Il fazzoletto del centro

Forza Italia langue, ma Mara Carfagna – con la neonata associazione “Voce libera” – sembra intenzionata a costruire un’alternativa o una variante rispetto a Forza Italia. Sulla medesima strada si era messo poche settimane prima Giovanni Toti, ex forzista, ora governatore della Liguria, con la costituzione del movimento “Cambiamo”. E un processo analogo, di distacco di ali centriste, è in atto da mesi a sinistra, dove prima Matteo Renzi ha fondato “Italia Viva, e poi Carlo Calenda ha creato “Azione”.

Il fatto che qualcosa si muova nel cosiddetto centro dello spazio politico non può che rallegrare quanti, e sono molti, considerano inquietante l’attuale destra e deprimente l’attuale sinistra. Ciò nonostante, il consenso che le forze politiche di centro riescono a catalizzare è decisamente modesto, oggi come ieri. Alle elezioni politiche del 2008 le formazioni di centro raccoglievano il 7% dei consensi (soprattutto con l’Udc di Casini), a quelle del 2013 l’11% (soprattutto con Scelta civica di Monti), a quelle del 2018 il 15% (soprattutto con Forza Italia). E oggi?

Oggi, a giudicare dall’ultimo sondaggio pubblicato, il centro è sempre lì, appena sotto il 15%. La novità è che ora i soggetti partitici testati dai sondaggi sono diventati ben quattro, di cui due a destra (Forza Italia e Cambiamo, 5.5 e 1% rispettivamente), e due a sinistra (Italia Viva e Azione, 4.7 e 3.3% rispettivamente).

Ma che cosa impedisce l’allargamento del consenso ai partiti di centro? Come mai, nonostante i due blocchi principali suscitino tante perplessità, in Italia non si assiste alla formazione di un partito liberal-democratico capace di influire sugli equilibri complessivi del sistema politico?

Una ragione, ovviamente, è che spesso le operazioni di questo tipo sono al servizio di ambizioni personali, ed hanno quindi scarsissime possibilità di fondersi in un progetto politico unitario. Ma esiste, a mio parere, anche una ragione più profonda, e come tale più seria, per cui il centro non decolla. Ed è che, a ben vedere, le 4-5 formazioni che si contendono l’esiguo spazio politico dell’elettorato di centro sembrano d’accordissimo fra loro finché si tratta di sottoscrivere valori generici, ma si rivelano tutt’altro che d’accordo quando dal piano dei principi generali si scende a quello delle proposte politiche specifiche. Accade così di leggere che essere liberali significa condividere valori come “la libertà, la giustizia, l’uguaglianza, i diritti individuali, la crescita collettiva”, ossia tutte cose su cui sarebbero d’accordo anche le altre forze politiche, siano esse di destra o di sinistra. Fra i grandi e generici valori della politica solo l’europeismo sembra distinguere le formazioni liberali dalla maggior parte delle altre forze politiche (e in special modo da Lega, Fratelli d’Italia, Cinque Stelle).

Mentre non appena si passa a questioni più concrete, la comune matrice liberale sembra mettere tutti d’accordo su un punto soltanto: il garantismo e il conseguente rifiuto del giustizialismo. Su tutto il resto, come i migranti, la spesa pubblica, le tasse, la lotta all’evasione fiscale, i conti pubblici, spesso non è chiaro se le formazioni politiche che si richiamano alla tradizione liberale la pensino tutte allo stesso modo, e anzi talora è più che chiaro che la pensano in modo diverso. Ciò vale, in particolare, per le tre formazioni maggiori (Forza Italia, Italia Viva, Azione), di cui bene o male si conoscono alcune proposte portanti, ma anche non pochi significativi silenzi, specie in materia di risanamento dei conti pubblici.

Per quel che riesco a vedere, in questo momento l’offerta politica più interessante, e meno scontata, viene da Azione, il partito di Calenda. Da studioso, non posso non apprezzare il fatto che il programma del nuovo partito poggi su una interpretazione complessiva e dettagliata, degli anni della globalizzazione, nonché su un’analisi specifica del caso italiano (entrambe esposte nel suo libro Orizzonti selvaggi, Feltrinelli 2018). Quanto al contenuto del programma, trovo di notevole interesse due punti, entrambi controversi ma proprio per questo meritevoli della massima attenzione.

