Il Pd come non-luogo della politica

Mi sono chiesto spesso, negli ultimi anni, perché l’azione e i discorsi del Pd, così impegnati verso i diritti civili e “le grandi battaglie di civiltà”, lo fossero assai meno verso i diritti sociali, a prescindere da chi fosse alla guida del partito e da quale fosse la situazione economico-sociale del Paese.

Le risposte che mi davo giravano per lo più intorno a due nodi, il primo di natura politica, il secondo di natura sociologica: la difficoltà di affrontare la questione sociale stando al governo (nodo politico), e il fatto che, fin dalla sua nascita, il Pd era soprattutto il partito dei “ceti medi riflessivi”, ben poco radicato negli strati popolari e nelle periferie (nodo sociologico).

Oggi, di fronte allo smarrimento post-elettorale del partito e alla sua faticosissima, disperata, ricerca di una identità, mi è improvvisamente chiaro il vero motivo del primato dei diritti civili. Puntare (quasi) tutte le carte sui diritti civili è stato il mezzo che ha permesso ai dirigenti del Pd di procrastinare le scelte cruciali e più divisive che, inevitabilmente, sono quelle economico-sociali, non certo quelle sull’immigrazione, le coppie di fatto, i diritti LGBT+.

Non che siano mancati tentativi di effettuarle, quelle scelte in materia economico-sociale. La stessa nascita del Pd è stata, per tanti versi, un tentativo di farle, quelle benedette scelte. E di farle in una direzione riformista, moderna, blairiana, non ostile al mercato. Il problema è che l’anno in cui il Pd è nato, il 2007, è esattamente il momento a partire dal quale, con lo scoppio della crisi economico-finanziaria, le ragioni di quelle scelte riformiste e pro-mercato sono divenute improvvisamente più deboli, o comunque meno difendibili. La doppia recessione, la distruzione di posti di lavoro, la comparsa prepotente dei “perdenti della globalizzazione” hanno reso molto più difficile proseguire sulla linea tracciata da Veltroni e dagli economisti riformisti, innamorati della “terza via”. Renzi ci ha provato, ed è finito fuori gioco (era il 2016). Ma i suoi successori non hanno trovato la convinzione e la forza per cambiare la rotta. Bersani, per cambiarla, quella rotta, non ha trovato di meglio che uscire dal Pd e fondare un nuovo partito (Articolo 1). E Renzi, a sua volta, ne ha dovuto fondare un altro (Italia viva) per risuscitare le idee riformiste del tempo che fu. A quanto pare, il Pd resta il partito che non si può cambiare, né in un senso né nell’altro. Una sorta di non-luogo della politica, in cui per affermare un pensiero chiaro si deve uscire e fondare un altro partito.

Questo, temo, sia il problema del Partito democratico oggi. Un problema che il risultato elettorale ha reso non più nascondibile. Qualcuno, come Calenda, pensa che tutto si riduca a una scelta secca fra liberaldemocrazia e socialdemocrazia, o fra riformismo e massimalismo: o venite con noi del Terzo polo, o vi consegnate fra le braccia dei Cinque Stelle. Può darsi che, alla fine, la scelta sia proprio questa e che, anche in Italia, si finisca per assistere all’epilogo francese: scomparsa della sinistra ufficiale, nascita di una forza liberaldemocratica (alla Macron) e di una sinistra populista (alla Mélenchon).

Ma non sarebbe una grande soluzione. La realtà è che la globalizzazione prima, la deglobalizzazione poi, hanno reso obsolete sia le ricette della “terza via” di Giddens e Blair, sia le ricette stataliste e pro-tasse della sinistra radicale. L’incertezza, l’insicurezza, la precarietà diffusa hanno fatto montare, in questi anni, una domanda di protezione che mai, in passato, aveva raggiunto queste dimensioni e questa drammaticità. E che, mai come oggi, tocca non solo la sfera strettamente economica, ma anche quella sociale, dove la richiesta di sicurezza entra in conflitto con gli imperativi dell’accoglienza dei migranti. È anche per questo che, un po’ ovunque, la destra avanza e raccoglie il consenso dei ceti popolari.

