Il governo non ha scelta

Discutiamo, discutiamo pure. Dividiamoci fra “aperturisti” e “chiusisti”. Ripetiamo il mantra secondo cui la salvezza sono i vaccini. Continuiamo a invocare una “data certa” per le riaperture. Però la realtà è che il governo non ha alternative. Verosimilmente sa benissimo che cosa dovremmo fare, ma altrettanto verosimilmente sa che – arrivati al punto cui siamo arrivati – l’unica cosa che può fare è quella sbagliata: aprire appena si libera qualche centinaio di posti nelle terapie intensive, pregando Iddio che l’Italia non ripercorra la triste parabola della Sardegna, precocemente promossa a “regione bianca” per essere immediatamente retrocessa a “regione rossa”.

Verso questo scenario ci conducono due fattori estremamente potenti. Il primo è la composizione politica del governo, che per la prima volta dall’inizio della pandemia deve tenere conto sia della spinta della sinistra ad aprire le scuole e le attività culturali, sia di quella della destra ad aprire gli esercizi commerciali. Da questo punto di vista, l’allargamento della maggioranza ha rafforzato le spinte aperturiste, e indebolito il già minoritario partito della prudenza: ora sinistra e destra non si confrontano sulle ragioni della salute e su quelle dell’economia, ma semplicemente competono per intestarsi il merito delle riaperture che (presto) verranno.

Ma c’è un altro fattore, ben più potente, che sta riducendo al silenzio il partito della prudenza, ed è che la strada percorsa dai paesi che, per lo più senza vaccini, hanno domato l’epidemia, per noi è divenuta semplicemente impercorribile.

Che cosa hanno fatto paesi come l’Irlanda, la Danimarca, il Portogallo, la Svizzera, il Canada, il Sud Africa?

Hanno fatto quello che noi stessi abbiamo fatto un anno fa, nella prima fase  dell’epidemia: un lockdown tempestivo e serio. Grazie ai dati di mobilità di Google è facile misurare il grado di rispetto del confinamento in casa dei vari paesi, e il risultato è chiarissimo: fatta 100 la forza del nostro lockdown di un anno fa (aprile 2020) il nostro ultimo lockdown è stato inferiore a 50 (e addirittura a 30 nel febbraio scorso), mentre quello dei paesi che ce l’hanno fatta è stato prossimo a 100, cioè eguale al nostro durante la prima ondata. Insomma, loro il lockdown l’hanno fatto davvero, noi ci siamo baloccati per ben 6 mesi con il geniale algoritmo dei colori. E lo abbiamo fatto perché non abbiamo mai cambiato la filosofia che ha guidato il governo dell’epidemia: chiudere solo quando si intravede il collasso del sistema sanitario, e le file di ambulanze che non riescono a entrare in ospedale mettono a tacere il partito del Pil; riaprire non appena gli ospedali accennano a svuotarsi e il valore di Rt scende sotto 1. Una filosofia, peraltro, cui si è sempre accompagnato un comandamento non scritto: “non avrai altro Dio all’infuori del lockdown” (e ora del vaccino…). Un comandamento non sorprendente, perché gli dei minori si chiamano: tamponi di massa, tracciamento, sorveglianza delle quarantene, medicina territoriale, ricambio dell’aria nei locali chiusi, rafforzamento del trasporto pubblico locale, solo per citarne alcuni; e costano molta più fatica di un decreto che ci chiude tutti in casa.

Se questo a grandi linee è quel che è successo, verrebbe da dire: perché, visto che siamo indietrissimo sulle vaccinazioni, non possiamo fare oggi quel che il partito della prudenza (Crisanti, Galli, Ricciardi) non si è mai stancato di raccomandare negli ultimi 6 mesi?

La risposta è drammatica: perché abbiamo esaurito tutte le riserve, a tutti i livelli. E quando le riserve sono esaurite, un governo non può che provare a ricostituirle, anche se questo costerà altre migliaia di morti.

Ma riserve di che cosa?

Riserve di pazienza, innanzitutto: su 14 mesi, ne abbiamo avuti appena 4 di libertà, o meglio di libertà vigilata: giugno, luglio, agosto, settembre. La gente è esasperata, e ha perfettamente ragione. Non si può stare mesi e mesi nell’attesa messianica che “i dati migliorino”, facendo sacrifici che sono certamente minori di quelli di un anno fa, ma a differenza di quelli sono risultati perfettamente inutili: i morti di oggi sono più o meno quelli di novembre, così le ospedalizzazioni, così i ricoveri in terapia intensiva.

Non sono però solo i nostri nervi ad essere messi a dura prova. Per circa metà del paese, ad essere esaurite sono anche le fonti materiali di sostentamento. Noi oggi vediamo scorrere in tv le immagini degli esercenti, degli artigiani, delle partite IVA che ogni giorno protestano in piazza perché 6 mesi consecutivi di chiusure e limitazioni hanno ridotto allo stremo milioni di famiglie. Ma sembriamo non renderci conto che il mondo che essi rappresentano non è un piccolo (sia pur importante) settore della società italiana, ma ne costituisce circa la metà, forse persino qualcosa di più della metà: dietro a 5 milioni di lavoratori autonomi non ci sono solo loro, e le rispettive famiglie, ma c’è la sterminata realtà dei dipendenti delle piccole imprese, dimenticate dalla legge e dalle organizzazioni sindacali. Una società del rischio, esposta alle turbolenze del mercato, che nulla ha a che fare con l’altra metà della società italiana, costituita dal vasto mondo dei garantiti: pensionati, impiegati pubblici, dipendenti delle imprese grandi e medie, tutti soggetti che durante la pandemia non hanno sofferto perdite di reddito, e anzi spesso, grazie al rallentamento dei consumi, hanno aumentato i depositi in banca.

La frattura fra questi due mondi, quello dei tutelati dalla mano pubblica e quello degli esposti ai rischi del mercato, è sempre esistita nella società italiana, ma durante la pandemia si è enormemente approfondita, non solo per ragioni ovvie (le chiusure colpiscono di più il lavoro autonomo), ma perché fino a 2 mesi fa la politica ha nettamente privilegiato i membri della società delle garanzie, incanalando il grosso delle risorse al mantenimento delle tutele dei già garantiti, e lasciando solo le briciole all’altrettanto vasto mondo dei non garantiti. La politica, in altre parole, anziché cercare di attenuare la voragine che si stava allargando fra garantiti e non garantiti, ha parteggiato nettamente per i primi, fino al punto di incrementarne alcune tutele, come nel caso dell’aumento agli statali concesso in piena pandemia non solo a medici e infermieri (come era giusto) ma a tutti, compresi i molti dipendenti in smart working, cui dobbiamo la spettacolare caduta di efficienza della Pubblica Amministrazione.

Perché è successo?

E’ semplice, perché il governo era giallo-rosso, e da decenni la sinistra preferisce rappresentare gli interessi e le aspirazioni della società delle garanzie, lasciando la società del rischio alla destra. Con un risultato paradossale: di fronte alla più grave diseguaglianza prodottasi nella storia repubblicana, la sinistra al governo – da sempre, a parole, paladina della lotta alle diseguaglianze – non solo ha latitato, ma ha fatto quel che era in suo potere per accentuarla, e così garantire i propri ceti di riferimento; mentre la destra, che da decenni i propri ceti di riferimento li ha nel mondo dei produttori, si trova oggi ad essere uno dei pochi argini contro l’aumento delle diseguaglianze.

Ma, da un paio di mesi a questa parte, la destra non è più all’opposizione (Fratelli d’Italia a parte), e partecipa pienamente al governo. E si trova di fronte a un problema che, arrivati a questo punto, ha un’unica soluzione. Il problema è quello di ridare ossigeno ai lavoratori autonomi, stremati da un anno di politiche pro-garantiti. La soluzione, arrivati all’ennesimo (e insufficiente) scostamento di bilancio, non può che essere quella di riaprire, e consentire agli operatori economici di sfruttare le opportunità della stagione turistica.

Ecco perché, dicevo all’inizio, il governo non ha alternative: deve aprire, anche se sa che non ci sono le condizioni per farlo in sicurezza. E’ l’amaro lascito di un anno di inerzia sulle misure alternative al lockdown. C’è almeno da augurarsi che tale inerzia, che già ci è costata la seconda ondata e la terza, non si perpetui nei prossimi mesi, alimentata dalla speranza che il combinato disposto dei vaccini e della bella stagione basti a evitarci la quarta ondata, e ci levi le castagne dal fuoco per sempre.

Perché quella speranza sussiste, ma è ben lontana dal costituire una certezza.

Pubblicato su Il Messaggero del 16 aprile 2021




Terza Repubblica o colonia del nord Europa?

I partiti italiani. Parte terza

Dopo aver trattato per sommi capi della storia della prima repubblica e dopo aver analizzato nascita e crisi della seconda repubblica, giungiamo finalmente alla terza e ultima parte di questo lavoro, in cui mi occuperò dello scenario politico nazionale attuale, ossia della fase che – concludendo il travaglio della seconda repubblica iniziato con il governo Monti – dovrebbe verosimilmente aprire una nuova importante stagione politica nazionale.

Populismo e sovranismo come prime reazioni politicamente organizzate degli esclusi dall’agenda UE.

Come si era già accennato nella seconda parte di questo lavoro, due sono state le forze politiche nazionali che negli ultimi anni hanno incarnato l’opposizione all’agenda mercantilista (da alcuni definita neo-liberista) dell’UE, attuata dal centro sinistra a trazione PD: la Lega e il Movimento 5 stelle. Si tratta tuttavia di due forze politiche differenti per genesi e interessi di riferimento. Il che peraltro spiega l’evoluzione di linea politica che ciascuno dei due movimenti ha avuto durante la lunga stagione del centro-sinistra europeista.

La Lega – come si è accennato – esisteva da decenni, già dalla fine della prima repubblica, come movimento inizialmente connotato da un forte radicamento territoriale ed identitario nelle regioni del nord Italia: regioni in cui – come è noto – è molto alta la percentuale di soggetti che appartengono proprio al quel ceto medio di commercianti, operai ed impiegati benestanti, artigiani e piccoli imprenditori, il cui benessere le politiche mercantiliste che piacciono all’UE mirano specificamente a disgregare. Non dovrebbe dunque stupire che la parte del ceto medio allargato che votava il centrodestra, e in particolare una parte degli elettori che una volta erano berlusconiani, si siano progressivamente spostati – a partire dalla “grande depressione montiana” inaugurata nel 2011 – verso il movimento leghista. Altrettanto ha fatto una certa porzione dell’elettorato di sinistra, rappresentato dai lavoratori dipendenti delle piccole e medie imprese (dunque quelli meno sindacalizzati), che rappresentano la vittima – forse non designata, ma certamente inevitabile – dei modelli economici e sociali che l’UE (e dunque il centrosinistra a guida PD) stava imponendo al paese. E’ tuttavia bene ricordare sin d’ora che nella Lega convivono due anime: quella industriale manifatturiera del nordest e, ma in minor proporzione, anche del nord ovest (e che non è in via di principio sfavorevole a una integrazione europea, in quanto è riuscita a inserirsi nella filiera produttiva tedesca o a farsi finanziare da capitali francesi) e quella meno “nordista” e – in generale – più legata al mondo del commercio, dell’artigianato e delle libere professioni, assai più dipendente dalla domanda interna e, di conseguenza, assai meno europeista.

Questa è la ragione per cui la Lega – scegliendo di restare all’opposizione (a differenza di Forza Italia) sin dall’inizio della lunga fase politica del rigore deflattivo inaugurata da Monti, ma soprattutto decidendo di abbandonare la sua tradizionale identità “nordista” e secessionista – ha gradualmente assunto il ruolo di principale forza anti-europeista (ma sarebbe meglio dire “anti-unionista”) non tanto per precisa scelta ideologica, ma in quanto ha finito per raccogliere i consensi (e dunque rappresentare gli interessi) di una vasta porzione del ceto medio allargato (non più solo del nord del paese) che le politiche del nuovo centro sinistra tendono a ricacciare nel proletariato da sussidiare o, almeno, a collocare fuori dall’area del benessere di cui godeva in passato. Sono stati dunque i “nuovi leghisti” del centro e del sud (insieme ad una parte dei vecchi leghisti del nord) a spostare il baricentro della Lega verso posizioni euroscettiche.

L’altro movimento di protesta contro “il sistema” – ossia il Movimento 5 stelle – appare invece focalizzato sugli interessi di parecchi tra quelli che, già prima di Monti, non se la passavano per niente bene, ma che la crisi e le politiche del rigore montiano hanno portato in “avanzato stato di riproletarizzazione”. Questo significa che il Movimento 5 stelle – quanto meno nella sua fase dei “vaffa” – incarnava una protesta, da un lato, più estrema nelle forme, ma per altro verso decisamente meno omogenea, sotto il profilo degli interessi di classe economica, rispetto a quella della Lega. Nei sostenitori del movimento sono infatti confluite alcune componenti dell’elettorato della sinistra estrema (in particolare quelle deluse dalla svolta europeista e mercantilista del PD ma che non si riconoscevano nel comunismo ortodosso di tradizione marxista), sia alcuni anarchici e sia – soprattutto – tutta quella vasta platea di soggetti, ideologicamente neutrali, che però – per effetto delle crisi economiche degli ultimi anni, aggravate dalle ricette deflattive del rigore europeo – hanno finito, specie nel meridione del paese ma anche nelle grandi aree urbane del centro-nord, a dover “campare” di lavoricchi precari (spesso para dipendenti precarizzati con partita IVA) se non di espedienti. In breve: se la Lega “denordizzata” si preoccupava degli interessi di quelli che temevano di essere i futuri esclusi dal benessere, il M5S nasceva per rappresentare quelli che esclusi lo erano già.

Entrambi i movimenti – Lega e Movimento 5 stelle – sono comunque cresciuti nei rispettivi consensi perché si opponevano alle politiche rigoriste e deflattive della “sinistra europeista” a guida PD, ma la Lega captava la protesta e il consenso delle categorie produttive e dei lavoratori del settore privato che chiedevano in sostanza di poter continuare a lavorare per tornare a far crescere il loro benessere (così come di chi voleva garantirsi pensioni proporzionate ai contributi versati e agli anni di lavoro effettuati), laddove il M5s riscuoteva consensi in categorie che – per migliorare la propria situazione – potevano avere interesse anche solo a percepire sussidi (o posti) pubblici per continuare a campare.

Questa differenza – che si traduce anche in una diversa distribuzione geografica dei relativi elettori: centro nord leghista e sud e isole a cinque stelle – è fondamentale per comprendere l’evoluzione successiva dello scenario politico. Si noti infatti che una fetta non trascurabile dell’elettorato del movimento 5 stelle, anche nella fase di protesta antieuropeista, era rappresentato proprio da quelle categorie di cittadini che – nel sistema tedesco ispirato al modello Hartz – sono destinatari di sussidi pubblici. Questo spiega bene del resto perché i grillini abbiano trovato con la Lega uno dei pochi punti di convergenza (e, per converso, di frizione col PD) sul tema delle politiche migratorie: i migranti economici sono infatti dei diretti concorrenti – specie in alcune aree geografiche del paese – degli elettori grillini proprio sul mercato (oltre che del lavoro, anche) dei sussidi pubblici ai bisognosi.

La differente composizione tra l’elettorato leghista e quello grillino rappresenta peraltro anche la ragione per cui – dopo la tornata elettorale che mandava in minoranza il blocco europeista e vedeva un sensibile successo del Movimento 5 stelle, seguito a distanza dalla Lega – il governo gialloverde riusciva a produrre solo i decreti sicurezza (unica misura realmente condivisa a livello ideologico), la flat tax e quota cento (in quota Lega) e il reddito di cittadinanza (in quota cinque stelle), prima di finire travolto dai conflitti tra i due partiti, peraltro innescati delle abili manovre messe in campo, al momento della formazione del governo, da quelle parti del deep state da sempre favorevoli al blocco europeista e al PD. Merita infatti di essere segnalato che il Presidente Mattarella, a suo tempo eletto dal blocco europeista (specie grazie ad un Matteo Renzi, allora segretario del PD, assai impegnato a favore della sua elezione) soprattutto per assicurare una continuità agli indirizzi politici della presidenza Napolitano, mostrava un deciso, e secondo alcuni irrituale, interventismo nella formazione del governo gialloverde: dapprima il Presidente della Repubblica si rifiutava di accettare una lista di ministri in cui era stato inserito – in quota Lega – un soggetto che era oggettivamente dotato di tutti i requisiti “tecnici” per rivestire l’incarico come Paolo Savona (escluso per il solo fatto di aver manifestato in passato posizioni euroscettiche, dunque per una ragione esclusivamente politica), per poi fare in modo che MEF e ministero degli esteri fossero occupati da due ministri “tecnici” che, oltre a non provenire dalle fila dei partiti della maggioranza di governo, per collocazione e percorso politico potevano essere annoverati tra gli europeisti. E qui c’è davvero poco da replicare a chi stigmatizza l’operato di Sergio Mattarella: un organo che, per costituzione, è privo di ogni responsabilità politica, eccede chiaramente le proprie prerogative nella misura in cui pretende di superare il parlamento per dare un indirizzo politico al governo nazionale. Il vulnus costituzionale c’è stato ed è pure stato assai grave. Ovviamente tutto è avvenuto nell’assordante silenzio di giuristi e mass media.