Il primo è, se mi si permette l’espressione, lo “sdoganamento della paura”, un sentimento di cui si riconosce la fondatezza e la piena legittimità: la paura non è un prodotto artificialmente generato dalla propaganda leghista; la pressione migratoria dell’Africa è insostenibile per l’Europa; l’Italia ha tutto il diritto di proteggere i propri confini, specie marittimi; respingimenti e rimpatri non sono tabù. Questo posizionamento mi pare interessante perché colloca il partito di Calenda in una posizione unica (e finora vuota) nello spazio politico italiano: Azione è l’unica forza di sinistra non populista e al tempo stesso chiaramente critica con le politiche di accoglienza dell’era renziana. È una novità, perché fino a ieri l’elettore progressista preoccupato per gli ingressi incontrollati aveva una sola possibilità: votare i Cinque Stelle, unico partito dello schieramento di sinistra ostile all’apertura dei porti.

Il secondo punto meritevole di attenzione (e forse anche di qualche dubbio) è l’idea, che spesso riemerge dalle analisi e dagli interventi di Calenda, che la via maestra per restituire sicurezza economica alla gente, e al tempo stesso risanare i conti dello Stato, sia la lotta all’evasione fiscale (recuperare 50 miliardi). Da tale lotta, infatti, Calenda non si aspetta solo sgravi contributivi e una riduzione delle aliquote per chi le tasse le paga già, ma anche nuova spesa pubblica (su scuola, sanità e assistenza) e un azzeramento del deficit pubblico. Di qui una conseguenza logica difficilmente eludibile: se solo una parte dei proventi della lotta all’evasione serve a ridurre le aliquote, il gettito fiscale aumenta, e con esso tende ad aumentare la pressione fiscale complessiva (un esito che solo un ritorno alla crescita potrebbe scongiurare).

Questa posizione è interessante perché segnala un’importante (presumibile) differenza con le politiche degli altri partitini di centro, specie di Forza Italia, da sempre indulgente verso l’evasione, e convinta che solo uno shock fiscale possa rimettere in moto la macchina dell’economia.

Ecco perché credo che, al momento, il grande movimento di sigle e persone al centro dello spazio politico meriti attenzione, ma anche una certa vigilanza. Calenda, con il suo libro, le carte le ha messe quasi tutte in tavola. Gli altri partitini un po’ meno. Da Forza Italia e Voce libera, ad esempio, si vorrebbe sapere se le loro ricette economico-sociali sono le stesse degli ultimi due decenni. Quanto a Italia Viva, non è chiaro che partito potrà essere, visto che finora ha governato con una forza politica – i Cinque Stelle – che è il suo esatto contrario.

Pubblicato su Il Messaggero del 30 dicembre 2019



Moderazione?

Ha suscitato una certa sorpresa la recente improvvisa “conversione al moderatismo” di Matteo Salvini. Prima l’apertura ad una eventuale presidenza della Repubblica affidata a Draghi (il famoso “why not?”), poi l’invocazione di una sorta di “comitato di salvezza nazionale”, aperto a tutte le forze politiche, per varare alcuni interventi condivisi e “salvare il paese che altrimenti rischia di affondare”. Infine l’aperura a un negoziato sulla legge elettorale, sperando che sia propedeutico a un ritorno alle urne.

Perché questa mossa di Salvini?

Mi faccio questa domanda perché, per quanto io abbia un’idea catastrofica di come da un paio di decenni va l’Italia, e veda ben poco di utile nell’azione del governo in carica, non riesco a scorgere alcun salto fra le cose come stanno oggi e le cose come stavano 3, 6, o 9 mesi fa. Semmai, le cose vanno un po’ meglio di come andavano nell’autunno scorso, ai tempi in cui Salvini stesso e Di Maio si cimentavano in un inutile (anzi dannoso) braccio di ferro con la Commissione europea. Insomma, è vero, l’Italia va a rotoli, ogni trimestre sul paese cade una nuova tegola (banche, Whirpool, Alitalia, Ilva, di nuovo banche, di nuovo Ilva, e via rotolando), ma non mi sembra proprio che il rotolamento abbia improvvisamente subito un’accelerazione.

