Dieci anni di austerity? Qui si fa come l’Irlanda o si muore. Intervista a Luca Ricolfi con le considerazioni di una lettrice

Professor Ricolfi, la critica più diffusa al decreto Rilancio appena varato dal governo riguarda la natura essenzialmente assistenzialistica delle misure. Dei 55 miliardi messi in campo, c’è poco o nulla per far ripartire l’economia. L’ex ministro del Tesoro Giovanni Tria addirittura ha parlato di “investimenti zero”. Ma se l’economia non riparte, nei prossimi mesi l’Italia rischia davvero di essere il “malato d’Europa”. I mercati continueranno a risparmiarci o dobbiamo iniziare a temere?
Andando avanti sulla strada intrapresa, più che di “malato” d’Europa temo che dovremo parlare di “moribondo” d’Europa. Finché la caduta del Pil è “solo” del 10% e dall’anno dopo c’è una ripresa, sei solo malato. Ma se il Pil cade del 15-20% nel 2020, se nell’anno successivo non rimbalza perché la base produttiva si è ristretta, se la quota dell’export cala perché in questi mesi hai perso milioni di clienti, se il rapporto debito-Pil viaggia verso il 200% perché il denominatore è imploso, se lo spread vola perché i mercati pensano che non saremo in grado di restituire il debito, beh se tutto questo dovesse accadere allora questo non è essere malati, mi sembra.
Questo vorrebbe dire tornare indietro di mezzo secolo, prendere commiato da tutto quello che eravamo bene o male riusciti a costruire dopo la seconda guerra mondiale. Individualmente sopravviveremo quasi tutti, si spera, ma assisteremo alla progressiva demolizione del nostro mondo sociale: la società signorile di massa si inabisserà, come l’isola di Atlantide.

C’è il rischio che Germania, Olanda e falchi del Nord tornino a chiedere austerity?
Chiamarlo “rischio” è da inguaribili ottimisti, io parlerei di certezza. Il patto di stabilità è solo sospeso, e possiamo star sicuri che nel 2021 l’Europa non ci consentirà di indebitarci con l’allegria che ora contagia il ceto di governo. E anche ce lo consentisse, nulla potrà evitare che a metterci in riga ci pensino i mercati. Già oggi lo spread è 100 punti sopra il livello pre-Covid.

Da queste pagine ha lanciato l’allarme: l’Italia post-Covid rischia di diventare una società parassita di massa, popolata da tanti non-produttori che vivranno in condizioni di dipendenza dall’assistenzialismo statale. Cerchiamo di fare un passo avanti. Come evitare di arrivare a uno scenario così terribile?
Prima di rispondere, vorrei fare una precisazione. Quando dico che i nostri governanti stanno più o meno intenzionalmente pianificando il passaggio a una società parassita di massa non ho in mente uno scenario in cui il 70% degli italiani se la spassa vivendo alle spalle del 30% che produce. Quel che ho in mente è semmai una situazione in cui la torta del Pil è così ristretta da trasformare i parassiti-signori di ieri nei parassiti-sudditi di domani. Detto brutalmente: gli assistiti non se la passeranno per niente bene. Non a caso ho evocato, giusto per dare un’idea, la Grecia e Cuba: sudditi come a Cuba, poveri come in Grecia.
Detto questo, torno alla domanda, come evitare di arrivare lì. Non so se siamo ancora in tempo, ma io vedo una sola possibilità: cambiare tutto, naturalmente cominciando dalla testa, governo e filosofia di governo.

Che significa cambiare tutto?
Dovessi riassumere con una formula, direi: provare a trasformare l’Italia da inferno burocratico a paradiso imprenditoriale. Una sorta di Irlanda mediterranea, dove chiunque voglia intraprendere un’attività economica può farlo senza ostacoli non necessari.
In concreto vuol dire essenzialmente tre cose.
La prima: renderci un paese normale quanto a burocrazia, eliminando la “presunzione di furbizia” che è ubiqua nella nostra legislazione, dal codice degli appalti alle infinite norme e procedure che asfissiano i produttori.
La seconda: un taglio drastico, immediato, e almeno triennale delle tasse.
La terza: saldare entro 30 giorni tutti i debiti delle pubbliche amministrazioni verso il settore privato, senza andirivieni bancari e fra enti pubblici. E’ incredibile che lo Stato faccia moral suasion sulle banche perché aiutino i produttori a indebitarsi, e non pensi che molte imprese devono indebitarsi precisamente perché lo Stato non paga i suoi debiti.

Entriamo più nello specifico sul taglio delle tasse. Meglio fare un’operazione di riduzione su imprese e autonomi o sul lavoro dipendente?
In tema di riduzioni fiscali la tendenza del ceto politico, di destra e di sinistra, è sempre stata (fin dal “Contratto con gli italiani” di Berlusconi) di puntare su riduzioni, anche molto modeste, che potessero toccare il maggior numero di beneficiari: Irpef, Iva, Imu, contributi sociali. Molta meno attenzione è stata riservata alle tasse che scoraggiano l’attività produttiva, ovvero Irap e Ires. E invece è da lì che si dovrebbe partire, anche puntando su benefici selettivi e concentrati, che privilegino le imprese che aumentano l’occupazione e, in questo momento, le imprese che rinunciano alla comoda strada di mettere in cassa integrazione i loro dipendenti.
Dico questo perché me lo suggeriscono i miei studi sulle determinanti della crescita in Occidente (è il tema del mio libro L’enigma della crescita), ma lo dico anche perché sono in contatto con tante persone che hanno un’attività, dal commerciante, al gestore di pizzeria, alla fisioterapista, fino al viticoltore. E da loro so che la decisione che devono prendere è drammatica: chiudere, o riaprire e scommettere sul futuro.