Oltre che poco in linea con la costituzione, peraltro, si è trattato di un intervento gravido di conseguenze politiche (il che peraltro – secondo alcuni commentatori – era esattamente quel che l’intervento in questione mirava a ottenere). L’inserimento in posizioni chiave di questi due ministri – insieme al successivo doppiogiochismo del premier Conte sui dossier europei, in relazione alle quali prendeva decisioni non aderenti all’indirizzo politico parlamentare – avrebbe infatti rappresentato un fattore decisivo per mettere in crisi il governo gialloverde, entrato in fibrillazione per il fatto che, alle elezioni europee del 2019, la Lega faceva il pieno di voti, accreditandosi dunque come prima forza del paese a livello di consensi. Una simile situazione, secondo le liturgie della politica, avrebbe dovuto portare a un ampio rimpasto di governo, con aumento del “peso” – in termini di ministri e sottosegretari – della Lega rispetto all’allora alleato di governo.

Sennonché l’esperienza di governo gialloverde aveva con ogni probabilità convinto i vertici politici della Lega del fatto che la componente pentastellata della maggioranza – con la sponda dei già citati due ministri tecnici “europeisti” e a causa dell’ormai conclamata ambiguità del Presidente del Consiglio su alcuni dossier europei, peraltro ampiamente sostenuta dal Quirinale – difficilmente avrebbe consentito l’adozione di una linea politica che andasse al cuore del problema italiano che, come dovrebbe essere ormai chiaro a chi legge, per la Lega è rappresentato dal conflitto tra il tradizionale modello di sviluppo keynesiano espansivo del nostro paese (che trova chiaro riscontro nella carta costituzionale nazionale) e l’assetto mercantilista e rigorista del modello economico dell’UE (per come definito da TUE, TFUE e nei regolamenti in materia di moneta unica e aiuti di stato nonché in quelli che regolano il settore creditizio). Questo spiega perché la Lega, invece che spingere per un immediato rimpasto, tentava di forzare la mano, alla ricerca di elezioni anticipate, togliendo l’appoggio parlamentare al primo governo Conte. E qui finisce quella che possiamo definire “storia politica”. Il resto è attualità, di cui parleremo qui appresso.

Premessa: i diversi livelli del conflitto sotteso all’attuale fase politica.

Per comprendere la situazione politica attuale è il caso di fare un po’ di analisi marxista (o, per chi preferisce, hegeliana), senza tuttavia la pretesa (né invero l’auspicio) di essere marxisti anche nelle soluzioni. Il travaglio della seconda repubblica ha infine fatto emergere le due nuove classi economiche e sociali in conflitto (o – per chi preferisce Hegel – la tesi e l’antitesi). E si tratta di un conflitto articolato su più livelli: economico, giuridico e sociale (per questo la sintesi – se mai arriverà – sarà comunque difficile).

A livello economico il discorso dovrebbe essere ben chiaro per chi ha letto le prime due parti di questo scritto: lo scontro è tra il modello keynesiano (fondato su politiche anti cicliche di spesa pubblica espansiva tendente alla piena occupazione e allo stimolo della domanda interna) e il mercantilismo secondo il modello delle riforme Hartz (politiche pro cicliche deflattive e di controllo dei prezzi, con disincentivo della domanda interna e delle dinamiche salariarli, accompagnate da una concentrazione degli interventi pubblici in incentivi alla produttività e all’export con contestuale sussidio diretto – sempre con risorse pubbliche – alle sacche di disoccupazione e povertà che l’adozione del modello in questione inevitabilmente genera).

Questo conflitto tra modelli economici si traduce tuttavia –nel nostro ordinamento – in un conflitto giuridico tra l’assetto costituzionale del ’48 (chiaramente di stampo keynesiano) e i principi (altrettanto chiaramente mercantilisti) che stanno invece alla base dei trattati unionisti di Lisbona e Maastricht, così come dei vari regolamenti in tema di moneta unica, di aiuti agli stati e di mercato finanziario e bancario. Il conflitto, si badi bene, sorge proprio con la creazione della “nuova” Unione Europea (che rappresenta il risultato della ristrutturazione dell’architettura europea seguita alla caduta del blocco sovietico), per aggravarsi ulteriormente con la successiva adozione della moneta unica sotto il controllo dalla BCE. La precedente struttura della CEE secondo il trattato di Roma  – in quanto semplice area di libero scambio e di libera circolazione – era infatti ideologicamente più neutrale, consentendo ancora ai singoli stati membri di adottare i modelli di sviluppo economico che preferivano.

Sul piano sociale, infine, il conflitto economico si risolve nel nostro paese in una forte pressione politica sul ceto medio allargato, tesa a polarizzarlo e, dunque, a spezzarlo: da una parte il ceto medio che potremmo definire “produttivo” (professionisti, artigiani, commercianti al dettaglio e piccole e medie imprese) che – per non scomparire – finisce per sostenere le agende più Keynesiane insieme ai lavoratori dipendenti del settore privato e – dall’altra parte – l’apparentemente paradossale alleanza tra i rentier, la grande finanza e la grande impresa, per un verso, e i variamente diseredati, il ceto medio a più alto reddito, l’impiego pubblico, che hanno un preciso interesse ad appoggiare le forze politiche che propongono modelli mercantilisti e produttivisti, ma anche più assistenzialisti. Lavoro produttivo (ogni tipo e forma di lavoro che contribuisce ad una attività il cui risultato soddisfa una domanda effettiva di beni o servizi) contro rendita (ogni tipo e forma di rendita, incluso il relativo “indotto”) potrebbe dunque essere il modo più semplice – ma anche in certa misura semplicistico – per definire lo scenario attuale sotto il profilo del conflitto sociale. Si tratta di uno scenario semplificato, in quanto la situazione è complicata dal fatto che vi è una parte del mondo produttivo – rappresentato dalle imprese piccole e medie, specie del nord est del paese, che sono integrate nelle filiere produttive della mitteleuropa – che in realtà ha interessi convergenti, quanto meno in termini di integrazione europea, con quelli delle categorie improduttive e del grande capitale.

Inutile dire che una situazione sociale ed economica tanto intricata sta generando uno scenario politico assai complesso e, quel che più conta, molto difficile da ricomporre in una sintesi efficace. Ma vediamo finalmente di capire cosa sta succedendo ai giorni nostri.

La (ri)collocazione del movimento cinque stelle: dai “vaffa” grillini a gamba mancante della dottrina Hartz all’italiana.

Al termine dell’esperienza del primo governo Conte, il Movimento 5 stelle, essenzialmente per non correre il rischio di perdere – con elezioni anticipate – il ruolo di prima forza politica in parlamento, sceglieva di allearsi con il suo arcinemico del giorno prima, rappresentato dal PD e dalle altre forze europeiste, creando il paradosso di una maggioranza “giallorossa” a sostegno di un esecutivo appoggiato dal centro sinistra, ma guidato dal medesimo Presidente del Consiglio che aveva retto il governo precedente, che esprimeva un programma in antitesi con quello del PD. La cosa non deve però stupire, giacché Conte – anche nel primo mandato – aveva in realtà, con la sponda del Quirinale e contro l’indirizzo politico dalla sua maggioranza parlamentare, portato avanti un’agenda politica che potremmo definire “cripto-europeista”. Dunque il secondo Conte – inteso come Presidente del Consiglio – è solo il primo Conte che può finalmente agire alla luce del sole nel portare avanti l’agenda europeista (dunque franco-tedesca), in piena continuità rispetto agli esecutivi Monti, Letta, Renzi e Gentiloni.

Le ragioni del favore mostrato sin da subito dall’UE per l’alleanza tra PD e Movimento cinque stelle non dovrebbero  dunque essere difficili da comprendere per chi ha capito i termini dello scontro politico e sociale attualmente in corso in Europa: la maggioranza giallorossa, sotto il profilo della rappresentanza politica, esprime infatti alla perfezione l’alleanza tra gli esponenti delle categorie sociali che stanno ai due estremi del modello Hartz: grande capitale, deep state e impiego pubblico, in quota PD, e neo-proletariato interessato al sussidio pubblico (o al massimo al “posto” pubblico) in quota M5S. Poco conta dunque che il M5S si sia poi spaccato sull’appoggio al governo Draghi, giacché la linea politica che entrambe le anime del movimento rappresenta, seppure in diverso modo e con differenti sfumature di “vaffa”, è appunto il lato assistenziale della dottrina Hartz. Il M5S – anche se scisso o diviso in diversi gruppi parlamentari – tenderà dunque d’ora innanzi a collocarsi nello stesso blocco del PD e dei partiti europeisti più radicali. Un segno evidente in tal senso è il tentativo di Grillo di riconfigurare il movimento affidandolo alla guida dello stesso Conte, ossia a chi era stato il garante dell’alleanza di governo con il PD.

Il gruppuscolo degli ultraeuropeisti

In parlamento vi sono ormai da qualche tempo dei piccoli partiti (Azione, +Europa, Leu) che, di fatto, rappresentano le truppe di complemento della prosecuzione dell’asse tra PD e M5S. Si tratta infatti a ben vedere – sotto il profilo della linea politica – di altrettanti correnti del PD, in quanto ne condividono l’europeismo ad oltranza, pur declinandolo secondo differenti sensibilità: ad esempio abbiamo l’impostazione radical liberal (in linea con la radical left americana) per il partitino di Emma Bonino e anche per Leu, che trovano terreno comune col PD – ritagliandosi uno spazio di agibilità politica – puntando sui noti temi sociali e civili del liberalismo più estremo (gender, cancel culture, individualismo spinto etc.).

Il partito di Calenda è invece assai più interessante, non tanto per quel che dice (proponendo in sostanza una nozione di politica come di buona amministrazione), quanto per il fatto che – in fin dei conti – è il primo partito che ammette di non avere una sua visione politica: la “grande” politica delle scelte di fondo, per Calenda e soci, la fa infatti già l’UE, laddove alla politica nazionale resterebbe in definitiva solo il compito di amministrare bene lo stato nel rispetto di linee programmatiche già decise altrove. Il movimento in questione – non so quanto consapevolmente – è insomma il vero paradigma di quel che potrebbero essere i partiti italiani di centro sinistra: una sorta di versione più efficiente (e meno ispirata a logiche clientelari) del PD, dunque partiti che si occupano di gestire al meglio la colonia italiana nei limiti delle direttive di Bruxelles. Ovviamente – per ragioni intuibili – tutti questi movimenti resteranno per sempre Legati a doppio filo allo schieramento del PD.

Le due anime del carroccio.

La Lega è l’unico partito in senso proprio che è restato sulla scena politica nazionale, essendosi tutti quanti gli altri movimenti politici trasformati o in piccoli o grandi comitati elettorali o in comitati di gestione di piccole o grandi clientele politiche. Il movimento leghista, oltre ad essere ancora presente e capillarmente articolato sul territorio in vere e proprie sezioni, è infatti dotato di una organizzata gerarchia interna ed applica una ferrea disciplina di partito. Gli aderenti si dividono tra semplici sostenitori (che non hanno obblighi di collaborare all’attività del partito ma non possono ambire a cariche o candidature) e veri e propri tesserati (che devono invece fare attività sul territorio e possono in cambio ambire a incarichi politici). Si tratta insomma – quanto a struttura e organizzazione – di un partito di stampo “sovietico”, nel senso che è modellato sulla falsa riga del vecchio PCI degli anni della cortina di ferro. Solo un partito con queste caratteristiche poteva del resto superare pressoché indenne il micidiale colpo assestatogli dalla magistratura con l’azzeramento della sua capacità finanziaria in seguito alla nota vicenda dei 49 milioni di euro.

Proprio questa ferrea disciplina e organizzazione interna rende meno evidenti le dinamiche delle “correnti” interne. Come si è accennato, infatti, nella Lega convivono due componenti, una più antica (e più “nordista”) e una più recente (e più “nazionale”). La componente nordista (facente capo alla vecchia guardia che si identifica in personaggi come Giorgetti e Calderoli e che trova in Zaia il riferimento di nordest) è meno decisamente euroscettica e si mostra più incline ad accettare politiche liberali (nel senso di mercantiliste), trovando i propri consensi sia in un certo mondo finanziario e imprenditoriale lombardo sia nelle imprese medie e piccole del triveneto (ma anche lombarde e piemontesi) che si trovano integrate nelle filiere produttive del nord Europa, così come nelle imprese che si sono internazionalizzate a livello di capitale e in quelle che si reggono principalmente sull’export. La componente più “nazionale” del partito (che si identifica grosso modo nella linea dei “nuovi” economisti della Lega, Borghi e Bagnai) è più giovane anagraficamente ed esprime posizioni nettamente euro critiche nonché una linea di politica economica neo-keynesiana, rappresentando il riferimento politico – oltre che dei lavoratori dipendenti delle piccole e medie imprese e di una parte dell’impiego pubblico – soprattutto del piccolo commercio e dell’artigianato, del mondo delle professioni e, infine, della piccola e media impresa meno internazionalizzata e di quella che ancora si rivolge principalmente al mercato interno.

Si noti anche – perché è importante per capire il senso di alcune mosse della Lega – che gli interessi delle categorie che si riconoscono nella corrente più nordista della Lega sono in certa parte assimilabili a quelli di parte dell’elettorato della “prima” Forza Italia (quella che qualche anno fa rastrellava consensi quasi plebiscitari in Lombardia), di guisa che proprio l’esistenza di questa corrente rappresenta in realtà il collante che tiene in vita l’alleanza tra Forza Italia e la Lega. E’ infatti verosimile supporre che – a una ricollocazione di Forza Italia in un polo di centro con Italia viva a sua volta alleato con il centrosinistra (ripetendo lo schema europeo delle “grandi coalizioni” tra popolari e socialisti) – implicherebbe la conservazione dei voti di Forza Italia nel sud del paese, ma al grave prezzo di una probabile emorragia di voti nordisti verso la Lega: voti che finirebbero per essere intercettati dalla corrente nordista del carroccio. La maggiore importanza acquisita dalla corrente nord-leghista in seguito all’appoggio della Lega al governo Draghi consente dunque in realtà alla Lega di consolidare – nei confronti di Forza Italia – una posizione di vantaggio politico tale da consentirgli di esercitare meglio la sua leadership nel centrodestra.

Matteo Salvini è sinora riuscito a interpretare assai bene il (non facile) ruolo di mediatore tra le due anime del carroccio, sia utilizzando le sue abilità tattiche per far crescere i consensi del partito senza scontentare oltremodo nessuna delle due correnti, sia focalizzando l’elettorato sulla sua figura di “capitano” del movimento. Sino a quando infatti i consensi si manterranno elevati e dipenderanno in ampia misura dal gradimento verso la persona dell’attuale segretario, infatti, nessuna delle due correnti del partito avrà alcun interesse a mettere in dubbio la leadership di Salvini nel partito. Personalizzare il consenso è insomma uno dei modi in cui Salvini riesce a mantenere l’equilibrio nel suo partito. Quel che tuttavia è ancora più interessante notare è come la Lega – in questa fase storica – stia tentando di realizzare al suo interno proprio la sintesi politica che dovrebbe anche realizzare la politica nazionale nel suo complesso, vale a dire coniugare il rilancio della domanda interna nel contesto di un ritorno a politiche economiche più keynesiane con la permanenza del paese nella cornice dell’UE.