A questa sfida le forze politiche di sinistra, nessuna esclusa, non hanno finora saputo opporre soluzioni convincenti. Questo è il problema. E non riguarda solo il Pd.

Luca Ricolfi




L’arte della contro-escalation

Si comincia, finalmente, a parlare con qualche serietà di un percorso di raffreddamento delle tensioni fra Russia e Stati Uniti, che possa portare (almeno) a un cessate il fuoco, e possibilmente a passi ulteriori verso accordi di pace.

Sulle ragioni di questo, per ora timidissimo, cambiamento di clima, ci sono solo ipotesi. Le più plausibili mi paiono tre.

La prima è che gli attentati-incidenti-sabotaggi delle ultime settimane, chiunque ne sia l’autore, stiano convincendo un po’ tutti che la situazione può andare fuori controllo, a dispetto delle consultazioni continue (e riservate) fra russi e americani.

La seconda è che Biden si stia rendendo conto che arrivare alle elezioni di midterm con un’opinione pubblica spaventata dal rischio di un conflitto nucleare possa costargli caro.

La terza è che lo spettro di una recessione mondiale, provocata dalle conseguenze commerciali della rottura dell’ordine internazionale, stia inducendo i principali giocatori in campo (Cina e Usa in testa) a correre ai ripari.

Quale che sia l’origine dei nuovi segnali, la domanda è: ci sono possibilità realistiche che, alla fase di escalation finora in corso, succeda una fase di escalation inversa (o contro-escalation, o “de-escalation psicologica”)? Ci sono strumenti con i quali è possibile favorire un’inversione di fase efficace?

Non so che cosa ne pensino i veri esperti, ossia generali, strateghi, politici, studiosi di relazioni internazionali. Ma azzardo l’idea che qualcosa si possa imparare anche dagli esperti di “de-escalation” nel senso psicologico (non militare) dell’espressione, ossia psicologi, operatori sanitari, operatori sociali alle prese con interlocutori aggressivi. Se si passano in rassegna consigli e linee guida per gestire questo tipo di conflitti, si deve constatare che, fin qui, occidentali e russi hanno fatto esattamente quel che le tecniche di contro-escalation raccomandano di non fare: offese, delegittimazione dell’interlocutore, minacce, intimazioni, ingiunzioni, totale rifiuto di mettersi dal punto di vista dell’avversario.

Tutti questi comportamenti sono perfettamente comprensibili alla luce del fatto che la situazione non è simmetrica né oggettivamente (A è stato aggredito da B), né soggettivamente (A pensa di essere nel giusto). Ma occorre riflettere su un punto decisivo: anche nelle situazioni in cui si usano tecniche di contro-escalation la situazione non è mai simmetrica. L’infermiere del pronto soccorso che deve fronteggiare un paziente infuriato che agita un coltello, o l’agente di polizia che deve interagire con un rapinatore che minaccia con la pistola dodici ostaggi, non si trovano certo in una situazione simmetrica. Sanno perfettamente di avere ragione loro, non certo il paziente furioso o il rapinatore armato. Però si comportano come se la situazione fosse simmetrica, ossia come se anche il loro interlocutore fosse dotato di razionalità e di ragioni più o meno valide. Lo scopo della contro-escalation, infatti, non è affermare la propria ragione, ma evitare che il conflitto si trasformi in tragedia, con l’accoltellamento dell’infermiere o l’uccisione degli ostaggi.

Ed ecco il punto. La difficoltà del passaggio da una situazione di escalation a una di contro-escalation sta nel fatto che occorre rovesciare completamente il registro e gli obiettivi della comunicazione. E bisogna farlo in contraddizione con tutto ciò che si è fatto fino a quel momento. Un’operazione che è particolarmente dolorosa per la parte in causa che, obiettivamente, ha più ragione (o meno torto).

