Gli italiani e la pandemia: più lungimiranti dei loro governanti

Un paio di decenni orsono, insieme all’amico e collega Giorgio Grossi, elaborai un indicatore che oggi è divenuto patrimonio comune di gran parte della ricerca demoscopica. Esso si basa sulla considerazione che, per capire l’approccio al voto da parte del cittadino-elettore, sia indispensabile considerare non soltanto il suo orientamento di voto individuale, ma anche la sua specifica “percezione” dell’ambiente che lo circonda, del clima pre-elettorale in cui si trova inserito.

È stato dunque predisposto un indicatore robusto e semplice nello stesso tempo, che consiste nella pura richiesta all’intervistato di cosa – a suo parere – sarebbe successo nelle elezioni considerate, cioè di chi avrebbe vinto. Insomma: l’elettore come oracolo. O meglio, l’insieme delle previsioni individuali come “predittore” del vincitore. Per questo, l’abbiamo etichettato con il termine di “winner”. L’utilizzo di questo indicatore si è dimostrato negli anni molto affidabile: sia applicandolo ad elezioni locali che ad elezioni nazionali, il campione di intervistati evidenzia costantemente capacità predittive talora superiori a quelle degli studiosi e ai responsi dei sondaggi demoscopici.

La storia di “winner” mi è tornata alla mente in questo periodo pandemico, rileggendo i risultati di diverse migliaia di interviste effettuate da Ipsos durante i mesi di giugno e luglio scorsi, perché anche in quel frangente i cittadini interrogati sul decorso futuro del Covid-19 parevano aver compreso, oserei dire molto prima e molto meglio di quanto abbiano fatto politici e governanti, che il virus non si sarebbe arrestato tanto facilmente. Un po’ come accade appunto con la corretta profezia del vincitore, la stragrande maggioranza della popolazione pareva aver fiutato che le cose non si sarebbero risolte tanto facilmente o tanto velocemente, come qualche leader partitico o qualche presidente di Regione aveva al contrario proclamato agli albori della scorsa estate con lo slogan: riapriamo tutto!

Alla semplice domanda sulla possibilità che nei 6 mesi successivi ci saremmo trovati nella condizione di fronteggiare una seconda forte ondata di contagi in Italia, quasi l’80% degli italiani rispondeva che la ripresa pandemica era molto o abbastanza probabile. E che occorreva prepararsi per tempo, non quando saremmo stati nella sua fase più acuta.

E alla questione successiva: “Secondo Lei l’allentamento del lockdown e le riaperture delle attività decise nelle scorse settimane faranno aumentare il numero di contagi in Italia?” soltanto uno sparuto 14% degli intervistati dichiarava che “il trend di diminuzione dei contagi proseguirà più o meno come in questi giorni estivi”. Certo, magari il comportamento di alcuni dei nostri connazionali non è stato adamantino, proprio in quel periodo, ma è indubbio che la lungimiranza dei cittadini interrogati fosse di gran lunga maggiore di chi ha il potere decisionale, che come è stato da molti sottolineato in questa situazione è stata piuttosto carente, se non del tutto deficitaria.

Infine, anche sulla proroga dello stato d’emergenza si dichiarava d’accordo il 78% del campione, per una durata di almeno tre mesi per alcuni, ma per molti ancora di più, fino a 6 od oltre i 6 mesi. Il senso di responsabilità degli italiani sembrava superare (anche) in questo frangente quello dei governanti, preoccupati al solito della consueta ricaduta elettorale. Non a caso, tra coloro che minimizzavano il pericolo, erano soprattutto gli elettori di Lega e Fratelli d’Italia, sospinti dai rispettivi leader di partito, a ribadire che il peggio era ormai alle nostre spalle, che il virus era definitivamente sconfitto, e che occorreva tornare alla vita di sempre. Potere dello “storytelling”!




I partiti italiani: cenni costituzionali e breve storia dal dopoguerra alla seconda Repubblica

Nell’era dell’antipolitica mi sono chiesto in che misura i movimenti presenti in parlamento possano ancora essere definiti partiti, nel senso in cui lo erano i partiti tradizionali della prima Repubblica. Mi sono poi anche chiesto quali siano di destra e quali di sinistra, sempre che le categorie in questione abbiano conservato un proprio significato, ossia se ai termini “destra” e “sinistra” corrisponde ancora un minimo comune denominatore in termini o di uniformità ideologica o quanto meno di interessi e categorie sociali di riferimento. Per rispondere alla prima domanda è occorre definire il quadro costituzionale dell’attività dei partiti, dal momento che è proprio dalla definizione che la carta fondamentale dà di queste organizzazioni che consente di verificare se anche i movimenti politici di oggi rientrano della nozione giuridica di partito.

L’art. 49 della Costituzione, contenuto nel titolo relativo ai rapporti politici, dispone che “tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Si tratta di una norma che, nella carta fondamentale, si trova collocata dopo quella sul suffragio universale e sul il diritto/dovere di voto dei cittadini.

Il fatto che l’articolo 49 Cost. parli di partiti come “libere associazioni” di cittadini ci dice intanto che un partito, per essere tale, deve essere espressione di autonomia e, dunque, della libertà di chi sceglie di aderirvi. In Italia non può esistere alcun “partito di stato”. Questo significa che il nostro ordinamento prevede una distinzione tra l’attività politica in seno alle istituzioni (anche rappresentative), che resta soggetta a regole e vincoli di garanzia, e la dinamica politica sociale in cui invece vale il principio di piena libertà.

La preoccupazione dei costituenti era duplice: da un canto volevano evitare che i partiti politici potessero restare soggetti a qualunque forma di controllo da parte dei poteri pubblici e, per altro verso, intendevano scongiurare il rischio della costituzione di partiti-organo come il vecchio PNF (ma anche ai comitati direttivi dei partiti comunisti sovietico e cinese): partiti-organo in cui – di fatto – viene decisa la linea politica dello stato del tutto al di fuori delle procedure e garanzie previste per l’attività politica istituzionale, di guisa che le istituzioni finiscono per assumere un ruolo di mera ratifica formale. Si badi bene, tuttavia: anche ora in via di fatto avviene così (è noto che le segreterie di partito si accordano prima sulla linea di governo e di opposizione e anche sui singoli provvedimenti), ma la differenza essenziale rispetto al sistema dei partiti-organo è che comunque si tratta di attività che resta confinata nella sfera della libertà dei singoli partiti, mentre le decisioni con valore vincolante sono esclusivamente quelle che traducono gli accordi politici in atti formali delle istituzioni politiche adottati con le previste procedure.

Sempre secondo l’art. 49 Cost., la funzione costituzionale del partito – dunque la funzione che consente di definirlo come tale nel nostro ordinamento – è di concorrere a determinare la politica nazionale. Il partito ha insomma funzione di mediatore politico tra cittadini e istituzioni di rappresentanza politica, nel senso che il suo compito costituzionale è di raccogliere e organizzare il consenso popolare consentendo che si traduca in una rappresentanza parlamentare articolata in gruppi omogenei sotto il profilo ideologico e/o programmatico. Questa funzione deve però, secondo la carta fondamentale, essere esercitata dai partiti “con metodo democratico”, dunque appunto tramite la rappresentanza elettorale a suffragio universale. Il che significa che può essere considerata “partito” qualunque associazione privata tra cittadini costituita con lo scopo di presentare candidati ad elezioni sulla base di un programma politico. In sintesi, dunque, partiti per la costituzione sono organi non istituzionali di rappresentanza politica. E’ proprio il fatto di organizzare – al di fuori delle istituzioni – il consenso dei cittadini a fini politici per presentarsi alle elezioni che consente dunque di distinguere i partiti da altri movimenti – ad esempio di opinione, culturali o sindacali – che pure hanno struttura collettiva e volontaria nonché, almeno in parte, oggetto o scopo politico.

Questo significa che un qualunque ente che riunisce una pluralità di persone, che è regolato dall’autonomia privata degli aderenti e che si prefigge di presentare delle candidature ad una qualunque elezione sulla base di un programma o di una serie di principi di azione politica può “giuridicamente” essere ritenuto partito. In questo senso, si deve allora concludere che tutti i movimenti attualmente presenti in parlamento, così come quelli esclusi che avevano partecipato (o si prefiggono di partecipare) ad elezioni politiche o amministrative, possono essere considerati altrettanti partiti politici.