Forza Italia dopo Berlusconi e la scommessa al centro di Matteo Renzi

Un tentativo di sintesi, ma differente, potrebbe peraltro essere in atto anche al centro. Dai tempi della vecchia DC il centro era infatti scomparso dai radar, frantumato dal terremoto di tangentopoli per poi essere diviso e assorbito a destra e a sinistra dall’adozione di sistemi elettorali maggioritari. Quando le leggi elettorali hanno iniziato a inserire correttivi proporzionali più significativi, ecco che il centro è magicamente ritornato un ipotesi politica. Si tratta però di un centro assai differente rispetto a quello di un tempo: numericamente assai più esiguo, si propone infatti lo scopo di rappresentare l’ago della bilancia tra il blocco di sinistra a guida PD e quello di destra capeggiato dalla Lega. Un simile ruolo politico potrebbe essere svolto solo se le due ali “centriste” dei due schieramenti – vale a dire forza Italia da una parte e Renzi dall’altra – riusciranno a unirsi in un unico gruppo parlamentare con sufficiente peso elettorale: una specie di kleine Koalition, che – però – avrebbe un peso politico importante – e anche determinante – qualora alle prossime elezioni raggiungesse consensi tali da consentirgli di essere appunto l’ago della bilancia tra le coalizioni di centrodestra e centrosinistra.

In questa direzione pare muoversi abbastanza decisamente una componente di Forza Italia che appare sempre meno allineata a Berlusconi e che, dunque, potrebbe tentare di acquisire un ruolo importante quando si aprirà la successione per la leadership del partito. Quanto a Renzi, la sua ben nota spregiudicatezza e i suoi altrettanto noti repentini ricollocamenti tattici rendono difficile fare previsioni attendibili, ma – guardando alla sua storia politica – è possibile supporre che la creazione di una “piccola DC”, che sommi – trasformandole in correnti interne al partito – le componenti meno berlusconiane di Forza Italia agli esponenti di Italia Viva (includendo magari anche renziani ancora in forza al PD), sia una ipotesi plausibile (e per ora frenata dal fatto che, se questo nuovo soggetto politico si presentasse domani alle elezioni, probabilmente la corrente Renziana avrebbe meno peso elettorale rispetto a quella forzista).

Quel che non è ancora chiaro è dunque se Renzi vuole fare la “nuova DC” riducendosi ad una alleanza di Italia Viva con Forza Italia (o con una sua parte) oppure se mira a qualcosa di ben più ambizioso: riprendere il controllo del PD, ricollocandone la linea politica più al centro, per poi assorbire quel che resta del partito di Berlusconi e creare davvero una nuova DC. Le recenti dimissioni di Zingaretti da segretario del PD, con designazione di Bonaccini, uomo notoriamente vicino a Renzi, potrebbe essere sintomo del fatto Renzi sta lavorando anzitutto a questo secondo scenario, lasciando dunque l’opzione “ago della bilancia” solo come “piano B”.

Fratelli d’Italia come vero partito conservatore italiano e il suo ruolo nel centrodestra

Fratelli d’Italia si è posto in evidente discontinuità di linea politica rispetto alla vecchia Alleanza Nazionale. Laddove infatti il partito di Gianfranco Fini aveva tentato di trasformare il partito in un movimento in giacca e cravatta “moderatamente liberale” (che aveva appoggiato il governo Monti), dunque che puntava allo stesso elettorato di Forza Italia e a una parte degli elettori meno nordisti della Lega, l’epoca di Giorgia Meloni segna invece un percorso di riavvicinamento verso posizioni più coerenti con le radici storiche (missine) del partito.

Fratelli d’Italia appare oggi l’unico partito autenticamente  conservatore presente nel panorama italiano nonché – in campo economico – l’unico movimento politico che esprime compatto una linea ideologicamente avversa al liberalismo. In sostanza la linea di Giorgia Meloni è nazionalista (dunque antieuropeista e sovranista per scelta ideologica), tradizionalista (dunque avversa all’agenda culturale liberal) nonché propensa all’interventismo pubblico in economia di tipo keynesiano (ma anche autarchico e corporativo) e per nulla mercantilista (e tanto meno globalista). Fratelli d’Italia – rispetto alla Lega – offre dunque una solida rappresentanza politica (ideologicamente più coerente anche se più polarizzata a destra) per chi sostiene posizioni euroscettiche, anti mercantiliste e anti globaliste.

Questo spiega perché, con Fratelli d’Italia, il gioco degli equilibri di coalizione nei confronti della Lega si svolge a parti invertite: l’indebolimento, con l’appoggio a Draghi, della componente sovranista della Lega a favore dell’ala più liberale – se rafforza la Lega nei suoi rapporti di potere con l’altro alleato, Forza Italia – gioca invece contro la Lega e a favore del partito di Giorgia Meloni. La presenza di Fratelli d’Italia nella medesima coalizione elettorale con la Lega, tuttavia, ha anche una funzione importante (e invece positiva) nella misura in cui consente che i voti leghisti “persi” per effetto della svolta “moderata” della Lega, restino comunque appannaggio della medesima coalizione, trasferendosi a Fratelli d’Italia. Fratelli d’Italia rappresenta dunque a sua volta una componente fondamentale per l’equilibrio della coalizione di centrodestra e anche per la stessa Lega, che – nella situazione attuale – ha di certo più interesse a conservare l’alleanza con il partito di Giorgia Meloni che non quella con il movimento di Berlusconi, specie contando – come si è detto – che una parte di Forza Italia sta flirtando in modo ormai piuttosto scoperto con Matteo Renzi e il PD.

Quel che resta di Gramsci

Una menzione a parte meritano i partiti (o, per meglio dire, il partito) di “vera” sinistra, ossia ispirati al socialismo marxista. In parlamento sono infatti restati a sventolare bandiera rossa solo i comunisti italiani di Rizzo, che portano avanti una linea politica avversa all’europeismo, individuando correttamente nell’UE un nume tutelare del capitalismo finanziario e mercantilista, che – ovviamente – chi si richiama al marxismo ortodosso non può che osteggiare (con buona pace del PD). E’ tuttavia altamente improbabile che il partito di Rizzo possa apparentarsi – in prospettiva elettorale o anche solo di governo – ad alcuno dei due schieramenti maggioritari e neppure all’eventuale “nuovo centro”. Quel che resta di Gramsci, dunque, starà perennemente all’opposizione, come il vecchio PCI, ma senza avere anche solo un frazione dell’influenza sociale e degli strumenti di pressione su cui poteva contare il vecchio partito comunista.

Si noti tuttavia che, negli ultimi tempi, vi è stato un fiorire di movimenti catalogabili come di sinistra (ad esempio Vox Italia, recentemente ridenominato in Ancora Italia, o il fronte sovranista italiano). Si tratta di movimenti accomunati dal tentativo di usare la bandiera dell’anti europeismo per cercare una ardita sintesi tra posizioni politiche ispirate alla sinistra più keynesiana (e anche a volte marxista), sovranismo nazionalista, umanesimo laico e libertarismo di matrice liberale classica. Solo il tempo dirà se il tentativo in questione riuscirà, per un verso, a incontrare consensi elettorali tali da portare a una rappresentanza parlamentare effettiva e, successivamente, a esprimere una linea politica parlamentare coerente. L’impressione è che simili movimenti – in ragione della loro forte opposizione alle politiche deflattive unioniste e all’austerità – se giungessero in parlamento potrebbero appoggiare più agevolmente l’azione di governo della coalizione di centro destra, che non quella del centro sinistra a giuda PD. Poco plausibile – per quanto non da escludersi a priori – appare anche l’apparentamento di questi movimenti coi comunisti italiani, considerando che il movimento in questione in questi ultimi anni ha sempre tenuto una linea assai identitaria nei confronti di ogni forma di “nuova sinistra” comparsa nell’agone politico nazionale, finendo in tal modo per perdere pezzi per strada e per non trovare alleati.

Terza Repubblica italiana o colonia dell’Unione Euroteutonica?

Se il governo gialloverde ha rappresentato l’antitesi della tesi politica euro montiana, il governo giallorosso ha segnato un chiaro tentativo di ritornare a quella tesi. Il punto vero è tuttavia che l’economia del paese è in sofferenza da troppi anni e, dopo il colpo tremendo assestato dal Covid, ormai è diventato difficile – per le categorie che del rigore europeista ancora beneficiano – riuscire a sostenere in modo credibile dinanzi alle maggioranze impoverite la narrazione per cui l’adesione al sistema dell’Euro e all’UE garantirebbe un benessere diffuso. La presa progressiva presa di coscienza del ceto medio allargato delle conseguenze nefaste dell’adesione all’UE e alla moneta unica sta quindi portando il sistema verso una vera crisi (nel senso dell’etimo greco); il che – se vogliamo adottare una prospettiva storicistica – significa che i tempi sono maturi per una sintesi.

Se la prospettiva è quella corretta, il tentativo di dare vita a un governo di larghe intese per gestire la coda dell’emergenza Covid potrebbe, hegelianamente, essere considerato lo strumento obbligato per una sintesi dialettica tra i modelli socioeconomici che si fronteggiano nell’agone politico e sociale. Se infatti da un lato sarebbe assai poco realistico proporre un semplice ritorno al vecchio keynesianesimo democristiano (che è il sistema ancora indicato da alcuni per mettere fine al “neoliberismo” globalista), sarebbe per converso ingiusto (oltre che ben poco costituzionale) accettare supinamente l’imposizione ex abrupto al nostro paese di modelli economici e sociali che – oggettivamente – da noi non hanno funzionato, portando a una riduzione sensibile del benessere della maggioranza degli italiani e recando danni enormi al tessuto produttivo ed economico (imposizione che, in sintesi, è invece quello che vorrebbero ottenere i pasdaran dell’europeismo a tutti i costi, PD in testa). Occorre in sostanza che – in Italia – tra Keynes e Hartz venga trovato un punto di equilibrio. Ma, e qui sta il punto vero, la sintesi non è necessaria solo a livello italiano (e, a dire il vero, neppure lo sarebbe solo a livello di Unione Europea). Siccome la crisi generata dallo scontro tra le tesi ed antitesi in conflitto è globale, altrettanto globale deve essere la sintesi. Ma chi potrebbe trovare il bandolo di una simile matassa?

Chi ha letto il mio commento sul discorso di Mario Draghi a Rimini dovrebbe sapere già come la penso al riguardo: Mario Draghi – nascendo keynesiano e dunque comprendendo perfettamente i termini economici e sociali del problema (così come le ricadute a livello globale delle eventuali soluzioni scelte per risolverlo), sapendosi muovere con sicurezza nel mondo della politica economica e monetaria internazionale, avendo dimostrato di essere europeista ma non appiattito sugli interessi di Berlino e Parigi e, dulcis in fundo, godendo di appoggi e fiducia in ambienti che possono decidere di investire risorse ingentissime sulle sue eventuali scelte di politica economica – è forse la sola persona che potrebbe tentare di elaborare, proprio partendo dall’Italia, una proposta di nuovo modello di sviluppo economico-finanziario che, adattando le idee di Keynes al nuovo contesto e alle diverse esigenze della globalizzazione, operi un riequilibrio nella struttura di una UE che invece, ora come ora, è oggettivamente tanto sbilanciata a favore di alcune economie e a danno di altre da rendere più che probabile un suo collasso a medio termine, in assenza di correttivi. Siccome però la stabilità dell’UE rappresenta un tassello fondamentale per gli equilibri geopolitici ed economici globali, ecco che adottare la “cura Draghi” per l’Italia e l’UE potrebbe giocare anche nell’interesse di attori politici, economici e finanziari extraeuropei, primi fra tutti gli Stati Uniti.

La storia potrebbe dunque ripetersi: così come – nonostante i mal di pancia di Berlino – Mario Draghi, con l’assenso di Parigi, aveva già a suo tempo salvato l’Euro cambiando le carte in tavola rispetto alle regole unioniste, ce la farà questa volta supermario a salvare l’Italia e a ravvivare, avviandone un ripensamento complessivo, l’ormai stanco progetto dell’Unione Europea? Solo il tempo può dirlo. A noi tocca sperare che le forze politiche nazionali così come le cancellerie europee (e, come vedremo qui appresso, Parigi in particolare) gli consentano ancora di fare whatever it takes, nella consapevolezza che si tratta di una delle poche persone che è in grado di trovare il bandolo della matassa italiana senza far saltare in aria in malo modo la costruzione europea.

L’Euro non funziona? Facciamone due!

La pre-condizione che potrebbe consentire una sintesi tra Hartz e Keynes in Europa è che – nel contesto di una maggiore integrazione anche politica dell’Unione Europea, che dovrebbe infine dotarsi della possibilità di emettere titoli di debito pubblico autonomo e finanziabile con l’emissione di moneta da parte della BCE – si formino due aree valutarie distinte: un Euro del sud meno forte (che includerebbe Francia, Italia, Spagna, Portogallo, Grecia) e un Euro del nord rivalutato (ossia in sostanza un grande marco) che includerebbe la mitteleuropa insieme alla Finlandia e agli altri paesi inclusi nell’area di influenza economica più diretta della Germania.

La prospettiva non è affatto irrealistica, considerando che la Francia potrebbe trarre benefici tanto da un vero bilancio europeo che solidarizzi il debito pubblico (laddove la Germania da sempre osteggia con vigore simili soluzioni) quanto dallo stare in un’area monetaria unica con l’Italia (ma senza la Germania). La Francia – in questi decenni – ha infatti investito ingentissimi capitali nel nostro paese (acquisendo il controllo di parecchie grandi imprese, banche e assicurazioni nazionali), dunque non dovrebbe essere disposta a correre il rischio di veder svalutare i propri asset finanziari per effetto o di una italexit o della creazione di un “euro 2” che non vedesse la partecipazione anche della Francia. Se invece fosse la Germania, insieme ai suoi paesi satelliti, a lasciare l’area monetaria in cui stanno Italia e Francia, quest’ultima non avrebbe problemi di svalutazione dei propri investimenti nel nostro paese.

Si noti poi che anche la Germania potrebbe in realtà trarre alcuni vantaggi dalla separazione delle aree monetarie, a patto che entrambe le aree restassero nel contesto di un mercato unico europeo di libera circolazione delle merci. I tedeschi potrebbero infatti beneficiare della svalutazione dell’Euro del sud (o, se si preferisce, dalla rivalutazione del grande marco) per importare a minor prezzo quel che già importano ora delle imprese del sud Europa (e, per quel che interessa a noi, del nord Italia) che sono integrate nelle sue filiere produttive. Il problema di una divisione delle aree monetarie, per i tedeschi, starebbe dunque solo nella riduzione dell’export verso il sud Europa e – soprattutto – nel fato che il suo già traballante settore bancario vedrebbe svalutata la (davvero notevole) mole di crediti accumulati in questi anni nei confronti di debitori dei paesi del sud.

 Nello scenario in questione – anche se non è il caso di approfondire in questa sede un argomento tanto complesso – va considerata anche la spinosa questione del saldo passivo Target 2, ossia degli ingentissimi crediti (per ora solo figurativi, a causa del fatto che nel sistema Euro sia le banche centrali dei paesi creditori che quelle dei paesi debitori sono altrettante emanazioni della BCE) vantati dal sistema bancario tedesco confronti di quello italiano e degli altri paesi del sud Europa. In caso di creazione di una duplice moneta nell’area dell’UE, la gestione di questi crediti potrebbe infatti essere negoziata, compensando in qualche modo l’inevitabile svalutazione dei crediti in questione che seguirebbe alla creazione della seconda moneta.

La partita vera – a livello di politica internazionale – si giocherebbe tuttavia sulla creazione di un bilancio dell’UE, che sia finanziato, non solo e non tanto con tasse unioniste, ma anche e con emissioni di titoli pubblici comuni, garantiti da una BCE capace a sua volta, non solo di emettere moneta, ma anche di acquistare direttamente quegli stessi titoli e, dunque, di assumere il ruolo di vero e proprio prestatore di ultima istanza. Una simile prospettiva – come già si diceva – va nell’interesse di Francia e Italia, mentre è qualcosa che la Germania, quanto meno sinora, ha sempre mostrato di non voler in alcun modo accettare. Se dunque nell’UE iniziasse a formarsi – nei paesi del sud Europa – un fronte comune a favore di una riforma nei termini espressi in precedenza, potrebbe a quel punto essere la stessa Germania a prendere in considerazione la soluzione della duplice moneta UE (o di andarsene essa stessa dall’Euro o dall’Unione), in modo da poter organizzare secondo i principi economici e monetari più funzionali ai suoi specifici interessi (ma che poi sono quelli che attualmente ispirano il sistema dell’UE e che vengono imposti a tutti quanti, anche se ne beneficiano in pochi) solo la sua area più prossima di influenza economica.

