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Politica

Le magnifiche 7

3 Febbraio 2022 - di Luca Ricolfi

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(a proposito di donne e politica)

Che, in tantissimi campi, le donne siano numerose ma le posizioni apicali siano tuttora occupate prevalentemente da uomini è verissimo. E’ vero nell’università, ad esempio, dove solo 7 rettori su 84 sono donne. E pure in politica, almeno in Italia: non abbiamo mai eletto un presidente della repubblica donna, né un presidente del consiglio donna. Perciò non stupisce che, periodicamente, circolino appelli più o meno ben argomentati (di solito pessimamente argomentati) per correggere questa stortura.

Da che cosa dipende la sotto-rappresentazione delle donne?

Dalla sopravvivenza del patriarcato, rispondono non di rado le paladine della causa femminile.  Può darsi, anche se – come sociologo – non posso non osservare che è una pseudo-spiegazione, che si limita a dare un nome a un fenomeno di cui non è in grado di ricostruire i meccanismi.

Se vogliamo capirne di più, è meglio circoscrivere gli ambiti e delimitare il campo. Potremmo, ad esempio, ragionare sulla leadership politica, e chiederci come mai, nei grandi paesi occidentali, negli ultimi 50 anni le donne hanno contato così poco.

Ebbene, se questa è la domanda, è difficile sfuggire a un paio di osservazioni. La prima è che l’accesso delle donne al potere politico è stata assai scarsa fino al 2018, ma a partire dalla metà del 2019 la vera domanda è un’altra: come hanno fatto le donne, nel giro di 3 anni, ad occupare praticamente tutte le posizioni apicali del potere politico-economico in Europa, sbaragliando i concorrenti maschi?

Luglio 2019: Christine Lagarde viene designata a succedere a Mario Draghi al vertice della Banca Centrale Europea; nello stesso mese, Ursula von der Leyen viene eletta Presidente della Commissione europea.

Ottobre 2019: Kristalina Georgieva, economista e politica bulgara, viene nominata direttrice del Fondo Monetario Internazionale.

Gennaio 2022: in seguito alla scomparsa di David Sassoli, la politica maltese Roberta Matsola viene eletta presidente del Parlamento Europeo.

A oggi, nelle grandi istituzioni politico-finanziarie, il potere maschile pare sopravvivere solo al di là dell’Atlantico, dove Donald Trump ha imposto David Malpass a capo della Banca Mondiale e Jerome Powell alla Fed (dove peraltro, fino al 2018, comandava una donna, Janet Yellen).

Ma c’è una seconda osservazione, ancora più interessante per gli studiosi di discriminazione e parità di genere. Se ci chiediamo quante e quali siano le donne che, negli ultimi 50 anni, siano state capaci di diventare leader politici di peso nei principali paesi occidentali scopriamo che sono solo 7, e che c’è un unico tratto che le accomuna.

Le elenco per paese: Margaret Thatcher e Theresa May nel Regno Unito; Marine e Marion Le Pen in Francia; Angela Merkel e Ursula von der Leyen in Germania; Giorgia Meloni in Italia.

Che cosa le accomuna?

Semplice: vengono tutte da destra, come da destra, peraltro, vengono le altre tre donne che negli ultimissimi anni hanno raggiunto posizioni apicali nella Bce, nel Fondo Monetario e al Parlamento europeo (e, sempre da destra, veniva Simone Veil, prima presidente del Parlamento Europeo) .

Dunque, cari amici studiosi di discriminazione ai danni delle donne, la domanda più interessante non è perché così spesso le donne non ce la fanno ma, semmai, perché per farcela devono essere di destra.

Una risposta possibile è che, nei meccanismi che regolano le carriere politiche, a sinistra è ancora dominante la cooptazione, mentre a destra c’è anche un po’ di meritocrazia. Le donne di destra non paiono avere remore a sfidare in campo aperto i rivali maschi (lo ha appena fatto Valérie Pécresse in Francia, che ha battuto il rivale maschio Eric Ciotti), mentre quelle di sinistra troppo spesso paiono attendere la chiamata del capo, umili e ossequiose come le donne di un tempo.

Non è forse un caso che, al di qua come al di là dell’Atlantico, le uniche donne di sinistra arrivate a sfiorare ruoli di comando nazionali – Ségolene Royal e Hillary Clinton – siano state in partita anche in virtù del loro essere “mogli di”, rispettivamente di un segretario di lungo corso del Partito Socialista francese e di un ex presidente egli Stati Uniti.

Quanto al nostro paese, come non notare che il Pd, a parole paladino della parità uomo-donna, non ha indicato alcuna donna come ministro del Governo Draghi? O come non osservare che, per avere due donne capogruppo in Senato e alla Camera, si sia dovuto scomodare il segretario del partito, che le ha imposte dall’alto ai suoi deputati e senatori?