Il primo novecento

Smarcata la questione giuridica, resta da capire ancora in che misura – politicamente parlando – i partiti di oggi sono assimilabili a quelli della prima repubblica e se ha ancora senso parlare di destra e sinistra. Per rispondere a simili interrogativi è tuttavia necessario fare un po’ di storia – seppure soltanto a spanne – della politica nazionale degli ultimi decenni. A questa breve ricostruzione storica sarà dunque dedicata la prima parte di questo scritto per la fondazione Hume, laddove la seconda parte (che verrà pubblicata nei prossimi mesi sempre sul sito della fondazione) cercherà – proprio sulla base dei risultati della prima – di tirare le fila del ragionamento stodico in modo da fotografare il presente dei movimenti che animano la politica nazionale contemporanea, tentando una sintesi sui rispettivi orientamenti politici di fondo.

Partiamo dalla storia, dunque, e anche da piuttosto lontano, per segnalare che in epoca pre-novecentesca i partiti esercitavano più o meno tutti quanti una funzione politica che potremmo definire “discendente”, nel senso che si presentavano come interpreti e attuatori di differenti ideologie contrapposte (o, come va di moda dire oggi, di “grandi narrazioni”) che esistevano prima e al di fuori dei partiti stessi. I partiti dunque traducevano in prassi i fondamenti dei sistemi ideologici cui si ispiravano: i socialismi intendevano tradurre in prassi i principi del marxismo, mentre le destre storiche facevano la stessa cosa col liberalismo. L’ideologia cui si ispiravano i diversi partiti consentiva anche di individuare piuttosto facilmente gli interessi e le categorie che intendevano rispettivamente promuovere (o, secondo i marxisti, per converso erano gli interessi di classe che i partiti tutelavano a consentire di definirne l’ideologia): fatto sta che i partiti della sinistra storica esprimevano e tutelavano in via di principio gli interessi dei proletari (identificati grosso modo con i lavoratori dipendenti di basso reddito, che erano la grande maggioranza) mentre quelli della destra storica si occupava degli interessi della borghesia (identificata con i proprietari terrieri e con la grande borghesia proprietaria mezzi produttivi e finanziari, ma anche con la piccola borghesia di commercianti e artigiani). Si trattava di un mondo politico vagamente manicheo e, dunque, tutto sommato facile da decifrare.

La prima vera crisi del modello avviene col fascismo, che – tentando, con Gentile, di tradurre in prassi politica alcune teorie di Hegel – mirava a superare tanto la tradizionale dialettica parlamentare quanto quella classista dei marxisti, proponendosi di cercare, a livello di partito unico, la sintesi degli interessi di tutte le categorie sociali. Nell’era del fascismo maturo (parliamo dunque della fase post-squadrista, ossia di quella del partito-stato e del sistema corporativo) il PNF (ovviamente partito unico) si trasforma in una sorta di meta-istituzione dello stato, rendendo superflua la dialettica politica parlamentare fondata sul voto a maggioranza, per cercare la sintesi politica (dialettica, appunto) sul terreno del confronto “puro” di interessi delle varie categorie economiche e sociali all’interno del partito stesso, alla luce del comune e superiore interesse dello stato italiano, inteso come collettività e tradizione nazionale, di cui il PNF intendeva farsi garante.

Questo spiega la singolare situazione di un partito unico che, alla stregua di una istituzione pubblica, tutto governa, ma che è tutt’altro che ideologicamente unitario: il partito nazionale fascista, ancora in pieno ventennio, era infatti notoriamente diviso in correnti – che facevano capo a gerarchi spesso in aspro conflitto tra loro – che si ponevano come espressione di interessi e gruppi sociali differenti e a volte confliggenti (dei lavoratori, delle grandi imprese, dei diseredati del primo conflitto mondiale, dei monarchici, di una parte del mondo cattolico etc. etc..) con il capo partito, Mussolini, che per quanto dinanzi al popolo il ruolo assumesse il ruolo di decisore ultimo, all’interno del partito-stato sostanzialmente esercitava una funzione di mediazione e garanzia delle varie “anime” del partito. Solo in questo modo si spiega il fatto, piuttosto inusuale in un regime totalitario, che il dittatore sia stato destituito dal ruolo di capo del governo niente meno da una votazione a maggioranza del gran consiglio del fascismo, dunque – in sostanza – dai vertici dello stesso partito fascista di avrebbe dovuto essere il capo indiscusso.

Il dopoguerra e la prima repubblica

Finita l’era fascista, con la costituzione del ’48 si ritorna al tradizionale modello di confronto in sede parlamentare tra una pluralità di partiti “ideologicamente” ispirati a diverse visioni di mondo. La peculiarità dello scenario politico postbellico è tuttavia rappresentato dall’affermazione di un “nuovo” soggetto politico tanto inafferrabile secondo le categorie tradizionali (ossia quelle di destra e sinistra) da venire riassunta in un toponimo che non dice nulla se non, appunto, che non si tratta né di sinistra né di destra: il “centro”. La nascita di un forte “centro” nell’Italia del dopoguerra, in realtà, potrebbe stupire solo chi non ha capito cosa intendeva essere il fascismo maturo di Gentile e non è disposto a riconoscere quanto importante sia stata, per la politica italiana del primo novecento, l’incapacità di destre e sinistre storiche (divise su quasi tutto tranne che sull’anticlericalismo) di trattare adeguatamente la questione romana, invece risolta dal concordato fascista.

Il centro politico del primo dopoguerra sostituisce infatti il fascismo come forza di opposizione al socialismo massimalista e al comunismo, ma declinando questa opposizione in chiave geopolitica (dunque atlantica ed antisovietica) assai più che per vera e propria pregiudiziale ideologica, come invece aveva fatto il fascismo. Ma non solo: il concetto di “centro” nasce infatti anche come ipostasi politica del ritorno nell’agone parlamentare del cattolicesimo romano, che – non essendo all’epoca né liberale né socialista, ma essendo stato pochi anni prima contrario tanto ai liberali quanto ai socialisti – appariva tuttavia in linea, a livello di prassi, con alcuni aspetti di entrambe le parti politiche. Il centro dell’era della DC di De Gasperi, per quanto nasca come centro cattolico (quindi non fascista, non socialista e non liberale), ha insomma ben poco a che vedere con il partito popolare di Sturzo, svolgendo piuttosto una funzione di sintesi politica analoga a quella tentata dal fascismo, ma declinandola in un contesto democratico, in sostanza assorbendo (e traducendo in altrettante correnti del partito, come faceva appunto il fascismo) le idee e gli interessi che, per quanto fondate su ideologie differenti, non apparivano a livello di prassi radicalmente incompatibili con il suo baricentro ideologico, che restava cattolico. Così facendo la DC iniziava ad attrarre progressivamente nei propri programmi politici diverse idee di liberali e socialisti, ma moderandone gli aspetti più estremi. Non è infatti un caso che uno degli aggettivi che si usano più di frequente per definire le forze centriste sia quello di “moderate”: la moderazione deriva infatti proprio da un processo di sintesi per attrazione tra le idee cattoliche della DC e quelle dei partititi esistenti nell’epoca precedente al fascismo. E così, dal dopoguerra in poi, si è andati avanti per diversi decenni – anche grazie a leggi elettorali proporzionali – con un centro anticomunista a parole ma che mostrava all’occorrenza di sapere essere “moderatamente socialista” (in senso keynesiano). Un centro che ruotava intorno al pivot rappresentato dal partito – formalmente cattolico ma politicamente ecumenico – della Democrazia Cristiana, che governava il paese insieme ad alcune forze politiche minori (eredi dei vecchi partiti storici) riunite nel pentapartito, cambiando maggioranze e governi di frequente, ma a fronte di una sostanziale continuità di linea politica.