Dunque le ragioni che adduce Salvini non sono convincenti. Se ha fatto questa mossa, devono esserci altre ragioni. Io ne intravedo due, che non necessariamente si escludono a vicenda. La prima è che, forse, gli ultimi sondaggi lo hanno convinto che la vittoria in Emilia Romagna non è affatto sicura, e quindi difficilmente potrà essere quella la strada per imporre il ritorno alle urne. La seconda ragione è che i suoi consiglieri, primo fra tutti Giorgetti, potrebbero averlo convinto che, quale che sia la data del voto, sarà meglio arrivarvi con un profilo meno ruvido di quello esibito fin qui.

Credo che, se questo è il consiglio che Salvini ha ricevuto, sia un buon consiglio. Ma penso anche che sia un consiglio largamente insufficiente. È vero che una parte dell’elettorato esita a dare il suo voto alla destra perché è spaventato dal profilo aggressivo e anti-europeo troppo spesso esibito da Salvini. È altrettanto vero, tuttavia, che una parte dell’elettorato potenziale della Lega, e più in generale della coalizione di centro-destra, esita per altri motivi, che non hanno a che fare con il linguaggio della Lega ma con i suoi programmi.

Per questo secondo tipo di elettorato la domanda cruciale non è se la Lega sia disposta a sostenere una candidatura di Draghi alla presidenza della Repubblica o a quella del Consiglio, ma quali siano le risposte della Lega ai grandi interrogativi della politica economica e sociale. Perché quelle fornite fin qui non sono rassicuranti. Penso alla scelta assistenzialistica di quota 100, che ha bruciato risorse che molti elettori avrebbero preferito vedere dirottate sulla riduzione delle tasse. Penso all’idea di finanziare la prossima riduzione delle tasse (dopo il mini-provvedimento sulle partite Iva) con misure una tantum come condoni e rottamazione delle cartelle. Penso all’idea ricorrente, e decisamente bipartisan, di chiedere all’Europa più flessibilità, relegando ogni impegno di riduzione del debito pubblico in un futuro che non arriva mai. Per non parlare della questione del Mezzogiorno (dal deficit di infrastrutture al divario di produttività), un nodo che, da decenni, nessun governo è mai stato in grado di affrontare con qualche visibile risultato.

Questo genere di chiarimenti sono tanto più indispensabili quando si rifletta sul fatto che, nonostante una certa unità di facciata, su molte questioni i tre maggiori partiti di centro-destra non sembrano avere la medesima visione del futuro dell’Italia, o quantomeno non paiono avere le medesime priorità. Vale per la politica economica, dove si affrontano tre approcci diversi alla riduzione delle tasse (più radicale quello di della Lega, più gradualista quello di Fratelli d’Italia), ma vale anche per il problema dei migranti, dove lo spettro delle posizioni è ancora più ampio, dalla linea della redistribuzione fra i paesi europei al blocco navale invocato da Giorgia Meloni.

Insomma, proprio perché è piuttosto probabile che il prossimo governo sia di centro-destra, sarebbe utile capire se la via della ragionevolezza, che qua e là fa capolino nelle dichiarazioni pubbliche di Salvini, sia solo un goffo tentativo di rassicurare l’elettorato, o abbia una sostanza programmatica. Ma soprattutto: sarebbe utile capire se c’è, a destra, qualcosa di davvero nuovo nel modo di affrontare i problemi del paese, primo fra tutti il ristagno ventennale della produttività e la fine della crescita.

Perché di una cosa, almeno, siamo piuttosto sicuri: negli ultimi, lunghi e tormentati 25 anni, nessun governo, di destra o di sinistra, populista o europeista, è mai stato in grado di fermare il declino dell’Italia.