E che cosa le dicono?
Quasi tutti, specie se sono over 50 e sono in grado di sopravvivere decentemente senza lavorare, si chiedono: ma in queste condizioni, con nuovi costi, nuovi rischi (anche penali), e a voracità fiscale invariata, chi me lo fa fare?
La decisione di riaprire dipende poco dagli aiuti momentanei e limitati che possono ricevere in questo momento, e molto – moltissimo – dalle condizioni in cui dovranno operare nei prossimi mesi e anni. Queste condizioni includono aumenti certi dei costi, una fiscalità futura di entità sconosciuta, un rischio serio di guai giudiziari legati al rispetto del “Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro”.

Lei lo ha letto il protocollo?
Dalla prima riga all’ultima, e ne sono rimasto sconcertato, per la farraginosità (e spesso inapplicabilità) delle norme che detta. Soprattutto sono rimasto sorpreso nel constatare che il protocollo è chiaramente pensato per la grande impresa, ma non è sottoscritto solo dai sindacati confederali e da Confindustria, bensì anche da una dozzina di associazioni professionali e datoriali più piccole, che paiono del tutto ignare dei problemi concreti dei loro associati. Come sociologo, sono colpito dal fatto che, anche nel mondo della produzione, si sia ormai verificato ciò che da tempo accade in posti come l’Università, o la sanità pubblica. Le regole dell’Università non le pensano gli studiosi, ma i manager-burocrati che la governano. Le regole della sanità non le fanno medici e infermieri, ma le fa l’immenso apparato amministrativo che se ne è impossessato.
Credo che nessun artigiano, commerciante o piccolo imprenditore in carne e ossa avrebbe firmato un protocollo come quello concordato dai vertici delle loro associazioni.

Ma torniamo alla riduzione delle tasse. Un’operazione di grossa riduzione fiscale è certamente auspicabile ma rischia di scontrarsi con la realtà dei conti pubblici. Se mettiamo assieme i soldi stanziati dal decreto Cura Italia e da quello Rilancio, vediamo che sono stati già spesi 80 miliardi solo per misure di sostegno sociale. E questo porterà il debito/pil a un rapporto che sfiora il 160%. Non le sembra che le cartucce ce le siamo già sparate tutte?
Su questo ha ragioni da vendere l’ex ministro Tria, che per primo ha sollevato questa preoccupazione, ovvero che largheggiando ora il governo si trovi a stecchetto quest’autunno, quando dovrà varare la finanziaria. Ma il punto cruciale a me sembra più a monte, e riguarda come gestire l’aumento del debito pubblico, che ci sarà comunque, sia che si segua la via iper-assistenziale che piace a questo governo, sia che si imbocchi la via di un taglio immediato e consistente del carico fiscale sui produttori. Quell’aumento del debito risveglierà le autorità europee, e soprattutto risveglierà i mercati. Lo spread tenderà a salire, e noi dovremo trovare un modo di convincere i mercati e le istituzioni sovranazionali a comprare e ricomprare il nostro debito. Ebbene, a quel punto avremo solo due vie.
La prima: anni e anni di austerità vera (non la pseudo-austerità di questi anni, che è esistita solo nella propaganda anti-europea), in una spirale di contrazione della base produttiva → contrazione della base imponibile → tagli alla spesa pubblica → aumenti delle aliquote → imposte patrimoniali di scopo.
La seconda: crescere a un ritmo tale (almeno il 3% all’anno per diversi anni) da rassicurare i mercati sulla sostenibilità del nostro debito. Dico questo anche perché, come fondazione Hume, da anni ci occupiamo delle determinanti dello spread, e una cosa gliela posso dire senza esitazione: nell’equazione dello spread il deficit annuale non entra, mentre hanno un ruolo importante (di contenimento) le prospettive di crescita di un paese. Se cresci, questa mera circostanza calmiera lo spread. Ma bisogna convincersi che crescere molto di più di oggi è la nostra unica possibilità, se non vogliamo beccarci dieci anni di austerità. Chi obietta che non ci sono le “risorse” per alleggerire la pressione fiscale sui produttori dovrebbe rispondere a questa domanda: quanto ci costa, in termini di erosione della base imponibile (e quindi del gettito), il fallimento di migliaia e migliaia di imprese che, con questa pressione fiscale, non riescono a restare sul mercato?