A questa continuità politica delle forze di governo, faceva da contraltare una sinistra comunista, che – nonostante godesse di ampio consenso nel paese – restava all’opposizione in parlamento (solo perché parte dell’internazionale socialista a trazione sovietica laddove l’Italia era invece membro del patto atlantico). A questa forte sinistra comunista – come compensazione per la mancata partecipazione al governo nonostante i vasti consensi elettorali – veniva tuttavia consentito di partecipare alla dinamica politica e sociale del paese – e dunque al suo governo di fatto – per mezzo di strumenti non istituzionali (o, per usare il lessico comunista, gramsciani); i movimenti cooperativi, il sindacalismo organizzato nella CIGL, l’egemonia negli ambienti culturali e del giornalismo e – infine ma molto importante – una forte influenza su una parte della magistratura e della pubblica amministrazione, specie in settori come la pubblica istruzione, l’università e gli enti locali.

Il quadro politico era completato dall’MSI, movimento che – al di là dei numeri parlamentari – non aveva reale influenza sulla politica nazionale, essendo a priori escluso, in quanto erede ideale del fascismo, da ogni possibilità di alleanza politica con altri movimenti sulla base della dottrina del cosiddetto “arco costituzionale”.

Si noti che in questo lungo periodo – a fronte di una sinistra rappresentata da un partito ideologico ancora rigorosamente “discendente”, essendo ispirato al marxismo-leninismo e di un partito ideologico di destra, analogamente “discendente” in quanto ispirato invece al fascismo repubblichino – i partiti della coalizione, a furia di assorbire, mescolare e moderare idee cristiane, socialiste e liberali, perdevano progressivamente i rispettivi riferimenti ideologici tradizionali. Addirittura il più ideologico di essi – vale a dire il partito cattolico, rappresentato dalla DC – col tempo aveva fortemente attenuato la propria linea politica confessionale (si pensi al divorzio e all’aborto, in cui la DC aveva assunto una posizione di fatto “morbida” nonostante la dura opposizione della chiesa), per diventare un partito in cui le diverse correnti esprimevano ormai solo altrettante sfumature di centrismo. Questo processo merita di essere sottolineato in quanto è molto importante per la nostra storia politica, segnando il passaggio – nel mondo politico italiano (quanto meno in quello non comunista) – dalla vecchia dinamica politica “discendente”, in cui cioè è il partito a proporre all’elettore un’idea di mondo e società, a una dinamica che potremmo definire “ascendente”, in cui il partito diventa sostanzialmente agnostico sul piano ideologico, assumendo il compito di “raccogliere” le istanze delle diverse categorie di elettori di cui intende captare il voto, per poi tradurle in provvedimenti di legge o in un indirizzo politico di governo che mirino a soddisfare quegli interessi. La fase del pentapartito segna dunque in Italia il definitivo tramonto delle ideologie non socialiste.

La repubblica keynesiana italiana e la nascita del ceto medio allargato

Questa lunghissima fase di stabilità politica (inaugurata da De Gasperi, proseguita da Andreotti per concludersi infine con la caduta di Craxi) si traduceva – con il consenso tacito anche dei comunisti che pure formalmente erano all’opposizione – in una politica economica connotata da un significativo intervento pubblico nell’economia (sia in chiave di capitalismo di stato che di tutela del lavoro dipendente, con un numero significativo di assunzioni di impiegati pubblici e con cospicui investimenti pubblici infrastrutturali e in servizi sociali di welfare). La politica del grande centro della prima repubblica era insomma chiaramente di stampo keynesiano, dunque con scopo (ed effetto) espansivo in termini di stimolo di domanda interna. L’inflazione generata dalle politiche in questione veniva compensata da un meccanismo di adeguamento automatico per legge dei salari al costo della vita (la cosiddetta “scala mobile”) e dalla debolezza della moneta nazionale (gestita dal tesoro con periodiche svalutazioni) che consentiva di finanziare l’inflazione con un export in continua espansione. Anche il sistema bancario, controllato dallo stato, contribuiva a sua volta alle politiche espansive incentivando e tutelando adeguatamente il risparmio privato e finanziando le piccole e medie imprese.

Questo esteso sostegno alla domanda interna favoriva la creazione e il consolidamento negli anni di un ampio ceto medio benestante con caratteristiche peculiari rispetto al resto dei paesi europei: si trattava di un ceto benestante “allargato”, nel senso che si estendeva dall’operaio e impiegato del settore privato, al dipendente pubblico, all’artigiano e al commerciante, al libero professionista e al piccolo imprenditore manifatturiero. A partire dagli anni sessanta e almeno fino al termine degli anni ottanta, in altre parole, l’Italia è stato un paese che ha goduto di prosperità non solo crescente in misura almeno pari al resto dell’Europa (diventando quinta potenza mondiale in termini economico), ma anche – e soprattutto – di un benessere distribuito e diffuso in misura superiore rispetto ad altri paesi europei. Questo accadeva perché proprio il “centro” politico riusciva bene ad esprimere e tutelare i differenti interessi di questa vasta “borghesia allargata”, laddove la sinistra comunista – per quanto all’opposizione – riusciva a rappresentare un contrappeso al potere economico della grande borghesia industriale, mantenendo una consistente pressione politica e sociale sul governo per il mantenimento di quelle politiche keynesiane che stavano alla base di un modello economico espansivo che, alla fine dei conti, conveniva a tutti, anche se non sempre per ragioni economiche.

L’esistenza di una ampia classe media benestante in Italia conveniva infatti al grande capitale finanziario e industriale (sia nazionale che straniero) per ragioni strategiche: il benessere della classe media allargata evitava infatti che il partito comunista – in un tempo in cui una guerra di invasione sovietica rappresentata ancora un rischio reale per l’Europa occidentale – portasse avanti in Italia una linea politica aggressiva, in chiave anti-occidentale e anti-capitalsita, come aveva fatto negli anni cinquanta. Nel primo dopoguerra i comunisti italiani era infatti non solo forti a livello parlamentare sia anche molto attivi (per non dire minacciosi) a livello sociale e, di conseguenza, era nell’interesse dei grandi capitalisti fare in modo che l’economia di mercato, grazie ai correttivi keynesiani, fosse percepita da più italiani possibile – specie nella classe medio-bassa di impegnati e lavoratori – come un sistema tale da assicurare (almeno in prospettiva futura) un adeguato benessere. Una piccola dote di “cose da perdere” anche per l’operaio e l’impiegato era insomma la migliore polizza a favore dei grandi capitalisti per scongiurare il rischio di innescare derive politiche nazionali troppo sbilanciate verso il socialismo reale. Per questo erano disposti a pagare il premio.

Ecco spiegato perché che il “sistema italiano” – in cui in sostanza il debito pubblico veniva usato in funzione espansiva, ossia per creare una diffusa ricchezza privata – fino alla caduta del muro di Berlino era stato accettato di buon grado non solo da chi ne beneficiava (il ceto medio allargato) ma anche da chi ne veniva in certa misura danneggiato in termini di ripartizione del plusvalore (dunque dai grandi capitalisti sia stranieri che di casa nostra). Questo significa però anche che il “modello Italia” (e dunque il benessere diffuso che aveva consentito) è stato in sostanza per alcuni decenni solamente “tollerato” dal capitalismo nazionale e internazionale per precise ragioni geo-politiche. E questo spiega anche perché – una volta caduta l’URSS – l’Italia, che ancora si ostinava a praticare ricette economiche espansive volte a garantire anzitutto il benessere della maggioranza degli italiani, sarebbe ben presto finita nel mirino di chi faceva girare i soldi sua nel nostro paese che a livello planetario.

Il muro di Berlino, il Britannia, tangentopoli e la nascita della seconda repubblica

Negli anni novanta del ventesimo secolo, con un effetto domino di una rapidità che ha stupito tutti quanti, cadono uno a uno i regimi dei paesi del Patto di Varsavia e, poi, l’URSS. La caduta del socialismo reale sovietico ed europeo provoca dunque sul piano geopolitico sia il venir meno della pregiudiziale atlantica contro i partiti socialisti occidentali sia l’utilità  – per la grande finanza e impresa (internazionale e nazionale) – delle tradizionali politiche economiche keynesiane volte a mantenere nel benessere il ceto medio allargato del nostro paese. Siamo all’epoca dell’ormai celebre incontro riservato tenutosi nel 1992 sul panfilo Britannia tra esponenti del modo politico e istituzionale nazionale e grandi nomi dell’impresa e finanza internazionali: incontro in cui – verosimilmente – si è proprio discusso del “futuro” del modello Italia.