Pubblicato su Il Messaggero del 21 dicembre 2019



Sardine

La manifestazione di Roma delle Sardine è stata senz’altro utile. Utile perché chiarificatrice. Le Sardine sono un movimento di opinione esplicitamente schierato a sinistra, nato per combattere la Lega di Matteo Salvini e abolire (o rivedere?) i decreti sicurezza (unico punto sostanzioso fra i 6 del loro programma politico). Dopo la manifestazione di Roma ogni incertezza e ambivalenza è caduta: anche se alcune istanze sono bipartisan (chiedere un po’ di bon ton e di serietà comunicativa alla politica è sacrosanto ma non è né di destra né di sinistra, così come non lo è difendere la Costituzione), il posizionamento delle Sardine nel mondo progressista è fuori discussione, con buona pace di Francesca Pascale e di CasaPound.

Ma qual è la cifra di questo movimento?

Qualcuno ha paragonato le Sardine ai Girotondi e al Popolo Viola, due movimenti di opinione sorti negli anni 2000 per combattere Berlusconi. Questo paragone non è sbagliato, perché su almeno un punto le analogie sono fortissime: anche oggi, come ieri, il cemento di questo tipo di movimenti è la credenza di rappresentare “la parte migliore del paese”. Succede in Italia, ma succede anche altrove: ricordate Hillary Clinton che dice dei suoi fan che sono “the best of America”, mentre i sostenitori di Trump sarebbero “a basket of deplorable” (letteralmente: un cesto di deplorevoli, talora tradotto con “branco di miserabili”)?

E tuttavia se ci concentrassimo solo sul “bullismo etico”, che oggi come ieri è il segno distintivo della società civile quando scende in piazza, ci faremmo sfuggire il tratto più nuovo di questo movimento. Che non è né l’incapacità di riconoscere all’avversario politico la sua legittimità, né la tendenza a disumanizzare il nemico (ieri Berlusconi, oggi Salvini), ma è il suo modo di porsi rispetto al potere costituito. A mia memoria, tutti i movimenti del passato hanno sempre avuto una forte carica anti-establishment o anti-governo. Sessantottini, femministe, dipietristi, Girotondi, Popolo Viola, grillini della prima ora, sono sempre stati “contro” alcuni essenziali poteri costituiti (nel caso dei Girotondi e del Popolo Viola i governi Berlusconi nati nel 2001 e nel 2008). Per non parlare dei partigiani, che mettevano a repentaglio le loro vite per abbattere una dittatura e riconquistare la libertà.

Le Sardine no. Non solo sfidano il ridicolo paragonandosi ai partigiani, come se fossimo in presenza di una dittatura, e gli oppositori dovessero rifugiarsi sui monti per combatterla, ma non paiono rendersi conto della unicità e paradossalità della loro protesta. E’ la prima volta, in Italia, che un movimento di protesta non si rivolge contro il potere ma ne è il beniamino. Vezzeggiati dai giornali e dalle televisioni, coccolati dall’establishment, vengono lodati e ringraziati dagli esponenti del governo in carica (esattamente come accadeva qualche settimana fa con le manifestazioni dei seguaci di Greta). E si capisce perché: agli esponenti di governo non par vero che le piazze si riempiano non già per criticare il governo, bensì per demonizzare o ridicolizzare l’opposizione.

Per chi osserva le cose con un minimo di distacco, c’è di che trasecolare. L’Italia si sta disgregando giorno dopo giorno, il governo in carica, per ammissione della stessa stampa progressista, è fra i più grigi, confusi e litigiosi di sempre, e che cosa accade nelle piazze delle Sardine? La protesta non si dirige verso l’esecutivo, esigendo che affronti i problemi reali del paese, ma verso i leader dell’opposizione, dipinti come fascisti, razzisti, anti-semiti, pronti a instaurare un regime autoritario, novelli Mussolini e Hitler, mostri grondanti odio.

Eppure il nodo, a mio parere, è proprio qui. Se dipingi l’avversario politico come un nemico, se arrivi a considerarlo una bestia o un non-uomo, diventi parte attiva di quel clima d’odio che dici di voler combattere; contribuisci tu stesso a imbarbarire il confronto politico; e, in qualche misura, finisci per proiettare sull’altro la profonda ostilità che senti in te. Soprattutto, non riesci a farti la domanda delle domande: perché le piazze delle Sardine attirano i ceti medio-alti, e quelle della destra i ceti medio-bassi? come è possibile che la gente beneducata, colta, civile, preoccupata delle sorti dei deboli, scenda in piazza per squalificare i leader di quei medesimi deboli?

