarso seguito e solo lo spettro del presunto sovranismo lepeniano (sovranismo sta per fascismo) lo ha riportato all’Eliseo. Mi chiedo, allora, ma che democrazia è quella in cui vince solo chi rimane l’unico candidato presentabile in campo perché l’avversario politico non è considerato un avversario ‘normale’ ma un nemico, l’incarnazione di Satana?

Ho un terribile sospetto: che le sinistre di governo, perdenti su tutta la linea (gli operai francesi hanno votato per Marine), abbiano trovato il modo di rimanere per sempre in sella. Basta evocare ‘Annibale alle porte’ per ottenere un’assicurazione sulla vita ovvero una facile maggioranza elettorale. Non a caso leader postcomunisti che non hanno nessun serio e realistico progetto in mente, che sono a rimorchio, in Italia e in Europa, dei ‘poteri forti’, dedicano tutte le loro energie alla demonizzazione dei ‘populisti’, sostenuti da giornali che sono ‘fogli d’ordine’ al servizio dello squadrismo intellettuale che caratterizza ormai gran parte della political culture — forse non soltanto nel nostro paese.

Un giornalista non certo wertfrei come Gianni Riotta, in un articolo del 22 aprile, Tribalisti contro globalisti (“la Repubblica”) si è quasi compiaciuto per il fatto che alla divisione tradizionale ‘destra/sinistra’ si sia sostituita quella tra patrioti, “rinchiusi in confini ancestrali”, e globalisti “che guardano al mondo”. Nessun sospetto che mettendo, da una parte, gli ”scalmanati che detestano emigranti, culture e identità diverse”, i nostalgici dello “Strapaese italiano, del protezionismo economico” gli odiatori della “ cultura digitale delle piattaforme sociali” e, dall’altra, i cittadini responsabili e assennati, che non hanno paura della globalizzazione ma la giudicano un’opportunità, non stia descrivendo il mondo ma stia facendo il ritratto di Dorian Gray, allo scopo di mettere in guardia contro gli appestati. E’ la fine della dialettica politica e dello stesso spirito — tante volte chiamato in causa retoricamente — dell’Occidente, impensabile senza la consapevolezza che, nel conflitto politico e sociale, ci sono ‘verità’ sia in uno schieramento che nell’altro.

Che dialogo ci può essere, infatti, tra i ‘virtuosi’ globalisti, esaltati da Riotta, e i perversi ‘tribalisti’? I primi, a suo dire, hanno contribuito “a sradicare la miseria da sterminati Paesi ma contraendo lo status di ceti medi e lavoratori” e tuttavia solo loro sanno come porvi rimedio e come si possa essere “veri patrioti, sereni della propria identità, lingua, classici, tradizioni” ma “curiosi di incrociarla con altri, senza paure o nevrosi”. Insomma tutti i civilizzati sulla stessa barca e i barbari buttiamoli pure in mare. Non può esserci vera partita tra il Bene e il Male giacché il secondo va espulso (almeno moralmente) dal campo di gioco.

In realtà, in una vera democrazia liberale quanti competono per il potere non si dividono in eletti, da una parte, e dannati, dall’altra. Se i secondi ottengono voti, vuol dire che vengono incontro a interessi, bisogni, paure — ossessioni, se si vuole — che sono da tenere in seria considerazione giacché si  richiamano pur sempre a valori diversi ma tutti  in sé rispettabili (anche se i modi per metterli in pratica trasformano il vino in aceto). In una società aperta, non si vince mai per ko ma solo ai punti. Avrei preferito Macron a Le Pen non perché la seconda è una creatura satanica (come credono al ‘Foglio’) ma perché, pur non nascondendomi le poche buone ragioni del Rassemblement National, il Presidente uscente mi dava più affidamento in politica estera, oggi divenuta di cruciale, drammatica, importanza.

Sono disposto ad ammettere che i populisti e i sovranisti italiani — per i quali non ho mai votato —ingenerino non poche riserve ma i loro avversari sono forse migliori? Discendono dai lombi di Cavour, di Giolitti, di De Gasperi? Ormai persino nei salotti liberali fare i nomi di Matteo Salvini e di Giorgia Meloni è come fare il nome di Silvio Berlusconi negli stessi salotti di trent’anni fa. Non parliamo dei Dipartimenti universitari. Se si chiede, però, quali battaglie sovraniste sono intollerabili per un paese civile — quando non si tirano in campo le solite politiche di limitazione delll’immigrazione, ribadite  da Trump come da Biden, che non ha tolto un mattone dal muro fatto  costruire dal primo — si ottengono risposte vaghe e generiche che alludono a presunti razzismi (sull’antirazzismo leggere il grande Pierre-André Taguieff), alla persecuzioni dei ‘diversi’, alla bocciatura — che peraltro ho salutato con un sospiro di sollievo–della  legge Zan, all’apologia di fascismo (che spesso consiste nel riproporre verità scontate per la storiografia revisionista). Vero è che lo snobismo etico-estetico con cui si guarda alla destra italiana ha una sua funzione precisa: quella di farci sentire parte di una ‘comunità di linguaggio’ che ci consente di venir tollerati (se si è liberalconservatori) nei circoli che contano.

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