Ma perché è così difficile cambiare registro?

La ragione profonda della difficoltà è di tipo logico: la medesima azione cambia di significato (e di razionalità) a seconda che si sia in una fase di escalation o in una di contro-escalation.

Facciamo un esempio. Il recente gesto del ministro degli esteri Lavrov (aprire a colloqui di pace in margine al prossimo G-20) è un segnale di debolezza (Putin ha paura, eccetera) se lo collochiamo in una fase di escalation, ma diventa un segnale di apertura (Putin è disposto a trattare) se lo leggiamo in una fase di contro-escalation. Reciprocamente, la conferma delle esercitazioni nucleari Nato della prossima settimana è un messaggio di forza (mostrare i muscoli) se la collochiamo in una fase di escalation, ma diventa un segnale di chiusura (noi non cambiamo) se la leggiamo in una fase di contro-escalation.

Se vuole entrare in una fase di contro-escalation, la politica deve riuscire a non giudicare i propri atti nel registro della fase precedente. Finché si continuerà a pensare che qualsiasi gesto di apertura equivale a “dare ragione a Putin”, nessun percorso di pace sarà possibile.

Ma perché la politica non riesce a passare dalla fase di escalation a quella di contro-escalation, gove?

Fondamentalmente, perché è scomparsa la realpolitik o, se preferite, si è persa la fondamentale lezione dei classici: la distinzione fra razionalità rispetto al valore e rispetto allo scopo (Max Weber), la separazione fra morale e politica (Machiavelli). La crisi ucraina è stata affrontata, finora, esclusivamente nel registro morale, con scarsissima attenzione alle cause della guerra e alle conseguenze delle azioni che si stavano e si stanno intraprendendo. E’ venuto il tempo, se vogliamo provare a entrare in una fase di raffreddamento, o contro-escalation, di rovesciare il registro, e tornare alla politica.

Luca Ricolfi




Oggi la destra dice cose di sinistra

Intervista di Luca Telese a Luca Ricolfi (pubblicata su TPI, 30 settembre 2022)

Professor Ricolfi, lei nel 2005 fece discutere con un provocatorio saggio sulla sinistra: ”Perché siamo antipatici?”. Alla luce di questo voto si sente un po’ profeta? 

Non più di prima, ormai il problema base non è l’antipatia della sinistra ufficiale ma la sua mancanza di idee, e di rispetto per l’avversario politico. Spiace dirlo, ma la sinistra ufficiale (Pd e dintorni), ha un deficit di maturità democratica. Tollera le ingerenze straniere, e non rispetta le scelte della maggioranza. Non sono pronti per la democrazia.

Sono passati 17 anni da quel libro, si evoca ancora la categoria relazione che lei ha definito come politica, “l’antipatia”, per spiegare questo risultato.  É così anche per lei? 

No, il risultato è dovuto al vuoto di idee, al disprezzo per la sensibilità popolare, e alla mancanza di capacità strategica di tutti i leader, non solo del povero Letta.

La situazione é migliorata o peggiorata per via delle leadership o delle alleanze?

Per tutte e due, leadership e alleanze sono strettamente connesse: con questi leader, non si riescono a fare alleanze.

Cos’è diventata oggi questa “antipatia”? 

E’ diventata distanza: chiunque vede a occhio nudo che i politici di sinistra, con alcune importanti eccezioni (Pierluigi Bersani, Tommaso Cerno, ad esempio), non vivono nella realtà.

Secondo le indagini gli elettori del Pd sono statisticamente quelli con un titolo scolare migliore, e quelli con un reddito più alto. Si è ribaltata la composizione storica della sinistra italiana, secondo lei perché? 