Dunque lei è contrario all’austerità?
Io sono sempre stato a favore di quella che Veronica De Romanis chiama l’austerità buona: mettere a posto i conti pubblici riducendo la spesa corrente e abbassando le tasse sui produttori. Poteva funzionare, e lo avessimo fatto a tempo debito – anziché invocare flessibilità ad ogni pie’ sospinto – ora saremmo messi meno male di come siamo. Ma adesso la situazione è completamente cambiata, ed è paradossale.
Noi rischiamo di essere commissariati dall’Europa, o dal Fondo Monetario, o da qualche altro organismo sovra-nazionale, perché fra pochi mesi apparirà a tutti che lo Stato si sta indebitando troppo, il Pil non dà segni di ripresa, e la base imponibile si assottiglia, aggravando il bilancio pubblico. Ci chiederanno di agire sul numeratore, ovvero sul debito, perché “è nella loro natura”, come recita la fiaba dello scorpione e della rana: la tecnoburocrazia che governa il mondo ha una visione ragionieristica dei conti pubblici. A quel punto il paradosso prenderà forma: l’Italia perderà la sua sovranità perché nel momento più difficile il caso ha voluto che il governo fosse in mano ai sovranisti, o meglio alla variante più anti-crescita del sovranismo, quella dell’assistenzialismo pentastellato.

Ma possiamo evitare tutto ciò?
Probabilmente no, a questo punto, troppo grande è il danno che si è già fatto. Ma se uno spiraglio è dato intravedere, è quello di ribaltare tutto: indebitiamoci, ma facciamolo in modo da salvare le attività che possono farcela, e di rendere profittevole crearne di nuove. Affinché la schumpeteriana “distruzione creatrice”, che ci sarà comunque, sia più creatrice di nuove attività e meno distruttrice di vecchie.

Lei parla anche di semplificazioni e sburocratizzazione. Negli ultimi anni i governi che si sono succeduti mi sembra siano andati nel verso opposto: più controlli e documenti per evitare corruzione e infiltrazioni criminali. Il Covid farà cambiare idea a una maggioranza il cui partito più grande – M5s – ha nel Dna una carica ultra-legalitaria?
Qui mi sento di attenuare le responsabilità dei Cinque Stelle. Avere i Cinque Stelle al governo si limita a peggiorare la situazione, perché stimola la iper-produzione di norme dannose per l’economia, ma non è il vero problema. Anche ci fosse Einaudi al governo, non ce la farebbe, in pochi mesi, a smontare il cancro burocratico che sta uccidendo l’Italia. Il vero problema è che chiunque provi a semplificare la burocrazia, tende a farlo creando nuove norme, anziché disboscando l’esistente.
Da questo punto di vista il fatto che Conte annunci un “decreto semplificazioni” semplicemente mi terrorizza. Lo smantellamento del mostro burocratico e la riforma della giustizia civile richiederebbero almeno 4 o 5 anni di lavoro anche al più serio e ben intenzionato dei governi. Nel breve periodo, l’unica strada percorribile a me pare quella di prevedere, ovunque sia possibile e ragionevole, norme transitorie che scavalchino e sospendano tutte le altre, come si è fatto con il ponte di Genova, e come si potrebbe fare in molti altri casi.
Non hanno esitato a toglierci le nostre libertà più preziose, possibile che l’unica cosa intoccabile sia la giungla degli adempimenti e delle procedure che stanno strangolando l’Italia?

Intervista rilasciata all’Huffington Post il 17 maggio 2020

Considerazioni di una lettrice

Buonasera professore.
Ho letto una Sua interessante intervista in cui esprime preoccupazione per il momento attuale. Io come tanti italiani – Lombardi in particolare – ho con mio marito una azienda familiare che esiste (non senza fatica) da 80 anni … tre generazioni, ma di questo passo non credo proprio che arriverà alla quarta.
Ci sotterrano sotto montagne di provvedimenti inutili, tasse, gabelle e altri balzelli che servono solo a mantenere privilegi per una classe politica inefficace.
Ci rendiamo conto che dobbiamo versare in tasse praticamente  i 3/4 di ciò che produciamo?
Di questo passo NESSUNO FARÀ PIÙ IMPRESA.
Diventeremo un popolo di “ mantenuti?”… CERTAMENTE tutti! Loro elargiscono sussidi con i soldi che succhiano ai piccoli imprenditori e artigiani … ma quando noi chiuderemo tutti… come pensano di pagare i sussidi e gli stipendi dei milioni di dipendenti pubblici ed in primo luogo i loro?
Non abbiamo più nemmeno la forza di lamentarci. Questa è la cosa più grave… ci siamo arresi. L’Italia così finirà male.
Saremmo un popolo eccezionale (con qualche furbo, certamente e qualche delinquente che froda il fisco… dovrebbero accanirsi su quelli e non su chi lavora duramente).
Ci vorrebbero più menti come la Sua.