Insomma, visto come sono andate le cose, è difficile sfuggire al dubbio: non sarà che l’esclusione delle donne dal potere è, innanzitutto e non solo in Italia, un problema della cultura progressista?

Una mela mezza avvelenata – Sull’eredità (sanitaria) del governo Draghi

27 Dicembre 2021 - di Luca Ricolfi

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Il primo anno di Draghi al governo si è concluso con una conferenza stampa autocelebrativa a 360 gradi, dalla politica economica alla politica sanitaria.

Sul modo in cui il governo Draghi ha gestito l’economia italiana fin qui, è difficile pronunciarsi oggi. Troppe azioni sono incompiute, troppe nuvole si addensano sul versante dell’occupazione, dei prezzi, dei conti pubblici. Solo il tempo potrà dirci fino a che punto l’autolode pronunciata dal premier nella conferenza di fine anno sia giustificata, o non sia stata un tantino prematura.

Sulla gestione della pandemia, invece, un bilancio è possibile. Anzi è necessario. Perché se non capiamo qual è la logica con cui ci si è mossi fin qui, difficilmente potremo orizzontarci nel complicato futuro che ci attende.

Dunque, proviamo a ripercorrere questo terribile 2021. Qual è stata la stella polare del governo Draghi?

A me pare che, fondamentalmente, la stella polare sia stata la credenza, assoluta e quindi anti-scientifica, nel potere salvifico dei vaccini. E’ una deriva che non è stata inaugurata da Draghi (era già in atto durante il governo Conte), ma che Draghi ha pienamente e convintamente assecondato. Accoppiandola con la scelta, questa sì diversa da quella del governo precedente, di perseguire il ritorno alla normalità a qualsiasi costo. Dove ritorno alla normalità ha significato, in sostanza, scegliere sempre – nei momenti critici – la strada delle aperture, ignorando le voci di chi ne sottolineava rischi.

E’ importante notare che questa sordità nei confronti delle preoccupazioni del “partito della prudenza” si è manifestata sia in primavera, con la scommessa del “rischio ragionato” (17 aprile), con cui il premier annunciava un progressivo allentamento delle restrizioni, sia in autunno, con la scelta di lasciar correre l’epidemia fino a Natale.

La differenza fra le due situazioni è cruciale. Ad aprile le preoccupazioni del “partito della prudenza”, che profetizzava 5-600 morti se si fosse aperto prematuramente, non avevano una base statistica solida (proprio per questo ne presi le distanze, con un articolo sul Messaggero). E infatti l’estate trascorse senza troppi drammi, e si incaricò di mostrare che la scommessa di Draghi non era azzardata.

A ottobre e novembre, invece, le preoccupazioni del partito della prudenza erano diventate perfettamente giustificate, perché nel frattempo – fra maggio e agosto – erano intervenuti una serie di fatti e scoperte nuove, che alteravano drasticamente il quadro.

  1. Nessuno dei vaccini approvati è sterilizzante.
  2. L’immunità di gregge non è raggiungibile, neppure vaccinando il 100% della popolazione.
  3. La protezione assicurata dai vaccini è molto più breve del previsto.
  4. La variante delta, molto più trasmissibile di tutte quelle precedenti, neutralizza buona parte dei vantaggi apportati dai vaccini (detto brutalmente: un vaccinato in presenza della delta corre più o meno il medesimo rischio di infezione di un non vaccinato ai tempi del virus originario).
  5. Anche i vaccinati possono contagiarsi e contagiare gli altri, sia pure con minore probabilità dei non vaccinati.
  6. La trasmissione del virus per aerosol, ostinatamente negata (anzi bollata come fake news) dall’OMS, rende estremamente pericolose le interazioni negli ambienti chiusi.
  7. A parità di altre condizioni, il mero arrivo della stagione fredda, con l’abbassamento delle temperature e la fine della vita all’aperto, comporta un sensibile aumento dei contagi, e quindi delle ospedalizzazioni e dei decessi.

Di fronte a queste novità, come ha reagito il governo?

Sostanzialmente come se non esistessero. Se le avesse prese in considerazione avrebbe fatto altre scelte.

Ad esempio: partire con le terze dosi ad agosto, anziché a ottobre; non alimentare la credenza che, se ci si incontra solo fra vaccinati, non si corrono rischi; rafforzare il trasporto pubblico locale; caldeggiare l’uso delle mascherine ffp2 negli ambienti chiusi; iniziare a introdurre la ventilazione meccanica controllata nelle scuole, come più volte richiesto da studiosi indipendenti e opposizione parlamentare.

La linea seguita, invece, è stata un’altra: lasciare che il virus corresse, contando sul fatto che, grazie ai vaccini, le ospedalizzazioni e i decessi non sarebbero stati numerosi come in passato.