E’ un peccato, non farsela questa domanda. Perché il vero problema della sinistra, che la condanna ad essere elitaria e (tuttora) un po’ antipatica, è di non aver recepito la lezione che a suo tempo, faticosamente, Walter Veltroni aveva provato a impartirle: il rispetto dell’avversario politico è un ingrediente essenziale della democrazia, ma è anche la precondizione per capire perché i ceti popolari hanno smesso di guardare a sinistra.

Pubblicato su Il Messaggero del 16 dicembre 2019



La tragedia del MES

Credo che, sulla questione della riforma del MES (Meccanismo Europeo di Stabilità), sia essenziale tenere distinte tre domande.

Domanda 1: è pericoloso per l’Italia? O meglio: l’Italia, con il nuovo MES, corre più o meno rischi che con il vecchio?

Ebbene, qui la mia riposta è netta. Prima di leggere il testo non ero eccessivamente preoccupato, dopo averlo letto attentamente lo sono moltissimo. Il trattato è pericoloso per l’Italia, e aumenta il rischio di una crisi finanziaria che ci costringa a una pesante “ristrutturazione del debito” (eufemismo per non dover dire: perdite patrimoniali e relativa catena di conseguenze). Questo giudizio non è solo dell’opposizione ma è condiviso da numerosi politici e tecnici di sicura fede europeista e progressista, che hanno messo in evidenza i molti punti deboli dell’accordo: dall’eccesso di potere del MES (a scapito della Commissione Europea) alla pericolosità delle Clausole di Azione Collettiva (le cosiddette CACs) che dal 2022 renderanno più facile costringere gli Stati a ristrutturare il debito, per non parlare dello scudo penale a favore dei membri del MES (articoli 32 e 35 del trattato).  A minimizzare più o meno convintamente i rischi restano solo l’ex ministro Tria (che ha negoziato le modifiche), il ministro Gualtieri (che ha ereditato la patata bollente), la maggioranza degli esponenti del Pd, nonché i più acritici fra gli “europeisti a prescindere”.

Domanda 2: di chi è la colpa se ci troviamo in questa situazione, ossia a dover firmare un trattato che ci danneggia?

A mio parere la colpa principale è del governo giallo-verde, anche se la ripartizione delle responsabilità fra Conte-Tria-Salvini-Di Maio è impossibile da valutare per un osservatore esterno come me (se volessi scoprirlo proverei a sapere qualcosa da Giorgetti). L’idea che mi sono fatto è più o meno questa. Tria negozia quel che può, e non può molto perché il governo vuole flessibilità, e non può certo permettersi la procedura di infrazione per debito eccessivo. Poi dice a Conte (che è un avvocato, e di economia non si intende) che è un buon accordo. Conte non spiega a Salvini e Di Maio che, in realtà, quel che lui e Tria stanno negoziando – oltreché bruttino –  è quasi definitivo. Salvini e Di Maio, che preferiscono i bagni di folla (gratificanti) allo studio dei dossier (noiosissimi), fra un comizio e un salto in discoteca non si rendono conto né di quel che sta passando, né del fatto che quel che sta passando è sostanzialmente irreversibile. Personalmente sono più arrabbiato con Salvini e Di Maio che con Tria.

Domanda 3: e adesso? Adesso che l’Eurogruppo, nella riunione di ieri, ha detto chiaramente che il testo del trattato è sostanzialmente inemendabile, che cosa dovrebbe fare l’Italia?

La mia risposta è: non lo so. Perché ci sono gravi rischi sia se si rifiuta di firmare il trattato, sia se lo si accetta. In entrambi i casi la nostra vulnerabilità alla speculazione e alle crisi finanziarie è destinata ad aumentare considerevolmente.

C’è una domanda, però, cui mi sento di abbozzare una risposta. La domanda non è “che cosa dobbiamo fare?” ma “che cosa effettivamente faranno i nostri politici?”.