Lettera firmata




Il partito della riapertura

Da almeno una settimana le voci che auspicano una ripresa delle attività produttive si sono moltiplicate. Scalpita per la riapertura Confindustria, che fa notare che ogni mese perduto si mangia quasi un punto di Pil. Scalpitano per l’apertura grandi e piccoli produttori, che rischiano di dover chiudere perché anche 2 sole mensilità (marzo e aprile) di mancato fatturato bastano a mandare all’aria il lavoro di anni, se non di generazioni. E scalpitano per l’apertura, più in generale, quanti si rendono conto che il fermo prolungato dell’economia potrebbe farci ritrovare, nel giro di pochi mesi, in un paese molto più povero e indebitato di prima, con inediti problemi di ordine pubblico e di malcontento sociale. Qualcuno si avventura a dire che, quando la base produttiva sarà semidistrutta, potremmo ritrovarci in un sistema di tipo cubano, con un’economia in cui quasi tutto è nazionalizzato e il tenore di vita si è drammaticamente abbassato. Uno degli argomenti centrali del “partito della riapertura” è che, quali che siano i tempi del ritorno alla normalità, con il virus dovremo comunque imparare a convivere, e dunque tanto vale provarci quanto prima, così almeno impediamo il collasso completo dell’economia (e del sistema sanitario). Questo argomento, nei più lucidi (o più cinici?) si accompagna con la tesi secondo cui il problema degli anziani si risolve rinchiudendoli in casa a tempo indeterminato, mentre quello dei giovani e degli adulti si affronta accettando il rischio di contagio, dato che per loro la mortalità è molto più bassa.

Non voglio negare che ci sia molto di vero in questo modo di porre la questione. E meno che mai voglio nascondermi il rischio che fra un anno ci ritroviamo in un “paradiso socialista”, con la gente che fa la fila per accedere ai generi di prima necessità. Perché è vero: se la base produttiva del paese si restringe drasticamente, tutto è destinato a saltare. Anziché la decrescita felice, avremo un tonfo tragico.

E tuttavia…

C’è un fondamentale “tuttavia”, secondo me. Lo scenario più catastrofico fra quelli che ci stanno davanti non è quello in cui apriamo troppo tardi, con conseguente grave erosione della base produttiva. Lo scenario più catastrofico per l’economia è quello in cui apriamo troppo presto, l’epidemia riparte a pelle di leopardo, e noi – causa la consueta disorganizzazione e miopia della classe dirigente – non siamo ancora nelle condizioni di bloccare ogni nuovo focolaio. A quel punto potremmo avere una nuova ecatombe sanitaria, ed essere costretti a un secondo lockdown, ancora più brutale e lungo di quello che stiamo sperimentando, con un’erosione della base produttiva di dimensioni tragiche. Questa è la vera alternativa da evitare.

Ma come evitarla?

La risposta di alcuni è: ritardare la ripartenza. Non dopo Pasqua, nemmeno il 1° maggio. Forse il 15 maggio, non prima (così ieri il commissario Borrelli). Insomma: aspettiamo che i contagi scendano a zero, poi ripartiamo.

Purtroppo, anche questa non è una risposta convincente. O perlomeno: non è una risposta completa. Una risposta completa sarebbe: ripartiamo quando, e nella misura in cui, non solo l’epidemia avrà esaurito la sua spinta, ma noi saremo in grado di evitare che riparta, nonché pronti a bloccarla sul nascere quando, qua e là, proverà a ripartire.

La domanda cui le autorità dovrebbero rispondere è: se oggi fossimo già a “nuovi contagi zero”, saremmo pronti a una progressiva riapertura, magari modulata per zone, settori produttivi, fasce demografiche?

La risposta non ce la danno, ma sarebbe chiaramente NO, per due ordini di motivi.

Primo. Non siamo pronti perché, nonostante tutte le denunce e le richieste del personale sanitario e dei comuni cittadini, ancora scarseggiano mascherine, tamponi, reagenti per i test, laboratori di analisi, dispositivi di protezione per i lavoratori; l’assistenza dei malati a casa è gravemente deficitaria, gli ospedali sono tuttora sotto pressione, né esiste un piano per la quarantena dei positivi che non possono trascorrerla in casa. Per non parlare della gestione degli asintomatici ancora contagiosi, che nessuno ci ha ancora spiegato come individuare e neutralizzare.

Secondo. Manca ancora quasi del tutto il sistema informativo necessario per la ripartenza. Non mi riferisco solo al fatto che buona parte dei dati dell’Istituto Superiore di Sanità non sono accessibili ai ricercatori, ma al fatto – ben più grave – che ben poco è ancora stato fatto per conoscere i dati di base della situazione (percentuale di italiani infetti, peso degli asintomatici, tasso di letalità), e soprattutto nulla è ancora pronto per il tracciamento dei contatti e degli spostamenti dei positivi, nonostante da almeno due mesi si sappia che questo è stato uno degli assi vincenti della Corea del Sud e degli altri paesi asiatici.

C’è, infine, un’osservazione che vorrei fare sui provvedimenti economici. Spero di sbagliarmi, ma la sensazione è che ben poco si stia facendo per evitare un radicale assottigliamento della base produttiva del paese. Dire, come è stato detto, che “nessuno perderà il posto di lavoro a causa del Coronavirus” significa nascondere la testa sotto la sabbia. Perché o si pensa che tutte o buona parte delle imprese che falliranno saranno nazionalizzate a prescindere dalla loro redditività, oppure si deve agire subito perché le imprese che, dal mattino alla sera, si ritrovano senza 2 o 3 mensilità di fatturato, non siano costrette a chiudere.