Ho scritto un libro per spiegarlo (Sinistra e popolo), e ne sto per pubblicare un altro (La mutazione. Come le idee di sinistra sono migrate a destra). Purtroppo non c’è una spiegazione semplice, perché lo swap fra gli elettorati della destra e della sinistra è avvenuto gradualmente, a partire dal 1965, con due accelerazioni: la caduta del Muro di Berlino, la crisi finanziaria 2007-2012.

Lei dice che il centrosinistra negli ultimi anni è stato il motore della disuguaglianza, non il suo nemico.

Nella scuola e nell’università è così, ho provato a dimostrarlo in termini matematico-statistici rigorosi nel libro Il danno scolastico. La scuola progressista come macchina della disuguglianza, scritto con mia moglie Paola Mastrocola.

Cosa pensa del cosiddetto terzo polo? 

Tutto il bene e tutto il male del mondo. Tutto il bene perché rappresentano (molto imperfettamente) la sinistra liberale, che è quella che piacerebbe a me, se esistesse. Tutto il male perché non credo – come Renzi e Calenda – nelle virtù dei governi tecnici, e trovo anti-democratica la previsione/minaccia di far cadere il governo Meloni entro sei mesi.

Come valuta Il risultato di Renzi e Calenda, e perché non la convincono (se è così)? 

Il risultato non è malaccio, spero che facciano un’opposizione costruttiva.

Lei è un allievo di due dei più prestigiosi padri nobili della sinistra intellettuale: Luciano Gallino Claudio Napoleoni, ma adesso viene considerato un pensatore vicino alla nuova destra: come spiegherebbe la sua evoluzione politica?

E’ la nuova destra (ma mi riferisco solo a quella della Meloni) ad avere assunto tratti di sinistra: difesa della libertà di espressione, protezione dei ceti deboli e dei perdenti della globalizzazione, anti-assistenzialismo, politiche fiscali keynesiane. Che cosa può volere di più un uomo di sinistra?

Lei dice: “sono e rimango di sinistra”. Quanto ci ha pensato prima di intervenire al convention di Fratelli d’Italia?

Nemmeno un secondo. Se mi invitano a parlare dei temi che mi stanno a cuore io ci vado. Il problema è che, negli ultimi 30 anni, ho ricevuto inviti (peratro rari) solo da destra. E poi c’è la stima per Giorgia Meloni, che dura da quando l’ho conosciuta personalmente, otto anni fa.

Cosa pensa di Giorgia Meloni, come leader? 

E’ “la migliore”, come Togliatti.

Ha un rapporto personale con lei? 

Ogni tanto ci scriviamo o facciamo una video-call.

Chi rappresenta oggi – dal punto di vista sociale e politico –  il primo partito italiano, Fratelli d’Italia? 

I dati dicono che è’ abbastanza interclassista, con prevalenza dei ceti bassi.

Considera  Giuseppe Conte un leader di sinistra? 

No, per me l’assistenzialismo non è di sinistra. Però devo ammettere che i Cinque Stelle la questione sociale la prendono sul serio, non come il Pd che pensa solo agli immigrati e alle istanze LGBT.

Ritiene giusto abolire il reddito di cittadinanza?  

Come tutte le persone non ideologizzate penso che vada corretto, separando (anche giuridicamente) il sostegno ai poveri che non possono lavorare dal sostegno a coloro che possono lavorare.

Il Sole 24 ha pubblicato un diagramma per dimostrare un rapporto diretto tra il voto al M5S e i percettori del reddito, crede a questa relazione? 

Non c’era bisogno del diagramma per capire che il nesso c’è, ed è parecchio stretto.

Era davvero possibile un campo largo che tenesse insieme tutte le attuali opposizioni?

Non lo so, Letta non lo voleva, Conte non so se lo avrebbe accettato.

La preoccupa o la diverte il fatto che si faccia il suo nome come possibile ministro della Pubblica Istruzione? 

Non mi preoccupa e non mi diverte. E’ la solita costruzione giornalistica: non è un mestiere che saprei fare. Ma se ne fossi capace, non esiterei a dare una mano a Giorgia Meloni.