Ed ecco la mia previsione. Conte e Gualtieri pregheranno in ginocchio l’establishment europeo di concedere almeno una piccola modifica al trattato, in modo da consentire al governo giallo-rosso di salvare la faccia e farlo approvare in Parlamento (già si parla di eliminare, attenuare o ritardare l’entrata in vigore della cosiddette CACs, ossia delle clausole che – dal 2022 – renderanno più facile la ristrutturazione del debito). Le autorità europee concederanno qualche ritocco marginale, e magari qualche promessa sugli altri due tasselli del pacchetto che include il MES (unione bancaria, budget europeo).

Il governo rassicurerà gli italiani, dicendo che già avevamo ottenuto molto (nel testo attuale la ristrutturazione del debito non è automatica), e abbiamo ancora “migliorato” il trattato che era stato chiuso a giugno. Poi l’attività di governo riprenderà, con questo o con altro governo. Ma chiunque prenderà il timone della politica economica continuerà sulla strada di sempre: richiesta di flessibilità, deficit tra il 2 e il 3%, nessuna sostanziale diminuzione del rapporto debito/Pil. Perché su una cosa destra e sinistra, giallo-rossi e giallo-verdi sono sempre d’accordo: il risanamento dei conti pubblici, ossia l’unica cosa che ci metterebbe al riparo da crisi future, “è un obiettivo strategico”. Così strategico che ci penseremo domani, anzi ci penseranno quelli che verranno dopo di noi.




MINIMA POLITICA. Ora anche i sovranisti si mettono a fare gli antirisorgimentali

«Non si dimentichi, inoltre, che l’Unità d’Italia venne imposta con le armi, e non è considerazione di poco conto, e ben più della maggioranza degli abitanti dell’Italia pre-unitaria non la voleva affatto». Sono settant’anni che leggo frasi come queste in cui dà il meglio di sé l’attitudine italiana a épater les bourgeois avvalendosi di constatazioni ovvie. Nelle altre culture lo stupore si accompagna al trasgressivo, a verità che non sono tali per tutti ma, si sa, come diceva il vecchio Indro Montanelli, noi vogliamo fare la rivoluzione col permesso dei carabinieri. C’è però una grossa differenza rispetto al passato. Al tempo della mia giovinezza, a ripetere le celeberrime parole di Alfredo Oriani (maître-à-penser, si ricordi sia di Benito Mussolini che di Antonio Gramsci) sul sopruso della minoranza eroica che, nell’indifferenza dei popoli della penisola, fece l’Italia «aiutata da incidenze e coincidenze straniere», erano soprattutto gli eredi dei vinti del Risorgimento—comunisti e cattolici. E’ vero che non tutte le sinistre erano, si direbbe oggi,’revisioniste’—c’è un vario socialismo risorgimentale e mazziniano che arriva sino a Gaetano Salvemini e a Leonida Bissolati; ed è anche vero che, nel mondo cattolico, una componente di rilievo—il cui più prestigioso esponente, nel secolo scorso, fu Carlo Arturo Jemolo—si riconosceva  toto corde nei valori dello stato nazionale. D’altra parte, senza l’apporto decisivo della borghesia colta cattolica non avremmo avuto l’unità ed è, forse, superfluo ricordare che grandi statisti come Massimo D’Azeglio, Bettino Ricasoli, Marco Minghetti e lo stesso Cavour che volle per il viatico un francescano, poi condannato da Pio IX, erano credenti. Resta, comunque, che i comunisti erano patrioti di un’altra patria (l’URSS) e i cattolici si sentivano eredi di uno Stato che la Chiesa non aveva riconosciuto.