Ora, di questo tipo di azione io vedo ben poche tracce. Si parla di prestiti a tasso zero garantiti dallo Stato. Ma a un’impresa cui mancano mesi di fatturato servono stanziamenti a fondo perduto per pagare i costi fissi e saldare i fornitori, non agevolazioni per indebitarsi ancora di più. Senza parlare dei debiti dello Stato e delle Pubbliche amministrazioni verso il settore privato, quasi sempre incagliati e saldati con enorme ritardo: il modo più sano di aiutare le imprese non è sussidiarle, ma pagare tempestivamente i debiti.

Insomma, voglio dire che se il timore è che, dopo la crisi, l’apparato produttivo – già gravemente amputato nella crisi finanziaria del 2008-2013 – subisca ulteriori gravi amputazioni nel corso della crisi presente, allora è essenziale che tutto si faccia non solo per evitare (ora) le chiusure evitabili, ma anche per fornire (domani) incentivi alle imprese che saranno in condizioni di ripartire, specie se capaci di aumentare l’occupazione.

Perché possiamo nascondercelo per non spaventare la gente, ma la realtà è che, come in tutte le crisi e le ricostruzioni, anche in questo passaggio storico ci saranno molte imprese che chiuderanno e – speriamo – molte altre che apriranno o si riconvertiranno, secondo il consueto schema della “distruzione creatrice”, per dirla con Schumpeter. Alla fine, l’importante è che l’aggettivo, creatrice, abbia la meglio sul sostantivo, distruzione.

Pubblicato su Il Messaggero del 4 aprile 2020




Cari politici, non dipende solo da noi

Ha fatto senz’altro bene il Governo a restringere ulteriormente il perimetro della attività produttive essenziali (il “Messaggero” lo aveva già chiesto ben 2 settimane fa, con un editoriale del suo direttore). Ha fatto bene a dare più ascolto ai sindacati, preoccupati della salute dei lavoratori, che alle organizzazioni imprenditoriali, preoccupate del quasi-arresto dell’economia. E stanno facendo benissimo governo, giornali, televisioni, divi dello spettacolo, scienziati a invitarci a rispettare rigorosamente le regole, nonché a stigmatizzare severamente chi non lo fa.

C’è, tuttavia, anche qualcosa che non va affatto bene nella comunicazione da cui siamo investiti, specie in quella che proviene dalle autorità di governo e dai partiti della maggioranza. Troppe volte il messaggio che si cerca di veicolare non contiene solo l’esortazione a rispettare le regole ma veicola anche, più o meno sottilmente (talora spudoratamente) due ulteriori messaggi, entrambi inaccettabili.

Il primo messaggio dice più o meno così: non è il momento delle polemiche, dobbiamo stare tutti uniti, chiunque critica le autorità è un disfattista.

Eh, no, questo proprio non avete diritto di dirlo. L’opposizione non ha solo il diritto di criticare il governo, ma ha il dovere di farlo se ritiene che il governo stia sbagliando. E la libera stampa, gli studiosi, i comuni cittadini hanno tutto il diritto di criticare il Governo: i nostri governanti hanno (giustamente) sospeso la maggior parte delle nostre libertà personali, dal diritto di spostamento a quello di voto, ma non hanno alcun titolo per toglierci una delle ultime libertà che ci è rimasta, quella di dire la nostra opinione senza subire linciaggi e intimidazioni. Chi ci governa non può pretendere l’immunità dalle critiche, e semmai dovrebbe chiederci umilmente e solennemente scusa per i grandissimi sbagli commessi fin qui.

Il secondo messaggio è ancora più insidioso. Esso dice in sostanza: cari cittadini, rispettate le regole, la sconfitta del virus è nelle vostre mani. Solo voi potete fermare l’epidemia, la vittoria dipende da voi e dai vostri comportamenti. Questo messaggio ci è stato ripetuto ossessivamente da tutte le autorità, Presidente del Consiglio e ministro della Salute in testa, da quando – appena 3 settimane fa – il governo si è (finalmente) deciso a prendere sul serio l’epidemia.

Eh, no, anche qui non ci sto. Perché non è vero. L’avanzata e l’arretramento dell’epidemia sono sicuramente influenzati dai comportamenti dei cittadini, ma non solo da essi.

Lo dico innanzitutto pensando agli enormi ritardi e alle gravissime omissioni nel fornire le armi che servono. Vogliamo qualche esempio?

Tantissimi medici e farmacisti sono stati costretti ad operare senza mascherine, tanti lavoratori senza dispositivi di protezione individuale. Il numero di tamponi è straordinariamente basso, e lo è per scelta delle autorità. La protezione Civile ha inviato alla Regione Lombardia 250 mila mascherine inadeguate. Intralci burocratici e la consueta farraginosità delle procedure rallentano i rifornimenti di materiale sanitario. Lo stesso vale per i fondi messi a disposizione da Banca Intesa, fermi per 15 giorni in attesa dell’immancabile “protocollo d’intesa”. Per non parlare dell’incapacità di mettere in piedi un monitoraggio (via internet e cellulari) dei soggetti positivi e dei loro contatti, come quello sperimentato in paesi come la Cina e la Corea del Sud. O almeno un efficace sistema di telemedicina per i pazienti costretti a casa e privi di assistenza, come invano e ripetutamente suggerito dal prof. Massimo Galli.