Si noti infine che, in questo complesso gioco di equilibri, l’Italia ha in mano uno strumento di pressione da non sottovalutare e che sinora non è mai stato messo sul tavolo da alcuno dei governi di centro-sinistra. L’eventuale uscita unilaterale dell’Italia dal sistema della moneta unica (previa “segregazione” pure unilaterale del suo sistema finanziario, ossia limitazione per legge alla possibilità di circolazione dei capitali in uscita dal nostro paese), provocherebbe infatti nell’UE – specie nel sistema finanziario e bancario di Germania, Olanda e Francia – un mezzo cataclisma. Per un verso infatti l’italexit renderebbe assai meno conveniente per la stessa Germania la conservazione di una moneta unica (strumento che, è inutile raccontarsi le favole, è stata voluta dalla Germania anche per ridimensionare il solo vero concorrente europeo sul manifatturiero, ossia l’Italia). La Francia si troverebbe a sua volta di fronte alla prospettiva di una pesante svalutazione dei suoi ingentissimi investimenti in Italia e a dei rischi di rientro dei capitali investiti nel nostro paese. Infine, il già traballante sistema bancario e finanziario tedesco (ma anche quello olandese) dovrebbero affrontare il rischio non riavere mai indietro (o, comunque, di veder pesantemente svalutati) i crediti verso l’Italia, sia a livello di crediti verso i privati sia a livello di saldo Target 2. In sintesi: l’Italia – anche se il gioco in UE dovessi iniziare a farsi duro – avrebbe a disposizione tutti gli strumenti per reggerlo a muso altrettanto duro. Queste sono cose che, ovviamente, Mario Draghi sa benissimo.

Quo vadis Mario?

La linea politica di un nuovo governo si valuta solitamente usando due criteri: equilibri tra partiti nella sua composizione e primi provvedimenti. Vediamo di capire che sta facendo Draghi. La lista dei ministri presentata per il suo governo non include nomi di spicco nei posti chiave (ad eccezione forse del MEF). Dunque è restato deluso chi, come me, si aspettava un esecutivo composto esclusivamente di tecnici di alto livello, senza chiara appartenenza politica, confinando la “vera politica” al livello – pure importante, ma meno decisivo in termini di immagine e di linea politica – dei sottosegretari.

 Se ci limitassimo all’esame dei ministri ci troveremmo di fronte ad una specie di riedizione del Conte bis, che parrebbe voler dare il colpo di grazia politico al M5S e coinvolgere la Lega in ministeri o poco importanti o “difficili”, considerando anche che il solo incarico ministeriale di peso è stato attribuito a un esponente della corrente più europeista della Lega. Quanto ai ministri in quota Forza Italia, ben due su tre stanno a loro volta nell’ala del partito più favorevole all’intesa col PD. In sintesi: il partito che politicamente ha tratto più vantaggi dalle nomine ministeriali è stato il PD, che non solo ha guadagnato ministeri importanti, ma soprattutto ha consolidato la sua leadership nella coalizione di centro sinistra. Per il resto, il governo Draghi pare essere stato composto per dare un assist a Forza Italia (ma indebolendo la posizione di Silvio Berlusconi nel partito) e alla vecchia guardia della Lega (quella nordista e meno keynesiana).

L’impressione è insomma di avere a che fare con ministri nominati più da Mattarella che da Draghi, il quale – quanto meno in quella prima fase – non ha mostrato particolare ansia di cercare una discontinuità di indirizzo politico rispetto al suo predecessore (e – di conseguenza – rispetto ai governi degli ultimi dieci anni), in modo da ritagliarsi sin da subito un ruolo da protagonista che, per competenze e prestigio, avrebbe potuto anche voler assumere sin da subito (e che, a dire il vero, diversi italiani – e non solo di centro sinistra – sperano vivamente che possa assumere). Draghi, uomo notoriamente prudente, potrebbe insomma aver voluto iniziare a saggiare solo in punta di piedi il terreno minato della politica nazionale, onde evitare false partenze.

Si tratterebbe peraltro di una prudenza più che giustificata, se si pensa che conferire l’incarico a Draghi già nella prima parte dell’anno (dunque a emergenza sanitaria in corso) – mettendolo a capo di una maggioranza eterogenea e di una compagine ministeriale che sembra fatta apposta per creare discordia più che per governare in armonia una crisi epocale – potrebbe anche essere una strategia del PD(R) per “bruciare” lo stesso Draghi come candidato alla presidenza della repubblica, onde tentare un Matterella bis (mandato che, nel PD, è ritenuto assai importante trovandosi a cadere in un periodo in cui il parlamento sarà quasi certamente appannaggio del centro-destra). Dalle parti di Berlino (e dunque di Bruxelles), peraltro, un Draghi “forte” al Quirinale piacerebbe certamente meno del remissivo Mattarella. Dunque non è peregrino supporre che il PD, di concerto col Colle, abbia tentato di ostacolare la corsa al Quirinale di Draghi, creando una compagine ministeriale tale da generare tensioni e conflitti nella nuova maggioranza, sperando magari che sia proprio la Lega – come era accaduto già con il primo governo Conte – a volersi poi assumere la responsabilità politica dinanzi al paese di mandare a monte l’esecutivo di larghe intese.

Il sospetto che qualcuno, a sinistra, potrebbe voler mettere in difficoltà Draghi pare avvalorato dalla considerazione che il primo provvedimento adottato dal governo ancor prima della fiducia (e proprio dal ministro Speranza, ossia da uno dei “reduci” di Conte salvati da Mattarella) è stata la chiusura degli impianti da sci dieci ore prima della riapertura già preparata – con il placet dello stesso ministero – da diverse settimane, inducendo gli imprenditori a fare gli ennesimi investimenti inutili in un momento di assenza di fatturato. Draghi è stato informato del decreto e non si è opposto, ma – a governo non ancora “fiduciato” – difficilmente avrebbe potuto fare diversamente. Nello stesso senso potrebbe peraltro essere letta la cronometrica precisione delle esternazioni del solito Ricciardi che chiede immediatamente (al solito Speranza) un lockdown nazionale totale. Ma non diversamente potrebbe dirsi della già ampiamente manifestata volontà del ministro della salute di proseguire fino a Pasqua nella vecchia linea “chiusurista a colori” sinora adottata (peraltro senza particolari risultati) e che trova eco nelle politiche di chiusura ad oltranza imposte anche da Parigi e Berlino nei rispettivi paesi.

Chiunque creda che certe iniziative abbiano a che fare con la crisi sanitaria, coltiva pie illusioni perché evidentemente non conosce bene la politica italiana. Simili provvedimenti e annunci hanno infatti assai poco a che vedere con la volontà di risolvere l’epidemia, ma perseguono scopi chiaramente politici, essendo mirati (dal lato Speranza) più che altro a colpire chirurgicamente gli interessi della piccola borghesia che vota Lega o centroderstra (ossia di chi è costretto a lavorare per campare, non appartenendo a nessuna delle varie categorie protette che vanno a comporre quella che è stata efficacemente definita come “società signorile di massa” e che – in maggioranza – vota il centrosinistra). Simili attacchi al ceto medio lavoratore e produttivo alimentano infatti tensioni interne al governo ma anche tra le due anime della Lega e, infine, creano delle frizioni tra gli alleati della coalizione di centrodestra. Se Draghi – che per ora ha dato assenso alla linea Speranza sulla crisi sanitaria – si mostrasse in futuro troppo condiscendente di fronte simili giochi politici (giochi che, è bene chiarirlo, se davvero sono frutto della strategia sopra ipotizzata, andranno avanti senza tregua), potrebbe essere Draghi stesso a pagare, insieme alla Lega, il conto politico.

Probabilmente in questa prospettiva va dunque letta la scelta del centrodestra che – prevedendo possibili imboscate di Mattarella e del PD – ha scelto, verosimilmente di comune accordo tra i partiti della coalizione, di lasciare Fratelli d’Italia all’opposizione. Una simile scelta mitiga l’impatto negativa, in prospettiva elettorale, dell’appoggio leghista al governo Draghi, dato che i sovranisti più “duri e puri” eventualmente delusi dalla Lega – alle prossime elezioni – traghetterebbero quasi certamente nel partito di Giorgia Meloni, lasciando invariata la forza elettorale complessiva della coalizione. A loro volta, invece, una parte degli elettori di Forza Italia potrebbero scegliere di passare a votare una Lega “più moderata”, specie se – in caso di nuova crisi di governo – l’ala meno berlusconiana di Forza Italia riuscisse a imporre al partito o una alleanza con il centro sinistra o una convergenza col nuovo centro renziano. Se Mattarella e il PD hanno dunque mostrato la consueta abilità nel tentare di trasformare Draghi nel presidente del consiglio dell’ennesimo governo a trazione PD, il centrodestra sta giocando bene le sue carte per mandare a monte il piano senza rompersi le ossa alle prossime elezioni.

Ed infatti le conseguenze politiche dell’appoggio della Lega a Draghi non hanno tardato a mostrarsi: coalizione di centrodestra che resta coeso anche con la Meloni all’opposizione, Movimento 5 stelle prossimo alla scissione che si affida a Conte, dunque togliendo consensi al PD, che dunque a sua volta entra in grave fibrillazione con dimissioni di Zingaretti, aprendo la delicata fase del “con Renzi” o “contro Renzi”. Sin qui, dunque, si può dire con una certa sicurezza che il centrodestra stia portando a casa la partita sul piano tattico. Ma quel che interessa davvero capire è altro: al di là dei giochi dei partiti politici che lo sostengono da che parte sta davvero – in termini di linea politica – Mario Draghi?

Per capire le intenzioni del nuovo Presidente dei Consiglio appaiono interessanti anzitutto le nomine dei sottosegretari (che, a quanto sembra, sono state decise da Draghi in autonomia dopo un confronto coi partiti e dunque senza un intervento diretto di Mattarella). I sottosegretari sono infatti una componente meno nota – ma altrettanto essenziale e politicamente importante – nella composizione dell’esecutivo. E qui Draghi ha mostrato di voler “compensare” la Lega (e scontentare il PD), assegnando al carroccio vice ministri di dicasteri “pesanti” e soprattutto strategici in termini di influenza politica per la stessa Lega (ad esempio gli interni). Pure nel senso di una cesura rispetto al passato piddino suona la scelta di affidare a un tecnico senza evidenti targhe politiche (l’ex capo della polizia, Gabrielli) la delicatissima delega ai servizi segreti, su cui Conte e Renzi erano entrati in conflitto. Analogamente – con l’aggiunta del fatto che si tratta di uomini considerati vicini al ministro Speranza – deve dirsi della sostituzione del capo della protezione civile, Borrelli, e soprattutto del supercommissario Arcuri. Anche i primi passi di politica estera – specie in UE – paiono mostrare una certa discontinuità rispetto alla linea, totalmente filotedesca, mostrata dal Conte bis, ad esempio sulla questione del passaporto vaccinale e sul blocco all’export dei vaccini. Qualche segnale importante di discontinuità rispetto al Conte due, dunque, il nuovo Governo lo sta dando.

Mario Draghi – controllando il ministero dell’economia (che è stato affidato a un tecnico suo fedelissimo) – si è inoltre messo nella posizione di regolare la distribuzione delle risorse economiche e, di conseguenza, di decidere lo spazio di manovra dei vari ministeri. Lo stesso Draghi gode infine anche di contatti al massimo livello nelle istituzioni finanziarie internazionali e straniere, che potrebbero consentirgli di “gestire” sia lo spread che i rating con facilità maggiore rispetto a qualunque altro uomo politico italiano. Quel che è certo è insomma che l’attuale Presidente del Consiglio ha in mano tutti gli strumenti, se vuole, per avviare una fase nuova nel paese, dando inizio a quella che potremo dunque chiamare la “terza repubblica”. Il che – secondo chi scrive – è un passaggio politico ormai ineludibile.

Dopo un anno di “non gestione” dell’emergenza sanitaria ed economica, l’Italia che lavora e che ha ancora voglia di fare e investire è allo stremo delle forze e al limite della sopportazione (e questo Draghi lo sa o quanto meno dovrebbe saperlo). Il paese – specialmente nel suo ceto medio produttivo, lavoratore e “non garantito” – ha bisogno di ritrovare fiducia nel futuro, dopo essere stato martoriato da dieci anni di austerità e deflazione e, da un anno a questa parte, essere stato spaventato, disorientato e maltrattato dal precedente governo. Se non si restituisce al paese che lavora e fa la fiducia nel futuro, non ci sono ristori o recovery plan che tengano: il paese crolla. Nel suo discorso di Rimini (e nel precedente articolo pubblicato sul Financial Times) Draghi aveva fatto capire di avere delle idee piuttosto diverse rispetto al mainstream UE sul come far uscire l’Europa dalla crisi (e non solo da quella Covid). Idee che – se tradotte in azione di governo – potrebbero davvero rilanciare l’economia nazionale, fiaccata da un decennio di austerità e stremata dalle misure di (non) reazione al Covid messe in campo dal precedente esecutivo. Secondo alcuni, invece, Draghi sarebbe solo un nuovo Monti, vale a dire un liquidatore del benessere degli italiani nell’interesse dei paesi dominanti in UE. Io credo sinceramente che non sia così.

Se l’intento che sta dietro l’operazione politica cui stiamo assistendo fosse stato davvero – di concerto con una UE per nulla disposta a scostarsi dal suo tradizionale rigore teutonico – solo una nuova epoca di tagli di spesa pubblica e aumento delle tasse per divorare il risparmio privato, accompagnato dall’azzeramento di interi comparti economici nazionali per far spazio ad attività green e digital e all’ingresso sempre più massiccio in Italia di imprese e capitali stranieri; se l’intento fosse questo – dicevo – non occorreva certo scomodare un pezzo da novanta del calibro di Mario Draghi per fare al ceto medio produttivo e ai lavoratori del nostro paese un funerale di prima classe, con tanto di banda e carrozza con cavalli neri. A seppellirci vivi in casa, farci perdere il lavoro o chiudere l’attività, alzare le tasse e tagliare il welfare, bastava e avanzava un Conte qualunque. Anzi il secondo governo Conte – con la sua incapacità e litigiosità interna e col suo bias pauperista e anti piccolo borghese – sarebbe stato l’esecutore perfetto di un simile disegno.

Se questo fosse dunque lo scenario in cui si colloca la scelta di Draghi, usare il “nome” e il prestigio del personaggio avrebbe avuto un solo plausibile scopo politico: offrire a Forza Italia e alla corrente meno keynesiana della Lega una occasione “vendibile” ai rispettivi elettorati per far fare anche al ceto medio produttivo la stessa misera fine che il PD ha ormai già fatto fare ai lavoratori dipendenti. Il tutto senza andare a toccare le piccole e grandi rendite di posizione dei vari soggetti che compongono quella società signorile di massa, che – come sempre negli ultimi vent’anni – senza far nulla applaude, incassa e – standosene al calduccio – brinda questa volta alla “salute prima di tutto”, ai prodigi dello smart working, al food delivery e a quanto è bella la consegna a domicilio di Amazon.

Siccome non credo che un politico dello spessore tattico di Matteo Salvini sia stato tanto sprovveduto da accettare un simile rischio (quanto meno senza aver avuto qualche concreta garanzia in sede di consultazioni per la formazione del governo), ritengo che la strategia politica di Mario Draghi sia ben più ampia – e soprattutto non condizionata da eventuali desiderata dell’UE, di Berlino e tanto meno del PD o di Sergio Mattarella – rispetto a quella in cui si era a suo tempo mosso Mario Monti. E si tratta di una prospettiva che non coinvolge solo l’azione di questo governo e neppure solo la gestione dell’emergenza sanitaria ed economica Covid, consistendo nell’impostazione – anche da futuro Presidente della Repubblica – di una complessiva e profonda riforma economica ed istituzionale del paese, volta appunto a superare la logica fallata della deflazione cronica causata dalla società signorile di massa. Riforma che, in quanto volta a modificare lo status quo, non potrà che essere condotta in certa misura “contro” i voleri di PD e Germania (anche se non necessariamente contro l’UE, ove questa sia disposta a sua volta a cambiare qualcosa) e, dunque, “da destra”.

In questa prospettiva va anche considerato che Draghi – a differenza di Conte, ormai legato mani e piedi al movimento 5 stelle e ad una alleanza con la componente prodiana del PD – è certamente uomo “americano” assai più che “cinese”. Siccome gli USA, anche con il neo eletto presidente Biden, continuano a mantenere una linea di nettissima ostilità nei confronti di Pechino (che da parte sua, è bene ricordarlo, è divenuto il primo partner commerciale dell’UE a trazione tedesca, scalzando proprio gli USA), è verosimile aspettarsi che Draghi potrebbe contare anche sulla sponda di Washington se decidesse di spingere modifiche all’UE nel senso di ridurre l’egemonia tedesca nel vecchio continente. Infine, e sempre nell’ottica degli interessi strategici degli attori in gioco, non va sottovalutata neppure la tensione tra Francia e Cina che sta generando il crescente espansionismo di Pechino in Africa. Anche a livello internazionale, dunque, un Draghi che voglia avviare un percorso di riforme contro l’attuale UE “tedesca” potrebbe trovare alleati di peso sia all’interno che al di fuori dell’Unione.