Un altro falso pluralista, Massimo Recalcati

Sono convinto dell’inutilità di questo commento all’articolo di Massimo Recalcati, La sinistra e le parole da ritrovare uscito su ‘La Repubblica’ del 30 settembre u.s. A volte, però,  il messaggio nella bottiglia può avere un valore di testimonianza. Per i posteri altrimenti indotti a credere che lo spirito di un’epoca, della nostra epoca, condizioni tutti coloro che l’hanno vissuta. Recalcati è uno dei tanti intellettuali che, il giorno dopo la sconfitta del PD, vorrebbero ridare un’anima alla sinistra, facendole ritrovare le parole giuste. Quanto scrive è spesso condivisibile. È verissimo, ad es., che “se gli italiani hanno votato per Giorgia Meloni non significa che essi desiderino il ritorno del fascismo” e che, pertanto, “il grande collante dell’antifascismo non è più sufficiente a definire l’identità politica e culturale della sinistra” (scritto su un quotidiano come ‘La Repubblica’ ferma alla linea politico-culturale di Ezio Mauro non è poco). Il disaccordo comincia quando Recalcati parla della destra, delle sue parole d’ordine (Dio, Patria e Famiglia) “vincolate a una ideologia patriarcale al tramonto” della difesa degli interessi nazionali, presidio dei confini, della tutela dell’ordine sociale.

Per lo psicoanalista si tratta di valori arcaici ma che nutrono quella nostalgia che ha fatto vincere il centro destra e alla quale il PD non ha saputo contrapporre ‘la propria identità ideale’. Quest’ultima avrebbe richiesto un’idea alternativa di Dio, Patria, Famiglia ma non s’è visto nulla del genere. Per quanto riguarda Dio, si trattava, in so-stanza, di proseguire sulla via indicata dai Lumi: “credere nella ricerca, nell’istruzione, nel pluralismo contro ogni forma idolatrica di dogmatismo”. Per quanto riguarda la patria, la sinistra avrebbe dovuto “ripensare radicalmente l’Europa come nuova patria”.

E infine, venendo alla famiglia, si doveva chiaramente emancipare il legame famiglia-re dalla “logica materialistica della biologia”, liberandosi dagli stereotipi retorici che l’esperienza clinica e la medicina avrebbero spazzato via. Insomma è Monica Cirinnà che avrebbe dovuto guidare il PD in queste elezioni.

Intendiamoci, trovo legittimi tutti gli obiettivi per i quali si battono Recalcati e il mainstream culturale che ormai domina negli Atenei, nella stampa, nei mass media. E qualche volta li condivido, come nella richiesta di una legge umana sul fine vita. Ma il punto non è questo, bensì il falso pluralismo di cui si ammanta Recalcati. Se avesse letto Isaiah Berlin si sarebbe reso conto (forse) che i valori sono tanti e che “la piena dignità politica dei propri avversari” che, giustamente, vuole riconosciuta dalla sinistra, comporta comprenderne il senso e il loro radicamento nell’umano, rinunciando a considerarli spazzatura della storia. Porto qualche esempio: “la patria non si può identificare con il suolo e con il sangue”. “Non è questo ’l terren ch’i’ toccai pria?/Non è questo il mio nido/ ove nudrito fui sí dolcemente?/Non è questa la patria in ch’io mi fido/madre benigna et pia,/che copre l’un et l’altro mio parente?”, cantava Francesco Petrarca nella sua canzone All’Italia., scolpendo, nei suoi bellissimi versi un sentimento universale.