 Oggi le cose sono cambiate. Paradossalmente è tra quanti si chiedono «per quale oscura ragione di diritto internazionale dobbiamo mettere il nostro ambito legislativo in posizione subordinata al diritto europeo e chiedere il nulla osta preventivo prima di decidere delle nostre questioni interne?» che si ritrova, spesso e volentieri, la demistificazione dello stato nazionale. In realtà non si comprende quale giovamento ne venga alla nostra civic culture e su quali valori i ‘sovranisti’ intendano ricostituire una citizenship condivisa. Abbattuti i monumenti a Cavour, a Mazzini, a Garibaldi, cancellate le tradizioni e gli ideali di chi volle farci diventare «una d’arme, di lingua e d’altare, di memorie di sangue e di cor» (Alessandro Manzoni, un cattolico unitario risorgimentale…), cosa ci rimane? Prevedo l’obiezione: dovremmo reintrodurre la retorica nel nostro insegnamento della storia? E trattare il Risorgimento nazionale come l’ANPI tratta la Resistenza antifascista? Ma neppure per sogno! Il processo che portò al ricongiungimento delle sparse membra della penisola fu, sia pur assai meno della lotta di Liberazione, costellato di contrasti, di violenze, di dure opposizioni sul tipo di stato (centralizzato o federale) che si sarebbe dovuto sostituire alla Staaterei preunitaria. E tuttavia la storia va studiata seriamente e la storia ci dice che se i modelli politici, vagheggiati dalle diverse correnti patriottiche, furono diversi, c’era qualcosa di profondo che le univa tutte: un fortissimo sentimento d’italianità, che rifulge nettamente persino nel più intransigente oppositore della soluzione sabauda, il federalista a 360 gradi Carlo Cattaneo (basta leggersi i due volumi degli Scritti letterari, a cura di Piero Treves, ed. Le Monnier).

 Il problema, però, è un altro: quando si scrive, come faceva Oriani, che il popolo rimase estraneo (se non ostile) alle guerre di indipendenza, bisogna, perché l’osservazione abbia un senso, fare del comparativismo. La ‘costruzione dello Stato’, in altri contesti europei, avvenne consultando le popolazioni interessate?’I trenta re che fecero la Francia’, per citare il grande Charles Maurras, chiesero il consenso dell’Anjou, del Cotentin, della Provence? E i monarchi inglesi tennero conto dei desideri di gallesi, irlandesi, scozzesi quando ne fecero gemme della loro corona? E ci sono Stati in Europa che fecero eccezione?

 Si dirà: ma allora non erano i popoli a decidere bensì i sovrani. Certo, in ogni epoca storica sono determinate forze politiche ad assemblare regioni, province, città: la democrazia, come potere del demos, è venuta dopo. D’accordo ma la regola vale altresì per l’Ottocento, e per quello italiano in particolare, in cui a ‘fare politica’, a guidare i popoli, erano le borghesie nazionali e le loro avanguardie intellettuali. Ebbene si può contestare che la stragrande maggioranza di quelle borghesie—anche grazie alla stagione illuministica, che segnò una grande pagina della nostra storia intellettuale e alla conquista francese, che ci diede il tricolore—era per l’unità, per la Grande Italia? Nel meridione—a parte qualche piccolo storico locale nostalgico dei Borboni—l’alta cultura era quasi tutta schierata dalla parte dei Savoia (e, tra l’altro, non proponeva soluzioni federali ma uno stato forte e centralizzato in grado di mettere mano ai mali antichi del Sud). Nel centro e nel nord sentirsi italiani significava sentirsi moderni e volersi ricongiungere all’Europa vivente. Letteratura, arte, storia, filosofia non conoscevano frontiere e la lingua era un potente argomento per quanti volevano che le frontiere culturali coincidessero con quelle politiche. «Unità imposta con le armi?» Vulimme pazzià´? come si direbbe a Napoli. E il fenomeno del volontariato—che univa nelle stesse formazioni combattenti abitanti di ogni parte della penisola—non era la riprova che le ‘minoranze eroiche’ erano, sì, minoranze (nel senso che contadini e plebi urbane rimanevano a guardare le loro gesta, ma per gli artigiani si dovrebbe fare un discorso diverso) ma diffuse sull’intero territorio nazionale?

 A scuola una volta ci mettevano in guardia contro gli anacronismi. Anacronismo, si legge nell’Enciclopedia Treccani è l’« errore cronologico per cui si pongono certi fatti in tempi in cui non sono avvenuti e, in special modo, si attribuiscono a un’età istituti, idee o costumi discordanti dal quadro storico di essa». La sua proliferazione è, forse, la più triste riprova di quella perdita della storicità, che fu il portato più prezioso del liberalismo ottocentesco. Ricordare che l’unità italiana è stata fatta senza il consenso delle masse sta sullo stesso piano dell’abbattimento delle statue di Cristoforo Colombo, colonizzatore e razzista. Sulla bocca di un sovranista è a dir poco sconcertante!