Il terremoto geopolitico della caduta del socialismo reale europeo, in Italia porta come conseguenza tangentopoli, fenomeno che verosimilmente può essere attribuito al fatto che – caduta l’Unione Sovietica – le potenze atlantiche, e gli interessi a queste potenze tradizionalmente vicini, non avevano più un forte interesse strategico ad opporsi a che gli ex comunisti potessero partecipare al governo del paese. La contropartita per il disco verde all’ex PCI al governo in Italia era che la grande finanza internazionale – insieme alle grande famiglie capitaliste nazionali – avrebbe acquisito il controllo delle migliori imprese e banche italiane (specie tra le partecipate pubbliche, che non erano certo poche e per di più erano attive in settori di importanza strategica ed economica). La magistratura venne dunque lasciata libera – per usare un eufemismo – di azzerare il vecchio pentapartito (cosa facilitata dal già ricordato tradizionale allineamento a sinistra di una parte consistente della magistratura inquirente) per spianare dunque la strada del governo agli ex comunisti. Il tutto allo scopo ultimo di liquidare il modello keynesiano italiano per sostituirlo, come vedremo più avanti, con un modello economico più favorevole alle grandi imprese e al capitalismo finanziario.

Nonostante questo, la sinistra post-comunista – così come i centri di interesse che avevano voluto (o almeno appoggiato) la distruzione del vecchio sistema del pentapartito, essenzialmente onde favorire il passaggio in mani private del capitalismo di stato nazionale e la dismissione delle tradizionali politiche di welfare keynesiano care al nostro sistema – non aveva tenuto conto del fatto che la morte politica dei vecchi partiti di centro, non aveva fatto venir meno né l’esigenza di una sintesi tra gli interessi delle varie categorie che componevano la “borghesia allargata” del nostro paese né la predilezione del popolo italiano per il metodo – inaugurato e perfezionato per decenni dalla DC – della politica “ascendente”. In sostanza, tangentopoli era riuscita ad eliminare i partiti di riferimento di una parte del ceto medio allargato, ma non aveva eliminato il ceto medio, che (a differenza della grande impresa e della finanza) non era ancora disposto ad affidare il proprio voto a una sinistra che, dopo svariati decenni di allineamento sovietico, si era all’improvviso dichiarata post-comunista.

Per questo – e specie appunto perché, in quella fase, gli ex comunisti non avevano fatto sforzi eccessivi per apparire diversi dalla “vera sinistra” da cui discendevano – il testimone politico lasciato cadere dal pentapartito veniva agevolmente raccolto da Forza Italia, che – sbandierando il vessillo dell’anticomunismo – poteva assumere il ruolo di una parte della vecchia DC, vale a dire di collettore degli interessi di quella parte di “borghesia allargata” che ancora diffidava di un partito comunista che – a quell’epoca – aveva cambiato nome ma non faccia (e facce). Quello che mancava a questa “nuova DC” era però la capacità (ma forse la sensibilità politica) per capire che, se voleva tutelare davvero gli interessi dei propri elettori, doveva opporsi alla massiccia dismissione del sistema del capitalismo di stato e alla riduzione delle politiche keynesiane che era stato portato avanti in passato dalla “vera” DC. Dichiarandosi invece apertamente come movimento di ispirazione liberale, in sostanza per fornire di un credibile substrato ideologico la sua esigenza di porsi come movimento contrapposto alla sinistra, il partito di Berlusconi finiva invece per fare l’opposto, dunque non opporsi all’agenda di privatizzazioni e dismissioni pubbliche che interessava alla finanza internazionale e avviando tagli del welfare pubblico, non accorgendosi che – in quel modo – avrebbe aperto la via che avrebbe consentito qualche anno più tardi ai suoi avversari del PD di prendere il potere per iniziare a demolire scientificamente il benessere proprio di quello stesso ceto medio che invece Berlusconi affermava di voler tutelare. Berlusconi, politicamente parlando, è stato dunque un eccellente tattico ma un pessimo stratega. O forse è stato anche un eccellente stratega, a voler dar conto alle opinioni che leggono la sua discesa in campo come la conseguenza della necessità di tutelare soprattutto gli interessi delle imprese di famiglia, che la caduta della prima repubblica aveva messo in pericolo.

La convergenza al centro come conseguenza della discesa in campo di Berlusconi e di un sistema elettorale maggioritario

Al di là degli interessi che hanno mosso il Cavaliere ad entrare nell’agone politico, è un dato di fatto che l’entrata in scena della nuova “DC di destra” targata Forza Italia, movimento che sbaragliava alle elezioni la gioiosa macchina da guerra apparecchiata dai postcomunisti (macchina su cui, come si è detto, avevano puntato la finanza internazionale e i salotti buoni nazionali), sortiva l’effetto che gli ex comunisti – ormai orfani di Marx e del Cremlino e restati ancora all’opposizione – mandava definitivamente in soffitta la sua tradizionale dinamica politica discendente per adottare quella ascendente, trasformandosi da partito socialista a movimento liberal (nell’accezione che di questo termini viene data nei sistemi politici anglosassoni). Una simile mutazione a sinistra veniva causata soprattutto dalle leggi elettorali maggioritarie che – in seguito alla stagione referendaria seguita agli scandali di tangentopoli – avevano sostituito i vecchi sistemi proporzionali.

L’esigenza di creare due vaste coalizioni contrapposte per competere in modo efficace in sistemi elettorali maggioritari, aveva infatti indotto il centro destra di Berlusconi ad assorbire in Forza Italia gli ex democristiani di destra, i liberali, i socialisti craxiani e parte dei repubblicani, laddove il partito che era stato PCI assorbiva la maggioranza degli ex comunisti, i socialisti non craxiani e una consistente fetta del mondo cattolico facente capo alle vecchie correnti di sinistra – specie quella dossettiana, di cui Prodi era il rappresentante – della democrazia cristiana e tutto l’insieme di interessi e voti orbitanti attorno al sistema delle ACLI. Sempre per effetto del sistema elettorale maggioritario, i maggiori partiti dei due poli di centrodestra e centrosinistra, stringevano altrettante alleanze elettorali con le (poche) forze che all’epoca erano ancora polarizzate ideologicamente: a destra con il partito di Alleanza Nazionale (che aveva raccolto l’eredità politica conservatrice del vecchio MSI, sfrondando i cascami ancora troppo legati al fascismo) e a sinistra con Rifondazione Comunista.

Una menzione a parte merita la Lega Nord, nata e cresciuta negli anni novanta come movimento territoriale di protesta autonomista (dunque con una sua linea ideologica, ma svincolata dalla tradizionale contrapposizione tra liberalismo e socialismo) e poi finita nell’aggregazione di centro-destra, in cui tuttavia manteneva una posizione di relativa autonomia di linea politica, laddove l’altro alleato – Alleanza Nazionale – si sarebbe invece sempre più allineato sulle posizioni di centro moderato di Forza Italia, in sostanza puntando ai voti della borghesia allargata meno liberale e più conservatrice.

Questo spiega perché i principali partiti di riferimento dei poli di centrodestra e centrosinistra, ormai costituiti da altrettanti conglomerati di residui di forze politiche precedenti non molto omogenee ideologicamente, adottavano sempre più decisamente modelli di dinamica politica ascendente, in cui entrambi i poli, per conseguire il successo alle elezioni, tentavano in sostanza di recepire le istanze di alcune categorie e gruppi sociali senza in compenso elaborare o proporre ai rispettivi elettorati ideologie e narrazioni di sintesi strutturate secondo un determinata visione di mondo e di società. Dalla politica delle idee e dei dibattiti si è così passati – per effetto della crisi della prima repubblica e del conseguente passaggio a un sistema elettorale maggioritario – alla politica delle grandi aggregazioni elettorali, degli interessi delle singole categorie e dello strapotere dei sondaggi. Conseguenza ultima di questo stato di cose era che entrambi i poli politici – potendo già contare sulla fedeltà di voto degli elettori che erano ancora restati ideologicamente schierati a destra e a sinistra – si confrontavano soprattutto per ottenere il consenso dell’elettorato di centro, dunque dell’ampio ceto medio (per il momento ancora benestante), i cui interessi continuavano dunque ad essere ben rappresentati in parlamento.