Certo, per il neoilluminista conta solo la Gesellschaft—la societas in cui esseri razio-nali si accordano, mediante contratti equi, per soddisfare i loro interessi e garantirsi reciproci diritti; si veda, del resto, la voce ‘Patria’ nel Dizionario Filosofico di Voltaire; ma nel cuore del tradizionalista sta la Gemeinschaft—la communitas fondata non sul principio di prestazione (‘do ut des’) ma sul principio della solidarietà, dell’ ‘uno per tutti e tutti per uno’. Non sono valori entrambi? Certo si può discutere sul modo in cui, nell’uno e nell’altro campo, vengono fatti valere: la comunità, è stato rilevato più volte, porta al Lager e la ‘società’ al Gulag, ma qui stiamo sul terreno dell’etica politica non della storia.

Altro esempio: pensare che una famiglia debba essere composta di genitori di sesso diverso, ovvero eticizzare il dato biologico può non trovare tutti d’accordo e si può capire ma perché anche qui non riconoscere che ci troviamo dinanzi a valori forti che si contrappongono ad altri che stanno, a ragione o a torto, diffondendosi nel mondo (a Cuba, dove al tempo di Fidel Castro venivano giustiziati i gay, un referendum popolare ha riformato il diritto civile)? Si dirà che ormai antropologia e medicina hanno dimostrato che i costumi, alle origini di comportamenti e di pregiudizi che non si fondano sulla scienza, non debbono essere tollerati dai codici ma questo non è puro e semplice cognitivismo etico ovvero la deduzione dei doveri morali dai comandi di un’entità superiore che li impone—ieri Dio, oggi la Scienza? Ho forti dubbi sul concetto di ‘normalità’- specie in campo medico-antropologico–ma anche se le scienze all’unanimità dovessero definirlo una volta per sempre resterebbe la mia libertà di proclamare: “Tutti lo sono ma io non voglio essere normale”. Non era, in fondo questa, la lezione di uno dei pochi liberali espressi dal Partito d’Azione, Guido Calogero?

Insomma ho l’impressione che l’esaltazione del pluralismo, nella nostra cultura, sia pura e semplice retorica, purtroppo non innocua. In realtà, ci è impossibile pensare che i nostri progetti politici non siano superiori a quelli dei nostri avversari ideologici, rinunciando “all’idea ‘religiosa’” della nostra “superiorità morale”. E forse la causa di ciò sta nella riluttanza ad ammettere che i valori non solo sono tanti, come si è detto, ma spesso risultano conflittuali e incomponibili. Le ‘benedizioni della modernità’, come le chiamava il grande Albert Hirschman—l’Europa, l’atlantismo, la globalizza-zione, il modello americano—non sono tali per tutti e molti ne farebbero volentieri a meno. Nostalgia di un mondo perduto? E se così fosse? Non c’è anche un diritto alla nostalgia? Democrazia non è ‘andare sempre avanti’ ma è anche prendere atto che qualcuno vorrebbe fermarsi se non tornare indietro: contano i voti e le maggioranze. Peraltro le democrazie che storicamente hanno avuto successo sono quelle che hanno tenuto in equilibrio Lumi e Tradizione, Destra e Sinistra, l’Antico e il Nuovo.

Se non vinciamo sempre ‘noi’ ma vincono ‘loro’, qualche ragione ci sarà ma non troviamola, per carità negli ‘atavismi culturali’ che spesso designano i valori che non sono i nostri…

 

Dino Colafrancesco




Novità o carisma?

Sull’exploit di Giorgia Meloni e del suo partito alle elezioni del 25 settembre circolano teorie curiose. La prima attribuisce il successo alla scelta di stare all’opposizione del governo Draghi, una scelta che avrebbe penalizzato soprattutto la Lega di Salvini. Questa teoria è illogica, perché all’opposizione del governo Draghi c’è stata pure Sinistra Italiana di Fratoianni, che invece ha ottenuto un risultato modesto, di poco sopra la soglia del 3% (insieme ai Versi), senza intaccare minimamente i consensi dei partiti di sinistra governisti. Ma soprattutto  è incompatibile con i dati: il prof. Paolo Natale, uno dei massimi specialisti di analisi elettorale, ha dimostrato in un recente contributo che l’erosione dei voti leghisti da parte del partito di Giorgia Meloni era iniziata ben prima della nascita del governo Draghi, ed è semplicemente proseguita durante il governo tecnico. Dunque non può essere la scelta di stare all’opposizione ad aver fatto la differenza fra Fratelli d’Italia e Lega.