Il momento della verità, con ogni probabilità, verrà presto, ossia quando si tratterà di discutere del ritorno dei vincoli europei ai bilanci nazionali, della cessazione del programma straordinario di acquisti di titoli pubblici da parte BCE per finanziare il rientro dell’emergenza Covid e di eventuali possibili vie alternative per finanziare ulteriormente i debiti pubblici nazionali (così come della sorte ultima del debito monstre accumulato durante il Covid da tutti gli stati dell’Unione). La Germania – che, come di consueto, ha saputo sfruttare la “finestra di libertà” offerta dalla sospensione delle regole unioniste per imbottirsi di aiuti di stato in misura assai maggiore rispetto all’Italia – sta infatti già dando i primi segni di nervosismo di fronte all’inflazione (o, meglio, “stagflazione”) che l’iniezione di liquidità da parte della BCE sta provocando e di cui iniziano già a vedersi i primi segni.

Sarà dunque proprio su questi dossier che – con ogni probabilità – si parrà la nobilitate di Draghi: riuscirà a portare la Francia, che pure di ulteriore liquidità ha disperato bisogno, dalla parte dell’Italia e in opposizione alla Germania? Ma – e direi soprattutto – quale è il “piano B” in caso di insuccesso? Che si fa se la Germania, come è prevedibile, cercherà di proporre un cambiamento in corsa delle regole per aiutare solo la Francia e non anche l’Italia? Mario Draghi accetterà a quel punto di mandare l’Italia in default controllato nell’area euro come è già accaduto con la Grecia (salvando l’UE attuale al prezzo di finire di demolire il benessere della maggioranza degli italiani) o avrà la forza – magari con la sponda di Washington – di mettere sul tavolo dell’UE l’ipotesi concreta di una italexit come “mezzo di persuasione di massa” al fine di giungere alla creazione di due aree monetarie nel contesto dell’Unione o alla creazione di un bilancio unionista capace di emettere titoli di debito comune? E se anche così gli diranno di no, il presidente del consiglio farà a quel punto l’interesse della maggioranza dei cittadini italiani o quelli degli ambienti finanziari? Questo non lo possiamo sapere. Possiamo però sperare nel fatto che sia una brava persona.




Eretici e ortodossi

Le dimissioni di Zingaretti, di per sé, non sarebbero una notizia eclatante. Era un po’ di giorni che se ne parlava, e di motivi per dimettersi ve n’erano a sufficienza: sotto la sua guida il Pd aveva perso (ulteriormente) identità, oltreché – negli ultimi tempi – potere e consenso.

Quel che invece nessuno aveva previsto è il modo scelto dal segretario del Pd per scendere dal vascello di cui era il capitano: accusare la ciurma. A mia memoria è la prima volta che un capo di partito, ancora in carica, arriva a dire che si vergogna dei suoi compagni.

«Lo stillicidio non finisce. Mi vergogno che nel Pd da 20 giorni si parli solo di poltrone e primarie, quando in Italia sta esplodendo la terza ondata del Covid, c’è il problema del lavoro, degli investimenti».

Naturalmente, per chi studia i partiti con occhio distaccato, Zingaretti non ha detto nulla che non si sapesse perfettamente. La maggior parte dei partiti sono diventati macchine per permettere ai propri esponenti, di rango più o meno alto, di far carriera alle spalle di elettori e militanti più o meno ingenuamente idealisti. E questo vizio, contrariamente a quanto pensano i qualunquisti, non è né uniformemente distribuito fra i vari partiti, né una sorta di costante storica della forma-partito. Il Pd, per la profondità e capillarità della sua occupazione dei gangli del potere è macchina di autopromozione più di qualsiasi altro partito. E ho abbastanza anni ed esperienza per testimoniare che, a sinistra, non è stato sempre così: nel partito comunista, idealismo e abnegazione avevano un peso oggi inconcepibile.

In questo senso Zingaretti ha compiuto un gesto meritorio, una sorta di atto di verità. Che mette in chiaro una cosa sociologicamente ovvia, ma forse non chiara a tutti: oggi sono ben pochi i membri della casta politica prioritariamente “preoccupati per i problemi del paese”, e i giochi di palazzo, di corrente, di clan e tribù hanno la precedenza su tutto, specie nei partiti che più hanno dimestichezza con il potere nazionale e locale.

C’è però, forse, anche un’altra riflessione che la vicenda del Pd può suggerire. Sono molti ad osservare che questo partito ha completamente perso la bussola, rispetto al tempo in cui venne fondato (nel 2007). All’origine del Pd, luogo di incontro della tradizione comunista e di quella democristiana, c’era una visione del futuro dell’Italia piuttosto chiara e articolata, c’era un progetto di riformismo radicale, con alcuni pilastri come le riforme strutturali, la modernizzazione della Pubblica amministrazione, il cambiamento delle regole del gioco, la vocazione maggioritaria, la lotta alle diseguaglianze, i diritti umani, eccetera. Oggi tutto ciò pare quasi completamente scomparso, coperto e sostituito dal gioco delle correnti.

Possiamo leggere questa evaporazione del DNA riformista del Pd come un caso speciale di quel processo che, alla fine degli anni ’70, fu descritto da Francesco Alberoni in libri famosi come Movimento e istituzione e Innamoramento e amore. Al Pd, si potrebbe argomentare, è successo quel che succede ovunque, nella vita collettiva come in quella privata, quando un’onda di speranze, passioni, utopie allo stato nascente prima sfocia in un movimento, e poi si cristallizza in una realtà istituzionale, più o meno burocratica e compassata. In effetti quello di fondare anche in Italia un “partito democratico” ispirato al modello americano ebbe all’inizio alcune caratteristiche del sogno, poi lentamente evoluto in qualcosa di più prosaico e terrestre.

E si potrebbe proseguire lungo questa linea, osservando che – esattamente nel medesimo periodo (e cioè fra il 2007 e oggi) – una traiettoria analoga è stata seguita dal Movimento Cinque Stelle, passato dal sogno populista e anti-sistema del 2007 all’esperienza di governo dell’ultimo triennio, culminata nella trasformazione del movimento in un puro apparato di potere, completamente dimentico delle ragioni che lo fecero nascere.

C’è però anche un’altra chiave di lettura, che integra lo schema di Alberoni. Quando parliamo di un movimento politico – ma lo stesso sovente accade per i movimenti religiosi – esiste anche un’altra dialettica: la dialettica fra ortodossia ed eresia. Dal ceppo principale, può accadere che si distacchino frange eretiche, che ne contestano il modo di essere o di interpretare la realtà. Il punto interessante, però, è che talora la frangia che si distacca, pur venendo attaccata come eretica, si ponga invece come custode dell’ortodossia, quasi che i veri eretici siano i rappresentanti del ceppo principale, da cui la minoranza dissenziente sente il dovere di separarsi perché – nel passaggio dalla poesia delle origini alla prosa dell’oggi – il messaggio originario è stato appannato, contaminato o stravolto.

Se ci pensate è, per certi versi, quel che è successo quando l’ortodossia cattolica venne sfidata dall’eresia protestante, secondo cui la pratica della vendita delle indulgenze tradiva lo spirito originario del cristianesimo.  Ed è quel che succede nel mondo islamico, dove l’Islam radicale si autopercepisce come l’autentico interprete del Corano, che l’Islam moderato tradirebbe.

Ma è anche quel che sta succedendo con il Pd e il Movimento Cinque Stelle. Nel Pd il sogno riformista originario è quasi completamente dissolto, e sopravvive quasi esclusivamente nei transfughi di Azione (Calenda) e Italia Viva (Renzi). Nei Cinque Stelle il sogno originario è stato prima offuscato da un anno e mezzo di alleanza con il Pd, e poi polverizzato dall’istantanea adesione al governo Draghi, sicché quel messaggio sopravvive esclusivamente nei transfughi, più o meno organizzati: il gruppo L’Alternativa c’è, alla Camera, il gruppo Italia dei Valori al Senato, il partitino Italexit di Paragone, il battitore libero Di Battista fuori del Parlamento.

Ed ecco il paradosso. Almeno a sinistra, i due partiti principali sono entrambi OPM, organismi politicamente modificati, che hanno smarrito il loro DNA originario, mentre tracce di quel medesimo DNA è dato ritrovare solo nelle schegge più o meno impazzite che se ne distaccano proprio per preservarne i valori originari e fondativi. Il che significa: le scissioni odierne altro non sono che melanconici omaggi a ortodossie tradite, che ci ricordano che i veri eretici sono coloro che rimangono nel Pd e nei Cinque Stelle.

Non è la prima volta, nella storia, che qualcuno se ne va per salvare un patrimonio simbolico e ideale. Così fece Enea che, fuggendo da Troia, portò con sé il padre Anchise e i Penati, divinità domestiche sotto la cui protezione sorgerà Roma. Resta il dubbio che i politici transfughi, piccoli eroi moderni in fuga dai due partiti principali, si siano dati un compito forse nobile, ma ormai irrealizzabile.

Pubblicato su Il Messaggero del 6 marzo 2021




Paralisi sanitaria

La buona notizia è che, da circa un mese e mezzo, nella maggior parte dei paesi del mondo l’epidemia sta battendo in ritirata. La cattiva notizia è che in Europa sono molti i paesi in cui la ritirata è lenta, o non è affatto in corso, o addirittura i ricoveri ospedalieri sono in aumento. Fra i grandi paesi europei i due messi peggio sono la Francia e l’Italia, dove non solo le cose non stanno migliorando, ma da qualche giorno manifestano una chiara tendenza al peggioramento. Per un’infausta congiunzione astrale la nascita del governo Draghi è avvenuta esattamente nel momento in cui l’epidemia, ancora pericolosamente diffusa ma comunque in lieve regresso, ha invertito il suo cammino e ha ripreso a correre.

Di qui lo spiazzamento dei partiti che sostengono il governo. L’istinto di Lega, Forza Italia (e pure di Italia Viva, a quel che sembra) è di spingere per allargare il perimetro della normalità, il che – in buona sostanza – vuol dire ragazzi a scuola, mezzi di trasporto pieni, bar e ristoranti aperti anche la sera. Quello della triplice Pd-Leu-Cinque Stelle è di continuare con la politica dell’Italia a colori, sperando che l’evoluzione dell’epidemia consenta presto di attenuare la morsa delle chiusure, ma ben sapendo che ciò non avverrà e quindi non potremo far altro che assistere a qualche nuovo giro di vite.

Il risultato è la paralisi, in perfetta continuità con il governo precedente. Ma forse oggi la difficoltà di imboccare una strada ben definita, indicando e spiegando al paese una comprensibile via di uscita, è ancora maggiore di un mese fa.

Salvini dichiara che “parlare già oggi di una Pasqua chiusi in casa non è rispettoso degli italiani”, come se nel giro di poche settimane la drammatica situazione attuale potesse retrocedere, e come se l’Italia fosse l’unico grande paese europeo in cui si pianificano chiusure a medio e lungo termine. La triplice Pd-Leu-Cinque Stelle ha buon gioco ad accusare Salvini di imprudenza, perché l’epidemia galoppa e gli esperti (questa volta quasi tutti: governativi e indipendenti) prevedono che, se nulla si farà, a Pasqua i casi saranno molti più di adesso.

Ora però c’è una complicazione, rispetto a un mese fa. Essendo al governo, e non potendo sconfessare l’operato dei ministri di Pd-Leu-Cinque Stelle, anche la destra è imbavagliata. Se fosse una destra seria e libera, farebbe la lista delle cose che il governo rosso-giallo non ha fatto, e che avrebbero evitato il riesplodere del contagio. Chiederebbe che quelle cose finalmente si facessero, per permettere – fra qualche mese – un vero ritorno alla normalità. E spiegherebbe agli italiani che la promessa di vaccinare il 70% dei cittadini entro l’estate non è credibile, e serve solo a non farle per l’ennesima volta, quelle benedette cose che si potevano e dovevano fare, se non si volevano vanificare i nostri sacrifici.

Quali cose?

Sono una dozzina, ma ne ricordo almeno sei: test di massa (almeno 300 mila tamponi molecolari al giorno), aumento degli addetti al contact tracing, rafforzamento del trasporto locale, protocollo nazionale di cure domiciliari, aumento del numero di sequenziamenti, controllo delle frontiere.

Ma quelle cose, nei lunghi mesi della pandemia, la destra non le ha mai invocate né pretese con la dovuta convinzione, preferendo quasi sempre puntare sul comodo binomio ristori-riaperture. Ciò ha finito per cucire addosso alla sinistra l’abito che ora indossa, e la fa apparire come il saggio “partito della prudenza”, che si oppone all’irrazionale e antiscientifico vitalismo di Salvini. Un partito, quello della prudenza giallo-rossa, cui nessuno, da destra, chiede conto del proprio operato precisamente perché la destra – anziché incalzare il governo sulle cose non fatte – ha finito a sua volta per autocucirsi addosso l’abito opposto e contrario, quello che la fa apparire come il partito delle riaperture, incauto e indifferente alle fondate preoccupazioni della scienza.

Ecco perché, sul piano della politica sanitaria, il governo Draghi appare come una (sia pur bella) copia del governo precedente, di cui non può che ereditare l’immobilismo su tutto ciò che esula dalla scontata battaglia per avere i vaccini. Intrappolati dalle loro condotte passate, i rappresentanti della destra e della sinistra sono condannati a combattersi (e a negoziare) solo intorno al falso dilemma apertura-chiusura. Come se un po’ di prudenza in più o in meno potesse cambiare il nostro destino. Mentre la realtà è tanto semplice quanto sconfortante: stringere o allentare di qualche maglia le catene della nostra prigione serve solo a spostare di qualche settimana la data in cui i nostri ospedali potrebbero non farcela più.

Pubblicato su Il Messaggero del 27 febbraio 2021




Il virus dell’autoritarismo

Nell’ultimo articolo avevo analizzato i diversi metodi di contrasto al virus adottati nel mondo, mostrando come ve ne sono almeno tre che si sono dimostrati efficaci (anche se in misura diversa) nei paesi avanzati dell’Estremo Oriente e dell’Oceania (che chiamerò “paesi del Pacifico”, dato che si trovano tutti nell’area del Pacifico Ocidentale) e, almeno nella prima fase, anche in molti paesi dell’Europa del Nord e dell’Est.

Incredibilmente, nessuno di tali metodi è stato però adottato dai paesi leader dell’Occidente. A un anno esatto di distanza dall’inizio ufficiale dell’epidemia in Europa, con la scoperta dei primi casi a Codogno il 20 febbraio 2020, è venuto il momento di chiedersi: perché?

Se fossi un complottista, la risposta sarebbe facile: infatti, anche se nessuno lo ammetterebbe mai, il virus fa comodo a un bel po’ di gente, a cominciare dalla Cina, che, essendo uscita dall’emergenza già da molti mesi, sta inondando i mercati con le sue merci in sostituzione di quelle che noi non riusciamo più a produrre. Addirittura, nel suo discorso di fine anno il presidente Xi Jinping è arrivato a definire il 2020 «un anno ottimo per il nostro paese» e per una volta non era la balla di un dittatore (quale lui è: cerchiamo di ricordarcelo), ma la pura e semplice verità. Ma il virus fa comodo anche ai governi e, più in generale, alle élites occidentali, che da tempo attraversano una grave crisi di credibilità, che grazie all’emergenza è stata, se non proprio superata, quantomeno temporaneamente accantonata.

Sarebbe quindi facile sostenere, come molti in effetti fanno, che la pandemia è frutto di un piano ordito dai dittatori di Pechino in combutta con le suddette élites occidentali. Questa teoria, però, come tutti i complottismi, si scontra con evidenze indiscutibili, prima fra tutte il fatto che è certo possibile mettere in moto intenzionalmente un processo del genere, ma nessuno sarebbe in grado di prevederne la successiva evoluzione. Inoltre, soltanto un pazzo metterebbe in circolazione un virus letale sul proprio territorio, tanto più senza disporre ancora di un antidoto: e i cinesi tutto sono tranne che pazzi. Quanto alle élites occidentali, è vero che questa vicenda le ha finora rafforzate, ma su tempi più lunghi il disastro economico che sta causando rischia di avere l’effetto opposto.