Questa situazione – insieme alla tradizionale foga che da sempre contraddistingue il dibattito politico italiano – induceva le forze politiche ad adottare modelli di propaganda conflittuale tesa alla costante polarizzazione dell’elettorato moderato, in cui i partiti – per occultare il fatto che in sostanza proponevano agli elettori analoghe ricette – si sforzavano di convincere l’elettore (specie quello cosiddetto “moderato”) a non votare l’avversario. Mentre tuttavia nelle precedenti fasi politiche questo avveniva mediante un tentativo di discreditare l’idea avversaria, ora – dovendo combattere per il consenso di soggetti che guardavano ai propri interessi concreti e dunque ben difficilmente sarebbero stati convinti da discorsi ideologici – era necessario screditare l’avversario con argomenti “morali”. E così, dall’avversario politico (che meritava comunque rispetto, anche se professava idee ritenute sbagliate) si arriva al politico avversario eticamente “impresentabile”. Questo spiega perché, nella fase politica di battaglia per il centro combattuta negli anni novanta del secolo scorso che prende il nome di seconda repubblica, aveva assunto un ruolo politicamente sempre più importante l’intervento del potere giudiziario, specie inquirente.

Da tangentopoli in poi – per effetto delle riduzioni delle tradizionali guarentigie parlamentari costituzionali incautamente votate da tutti i partiti politici sull’onda emotiva suscitata dagli scandali politici – la lotta per la conquista del centro da parte della sinistra è stata infatti accompagnata da un florilegio di inchieste penali sui politici di centrodestra, tanto da portare alla situazione in cui sono state le procure – dunque funzionari pubblici non eletti – a decidere, con un arresto o con un avviso di garanzia (dunque prima di qualunque condanna definitiva) le sorti di governi e maggioranze parlamentari. Questo fenomeno era facilitato dall’ampia cassa di risonanza mediatica che – a differenza di un tempo – veniva fornita dai mass media (alle inchieste giudiziarie sui politici. Una simile pressione giudiziaria (ma soprattutto mediatica) nei confronti del polo di centrodestra, con ogni probabilità si piega con il fatto che Berlusconi – oltre a non piacere alle correnti della magistratura ideologicamente schierate a sinistra – aveva guastato i piani della sinistra (non solo politica) – e soprattutto di certi ambienti finanziari e della grande impresa – che avrebbero voluto consegnare il paese all’ex PCI, per ragioni che spiegheremo tra poco.

La fine delle grandi privatizzazioni come punto di crisi della seconda repubblica

Il sistema del bipolarismo aggregativo convergente verso il centro (che alcuni, per sottolinearne la discontinuità rispetto al passato consociativo, hanno chiamato “seconda repubblica”) era dunque nato dalle ceneri della guerra fredda per impulso della grande impresa e finanza nazionale e internazionale, ma – per effetto dell’imprevista discesa in campo di Berlusconi – il progetto originario (che – come vedremo più avanti – era quello di normalizzare l’Italia al contesto di una “nuova” Unione Europea governata da un centro-sinistra che, in luogo delle tradizionali ricette keynesiane, avrebbe dovuto attuare dottrine neo-mercantiliste) era però andato a monte, trasformandosi in due decenni di alternanza al governo dei poli di centro-sinistra e di centro-destra, che però – essendo accomunati da una dinamica politica ascendente e dovendo contendersi soprattutto il voto dell’elettorato di centro – portavano avanti agende politiche centriste ben poco diverse tra loro e – soprattutto – non erano in grado di distaccarsi del tutto (o quanto meno nella misura in cui avrebbero desiderato la finanza internazionale e la grande borghesia italiana) dalle politiche keynesiane del passato.

La seconda repubblica restava tuttavia ancora conveniente per i centri di interesse che avevano promosso la caduta del vecchio sistema della prima, in quanto entrambi gli schieramenti politici – da Berlusconi a D’Alema a Prodi – si erano mostrati tutti quanti assai disponibili tanto alla progressiva dismissione del capitalismo di stato nazionale quanto all’indebolimento – mediante tagli di alcuni comparti del welfare pubblico e le prime timide riforme del mercato del lavoro – della tradizionale politica economica di stimolo espansivo e supporto alla domanda interna. Se guardiamo infatti ai conti pubblici nazionali di quegli anni vediamo abbastanza chiaramente che l’avanzo primario italiano dal 1990 ad oggi è quasi sempre stato, salvo rarissime eccezioni, in terreno ampiamente positivo (questo significa che la spesa pubblica corrente e per investimenti si è mantenuta al di sotto alle entrate pubbliche da tassazione). Il debito pubblico è dunque aumentato in questi stessi anni per effetto – non della spesa pubblica, che invece veniva ridotta – bensì a causa dell’onere degli interessi sul debito pregresso che doveva ancora essere pagato a tassi altissimi per effetto delle errate previsioni da parte del tesoro negli anni precedenti. In particolare il tesoro si era indebitato a lunghissimo termine a tassi alti (oltretutto adottando strumenti finanziari rischiosi per l’emittente e assai favorevoli per i grandi operatori finanziari privati che acquistavano gli strumenti), non prevedendo l’abbassamento ulteriore dei tassi sui titoli pubblici, con la conseguenza di trovarsi negli anni successivi a dover finanziare il rinnovo di titoli pubblici con titoli che rendevano assai meno rispetto a quelli che dovevano essere rinnovati.

Questo consente intanto di confutare la narrazione, assai comune a livello di informazione mainstream, secondo cui gli italiani, ancora verso la fine del secondo millennio, avrebbero vissuto al di sopra delle proprie possibilità per effetto della spesa pubblica, giacché – da tangentopoli in poi, dunque già all’epoca di Berlusconi e Prodi e ben prima dell’inizio del rigore montiano – gli italiani avevano in realtà già affrontato riduzioni di spesa pubblica tali da consentire una serie quasi ininterrotta di significativi avanzi primari di bilancio, non riuscendo a ridurre il deficit e il debito per ragioni essenzialmente legate alla dinamica internazionale dei tassi di interesse sui titoli del debito sovrano (che in quell’epoca stavano scendendo sempre di più sia per effetto dell’adesione all’euro sia di una politica monetaria che – a livello globale – appariva sempre più imperniata sul controllo dell’inflazione piuttosto che non sull’espansione economica).

La riduzione delle politiche espansive e la stagione delle privatizzazioni non si erano peraltro tradotte in un immediato e sensibile calo della domanda interna nazionale (e dunque del benessere complessivo), essenzialmente per due ragioni: per un verso gli italiani avevano accumulato negli anni precedenti un grande risparmio privato e laute pensioni cui potevano attingere per compensare la riduzione del welfare pubblico e, per altro verso, la già ricordata discesa progressiva dei tassi di interesse a livello globale – che aveva interessato non solo il debito pubblico ma anche l’attività creditizia – aveva favorito, in un primo tempo dopo l’adesione all’Euro, un più facile ricorso al credito per le imprese e per i consumatori, specie per acquistare beni importati dall’estero (che avevano prezzi inferiori a quelli nazionali). Il ceto medio allargato, nella seconda repubblica, non percepiva dunque ancora le conseguenze del cambio di paradigma avviato con la seconda repubblica – di guisa che la domanda interna si manteneva a livelli ancora capaci di sostenere bene il tessuto delle piccole e medie imprese – solo perché gli italiani, per compensare la riduzione del welfare, avevano iniziato a utilizzare i propri risparmi e le rendite pensionistiche nonché a indebitarsi (a basso costo) per acquistare beni di importazione (a basso costo).