Potrei continuare, ma il punto è semplice: che cosa c’entriamo noi cittadini con tutto questo? Eppure la velocità con cui l’epidemia avanza, la quantità di medici che muoiono sul campo, il grado di letalità della malattia dipendono in modo cruciale da queste scelte ed omissioni, su cui noi cittadini non abbiamo alcun potere.

Ma non è tutto. Vogliamo parlare della “curva epidemica”? Vogliamo parlare dell’ondata di morti degli ultimi giorni, peraltro sottostimata dal fatto che molti anziani vengono lasciati morire in casa e seppelliti senza un’autopsia e una diagnosi (vedi il drammatico caso di Bergamo, più volte raccontato dal sindaco Giorgio Gori).

Ebbene, la responsabilità del picco di morti è chiaramente imputabile alla leggerezza della politica (e di molti media, bisogna aggiungere purtroppo). I dati parlano chiaro, chiarissimo. Il segnale di Codogno e Vo’, con l’improvvisa apparizione di due focolai di contagiati, è di venerdì 21 febbraio. Per qualche giorno restiamo attoniti, la speranza (ma sarebbe meglio dire: l’illusione) è di circoscrivere l’epidemia isolando i comuni interessati. A quel punto si apre un bivio: riconoscere la gravità della situazione, dichiararla pubblicamente, e prendere subito misure restrittive volte a minimizzare i contatti in tutta Italia; oppure: riesumare la retorica del “noi non ci faremo fermare, noi vogliamo continuare la nostra vita di sempre”, già collaudata nei confronti degli attentati terroristici.

Ebbene, arrivati a questo snodo fondamentale, non solo il governo, ma anche consistenti porzioni dell’opposizione, dei media, dell’arte, della società civile hanno risolutamente imboccato la seconda strada, quella del “riaprire le città” e “riprendersi la vita”. Potrei citare decine di prese di posizione, di video, di campagne di stampa. Mi limito a ricordare due fatti.

Il 27 febbraio, a meno di una settimana da Codogno e Vo’, la campagna “Milano non si ferma” è in pieno svolgimento, e culmina con lo sfortunato aperitivo in città voluto dal sindaco Beppe Sala e da Nicola Zingaretti, assai più preoccupato di “non diffondere il panico” che di diffondere il virus. Ma la linea de “riaprire” è caldeggiata anche da Salvini. Due giorni dopo, un sondaggio certifica che la netta maggioranza dei milanesi è a favore della riapertura. I politici stanno sbagliando, ma forse stanno sbagliando perché, contrariamente a quel che dicono, il loro faro non è la scienza, che da tempo li invitava a prendere sul serio il pericolo, ma è il consenso.

Ebbene, i 7 giorni che vanno dall’aperitivo a Milano alla decisione del governo di chiudere le scuole e le università (primo timido segnale di pericolosità della situazione), è stata cruciale nel favorire l’avanzata del virus. Un’avanzata che ha avuto a disposizione una manciata di giorni in più quando la chiusura delle scuole ha finito per prolungare le vacanze di Carnevale, e il governo ha atteso altri giorni per varare finalmente, una dopo l’altra, le varie ulteriori misure di chiusura, prima rivolte alle regioni e province più colpite, poi – nel week-end di follia del 7-8 marzo – finalmente a tutta l’Italia.

La curva delle morti di oggi (più di 500 al giorno nell’ultima settimana) non fa che riflettere, come la luce che viene da stelle lontane, gli eventi dei 10 giorni di follia che vanno dalla campagna “riapriamo Milano” alla riapertura delle scuole.

Ecco perché dico che a noi spetta rispettare le regole, ma alle autorità spetta tutto il resto. Non solo rifornire medici, malati, comuni cittadini di tutto ciò che avrebbero dovuto avere e non hanno avuto (dalle mascherine ai respiratori, dai tamponi all’assistenza domiciliare), ma anche non ripetere domani gli stessi errori di ieri, che  già tante vite ci stanno costando proprio in questi giorni. Perché su un punto la maggior parte degli studiosi è ormai concorde. Se e quando l’epidemia sarà stata domata, il pericolo più grande diventerà quello di non esserci nel frattempo attrezzati a reagire nel modo più tempestivo e risoluto ogni volta che il virus proverà a rialzare la testa.

Una prontezza di reazione che dipenderà dalla nostra maturità e disponibilità ad accettare altri sacrifici. Ma dipenderà anche dalla percezione che chi ci governa abbia imparato la lezione.

Pubblicato su Il Messaggero del 24 marzo 2020



Né di destra, né di sinistra

Capita spesso di leggere articoli che intonano il de profundis per la più antica coppia nemica della modernità politica: destra e sinistra. «Destra e sinistra – ha scritto il filosofo del diritto Paolo Becchi su Libero il 2 febbraio scorso – nuotano ormai nello stesso brodo culturale. La sinistra ha abbandonato la lotta di classe, la difesa della classe operaia oppressa dal modo di produzione capitalistico e la destra la battaglia per la difesa della comunità e della tradizione: entrambe in fondo hanno accettato la cultura dell’individualismo libertario sciolto da legami sociali e comunitari. A destra non si discute la competizione sul mercato globale e a sinistra si insiste sulla emancipazione non dei lavoratori ma dalle radici. L’unica libertà che conta è quella delle merci, dei capitali e degli individui».