Inoltre, non solo non vi è nessuna evidenza che il virus sia stato lasciato entrare e dilagare intenzionalmente in Europa, ma, al contrario, ve ne sono molte che ciò sia dovuto ad altre cause, che sono già state ampiamente analizzate in altri articoli apparsi su questo sito, sia miei che di Ricolfi e di altri suoi collaboratori, che perciò mi limiterò a elencare, senza andare di nuovo a discuterle.

Anzitutto, incompetenza, ignoranza, limiti intellettuali e a volte perfino psicologici di molti leader ed esperti o presunti tali; poi, internazionalismo a parole, che ha portato al rifiuto ideologico di chiudere le frontiere (come invece facemmo ai tempi della Sars, avendo appena 4 contagi e zero morti) e provincialismo di fatto, che ha portato a concentrarsi solo su ciò che accade in Europa e Stati Uniti, senza guardare agli esempi virtuosi dei paesi del Pacifico; incomprensione della “matematica” delle epidemie, che ha portato ad adottare le misure preventive nella sequenza sbagliata (prima quelle blande, poi quelle dure, anziché viceversa); quindi vanità e presunzione, che hanno portato a credere al mito dell’inesistente “modello Italia”; e infine indisponibilità ad ammettere i propri errori, che hanno portato a ripeterli più volte.

Inoltre, ha pesato molto il caso, poiché sfortuna ha voluto che il primo paese europeo ad essere colpito dal virus sia stata l’Italia, che in quel momento era retta dal governo più inetto e incompetente di tutta la storia delle democrazie moderne, particolarmente (benché niente affatto esclusivamente) nella componente dei 5 Stelle, un partito che ha modellato il suo metodo su quello dei social media e il suo programma sulla pseudoscienza da blog (vedi il mio saggio Il partito di Internet, in Miti, simboli e potere, Albo Versorio, Milano 2018, pp. 333-344).

Non sapendo che pesci pigliare, ai nostri governanti non è parso vero che qualcun altro decidesse per loro, cosicché hanno seguito ciecamente tutte le disastrose indicazioni della OMS, che ha ricambiato la cortesia additandoci al mondo intero come il modello da seguire, anziché, come sarebbe stato suo dovere, quei paesi del Pacifico che fin dalla prima fase avevano fatto cento volte meglio di noi (dove “cento volte” non è un’espressione retorica, ma l’esatto ordine di grandezza del divario esistente tra noi e loro). E così Conte ha trascinato con sé nell’abisso non solo l’Italia, ma tutto l’Occidente.

Tutto ciò premesso per onestà intellettuale, va però detto che la stessa onestà intellettuale impone di riconoscere che, una volta fatta la frittata, molti si sono accorti che dopotutto non era così indigesta, almeno per loro. Fuor di metafora, le élites occidentali non hanno intenzionalmente causato la pandemia, ma l’hanno intenzionalmente sfruttata a scopi di potere, cosa di cui vi sono molte prove, tanto incontestabili quanto preoccupanti.

Anzitutto, infatti, è evidente che questa situazione ha aiutato moltissimo tali élites, largamente dominanti nei palazzi del potere, ma sempre più invise ai rispettivi popoli, a mettere in riga i partiti antisistema, accusando chiunque si azzardasse a criticare le scelte dei governi di essere un “negazionista”, certo facilitati – questo va riconosciuto – dal fatto che tali movimenti tendono effettivamente ad assumere posizioni di questo tipo.

Ciò si è visto con la massima chiarezza negli USA, dove senza tutte le idiozie che ha detto sul virus Trump avrebbe asfaltato Biden come un rullo compressore, tant’è vero che perfino così ha rischiato di vincere (perché negli Stati chiave la differenza è stata di poche migliaia di voti, anche se adesso preferiamo dimenticarlo). Ma la situazione è simile in tutta l’Europa occidentale e in particolare in Italia, dove in condizioni normali lo sgangherato governo giallorosso sarebbe caduto molto prima. Anche il sostegno incondizionato ricevuto dagli altri paesi, nonché gli ormai mitici 209 miliardi del Recovery Fund, sembrano essere stati concessi a Conte assai più in riconoscimento dei suoi “meriti” nel mettere all’angolo Salvini e Meloni a colpi di (illegali) DPCM che non di quelli (inesistenti) nel gestire l’epidemia.

Sia chiaro, però, che non sto dicendo che esista un’unica regia che spiega tutto ciò che sta accadendo, né a livello italiano né, tantomeno, europeo e mondiale: ho già detto che non credo al complottismo, né in generale né per quanto riguarda la genesi e la diffusione dell’epidemia e non ci credo neanche per quanto riguarda la sua strumentalizzazione a fini politici. Certo, complotti di portata limitata sono possibili e anche in questo caso alcuni ci sono sicuramente stati, ma a livello globale non funziona così. Come ha detto qualcuno che se ne intende, «non c’è uno che dà le carte, c’è un blocco culturale omogeneo che si muove all’unisono». Sono parole di Luca Palamara (Il Sistema, Rizzoli 2021, p. 221), quel gentiluomo che è stato a lungo il garante di quello che lui chiama “il Sistema” e che per decenni ha deciso e continua tuttora a decidere tutte le cariche importanti della magistratura italiana. Valgono anche nel nostro caso, soltanto un po’ più in grande.

Qui, infatti, il “blocco culturale omogeneo” comprende praticamente tutte le nostre classi dirigenti (politici, giornalisti, magistrati, intellettuali, docenti universitari e – ahimè – anche scienziati) che si riconoscono in quella che Ricolfi ha chiamato “ideologia europea” e che ha definito molto esattamente come «un modo di operare […] basato su almeno due caposaldi: I) la subalternità rispetto agli organismi sovranazionali […]; II) la sacralizzazione della globalizzazione, del commercio internazionale e della circolazione delle persone» (La notte delle ninfee. Come si malgoverna un’epidemia, La nave di Teseo 2021, pp. 22-23). Il primo di tali caposaldi, infatti, ha portato a ubbidire ciecamente alla OMS, mentre il secondo ha impedito la tempestiva chiusura delle frontiere.

È facile per chiunque vedere come tale ideologia ricomprenda ormai praticamente tutto l’arco costituzionale, dall’estrema sinistra fino alla destra moderata, lasciando all’opposizione solo la destra “populista”, o, più esattamente, quella che viene ritenuta tale per definizione, dato che questa è l’unica “casella” che viene lasciata (intenzionalmente) libera e in cui, di conseguenza, vengono, per l’appunto, “incasellati” tutti i movimenti eterodossi, a dispetto di qualsiasi differenza possa sussistere tra di essi.

In effetti, lo stesso termine “populista”, per come viene usato, ha ormai perso qualsiasi significato definito, per trasformarsi in una pura “etichetta” usata per demonizzare gli avversari, proprio come quella di “fascista” negli anni Settanta, tanto che potremmo addirittura formulare un terzo “caposaldo” dell’ideologia suddetta come segue: «III) Chiunque non accetti i primi due principi viene automaticamente catalogato come “populista” e, di conseguenza, considerato un “impresentabile” da emarginare al più presto dalla scena politica con qualsiasi mezzo possibile». E ciò vale non solo verso le singole persone, ma anche verso gruppi, partiti e addirittura interi Stati.

Il caso più impressionante è quello dell’Inghilterra, che, pur essendo uno dei paesi più potenti del mondo, nonché uno di quelli che più di tutti hanno contribuito a creare la suddetta “ideologia europea”, da quando l’ha radicalmente messa in discussione, non solo teoricamente, ma in pratica, con la Brexit, è improvvisamente passata tra i “cattivi” per definizione e da allora viene regolarmente denigrata da giornalisti e intellettuali (a cominciare dai suoi) a prescindere, con il più sovrano disprezzo per i fatti. Solo per fare un esempio, si è a lungo sostenuto che non essendo più in Europa avrebbe avuto problemi a trovare i vaccini, mentre la realtà è esattamente opposta: a faticare siamo noi, mentre l’Inghilterra (che ha sempre fatto molto meglio, anche prima che iniziassero i ritardi nelle forniture) ha già vaccinato oltre un quarto della sua popolazione, contro una media UE di circa il 6%, cioè quasi 5 volte inferiore (numeri vaccini italia-mondo). Eppure, avete mai sentito qualcuno ammetterlo, magari aggiungendo: “Scusate, avevo sbagliato?” No? Ecco, appunto…

Anzi, all’inizio, con un meschino trucchetto che la dice lunga sul suo infimo livello culturale e morale, il nostro governo non considerava nemmeno l’Inghilterra un paese europeo per poter sostenere che eravamo i secondi in Europa per numero di vaccinazioni, versione riveduta e corretta del mito del “modello Italia”, che per fortuna non ha fatto presa, dato che era altrettanto infondata della prima, basandosi sui numeri assoluti, che non significano nulla, anziché, come dovrebbe essere, sulla percentuale di popolazione vaccinata. Per la cronaca, l’Italia è attualmente al 42° posto nel mondo con il 5,7% di vaccinati, un po’ meno della media europea, il che – attenzione! – non significa che siamo al livello di tutti gli altri paesi europei, bensì che circa metà di essi (tra cui parecchi assai meno progrediti di noi) hanno fatto meglio e l’altra metà peggio, anche se le differenze, in entrambi i sensi, sono abbastanza piccole.

Altrettanto facile è vedere come questa ideologia in realtà non coinvolge soltanto l’Europa, ma anche USA, Canda e buona parte dell’America Latina, per cui dovremmo forse chiamarla, più correttamente, “ideologia atlantica”, anche per marcare maggiormente la contrapposizione con i paesi del Pacifico, che non la condividono (per lo stesso motivo eviterei invece di parlare di “ideologia occidentale”, dato che Australia e Nuova Zelanda, che guidano il gruppo del Pacifico, culturalmente appartengono all’Occidente). In particolare, è evidente l’uso demonizzante che anche in America viene fatto del termine “populista” nei confronti di tutti coloro che rifiutano tale ideologia, come per esempio Trump negli USA o Bolsonaro in Brasile.

Attenzione: con questo non sto dicendo che i suddetti non si meritino tale qualifica, ma soltanto che essa non viene attribuita a loro o a chiunque altro perché se la merita, ma perché non accetta l’ideologia di cui sopra. Se invece uno la accetta, anche solo a parole, poi può permettersi di fare tutto quel che gli pare senza praticamente suscitare proteste, come per esempio il dittatore venezuelano Maduro o il suo predecessore Chavez, che hanno ridotto alla fame uno dei paesi potenzialmente più ricchi della Terra nella più totale indifferenza dei nostri leader politici e intellettuali. Nemmeno la dittatura cinese, nonostante le sue gravissime e ormai accertate colpe nella diffusione del virus (oltre che in molte altre cose), viene trattata – neanche lontanamente – con la stessa ostilità riservata ai “populisti” di cui sopra: basti pensare alle nostre piazze piene (giustamente) per le violenze della polizia americana contro i neri, ma desolatamente vuote di fronte alle violenze (ben peggiori) della polizia cinese contro i manifestanti di Hong Kong.

Si capisce quindi perché tale ideologia stia suscitando una crescente insofferenza in gran parte della popolazione occidentale. E si capisce anche perché la reazione contro di essa prenda spesso forme sguaiate, “impresentabili” o addirittura violente: poiché infatti la quasi totalità delle persone istruite è organica al sistema, i “ribelli” faticano terribilmente a trovare leader all’altezza, per cui molti, pur non essendo affatto degli estremisti, finiscono col votare “turandosi il naso” per personaggi che in condizioni normali non si sognerebbero mai di prendere in considerazione.

Mi sono reso conto di colpo di quanto fosse diventato profondo questo fenomeno nel 2016, quando per la prima volta nella mia vita ho sbagliato il pronostico su un’elezione politica, non prevedendo la vittoria di Donald Trump. Riflettendo sulle ragioni che mi avevano indotto in errore, mi sono reso conto che mi ero concentrato quasi esclusivamente sulla popolarità di Trump, che giudicavo (giustamente) sufficiente per competere, ma non per vincere, mentre avevo dato per scontato (erroneamente) che quella di Hillary fosse calata solo di poco rispetto ai tempi d’oro, senza rendermi conto di quanto invece fosse ormai odiata da gran parte della popolazione. Ma il fenomeno non è solo americano: tutti gli “impresentabili” del nostro tempo, da Bolsonaro a Orbán, da Salvini alla Le Pen, vincono in questo modo.

D’altra parte, neanche gli “impresentabili” sono sempre realmente tali, giacché vale anche per i leader ciò che vale per i loro seguaci: non tutti sono davvero estremisti, ma, di fronte a un sistema che non li considera avversari da battere, ma nemici da distruggere e li spinge comunque ai margini, spesso scelgono di apparire tali per ragioni elettorali, in modo da raccogliere i voti dei veri estremisti, secondo la logica del “tanto peggio, tanto meglio”. In realtà, però, molti di loro (benché non tutti: lo ripeto a scanso di equivoci) sarebbero ben felici di “civilizzarsi” e interloquire pacatamente con i rappresentanti dell’establishment, se tra di essi trovassero interlocutori disposti ad ascoltare le loro ragioni.

Ciò spiega, per esempio, come mai la Lega, il cui “zoccolo duro” è costituito essenzialmente da imprenditori del Nord che con l’Europa ci lavorano continuamente, pur non amando la sua ideologia, abbia subito accettato l’invito di Draghi, che per l’appunto è, o almeno potrebbe essere, uno di tali interlocutori più aperti. Tuttavia, la stragrande maggioranza dei nostri commentatori politici hanno prima respinto come “impossibile” tale eventualità e poi, quando i fatti hanno dimostrato il contrario, hanno cercato di presentarla o come un tentativo contro natura destinato a sicuro fallimento o come l’inizio di una sorta di cammino di “conversione” all’ideologia di cui sopra, benché sia piuttosto evidente che non è né l’una  né l’altra cosa.

E qui arriviamo al punto più preoccupante. Quella che Ricolfi ha chiamato “ideologia europea” e che io ho qui ribattezzato “ideologia atlantica” è in effetti solo un’applicazione particolare (benché ovviamente assai eclatante) di un’ideologia ancora più ampia: quella del “politically correct”. Ed è proprio da essa che nasce il virus dell’autoritarismo che si sta propagando insieme a quello del Covid.

L’aspetto più paradossale del politically correct è che, volendo abolire qualsiasi tipo di discriminazione, a prima vista sembra l’esatto opposto dell’autoritarismo, ma in realtà è l’esatto opposto della tolleranza. Quest’ultima, infatti, si esercita, per definizione, verso le idee che non si condividono: essa, perciò, presuppone il disaccordo e di conseguenza la critica, purché non si traduca in discriminazione.

Ma per il politically correct la critica – qualsiasi critica – va considerata di per sé stessa una discriminazione, perché può offendere la sensibilità di chi la riceve, il che in certa misura è anche vero. Il problema, però, è che vietare le critiche è un rimedio molto peggiore del male, giacché si traduce di fatto nel pretendere che le idee altrui non debbano solo essere tollerate, ma anche condivise, il che equivale a negare la libertà di opinione, anzi, addirittura la libertà di coscienza, dato che chi non ci sta non va semplicemente ridotto al silenzio, ma “rieducato” e, se si rifiuta, ostracizzato ed espulso dalla società civile.

Tale tendenza è presente nella nostra società da parecchio tempo, ma il virus le ha fornito su un piatto d’argento l’occasione perfetta per fare un ulteriore salto di qualità, perché ovviamente è molto più facile convincere la gente a emarginare qualcuno se si dice che non solo costui è brutto, sporco e cattivo, ma sta anche mettendo in pericolo la salute di tutti. Così è nato il “pandemically correct”, che non ha fatto altro che adattare alla situazione gli stessi meccanismi del politically correct “classico”: creazione di alcune “parole d’ordine” considerate “buone” per definizione; loro imposizione attraverso un’ossessiva campagna mediatica; demonizzazione di chi chiunque dissenta, considerato per definizione “negazionista” a prescindere dal merito delle sue affermazioni; conseguente deriva dei dissidenti moderati verso posizioni estremiste per mancanza di leader dissidenti moderati; e infine, a chiudere un circolo palesemente vizioso, ma a suo modo perversamente perfetto, uso strumentale di tale fenomeno per “dimostrare” la bontà delle parole d’ordine suddette indipendentemente dalla loro reale efficacia.