La cosiddetta seconda repubblica va dunque avanti secondo questo schema per un paio di decenni fino a quando gli stessi ambienti e interessi che avevano decretato il crollo della prima (e che, da tangentopoli in poi, avevano ampiamente stimolato la dismissione del capitalismo di stato nazionale e l’indebolimento delle politiche keynesiane tanto care alla vecchia DC) decidevano che – essendoci ancora poco da privatizzare e da acquistare – era arrivato infine il momento di “normalizzare” anche l’Italia al modello economico e sociale (che vedremo essere quello tedesco) che più si conformava ai loro specifici interessi. Le ragioni di un simile attentato al tenore di vita della maggioranza dei cittadini del nostro paese (perché di questo, come vedremo, si è trattato e ancor oggi si tratta) meritano tuttavia un apposito approfondimento, che per esigenze di spazio dobbiamo rinviare alla seconda parte di questo scritto, che dovrebbe essere pubblicata nelle prossime settimane sul sito della fondazione Hume e sarà dedicata, appunto, ad una approfondita analisi delle ragioni della crisi del modello del bipolarismo convergente al centro che rappresenta la quidditas della seconda repubblica.




Il debito e il sonno dei mercati

Capisco che sentirsi seduti sopra una montagna di euro sia inebriante. E’ la sensazione che doveva provare lo zio Paperone quando si tuffava fra le monete del suo deposito. E dev’essere la sensazione che provano i nostri governanti quando parlano dei 209 miliardi in arrivo dall’Europa.

Ci sono due importanti differenze, tuttavia. I soldi che arriveranno in Italia non saranno dollari, bensì euro. Ma soprattutto: lo zio Paperone sedeva su soldi propri, perché li aveva guadagnati. Invece i nostri governanti si accingono a sedersi su soldi altrui, che dovranno essere restituiti.

Qualcuno potrebbe obiettare: una parte dei soldi che attendiamo dall’Europa, più di 80 miliardi, sono a fondo perduto. Ma è un’illusione. Chi ha provato a fare i conti, come l’Ufficio Parlamentare di Bilancio, avverte che, dal momento che l’Italia è contributore netto al bilancio europeo, il beneficio effettivo per il nostro paese potrebbe aggirarsi sui 46 miliardi. Che sono meno della metà del nuovo debito che il Governo ha contratto con i tre scostamenti di bilancio approvati durante il primo semestre, e circa un terzo dell’incremento del debito pubblico intervenuto in appena 5 mesi, da febbraio a luglio di quest’anno.

In poche parole: i soldi “veri” (diversi dai prestiti) che prima o poi arriveranno dall’Europa non bastano nemmeno a ripianare il debito aggiuntivo (più di 100 miliardi) che abbiamo già accumulato nella prima parte dell’anno. L’occasione meravigliosa e “senza precedenti” che l’Europa ci offre è di aggiungere ai debiti già contratti nei mesi scorsi altri 130 miliardi di ulteriori debiti, destinati a diventare quasi 170 se ci decideremo a ricorrere anche al MES.

E’ in questa situazione che, da qualche giorno, è partito l’assalto alla diligenza delle “risorse” in arrivo dall’Europa. Centinaia e centinaia di progetti si contendono l’accesso ai nuovi fondi, come se si trattasse solo di decidere che cosa è importante per il nostro futuro. Parole fumose e astratte si inseguono nella speranza di incontrare la comprensione e la benevolenza delle autorità europee cui spetta approvare i nostri progetti di spesa: digitalizzazione, innovazione, transizione ecologica, rivoluzione verde, infrastrutture, istruzione, formazione, equità, inclusione sociale.

Quel che resta del tutto in ombra è il punto decisivo: a conti fatti la manna che arriverà dal cielo europeo è fatta solo di prestiti, e i prestiti andranno restituiti. Il che significa: il problema non è di spendere in cose che riteniamo utili al paese (su questo ognuno ha ovviamente le sue idee), il problema è di far sì che, alla fine, ogni euro speso generi più di un euro di nuovo Pil. Solo così potremo rimborsare domani i prestiti che ci vengono erogati oggi.

E’ questo che i vari piani e progetti dovrebbero essere in grado di garantire, o perlomeno rendere verosimile. E non è affatto un requisito facile. La spesa pubblica corrente di norma distrugge più risorse di quante ne crei, e gli investimenti stessi non sempre sono in grado di far crescere il Pil più di quanto costino. Molto dipende dai settori in cui si investe, dalla qualità dei piani, dai manager chiamati ad attuarli, ma ancor più da un fattore che troppo spesso trascuriamo: l’ambiente economico e istituzionale in cui l’investimento avviene. Se la burocrazia soffoca l’iniziativa privata, la giustizia civile non funziona, il mercato del lavoro è ingessato, il fisco asfissia i produttori, anche i migliori investimenti e i migliori stimoli all’economia rischiano di generare benefici modesti, o addirittura nessun beneficio netto.

Perché la politica non si pone il problema della restituzione del debito? Perché si parla e si ragiona come se i prestiti fossero finanziamenti a fondo perduto, o come se il creditore potesse dimenticarsi del debitore, o rimettere i suoi debiti “come noi li rimettiamo ai nostri debitori”?

Sinceramente non lo so. Alle volte penso che sia la nostra cultura cattolica che ci rende così irresponsabili. Come il peccatore pecca e ripecca sereno in attesa della prossima confessione o indulgenza che lo laverà di tutti i suoi peccati, forse allo stesso modo il politico pensa che alla fine si troverà una quadra, e che i debiti non debbano essere davvero restituiti.

Altre volte, invece, mi capita di pensare che dietro la rimozione del problema del debito vi sia un calcolo preciso, e cioè: il problema riguarda chi verrà dopo, noi intanto spendiamo e acquisiamo consenso, poi chi vivrà vedrà. Può darsi che sia così, che il governo giallo-rosso pensi di durare fino al 2023, spendendo allegramente i 209 miliardi del Recovery Fund, e che la restituzione del debito tocchi a Salvini-Meloni-Berlusconi, quando sarà il loro momento.

Se fosse così, sarebbe un calcolo alquanto cinico. Però, a mio parere, sarebbe anche un calcolo azzardato. La scommessa di poter fare tranquillamente le cicale per 2-3 anni, lasciando a chi verrà dopo la gestione della bancarotta del Paese, non tiene nel debito conto un’eventualità tutt’altro che remota: i mercati finanziari, che in questi mesi sono stati drogati dalle politiche dei bassi tassi di interesse, potrebbero anche svegliarsi. I calcoli della Fondazione Hume sui rendimenti dei titoli di Stato dei paesi europei segnalano che, in questi mesi, gli interessi richiesti alla maggior parte dei paesi dell’Eurozona (compresa la Francia, ma escluse Germania e Irlanda) sono molto più bassi di quanto i fondamentali dei vari paesi suggerirebbero e giustificherebbero. Il che significa: domani potrebbero essere più alti, anche molto più alti.  A quel punto i paesi indebitati fino al collo, come l’Italia, la Grecia, e il Portogallo potrebbero salvarsi da una spirale di innalzamento dei rendimenti (come quella del 2011) solo se le loro economie fossero state nel frattempo risanate, e poste su un robusto sentiero di crescita.

Perché è inutile illudersi: il debito “buono” non è quello che serve a fare le cose che i politici di turno ritengono prioritarie per il paese, ma è quello che i mercati giudicano rimborsabile. E, quando il rapporto debito/Pil è molto alto, ci sono due modi soltanto di rassicurare i mercati: l’austerità (più tasse e meno spese), che serve a diminuire il numeratore, e la crescita, che serve ad aumentare il denominatore.

Ecco perché l’enfasi esclusiva su “come spendiamo questa montagna di soldi”, e la demonizzazione delle riduzioni fiscali (fra le poche misure in grado di dare una spinta alla crescita) sono estremamente pericolose. Certo, potrebbero creare problemi solo ai governi successivi, quando i mercati si sveglieranno. Ma ne potrebbero creare anche al governo in carica, ove esso dovesse durare più a lungo del sonno dei mercati.