Più ragionevole è la teoria che attribuisce il successo del partito di Giorgia Meloni al fatto di non essere mai entrato in un governo, anche quando avrebbe potuto (nel 2018 e nel 2021). Molti dicono: gli italiani amano le novità, dal 1994 in poi hanno provato di tutto, restava solo da provare lei. C’è del vero in questa lettura, ma manca un tassello fondamentale: il carisma.

Sono passati esattamente 100 anni da quando Max Weber, in Economia e società, introdusse nel lessico delle scienze sociali il concetto di carisma e di leadership carismatica, mutuandolo dall’ambito religioso, in cui allude alla grazia, ossia a un dono straordinario concesso da Dio a una persona a vantaggio di una comunità (la parola carisma deriva da χάρις, che in greco significa grazia). In ambito politico il carisma è molto difficile da definire, ma per lo più allude alla capacità di trasmettere una visione della realtà e di stabilire un contatto emotivo con le masse cui ci si rivolge.

Che cosa si debba intendere oggi per leader carismatico è ovviamente controverso, ma credo che – quale che sia la definizione di carisma che si preferisce – sia difficile negare che nelle ultime elezioni Giorgia Meloni sia stata l’unica leader che ne fosse dotata.

Come mai?

Penso che la risposta sia che, in politica, il carisma molto raramente è un carattere permanente del leader. Il carisma si può benissimo perdere. Di leader politici intrinsecamente, e quindi permanentemente, carismatici, nella ormai lunga storia della Repubblica ne ricordo solo due: Palmiro Togliatti e Enrico Berlinguer. Tutti gli altri condottieri che, a un certo punto della loro storia, sono parsi toccati dalla grazia, hanno finito per perderla. Nella storia della seconda Repubblica il carisma si è posato su Berlusconi, con la promessa della rivoluzione liberale; su Veltroni, con il sogno della “bella politica”; su Renzi, con il mito della modernizzazione del sistema; su Beppe Grillo, con la rivolta anti-casta.

Ma per tutti, a un certo punto, sia pure con modalità molto diverse, è calato il sipario. Berlusconi ha perso la grazia perché non ha mantenuto le promesse, e non è stato capace di innovarsi. Veltroni ha tardato troppo a scendere in campo, e quando lo ha fatto è stato messo fuori gioco dalle faide interne del suo partito. Renzi si è autoaffondato per arroganza ed eccesso di sicurezza. Beppe Grillo è stato sommerso dal qualunquismo e dalla pochezza della sua creatura.

Non sarebbe stato un problema se, usciti di scena tutti i leader un tempo carismatici, al loro posto ne fossero emersi di nuovi. Ma non è andata così. Né a sinistra, né a destra. La sinistra si è presentata alle elezioni senza alcun leader carismatico, se si eccettua lo pseudo-carisma (da reddito di cittadinanza) di Conte nel Mezzogiorno. Quanto alla destra, né Berlusconi né Salvini paiono aver capito che la stanca ripetizione di una raffica di slogan e di parole d’ordine vecchie di vent’anni non può scaldare i cuori.

In questo deserto, alle parole di Giorgia Meloni non è stato difficile arrivare ai cuori e alle menti dell’elettorato di centro-destra, cui la visione tradizionalista di Giorgia Meloni, mai così esplicita in una campagna elettorale, è parsa più congeniale delle promesse liberiste dei soliti Salvini e Berlusconi.

Per lei il difficile comincia ora. Perché ci aspetta l’autunno più drammatico dalla fine della seconda guerra mondiale, e la storia insegna che il carisma è più facile conquistarlo che conservarlo.

Luca Ricolfi