Una volta di più voglio ribadire che non sto dicendo che ciò sia frutto di un complotto planetario: anche qui non c’è nessun Grande Fratello che “dà le carte”, bensì, di nuovo, “un blocco culturale omogeneo che si muove all’unisono”. Tuttavia, è almeno possibile indicare quale parte del suddetto “blocco” è quella che ha maggiore influenza, creando e diffondendo le “parole d’ordine” a cui tutti si devono adeguare, che è poi la stessa che da tempo crea quelle del politically correct classico: si tratta essenzialmente delle grandi burocrazie nazionali e, soprattutto, internazionali, nonché dei grandi giornali e delle grandi televisioni e degli intellettuali organici a tale sistema, che sono in realtà una piccola minoranza, ma dettano legge a tutti.

Per questo a partire dal 2013 ho cominciato a parlare al proposito di “totalitarismo burocratico”, anche se in forma scritta credo che l’espressione compaia per la prima volta solo nella seconda edizione del mio libro La scienza e l’idea di ragione (Mimesis 2019). L’impressionante velocità con cui è stato creato e imposto a tutti il gergo del pandemically correct la dice lunga sul preoccupante grado di efficienza che tale meccanismo ha ormai raggiunto.

Quanto alla sua funzione “rieducativa” e quindi alla natura autoritaria (e tendenzialmente totalitaria) della mentalità da cui nasce, si potrebbero addurre centinaia di esempi, anche se per forza di cose qui ne potrò fare molti meno e saranno in gran parte italiani, ma ciò non significa che altrove le cose vadano diversamente. Comincerò da due dichiarazioni, particolarmente inquietanti e quindi particolarmente significative.

La prima è di Alberto Villani, presidente della Società Italiana di Pediatria nonché membro del Comitato Tecnico Scientifico, il quale a settembre, in occasione della riapertura delle scuole, aveva dichiarato al TG1 della sera che per i bambini portare la mascherina per 5 ore filate «non è un problema, soprattutto se hanno il buon esempio in casa», sottintendendo quindi, neanche tanto velatamente, che se per caso qualche bambino avesse protestato i colpevoli sarebbero stati i genitori, che evidentemente gli davano il cattivo esempio. Per la cronaca, si tratta dello stesso signore che il 5 gennaio, quando il disastro era ormai tale che nemmeno Conte osava più parlare di “modello Italia”, in un’intervista rilasciata a La Stampa ha dichiarato che la colpa dell’aumento dei contagi era dei cenoni di Capodanno e che «sinceramente non farei cambio con nessuno: con tutti i suoi limiti, la situazione italiana è migliore di quella americana e inglese», benché in quel momento l’Italia avesse 1263 morti per milione di abitanti, l’Inghilterra 1121 e gli USA 1098. Certo, se questi sono i consulenti del governo, allora si capiscono molte cose…

La seconda è di Donatella Di Cesare, docente di Filosofia Teoretica alla Sapienza di Roma, che, ancora su La Stampa del 21 dicembre scorso, dopo aver mosso molte giuste critiche all’operato del governo, invece di concluderne, come logica avrebbe voluto, che dunque quest’ultimo avrebbe dovuto adottare misure diverse e più efficaci, con un triplo salto mortale senza rete affermava recisamente, senza addurre nessuna prova a sostegno, che «una politica  seria dovrebbe assumersi l’onere della chiusura responsabile e affrontare il difficile compito di far comprendere ai cittadini che la vita di prima non tornerà». Forse la mia illustre collega avrebbe bisogno di una vacanza per schiarirsi le idee, magari a Taiwan, in Australia o in Nuova Zelanda, dove, oltre a sole e mare in quantità, troverebbe “la vita di prima” già tornata da un bel pezzo…

Tuttavia, l’aspetto che mostra con maggiore evidenza la suddetta tendenza autoritaria è il tentativo, più volte denunciato anche da Ricolfi, di incolpare i cittadini di quello che in realtà è un fallimento dei governi. Certo, anche questo per un verso fa parte della loro strategia di autogiustificazione, ma c’è in esso anche qualcosa di più perverso, che ha espresso in modo impareggiabile Massimo Cacciari, a cui lascio quindi la parola.

«A partire dallo sciagurato slogan del “distanziamento sociale”, invece che di “distanza di sicurezza” o formule analoghe, è purtroppo del tutto evidente il punto di vista culturale con cui il “messaggio” è stato concepito. Quello slogan poteva venire in mente soltanto a chi ritenga un pericolo la prossimità, un’assemblea o una manifestazione un irragionevole “assembramento”, il “lieto romore” che fanno i fanciulli gridando “su la piazzola in frotta… e qua e là saltando” un intollerabile baccano. […] Ogni energia è spesa a convincerci che è in fondo più comodo lavorare di fronte a un pc che convivere e cooperare “in presenza” con colleghi, amici e magari anche nemici, che quella bella leopardiana “movida” può essere sostituita da qualche chat, che la pizza è altrettanto buona seduti sul divano di fronte a mamma tv che con gli amici in pizzeria. Invece di suscitare l’ardente desiderio di fare tutto il necessario per uscire al più presto dalla miseria dell’attuale situazione, la propaganda “in rete” ci vuole convincere che la vita del pensionato è ottima e forse, anzi, ideale. […] Bisogna, credo, insorgere contro questa deprimente narrazione, sintomo di una generale senescenza delle nostre società» (Ora proviamo a essere eroi per un anno, su La Stampa del 2/1/2021, pp. 1-19).

Mi permetto solo di aggiungere a tale esattissima descrizione che non è solo contro la senescenza che dobbiamo insorgere, perché essa va qui insieme a qualcosa di ancor peggiore. Infatti, la colpevolizzazione moralistica dei semplici piaceri della vita è da sempre tipica di tutti i regimi autoritari, perché solo chi non è contento della propria vita è disposto a venderla al potere di turno: come ha scritto una volta Clive Staples Lewis, «ho conosciuto un essere umano che ha trovato la difesa contro forti tentazioni di ambizione sociale in un gusto ancor più forte per la trippa e le cipolle» (Le lettere di Berlicche, Mondadori, Milano 1998, p. 56).

Ora, questo qualsiasi dittatore o aspirante tale lo sa istintivamente in cuor suo, giacché egli per primo è così: un frustrato che cerca di compensare la sua incapacità di dominare la propria vita pretendendo di dominare quella degli altri, in particolare di quelli che la vita, a differenza di lui, se la sanno godere. Il grande psicanalista Giacomo Contri ha chiamato tale atteggiamento “odio logico” e l’ha riassunto nella formula “Ti uccido, dunque sono”, che non cambia molto se modificata in “Ti imprigiono, dunque sono”, equivalente “colto” del celeberrimo «State a casa o chiudo l’Italia!» pronunciato con tono da bullo di periferia dal premier-per-caso Giuseppe Conte all’inizio della crisi.

Da un lato, perciò, la pura e semplice esistenza di tali piaceri e di chi non vi vuole rinunciare è intollerabile per il dittatore di turno, giacché gli ricorda continuamente il suo fallimento esistenziale; dall’altro, a dispetto della loro apparente frivolezza, essi rappresentano per loro natura un punto di irriducibile resistenza contro qualsiasi potere, come aveva perfettamente chiaro George Orwell, colui che più di chiunque altro ne ha capito l’intima essenza. Non è un caso che anche Gesù Cristo ne avesse la massima considerazione e che per questo venisse giudicato dai moralisti di allora «un mangione e un beone, amico dei pubblicani e dei peccatori» (Lc 7, 33): insomma, un tipo poco serio e probabilmente anche poco responsabile, esattamente come i fautori dell’odierno pandemically correct giudicano chiunque non si dimostri entusiasta di ubbidire ai loro dogmi.

Naturalmente, già conosco l’obiezione standard a queste considerazioni, perché è anch’essa una delle suddette parole d’ordine, che ci viene ossessivamente ripetuta: “I sacrifici sono duri, ma necessari”. Peccato solo che si tratti di una balla cosmica, perché questi sacrifici sono solo duri, ma per niente necessari, non essendo serviti praticamente a nulla, se è vero, come è vero, che siamo messi peggio perfino dei paesi del Terzo Mondo.

Anzi, proprio l’insistenza su questo aspetto è stata ed è tuttora la principale causa non del contenimento, bensì della diffusione del virus, perché è ciò che ha finora impedito di capire la sostanziale differenza tra il vero lockdown, duro, breve ed efficace, in cui si chiude davvero tutto, come in Cina, in Australia e in Nuova Zelanda (ma anche, almeno nella prima fase, in Grecia e un po’ in tutta l’Europa dell’Est e del Nord), e lo pseudo-lockdown all’italiana, meno duro, ma in compenso molto più lungo e molto meno efficace.

Da noi, infatti (e per “noi” intendo non solo l’Italia, ma tutti i paesi in cui dominano l’ideologia atlantica e il pandemically correct, quindi tutta l’Europa occidentale e le Americhe), quando si parla di chiudere “tutto” in realtà si sottintende sempre “tutto ciò che può causare assembramenti”: quindi negozi, locali pubblici, attività sportive (vedi, proprio in questi giorni, l’allucinante vicenda degli impianti sciistici) e perfino le elezioni, ma non fabbriche e uffici.

Eppure, non solo il buon senso, ma anche tutti gli studi scientifici, a cominciare da quello sui primi dati cinesi pubblicato il 26 febbraio 2020 (l’unica cosa buona fatta dalla OMS in questa sciagurata vicenda, i cui principali risultati restano validi ancor oggi), indicano che la probabilità di contagio è massima tra persone adulte che stanno a lungo in ambienti chiusi, mentre quella minima è all’aperto tra giovani. È quindi evidente che l’accanimento contro i mitici “assembramenti” e, in particolare, contro la ancor più mitica “movida” ha una motivazione essenzialmente ideologica. E, come ogni ideologia, ha prodotto risultati catastrofici per i popoli, ma che per certi versi fanno invece comodo a chi sta al potere.

Una volta di più, non sto dicendo che ci sia un piano a tavolino per prolungare artificiosamente la pandemia: la realtà è sempre molto più complessa del semplicismo complottista. E tuttavia è innegabile che proprio questo, oggettivamente, sia stato l’effetto prodotto dalle misure adottate dai nostri governi allo scopo di contenerla, così come è innegabile che a ciò abbia contribuito, insieme a tutte le altre cause prima ricordate, anche la tendenza autoritaria che punta alla rieducazione dei popoli europei attraverso l’uso terroristico del pandemically correct.

Altrettanto innegabile è che ci siano già stati vari tentativi di insinuare, con le scuse più varie, che forse anche dopo esserci liberati del virus dovremmo mantenere almeno alcune delle misure attuate durante lo stato di emergenza. Alcuni, come per esempio i produttori di sistemi informatici, lo fanno per evidenti interessi economici (tra parentesi, dovremmo sempre ricordarci che gli esperti di sistemi informatici sono sempre anche produttori o quantomeno progettisti degli stessi e quindi il loro parere non è mai esattamente disinteressato), ma in altri casi la motivazione è chiaramente ideologica, anche se “travestita” da tecnica.

Tale atteggiamento ideologico diventa ancor più evidente (e più preoccupante) se consideriamo i mass media, dove la volontà, largamente maggioritaria, di sostenere a tutti i costi i governi, fregandosene altamente di quanti morti stanno causando con i loro errori pur di sbarrare la strada ai “populisti”, è non solo palese, ma spesso anche esplicitamente dichiarata: basti dire che perfino Massimo Cacciari, che, come abbiamo appena visto, è uno dei pochi critici davvero intelligenti di Conte, ha sempre sostenuto che il suo governo “non aveva alternative”, benché ciò fosse palesemente falso, come i fatti hanno appena dimostrato.

Più in generale, la “sorpresa” da tutti dichiarata per la “geniale mossa” di Mattarella di dare l’incarico a Draghi (che invece era del tutto ovvia e scontata, essendo fin dall’inizio della crisi l’unica soluzione praticabile) in parte sarà anche stata dovuta a pura ottusità, ma in parte ben più grande è stata un palese quanto maldestro tentativo di nascondere il fatto che le “analisi” che indicavano come unica soluzione possibile il Conte-Ter altro non erano che pressioni mascherate da previsioni.

Ma c’è di più e di peggio. Infatti, almeno alcuni tentativi di strumentalizzare intenzionalmente l’informazione si sono certamente verificati. Lasciando stare, per il momento, tutto il tema della manipolazione del linguaggio, che è così ampio e importante che gli dedicherò un articolo a parte, gli episodi di disinformazione sono stati talmente gravi e ripetuti che possono essere definiti adeguatamente soltanto con la parola “censura”. Anche qui posso fare solo alcuni esempi, ma confido che basteranno.

Anzitutto, spero che tutti abbiano notato come tra le interviste fatte per strada alla gente dai vari TG non se n’è mai vista neanche una in cui l’intervistato criticasse l’efficacia delle misure governative dal punto di vista strettamente sanitario, il che è chiaramente impossibile e si spiega soltanto col fatto che in onda vengono mandate solo quelle in cui l’intervistato raccomanda di ubbidire alle regole (in certi casi con toni così auto-flagellatori che viene perfino il dubbio che la cosa sia stata concordata prima). Qualche eccezione viene fatta solo per i negazionisti veri e propri, in modo da dare la falsa impressione che tutti quelli che criticano le regole siano, appunto, negazionisti.

Un altro aspetto gravissimo è l’intollerabile doppiopesismo con cui vengono abitualmente giudicate le azioni dei “correct” e degli “incorrect”. Ho detto prima che Trump si è giocato la rielezione con le idiozie che ha detto sul virus, anche se poi le sue azioni sono state assai meno scriteriate delle sue affermazioni. Tuttavia, se queste ultime sono state (giustamente) bollate come “irresponsabili” e a volte perfino “criminali”, che dire del “buon” Biden e del “grande” Anthony Fauci, che hanno sempre dichiarato di volersi ispirare al “modello Italia”, nonostante che l’Italia abbia sempre avuto molti più morti per abitante degli USA? Usando lo stesso metro, anche queste affermazioni dovrebbero essere considerate irresponsabili e criminali esattamente come quelle di Trump, anzi, ancora di più, perché se fossero state messe in pratica avrebbero causato la morte di ancora più persone. Eppure, avete mai sentito qualcuno dirlo? No? Ecco, appunto…

Comunque, la cosa in assoluto più scandalosa è il totale silenzio sulle esperienze dei paesi del Pacifico, che in alcune occasioni ha toccato vette tali che più che di censura si dovrebbe parlare di riscrittura della realtà, sullo stile di 1984 di Orwell.

Fig. 1. Per la OMS Taiwan non esiste, in quanto è considerata parte integrante della Cina.

Un primo esempio, che ha dell’incredibile, è quello di Taiwan, che nella mappa del contagio del sito ufficiale della OMS nemmeno compare, essendo considerata parte integrante della Cina. E Taiwan non è un paese qualunque, dato che è quello che se l’è cavata meglio di tutti al mondo; appena 0,34 morti per milione di abitanti, che significa che noi ne dovremmo avere appena 20! Che nessuno abbia mai denunciato questo scandalo, nemmeno i media di opposizione, che pure avrebbero tutto l’interesse a farlo, può significare una sola, incredibile cosa: che nessun giornalista è mai andato a vedere i dati ufficiali della OMS, limitandosi a commentarne le affermazioni, che spesso sono in completo contrasto con quanto emerge dai suoi stessi dati, del che però nessuno si accorgerà mai, se nessuno li va mai a guardare. Ciò rappresenta un radicale tradimento della missione del giornalista, che è quella di informare (che significa innanzitutto informarsi) e non di dividere il mondo in buoni e cattivi in base a categorie ideologiche costruite a tavolino.

Fig. 2. Capodanno senza mascherine a Auckland. Secondo la RAI erano tutti in casa a guardarlo alla TV.

Non meno assurdo è il trattamento riservato ad Australia e Nuova Zelanda. Per esempio, in occasione del Capodanno tutti i TG della RAI del 31 dicembre e del 1° gennaio (li ho controllati e registrati uno per uno, quindi nessuno si azzardi a negare) hanno accuratamente evitato di mostrare, come invece è sempre accaduto in passato, le folle che festeggiavano in strada, senza distanziamenti e senza mascherine, a Auckland, Sydney e Melbourne (nonché a Taiwan, Singapore, Bangkok e in molti altri paesi in cui il contagio è azzerato da mesi), arrivando addirittura in alcuni casi a sostenere esplicitamente che anche lì la gente avrebbe visto i fuochi d’artificio soltanto da casa.