Becchi sintetizza in poche, chiare, righe un leitmotiv ormai quasi secolare anche se le spiegazioni del tramonto delle due categorie politiche variano col tempo, con gli uomini, con i partiti.

Mutano anche gli atteggiamenti con i quali si prende atto della presunta irrilevanza di destra e sinistra.

Per alcuni il loro declino è la liberazione da fantasmi di epoche passate, per altri è il segno della crisi spirituale della nostra epoca che ha azzerato tutti i valori, tutti gli ideali per i quali gli uomini erano disposti a battersi e a rischiare la vita.

Ho l’impressione, tuttavia, che nelle relazioni ufficiali dell’avvenuto decesso si celi una pericolosa incomprensione. Quella di credere che “destra” e “sinistra” non hanno nulla di “sostanziale” in quanto legate al mondo della “superstizione politica” (che genera i fantasmi, appunto) o a stili di pensiero che, da rimpiangere o meno, sono relegati nel “mondo di ieri”.

Sennonché sia negli individui che nelle società si trovano elementi strutturali che possono appannarsi, venir dimenticati per anni, trascurati più o meno consapevolmente ma che, nondimeno, riemergono prima o poi: e spesso con una virulenza proporzionale alla sottovalutazione. Il bisogno di comunità, il senso della tradizione che caratterizza la destra – e che trova il suo simbolo privilegiato nell’albero che affonda le sue radici sul terreno della storia – è qualcosa di insopprimibile, come la proiezione verso il futuro, la volontà di emanciparsi dal peso di usi e costumi che incatenano gli individui al suolo, alla famiglia, al milieu religioso. Che ha il suo simbolo, invece, nell’atto di spezzare le catene del privilegio.

La grandezza dell’Occidente, a ben riflettere, è consistita nella capacità di tenere in equilibrio le due dimensioni, “l’unico” e “l’universale”, per riprendere un saggio del grande Jacob L. Talmon, la “comunità di destino” e la “società degli individui”, il romanticismo politico e l’illuminismo, banditore dell’universalismo etico. Oggi sembra vincente la delegittimazione etica di tutto ciò che sa di particolare, di difesa del “sangue” e del “suolo”, di richiamo all’identità. A guardar bene, è l’ideologia di grandi quotidiani come la Repubblica o di periodici di nicchia come Il Foglio.

Ed è quella che, per reazione, risuscita istinti tribali di difesa che ai livelli alti ispirano una saggistica sempre più lontana da quel “pensiero unico” che lega ormai l’Istituto Bruno Leoni agli eredi del comunismo e dell’azionismo in nome della demonizzazione dello Stato nazionale e delle sue logiche.

Quasi in retromarcia, Paolo Becchi conclude l’articolo scrivendo che «la distinzione politica fondamentale oggi» è «quella tra coloro che difendono il globalismo, l’universalismo astratto e coloro che lo criticano in nome di particolarità concrete».

Ma non è questa la forma che oggi assume la dialettica tra “destra” e “sinistra”? Becchi, che col suo “sovranismo mite” sta dalla parte dei no global, ritiene che nulla vieta di pensare a un progetto politico in cui «potrebbero coesistere idee come quella di comunità, di appartenenza, identità, lealtà, senso dello Stato, con altre idee che riguardano la giustizia sociale, la solidarietà e la redistribuzione».

Senza avvedersene, però, rivela la stessa forma mentis del mainstream progressista che, nel suo culto della globalizzazione, rassicura i timorosi che non hanno niente da temere, che far parte di società politiche sempre più vaste, non rappresenta affatto una minaccia per le comunità storiche ma, anzi, è un modo per preservarle da altre guerre distruttive, dagli odi etnici, dalla barbarie tribale.

Ma è proprio vero che le cose buone stanno sempre insieme e che esistono formule magiche in grado di salvare capre e cavoli, libertà ed eguaglianza, solidarietà e individualismo, difesa dei confini ed apertura a chi vuole entrare, ragion di Stato e limitazione della sovranità etc. etc.?

È così difficile (a destra e a sinistra) rassegnarsi al fatto che ogni famiglia ideologica, ogni partito, porta nel mercato della politica i suoi prodotti specifici? E che a dividerci non sono tanto i valori ma la priorità che diamo a quello che ci sta più a cuore quando non è possibile, ad esempio, salvaguardarli tutti: tutelare, ad esempio, la libertà senza sacrificare un po’ di eguaglianza; sostenere l’autorità dello Stato senza limitare i diritti degli individui?

Il sospetto è che il discredito della contrapposizione tra destra e sinistra, nasca dalla pretesa che esse non hanno più alcun significato giacché esisterebbe un punto di vista superiore in grado di salvaguardarne quanto – poco o molto – c’è di valido nell’una o nell’altra. È un punto di vista che non è al di sopra ma è al di sotto dei due vecchi duellanti. Al di là delle retoriche buoniste o cattiviste dilaganti, sta emergendo un “pensiero unico” che al di fuori di sé lascia soltanto (se si è di sinistra) il razzismo, l’atavismo di una destra impresentabile o (se si è di destra) il nichilismo che passa come un rullo compressore sulle Nazioni o e dei popoli. Dietro la “buona novella” che destra e sinistra sono passate a miglior vita, ci sono, in sostanza, la delegittimazione degli avversari e la morte del pluralismo.