Pubblicato su Il Messaggero del 19 settembre 2020




Potevamo vincere il virus, il Governo ha scelto il turismo. Intervista a Luca Ricolfi

Che cosa ci dicono i dati sull’andamento del virus elaborati dalla Fondazione Hume?
La Fondazione pubblica quotidianamente un termometro dell’epidemia, che monitora l’andamento del numero di contagiati. Ebbene, il termometro segnava 1.5 gradi pseudo-Kelvin alla fine di luglio, oggi sfiora gli 8 gradi. Questo significa che il numero di contagiati è almeno quintuplicato in poco più di un mese.
Un’altra cosa che facciamo è valutare la capacità dei vari paesi di intercettare i contagiati. E’ un’operazione essenziale, perché i dati dei nuovi casi (i più usati dai mass media) sono del tutto fuorvianti: 1000 casi in più in Italia, che ha una bassa capacità diagnostica, sono molto più preoccupanti che 1000 contagiati in più in Germania, un paese che, grazie al numero di tamponi e alla capacità di tracciamento, ha una capacità diagnostica ben superiore alla nostra.

Che evoluzione c’è stata in questi mesi?
Forse, riguardo all’Italia, in questo momento il dato più significativo è l’inversione di tendenza delle curve dei morti e dei ricoverati in terapia intensiva.  In poche settimane abbiamo avuto una triplicazione (decessi) e una quadruplicazione (terapie intensive). La svolta nella curva epidemica risale alla seconda metà di giugno (noi l’abbiamo segnalata il 18 giugno sul sito: www.fondazionehume.it), ma il governo – fino a Ferragosto – è stato del tutto sordo ai nostri allarmi, e non solo ai nostri. Anche la Fondazione Gimbe, con il prof. Nino Cartabellotta, anche virologi autorevoli come Andrea Crisanti e Massimo Galli, si sono sgolati per mesi avvertendo del pericolo di una ripartenza dell’epidemia, ma è stato tutto vano. Il governo non voleva vedere né sentire.

I virologi consigliano di guardare il numero dei ricoverati e non quello dei contagiati per capire l’andamento dell’epidemia: è d’accordo?
Hanno perfettamente ragione, il numero di ricoverati è molto più significativo. Però anche il numero di ricoverati ha dei problemi, due soprattutto. Il primo è che la Protezione Civile non fornisce il numero di ingressi in ospedale (dato di flusso), ma solo quello degli ospedalizzati (dato di stock), che è altamente fuorviante: se avessero fornito il numero di ingressi in ospedale, che non si sono mai fermati, ci si sarebbe accorti che l’epidemia andava assai meno bene di quanto suggerisse la stazionarietà o la diminuzione del numero di ospedalizzati. Il secondo problema è che l’andamento del numero di ospedalizzati sottostima fortemente l’andamento dei contagi quando l’età mediana dei contagiati si abbassa, perché i giovani finiscono in ospedale molto più raramente degli anziani. In concreto questo significa: negli ultimi 30 giorni le persone in terapia intensiva sono “solo” quadruplicate, ma i contagiati potrebbero essere aumentati anche di 7 o 8 volte.

Il governo Conte si è proposto come modello di gestione della pandemia, ma lei ha sconsigliato di prendere l’Italia come esempio. Perché?
Perché, fra le società avanzate (che sono più di 30) ci sono solo 3 paesi che hanno registrato più morti per abitante di noi, e cioè Belgio, Regno Unito, Spagna. Persino gli Stati Uniti, che i nostri media descrivono come un paese dove si è scatenata l’Apocalisse, hanno meno morti per abitante di noi. Ma non è l’unica ragione per cui considero l’Italia come un modello da non imitare, ce ne sono almeno altre due.

Quali?
La prima è che l’Italia ha gestito malissimo il ritorno a scuola, commettendo alcuni errori madornali, primo fra tutti la mancata riduzione del numero di alunni per classe. La seconda è che l’Italia è uno dei pochi paesi che sono riusciti nel capolavoro politico di rilanciare l’epidemia e al tempo stesso affossare l’economia.

Chi bisognerebbe seguire? La “solita” Germania?
Sì, la Germania si è comportata benissimo, era organizzata e pronta già a febbraio con i tamponi e il tracciamento. Ma, se devo indicare dei modelli, più che un singolo paese indicherei una categoria di paesi, che per brevità chiamerò i “paesi disciplinati”. Si tratta di paesi che, per le ragioni più diverse (la religione, la tradizione, la cultura), hanno una ampia riserva di senso civico, rispetto per l’autorità, propensione a seguire le regole. Fra questi c’è sicuramente la Germania, ma ci sono anche altri paesi europei di area germanica o asburgica (Austria, Svizzera, Ungheria), o di religione luterana (paesi scandinavi), nonché buona parte delle democrazie asiatiche più o meno influenzate dal confucianesimo e dal buddismo (Giappone, Corea del Sud, Taiwan). Se si vanno a vedere i tassi di mortalità per il Covid di questi paesi, si scopre che sono tutti molto inferiori a quelli dei maggiori paesi europei, come Regno Unito, Francia, Spagna, Italia.

A chi va attribuita la ripresa dei contagi? Ai giovani incontrollabili e amanti del rischio? Alla voglia generalizzata di sfogarsi dopo i mesi di isolamento? O è semplicemente un’evoluzione naturale della malattia alla quale dovremmo adeguarci?
No, il Covid si poteva sconfiggere, anche se non debellare completamente, quando (a giugno) i contagi erano scesi a 2-300 al giorno. Quello era il momento di moltiplicare i tamponi e mettere restrizioni severe ai viaggi per motivi turistici, sia verso l’estero sia verso l’interno. Alcuni governatori, ad esempio quelli della Sardegna e della Sicilia, l’avevano capito, ma sono stati messi a tacere dall’imperativo categorico di salvare la stagione turistica, costi quel che costi.

Le autorità sanitarie dovevano seminare tra la gente ancora più paura del Covid?
No, le autorità sanitarie avrebbero dovuto limitarsi a dire la verità, senza cambiarla a seconda dei giorni, dei programmi televisivi, o di chi fosse l’intervistato di turno.

Che messaggi ha dato il governo ai cittadini in questi mesi con la sequela di regole incoerenti su bus, treni, aerei, scuole, discoteche, aperitivi, mascherine a orario?
E’ molto semplice. Il governo ha scelto di dare messaggi contraddittori, perché ognuno potesse raccontarsi la situazione come voleva. Il governo desiderava che ci sfrenassimo, per risarcirci del lockdown e far ripartire l’economia, ma non poteva dire che non c’erano pericoli, perché sarebbe stato accusato di “procurata epidemia”. Ha scelto di lasciarci credere che i pericoli fossero tutto sommato limitati, senza prendersi la responsabilità di affermarlo esplicitamente.

Perché per la scuola si parla soltanto di regole da applicare, dai banchi mobili a chi deve rilevare la temperatura, senza che nessuno si sia preoccupato di una riforma più complessiva?
E’ da almeno vent’anni che, quando si parla di scuola, si parla solo di cattedre, graduatorie, edilizia, orari, senza alcun riferimento alla funzione di trasmissione culturale. Questo governo si è limitato a continuare sulla strada dei predecessori, dopo essersi liberato dell’unico ministro (l’on. Fioramonti) che sulla scuola e sull’università forse qualche idea ce l’aveva.

Alla fine del lockdown lei disse che il governo si giocava una “scommessa rischiosa”: lasciava riprendere l’economia e consentiva di fare le vacanze sperando che in autunno la situazione sarebbe stata diversa. Scommessa vinta o persa?
Strapersa, direi. Anche perché stagione fredda e influenze non potranno che peggiorare ancora le cose.

Nel suo ultimo libro (La società signorile di massa, La nave di Teseo), pubblicato subito prima dello scoppio della pandemia, lei sostiene che l’Italia si sta trasformando in una “società parassita di massa”. Le decisioni prese finora dal governo a colpi di bonus confermano la sua analisi. E’ una tendenza ineluttabile?
Temo di sì, perché anche a destra le spinte stataliste e assistenziali sono molto forti (quota 100 l’ha inventata Salvini). La realtà è che le forze pro-impresa e pro-mercato, non eccessivamente compromesse con l’assistenzialismo, non rappresentano più del 30% dell’elettorato.