In un caso si è arrivati ad affermare che solo in Cina la gente era scesa in piazza, peraltro sempre con le mascherine, il che costituisce un’ulteriore menzogna, perché, come si vedeva anche nel servizio da Wuhan, solo alcuni la portavano, il che significa che era una scelta personale, perché se fosse stata obbligatoria ovviamente l’avrebbero avuta tutti.

Fig. 3. I tifosi si “assembrano” festosamente senza mascherine intorno a Luna Rossa nel golfo di Hauraki. La RAI, però, ha parlato solo del mini-lockdown di 3 giorni dovuto ad appena 3 contagi ad Auckland.

La stessa cosa si è ripetuta, ma in forma, se possibile, ancor più vergognosa, con la Coppa America in Nuova Zelanda e gli Open di Australia di tennis, dove i TG e la Domenica Sportiva hanno raccontato con dovizia di particolari le imprese di Luna Rossa e dei grandi tennisti, ma non hanno mai mostrato né menzionato il pubblico che assisteva senza limitazioni e senza mascherine. Durante le telecronache, invece, per forza di cose non hanno potuto evitarlo, ma l’unico commento che ho sentito, all’inizio delle regate nel golfo di Hauraki, è stato: “Beati loro!”, come se la libertà dal virus gli fosse piovuta dal cielo per grazia divina (sulle telecronache del tennis non ho informazioni perché per scelta non guardo le Pay TV, ma, visto l’andazzo generale, non mi aspetto nulla di diverso, anche se naturalmente sarei ben felice di essere smentito).

In compenso, TG e DS si sono invece subito affrettati ad annunciare il rinvio delle regate di martedì 16 e mercoledì 17 febbraio per un mini-lockdown di appena 3 giorni deciso dalla premier Jacinda Ardern per 3 soli contagi (peraltro probabilmente “importati”) scoperti ad Auckland. Anzi, il TG3 delle 14 di domenica 14 febbraio è arrivato al punto di mettere fra i suoi titoli di apertura che “in Nuova Zelanda il virus torna a fare paura”, naturalmente guardandosi bene dal dire che si trattava, appunto, di soli 3 casi, che fino a quel momento il pubblico aveva assistito alle regate in totale libertà e che il lockdown era stato deciso non perché la situazione fosse preoccupante, ma perché proprio nell’intervenire con la massima decisione al minimo segno di contagio, prima che la situazione diventi preoccupante, consiste la “dottrina Jacinda” che ha permesso ai neozelandesi di vivere una vita praticamente normale da maggio in qua, come ho spiegato nel mio articolo del 12/01/2021.

Fig. 4. Pubblico senza mascherine agli Australian Open di tennis. Anche qui, la RAI ha parlato solo del mini-lockdown di 5 giorni dovuto ad alcuni contagi “di importazione” nell’hotel dell’aeroporto di Adelaide.

Esattamente lo stesso è successo con gli Australian Open, dove la RAI non ha mai mostrato né commentato le immagini del folto pubblico che ha assistito alle prime giornate, ma ha invece subito annunciato il mini-lockdown di 5 giorni deciso per alcuni casi scoperti ad Adelaide, peraltro anch’essi chiaramente di importazione, essendosi verificati all’Holiday Inn, l’hotel dell’aeroporto. Anche qui, nessun cenno al fatto che sia prima che dopo si è giocato con il pubblico, dato che dal 16 ottobre a oggi in Australia ci sono stati appena 5 morti su 25 milioni di abitanti, né che questo risultato strabiliante (l’Italia da allora a oggi di morti ne ha avuti 58.000) è stato ottenuto grazie alla “conversione” dell’Australia alla suddetta “dottrina Jacinda” (vedi sempre mio articolo del 12/01/2021), né infine che il senso di questi mini-lockdown è consentire il tracciamento di tutti i possibili contagi già avvenuti senza che nel frattempo se ne verifichino altri, per poi tornare rapidamente a quella normalità che noi ci sogniamo ormai da un anno, mentre i neozelandesi ne godono già da 8 mesi e gli australiani da 4.

È chiaro che una distorsione così sistematica e “mirata” della realtà non può essere attribuita soltanto all’ignoranza e all’incompetenza (che pure la loro parte la giocano), ma implica necessariamente una strategia pianificata a tavolino, che nel caso della TV di Stato non può che provenire direttamente dal governo, mentre negli altri casi è con ogni probabilità frutto di un misto di pressioni governative e di altre interne allo stesso sistema mediatico.

Di alcuni casi ho anche testimonianze certe, ma purtroppo non posso citarle, perché conoscere i fatti e poterli provare in tribunale sono due cose separate e distinte. Io stesso mi sono visto rifiutare due articoli da due diversi quotidiani (di cui, per le stesse ragioni di cui sopra, non farò il nome) perché i giornalisti a cui li avevo proposti, pur condividendoli, mi hanno detto che la direzione non li avrebbe mai accettati, in un caso per paura di ritorsioni da parte del governo e nell’altro per non metterlo in difficoltà.

La cosa più paradossale, comunque, è che questa strategia sta ottenendo l’effetto esattamente opposto a quello che si propone, facendo crescere, anziché diminuire, il numero dei negazionisti, esattamente come il tentativo di imporre i dogmi della “ideologia europea” ha fatto crescere, anziché diminuire, il numero degli antieuropeisti.

Anche il motivo è lo stesso: se infatti chi capisce confusamente che c’è qualcosa che non va nella visione ortodossa proposta dall’establishment non trova qualcuno che sia capace di spiegargli in modo chiaro e convincente che cosa esattamente non va, finirà per andar dietro a chiunque capiti, anche se ha le idee confuse come e perfino più delle sue, purché si opponga a politiche che ormai vengono ritenute inaccettabili, non tanto perché richiedono sacrifici, ma – giova ripeterlo – perché richiedono sacrifici inutili o, nel migliore dei casi, assolutamente sproporzionati ai magrissimi risultati ottenuti.

Ora, sul breve termine questo metodo ha sicuramente pagato, rafforzando il suddetto establishment, perché è più facile battere un avversario rozzo e “impresentabile” che uno preparato e intelligente, ma sul lungo periodo radicalizzare i conflitti sociali può solo avere effetti catastrofici per tutti (tra parentesi: è mai possibile che nessun fautore del politically correct si renda conto di quanto sia controproducente cercare continuamente l’appoggio dei personaggi dello spettacolo, che sono visti – più a ragione che a torto, per la verità – come dei ricchi ignoranti e presuntuosi che vivono in un modo che non ha nulla a che fare con quello della gente comune e ciononostante pretendono di farle la morale?).

I primi effetti negativi rischiamo di vederli già nei prossimi mesi, perché sta montando una diffusa opposizione che potrebbe ulteriormente rallentare il già troppo lento piano vaccinale, che a questo punto è l’unica via di salvezza che ci resta prima del baratro. Ho molti amici che, pur non essendo assolutamente contrari ai vaccini in generale, non si fidano di questi vaccini perché non si fidano di questi governi e di questi esperti. E la cosa più drammatica è che hanno ragione.

Questo è un punto molto delicato, a cui bisognerà una volta o l’altra dedicare una riflessione a parte, perché se è vero che molti scienziati hanno cercato di suggerire strategie più intelligenti ai governi (peraltro senza essere mai ascoltati), è altrettanto vero che pochissimi hanno contestato alla radice le loro politiche: nonostante l’evidenza del loro totale fallimento, quasi tutti si sono infatti limitati a proporre correzioni di aspetti particolari e soprattutto maggiore efficienza, all’interno di un quadro che fondamentalmente continuava a basarsi sugli stessi erronei presupposti.

In particolare, stupisce il comportamento dei medici: una loro sollevazione collettiva, con richiesta di un drastico cambiamento di rotta, in questa situazione non potrebbe essere facilmente ignorata, eppure non l’hanno mai neanche tentata, nonostante rischino la pelle in prima persona, tanto che ne sono già morti oltre trecento. La mia impressione, ascoltando non solo i discorsi in televisione, ma anche quelli dei molti medici che conosco (alcuni li ho pure in famiglia), è che pensino davvero che non ci siano errori concettuali di fondo, ma solo di gestione, il che è davvero incomprensibile, perché, diversamente dai non addetti ai lavori, la loro interpretazione dei dati non dovrebbe essere influenzata dalla propaganda dei media e, come abbiamo visto, quello che emerge dai dati è un quadro completamente diverso rispetto a quello delineato dall’ideologia del pandemically correct.

La sostanziale accettazione di quest’ultimo presuppone quindi un processo di autoinganno almeno in parte volontario: è quello che Václav Havel, il più lucido e profetico dei dissidenti dell’Est, nel suo capolavoro Il potere dei senza potere chiama “autototalitarismo sociale” e che ricorda molto il meccanismo descritto pochi giorni fa su questo stesso sito dal politologo Paolo Natale. Ma, come ho detto, ne parleremo un’altra volta.

Ciò che invece adesso dobbiamo sottolineare è quanto sia pericoloso l’atteggiamento delle nostre attuali classi dirigenti, la cui stragrande maggioranza reagisce all’avanzata dei negazionisti esattamente come a quella dei populisti (peraltro ormai visti sostanzialmente come la stessa cosa): demonizzandoli ancor più e insistendo a volerli “rieducare” anziché provare ad ascoltarli, senza fare di tutta l’erba un fascio e distinguendo, tra le diverse posizioni, quelle assolutamente infondate da quelle che invece nascono da preoccupazioni assolutamente legittime e giustificate.

Questo si è visto in modo emblematico in America, dove la prima “geniale” mossa della strategia di Biden per “riconciliare il paese” è stata sostenere a spada tratta l’impeachment per Trump, tra l’altro contrario alla logica prima ancora che alla Costituzione, dato che l’impeachment non è un processo penale, bensì la «messa in stato d’accusa di persona che detiene un’alta carica pubblica, ritenuta colpevole di azioni illecite nell’esercizio delle proprie funzioni, allo scopo di provocarne la destituzione» (Dizionario online di Oxford Languages) e quindi per definizione non si applica a chi sia già stato rimosso dalla sua carica, “per la contradizion che nol consente”, qualsiasi cosa pensino e votino gli illustri membri del Congresso. È vero che tecnicamente la motivazione dell’accusa era la sua presunta responsabilità nell’assalto al Campidoglio, ma è evidente a chiunque che si trattava in realtà di un attacco a tutta la sua politica e innanzitutto alla gestione dell’epidemia.

Ora, se voi foste dei sostenitori di Trump, magari anche moderati e critici verso l’atteggiamento che ha tenuto nella fase finale del suo mandato, come vi sentireste ora: più o meno inclini a riconciliarvi con Biden? La risposta è ovvia quanto la domanda, e di conseguenza il fatto che praticamente nessuno se la sia posta dimostra una volta di più come “riconciliarsi con l’avversario” nel linguaggio del politically correct significhi in realtà “rieducarlo”.

Del tutto analoga è la situazione nostrana, emblematicamente rappresentata dalla celeberrima espressione “sciamani d’Italia” che Massimo Giannini, direttore di La Stampa nonché ex vicedirettore di Repubblica nonché autoproclamato esperto del virus per il solo fatto di esserselo beccato (ed esserne fortunatamente guarito), ha «usato per definire le reazioni di Matteo Salvini e Giorgia Meloni al quasi golpe di Washington» (Gli sciamani e la mia risposta alla Meloni, editoriale di La Stampa dell’11 gennaio 2021, p. 1).

A parte che parlare al proposito di “quasi golpe” significa o essere fuori dal mondo o essere in malafede, anche qui la motivazione tecnicamente si riferisce all’assalto al Campidoglio, ma è evidente a chiunque che si tratta in realtà di un attacco a tutta la loro politica, a cominciare dalla scelta del vocabolo, che allude sì alla loro presunta vicinanza all’incredibile personaggio che ha guidato il suddetto assalto (il che dimostra quanto si fosse lontani anni luce da un vero golpe), ma anche – e certo non casualmente – a un loro presunto atteggiamento antiscientifico, che in parte, come ho già detto, in quei partiti esiste davvero, ma non giustifica quello che è a tutti gli effetti un mero insulto (pesante) e non una critica razionale. Anche il tono generale non era quello di chi critica un avversario, ma di chi lancia una scomunica, tant’è vero che le loro rispettive parti politiche nello stesso articolo sono definite «parte del problema» in quanto «ambigue, […] reticenti, […] anomale, […] populiste, […] radicali, […] illiberali, […] a-repubblicane» e perciò «inadatte a governare un Paese» (ibidem, p. 9). E non si tratta certo di un caso isolato, anche se è quello che ha fatto più notizia.

Del resto, il fatto stesso che due dei tre più grandi quotidiani italiani abbiano potuto scambiarsi come se niente fosse direttore e vicedirettore, nonostante un orientamento politico e culturale in teoria piuttosto diverso, la dice lunga su quanto l’omogeneità culturale prodotta dalla condivisione dei dogmi della “ideologia atlantica” nonché del politically e del pandemically correct sia ormai di gran lunga più profonda e più forte di qualsiasi altra differenza, nonché su come tale “blocco culturale” si muova ormai davvero “all’unisono”, formalmente rispettando le regole democratiche, ma nella sostanza comportandosi in modo sempre più intollerante.

Il dramma è che pochissimi dei nostri leader sembrano aver capito la necessità di cambiare rotta (speriamo, per il bene di tutti, che uno di essi sia Draghi, anche se per quanto riguarda la gestione dell’epidemia in senso stretto non c’è da farsi troppe illusioni, come dimostra la conferma alla Sanità del ministro Speranza, uno dei principali colpevoli del disastro italiano).

Eppure, un esempio, per giunta non teorico, ma concretissimo, che “un altro modo è possibile” ci sarebbe ed è rappresentato ancora una volta dalla Nuova Zelanda, dove negazionisti e populisti (che prima c’erano anche lì) sono praticamente spariti, non per magia, ma grazie al comportamento radicalmente diverso tenuto dalla giovanissima Jacinda Ardern, eletta premier per la prima volta nel 2017 ad appena 37 anni.

Anzitutto, infatti, lei si è sempre assunta la responsabilità delle proprie azioni in base ai risultati che hanno determinato, anziché giustificarle in base ai principi che le hanno ispirate, come usa da noi. Basti dire che quando due turiste inglesi trovate positive all’aeroporto per una svista erano state lasciate andare anziché metterle in quarantena la signora Jacinda andò subito in televisione e disse che si trattava di «un fallimento inaccettabile del sistema», cioè innanzitutto suo.

Eppure, si trattava di appena due casi che le erano sfuggiti dopo che aveva già azzerato il contagio, con appena 25 morti su 5 milioni di abitanti! Nessuno si sarebbe certamente sognato di biasimarla, se non si fosse scusata. E invece no! Chiedendo ai suoi concittadini di accettare il lockdown totale lei aveva promesso in cambio la totale eradicazione del virus, quindi anche due soli casi erano inaccettabili. L’abisso che passa tra il suo atteggiamento e quello di Conte, nonché di tutti gli altri leader “atlantici” si riflette con esattezza matematica nell’abisso tra i suoi risultati e i loro.

Ma non basta. Infatti, dopo essere stata rieletta trionfalmente il 17 ottobre scorso con la maggioranza assoluta (come era logico, visti i risultati ottenuti) che ha fatto Jacinda? È andata in televisione a bacchettare i suoi avversari e a vantarsi di quanto era stata brava? Manco per sogno! La sua prima dichiarazione è stata: «Viviamo in un mondo sempre più polarizzato, un luogo dove sempre più persone hanno perso la capacità di mettersi nei panni degli altri. Spero che in queste elezioni la Nuova Zelanda abbia dimostrato di non essere così. Ma una nazione che sa ascoltare, discutere. Siamo troppo piccoli per perdere di vista la prospettiva degli altri. Le elezioni non sempre uniscono le persone. Ma non significa che debbano dividerle».

Dopodiché, anche se avrebbe potuto governare tranquillamente da sola, si è immediatamente messa al lavoro per creare un governo di coalizione sostenuto dalla più ampia maggioranza possibile, tra cui tantissime donne (senza bisogno alcuno di “quote rosa”) e, cosa ancor più rivoluzionaria, tantissimi parlamentari di etnia maori, affidando non qualche sottosegretariato, ma nientemeno che il Ministero degli Esteri a Nanaia Mahuta, imparentata con la famiglia reale dei Maori.

Questa è riconciliazione. Questa è inclusione. Questa è educazione (e non “rieducazione”) del popolo. Questa è, in una parola, politica, nel senso migliore del termine.

Perché non proviamo a fare lo stesso anche noi?