È la fine della democrazia liberale: impensabile senza l’eterno contrasto tra conservatori e progressisti, tra Disraeli e Gladstone, tra De Gaulle e Mitterand.

 

DIETRO LA “BUONA NOVELLA” CHE DESTRA E SINISTRA SONO PASSATE A MIGLIOR VITA, CI SONO, IN SOSTANZA, LA DELEGITTIMAZIONE DEGLI AVVERSARI E LA FINE DEL PLURALISMO

 Pubblicato su Il Dubbio del 10 marzo 2020



Il referendum del 29 marzo

Fra chi segue settimanalmente i sondaggi si sta facendo strada una sensazione, se non una previsione: il Pd gode di una discreta salute, i Cinque Stelle stanno perdendo consensi settimana dopo settimana, al punto che – a breve – potrebbero essere sorpassati da Fratelli d’Italia, l’unico partito in costante ascesa da mesi. Con la Lega vicina al 30%, il Pd vicino al 20, e il partito della Meloni in vista del 15 i Cinque Stelle (che, lo ricordiamo, in Parlamento sono di gran lunga il primo partito) potrebbero precipitare al quarto posto.

Chi vede le cose in questo modo, però, forse non fa i conti fino in fondo con un evento politico che ormai è alle porte: il referendum confermativo sul taglio del numero dei parlamentari (da 945 a 600), previsto fra una manciata di settimane (domenica 29 marzo). Qualsiasi cosa si pensi di questa riforma costituzionale (personalmente la trovo tanto ragionevole quanto di scarso impatto: sono assai più sostanziali i cambiamenti delle regole di cui ci sarebbe bisogno), resta il fatto che essa è stata una bandiera di un solo partito (il Movimento Cinque Stelle), è stata osteggiata con decisione dal Pd, e alla fine è passata non certo perché il Pd si sia convertito, ma perché i Cinque Stelle l’hanno posta come condizione per imbarcare il Pd e Leu nel nuovo governo.

Dunque quel che dobbiamo attenderci non è che il referendum passi nell’indifferenza generale (visto che nessun partito osa schierarsi apertamente a favore del no), bensì che il Movimento Cinque Stelle, che di quella riforma si considera – del tutto giustamente – il promotore e l’artefice, colga l’occasione per passare all’incasso sul piano del consenso. E’ quasi certo che il taglio dei parlamentari avrà l’approvazione della stragrande maggioranza dei votanti, ed è impensabile che, su questo successo, i Cinque Stelle non tentino un’operazione di recupero del consenso perduto, magari trasformando l’evento degli Stati generali in un’occasione di autocelebrazione, che non potrà non sfociare in un revival della retorica anticasta che ne ha segnato le origini.

Con quali effetti sul seguito elettorale?

Difficile dirlo, perché spesso il consenso ad A è anche il frutto del discredito di B, C e D, ovvero delle altre forze politiche. Quel che però mi sembra ragionevole prevedere è che questa vittoria possa rallentare (se non invertire) il trend di declino dei Cinque Stelle, ma soprattutto possa rendere più evidente l’abdicazione del Pd da ogni velleità di dare un segno, il proprio segno, al governo giallo-rosso. Dopo aver ceduto sul taglio dei parlamentari, dopo essersi rassegnato al reddito di cittadinanza (aspramente criticato fino a pochi mesi fa), dopo aver piegato la testa su concessioni autostradali e giustizia, dopo avere esitato e temporeggiato su tutto ciò che riguarda l’immigrazione (dai decreti Salvini allo ius soli), il Pd zingarettiano appare pronto a tornare quel che era prima di Renzi, forse fino al punto di riaccogliere, a braccia più o meno aperte, i transfughi fin qui rifugiati in Leu.

Un processo, questo, che l’attivismo di Renzi non fa che mettere impietosamente a nudo. Perché è vero che a salvare i Cinque Stelle da un’ecatombe elettorale è stato Renzi, è vero che a sdoganarli a sinistra è stato Renzi, è vero che Italia Viva fin qui ha digerito quasi tutto ciò che il convento giallo-rosso imponeva ai suoi adepti, ma non si può non notare che quello che Renzi oggi dice e rivendica a nome di Italia Viva altro non è, sulla maggior parte delle questioni, esattamente ciò che il Pd diceva e rivendicava fino a ieri.

La conclusione è semplice. I Cinque Stelle sono stati il vero dominus del governo giallo-rosso e si apprestano a rinverdire il loro populismo anticasta. Renzi e Italia Viva, dopo la mossa opportunista e anti-salviniana di far nascere il Conte 2, stanno tornando ad assumere il loro profilo naturale, quello di una sinistra riformista e garantista. Solo il Pd resta un enigma, incerto fra il suo passato renziano e il suo presente grillino.

Pubblicato su Il Messaggero del 29 febbraio 2020