A chi si riferisce?
Fratelli d’Italia, Forza Italia, Azione (Calenda), Italia viva (Renzi), più qualche esponente isolato del Pd, come il sindaco di Bergamo Giorgio Gori.

I soldi promessi dall’Europa serviranno davvero per ripartire o sarà l’ennesima iniezione di assistenzialismo parassitario?
La seconda che ha detto.

Lei ha scritto che del Covid si è parlato finora come minaccia per la salute e per l’economia, e non per la nostra psiche. Che intende?
Che non ci si può dividere stabilmente fra impauriti e incoscienti, e che il Covid è destinato a degradare la rete delle nostre relazioni sociali. Se dura ancora a lungo, diventerà anche un problema psichiatrico, perché l’umanità non è programmata per vivere temendo sistematicamente l’altro, quando l’altro è parte della propria comunità, rete di amici, cerchia famigliare.

Davvero ci avviamo verso una società in cui gli altri sono soltanto un pericolo?
No, perché una società di questo tipo non è una società. Se il Covid dura, e non si trova un vaccino né una cura, quella verso cui ci avviamo è una società di bolle, o monadi, o vasi non comunicanti: piccole cerchie di persone, che si vedono fra loro e minimizzano i contatti con il resto del mondo. Con buona pace della globalizzazione.

Posso chiederle che cosa voterà al referendum, se voterà?
Vivo buona parte dell’anno a Stromboli, non mi sposto certo a Torino per scegliere fra il sì e il no al referendum. Il problema è che chi vota no rafforza la casta, chi vota sì rafforza l’anti-casta, ma nessuno sa quale delle due fa più danni all’Italia.

Intervista di Stefano Filippi a Luca Ricolfi, La Verità, 14 settembre 2020




Altro che modello italiano sulla pandemia. Intervista a Luca Ricolfi

Un anno particolare, segnato dalla pandemia e da una crisi economica senza precedenti. Dove si torna a discutere del ruolo dello stato sociale e soprattutto della scuola e della sanità pubblica in una società, quella italiana, per la quale Luca Ricolfi, politologo e sociologo, ha coniato l’espressione “società signorile di massa” (una società dove molti consumano ma pochi producono perché si fonda sulla ricchezza accumulata dai padri).

Professor Ricolfi, mancano meno di due settimane all’inizio dell’anno scolastico. Lo considera l’ultimo banco di prova della tenuta dello stato di emergenza? Si sente ottimista?
Né ottimista né pessimista, perché purtroppo mancano (o meglio sono secretati) i dati che permetterebbero di formulare previsioni solide. Quello che posso dire, con i pochi dati che la Protezione Civile e l’Istituto Superiore di Sanità rilasciano, sono essenzialmente due cose.
La prima è che fra i paesi avanzati, che sono una trentina, solo tre – Belgio, Spagna e Regno Unito – hanno un bilancio complessivo di morti (per abitante) peggiore di quello dell’Italia.
La seconda è che, se guardiamo al solo mese di agosto, le cose vanno un po’ meglio per noi: l’Italia è intorno alla metà della classifica fra i paesi avanzati, e fra i grandi paesi solo Germania, Giappone, Corea del Sud, presentano tassi di mortalità più bassi dei nostri.

Didattica a distanza, cattedre vuote, edilizia scolastica in condizioni critiche, è il momento di ripensare tutto il modello della nostra istruzione pubblica oppure non c’è spazio che per la gestione dell’emergenza?
Veramente è da mezzo secolo che sarebbe il momento di ripensare il sistema dell’istruzione. Magari non pensando solo all’edilizia e alle graduatorie dei precari ma anche al fatto che la qualità dell’istruzione (e dei docenti) si è abbassata drammaticamente, e ora con la didattica a distanza si appresta a ricevere il colpo di grazia. Travolte dalle pressioni a promuovere, per dare all’Europa i numeri che pretende, scuola e università sono diventate macchine per produrre false certificazioni, o meglio certificati veri indistinguibili da quelli falsi.

Altri Paesi adesso guardano con interesse al modello Italia, almeno per la gestione sanitaria del Covid-19.  Crede che la nostra consapevolezza e la profilassi ormai entrata nelle abitudini quotidiane ci eviteranno un ritorno al lockdown?
A giudicare dai risultati, sconsiglierei qualsiasi paese di seguire il modello italiano, fatto di ritardi, disorganizzazione, leggerezza nel far rispettare le regole, incapacità di far ripartire l’economia. Siamo al 4° posto in Europa come numero di morti per abitante, e all’ultimo come andamento del Pil 2020. Come si fa a parlare di modello italiano?
Se dovessi additare dei modelli, citerei piuttosto quello della Germania e quello della Corea del Sud, due paesi che molti media stanno descrivendo come attualmente più inguaiati di noi, ma che in realtà si stanno comportando meglio: anche considerando il solo mese di agosto, il numero di morti per abitante della Germania è poco più della metà di quello dell’Italia, e quello della Corea del Sud è circa un sesto.

Emergenza sanitaria ed economia non sono mai stati così correlati. Quando saremo fuori dal pericolo del contagio tornerà il modello economico che è entrato ora in crisi o cambierà qualcosa?
Una cosa nuova ci sarà di sicuro, anche se la pandemia dovesse miracolosamente sparire nel 2021: il mondo occidentale si troverà ad avere perso ulteriori posizioni nella competizione con la Cina.
Sul fatto che possa tornare il modello economico precedente, ho i miei dubbi, almeno per l’Italia. Noi eravamo già una “società signorile di massa” in declino. Questi mesi li abbiamo usati per tappare le falle e congelare tutto, senza la minima attenzione a creare le condizioni di una ripartenza. Quel che mi aspetto, quindi, è un brusco risveglio nel primo semestre 2021, quando ci si accorgerà che non si può andare avanti in eterno con i sussidi e il blocco dei licenziamenti.

Lo smart working secondo lei cambierà il volto delle nostre città e il settore dei servizi?
Sì, lo cambierà, con un abbattimento parallelo dei costi e della qualità.

Più volte lei ha lamentato in passato il rischio di finanziamenti a pioggia per riparare i danni economici di questa crisi. Ma è davvero possibile in un momento simile pianificare interventi a lungo termine?
Certo che è possibile, basta togliere la parola “pianificare”. Non si tratta di pianificare, ma di creare un ambiente – meno tasse e meno burocrazia – che consenta ai produttori di restare sul mercato o di entrarvi. L’alternativa è di diventare una “società parassita di massa”, in cui una piccola minoranza lavora e la maggioranza vive di trasferimenti.

Dalle prime misure di marzo a oggi il governo ha dovuto prendere decisioni poco popolari. Ora che siamo tornati in campagna elettorale crede sia difficile conquistare il consenso degli elettori senza perdere di vista il bene comune?
Era già impossibile prima, figuriamoci oggi. Il governo Conte è un mirabile esempio di esecutivo basato esclusivamente sulla massimizzazione del consenso, anzi del consenso di breve periodo.

A proposito di elezioni, cosa pensa del referendum confermativo sul taglio dei parlamentari?
Penso che qualsiasi cosa si voti si sbaglia. Votando sì, si legittima il qualunquismo grillino, e si rafforza un governo che ha già notevolmente compromesso il nostro futuro. Votando no ci si accoda a un penoso tentativo di vestire di nobili intenzioni (la Costituzione, la Democrazia, ecc.) la fame di posti del ceto politico.

Le Regionali in piena pandemia e durante una conclamata crisi economica che banco di prova rappresentano per il governo?
Nessuno può saperlo. Se hanno avuto il fegato di fare un governo che se ne infischia di un voto politico (quello del 2018), non mi stupirei restassero abbarbicati al potere di fronte a un voto amministrativo, anche dovessero perdere in 6 Regioni su 6. Se proprio devo immaginare degli scenari capaci di mettere in crisi l’attuale governo, le eventualità che mi vengono in mente sono altre, nessuna auspicabile: 1 milione di posti di lavoro distrutti, una tempesta finanziaria, una nuova chiusura di scuole e università, una proliferazione dei focolai e dei connessi lockdown.

Intervista di Pierfrancesco Borgia  a Luca Ricolfi, Il Giornale, 2 settembre 2020