Questa impostazione, finita l’estate, ha condotto a un enorme aumento dei contagi, di cui ora si tenta di incolpare la variante omicron. Ma è una imputazione fuorviante: l’aumento del numero di contagi era iniziato già a metà ottobre, e quando è arrivata omicron (inizio dicembre), la situazione era già ampiamente fuori controllo. La nuova variante si è limitata ad accelerare ulteriormente la corsa del virus, scatenando il panico fra i cittadini, e fornendo alla politica qualche argomento per nuove restrizioni.

Il confronto con il Natale dell’anno scorso è impressionate. Allora i casi giornalieri erano la metà di oggi e, soprattutto, la curva dei contagi era in picchiata da 6 settimane. Oggi i contagi sono il doppio dell’anno scorso e la curva è in salita vertiginosa da ben 9 settimane. E non si pensi che lo sia in tutto il mondo, o in tutta Europa: da molte settimane le curve dei contagi sono in regresso in quasi tutti i paesi dell’Est, e pure in diversi paesi occidentali: Austria, Olanda, Belgio, Germania, Norvegia, Grecia.

Ma per il governo l’unica cosa che conta sono i decessi e i posti letto occupati che, grazie ai vaccini, sono molti meno dell’anno scorso. Il numero di contagiati pare non contare nulla, in barba all’allarme lanciato sulle conseguenze del long-covid, buone per convincere i genitori a vaccinare ragazzi e bambini, ma stranamente dimenticate quando l’ennesimo bollettino sanitario certifica il numero di nuovi positivi, come se per questi ultimi il long-covid non esistesse.

A quanto pare, finché gli ospedali non scoppiano, si può continuare a non fare quasi nulla per fermare l’epidemia. La parola d’ordine è, e resta: normalità ad oltranza.

Obiettivo sacrosanto, ma la vera domanda è: qual è il costo economico di aver lasciato correre il contagio?

Perché è vero che il mondo dell’economia ha molto beneficiato di questi mesi di riconquistata (quasi) normalità, ma è forse ancora più vero che il non aver fatto quasi nulla per attutire l’impatto della stagione fredda ha fatto riesplodere i contagi, e così ha finito per risvegliare il nemico numero uno dell’economia: la paura di infettarsi, che frena i consumi e abbatte la mobilità delle persone.

Eppure dovrebbe essere chiaro: per proteggere gli ospedali può (forse) bastare contenere il numero dei malati gravi e dei decessi, ma per proteggere l’economia occorre anche contenere il numero di contagi. Perché è il rischio di infettarsi che governa la paura, ed è la paura che governa i comportamenti economici. Lo vediamo con i nostri occhi in queste vacanze natalizie, in cui la paura sta falcidiando gli introiti delle vacanze natalizie, e rischia di mettere a repentaglio quel che resta della stagione turistica invernale. Nulla fa presagire, infatti, che gennaio e febbraio non ci riservino nuove restrizioni e nuovi sacrifici, allontanando ancora una volta il sogno della normalità.

Ecco perché, sul bilancio di Draghi in conferenza stampa, resto alquanto perplesso.

La sua eredità è come una mela, metà economia e metà sanità. E’ possibile che, alla fine, la metà economica risulti abbastanza integra. Lo speriamo tutti. Ma la metà sanitaria rischia di rivelarsi avvelenata per chiunque si troverà al timone dell’Italia nel 2022.

Il vuoto antifascista

17 Ottobre 2021 - di Luca Ricolfi

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Estromessi dalle decisioni che contano, ora i partiti (e le tv) ci faranno assistere a una lunga sceneggiata sullo scioglimento di Forza Nuova. Qualcuno dirà che in Italia c’è un pericoloso ritorno (anzi “rigurgito”) di impulsi fascisti, e che la Repubblica è in pericolo. Dunque, visto che la Magistratura non ha mai ritenuto di intervenire, si muova il Governo, e il Parlamento approvi la sacrosanta messa al bando di questo sciagurato partito. Il tutto sarà accompagnato, fin da stamattina, da chiassose adunate antifasciste, in difesa della Cgil, della Repubblica, della democrazia. Immancabilmente, assisteremo anche, sulla carta stampata, a una sfilata di riflessioni di pensatori, studiosi, intellettuali, che – con fare pensoso – si diranno “molto preoccupati” del pericolo fascista.   Leggi di più

I venti motivi per dire no alla riforma del catasto

14 Ottobre 2021 - di LETTERA 150

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Casa, i rischi della riforma del catasto:

1. Il 94% dei proprietari di immobili ha un reddito compreso tra 0–55 mila euro. Circa il 23% ha un reddito non superiore a 10.000 euro; quasi il 45% ha un reddito compreso tra 10–26 mila; il 26% si colloca nella fascia 26–55 mila.
Solo il 6% dei contribuenti proprietari immobiliari ha un reddito superiore a 55 mila euro.   Leggi di più

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