Il Follemente corretto: dalla libertà di espressione alla società dell’omologazione – Intervista di Alessandra Ricciardi a Luca Ricolfi

D. Siamo passati dalla schiavitù del politicamente corretto alla gabbia del follemente corretto. Professore lei quando se ne è accorto?
R. Non c’è un momento preciso, è stato un processo lento che ha avuto però un’accelerazione intorno al 2020, quando stavo iniziando a lavorare al mio libro La mutazione. Come le idee di sinistra sono migrate a destra (Rizzoli). Lì ho capito che la libertà di espressione era gravemente compromessa, specie negli Stati Uniti e massimamente nelle università di quel paese, e che l’attivismo trans stava mettendo a repentaglio sia alcuni diritti delle donne, primo fra tutti quello di proteggere i propri spazi protetti nei centri anti-violenza, nelle competizioni sportive, nelle carceri e dei minorenni, sia il diritto dei minorenni a non essere manipolati e precocemente avviati a percorsi di modificazione del sesso.

D. Lei ha censito nel libro la quantità di pronomi che il follemente corretto ha imposto per le identità sessuali.  Una tale proliferazione non è in fondo la negazione stessa di una identità sessuale?
R. Sì, la tendenza è a rendere evanescenti, soggettivi, e indefinitamente riprogrammabili sia l’identità sessuale, che quella di genere (ma ci sono anche casi di cambio di razza, e persino di età). Che tutto questo non conduca, specie fra i minorenni, a gravi problemi di identità, sicurezza e autostima è tutto da dimostrare.

D. Eppure secondo le ultime ricerche i fenomeni di bullismo, in particolare a sfondo sessuale, non fanno che aumentare così come le violenze verso le donne. Si è molto attenti alle classificazioni, ma non alle parole che nella vita quotidiana si usano. Si ha la sensazione di vivere in un deserto di emozioni, in cui manca il senso dell’altro e dunque il rispetto per la persona. Come lo spiega?
R. Mutamenti così complessi non sono spiegabili con una formula. Come sociologo, qualche anno fa ho provato a leggere i fenomeni che lei richiama con il concetto di “società signorile di massa”, ma oggi sento il bisogno di arricchire quella chiave
interpretativa con altri tasselli, che vengono soprattutto dalla psicanalisi e dalla psicologia sociale. Mi riferisco, in particolare, all’evaporazione del padre e all’insofferenza per ogni limite o attesa. Checché ne dicano tante femministe, non viviamo affatto in una società patriarcale, semmai in una società maschilista che – come ha più volte spiegato Massimo Recalcati – aspira al godimento immediato, ma è incapace di desiderio, che è fatto anche di attesa, rinuncia, sacrificio, dilazione della gratificazione.

D. Il follemente corretto ha il potere di condizionare pubblicità, far ripulire opere d’arte, romanzi, film, cartoni per ragazzi. Siamo arrivati al punto di dover rinnegare la nostra storia e anche noi stessi?
R. Sì, è il grande tema del rimorso dell’occidente, ma anche del nostro nichilismo, che Nietzsche aveva capito e profeticamente descritto già 150 anni fa.

D. Utero in affitto come diritto di chi cerca la maternità, imposizione del non genere sessuale che soppianta anche il femminismo, diritti dei migranti a immigrare, alcune delle iperboli del politicamente corretto. Perché hanno così tanta presa presso le élite?
R. Le élite, proprio perché vivono molto più agiatamente delle masse popolari, hanno continuamente bisogno di mostrare la loro virtù e la loro sollecitudine nei confronti dei deboli, ma dato che occuparsi dei veri deboli e dei loro bisogni (a partire dal welfare) costerebbe uno sproposito, hanno trovato una soluzione geniale: occuparsi dei diritti LGTBT+, che costano pochissimo, e dei migranti, che costano relativamente poco in termini di accoglienza e salvataggi, e in compenso forniscono manodopera a basso costo a datori di lavoro più o meno spregiudicati. Nel mio libro sulla società signorile di massa avevo contato ben 3.5 milioni di ipersfruttati, o para-schiavi, di cui né i sindacati né le forze politiche sembrano intenzionate ad occuparsi.

D. Siamo alla contrapposizione tra classe dirigente e popolino, alla faccia dell’inclusione…
R. Sì, la classe dirigente accoglie, e il popolino spesso paga il conto, sotto forma di insicurezza e concorrenza sleale sulle paghe.

D. Lo sa che lei con questo libro ha consacrato il suo essere antiprogressista?
R. Non direi, semmai ho invitato i progressisti ad esserlo davvero, occupandosi di diritti sociali e abbandonando la zavorra del follemente corretto. I diritti civili vanno benissimo, ma solo se non sostituiscono quelli sociali e accettano dei limiti,
innanzitutto in materia di utero in affitto e di cambio di sesso dei minori.

D. Lei continua a massacrare tutti i luoghi comuni o totem della sinistra italiana.
R. È la sinistra, non solo italiana, che me li offre su un piatto d’argento.

D. Se a sinistra vige il follemente corretto, a destra vale il politicamente scorretto. Piace perché è più popolare?R. Il politicamente scorretto di una parte della destra non mi piace per niente, perché è semplicemente l’altra faccia del follemente corretto: una reazione eguale e contraria. Quel che io e tanti altri rivendichiamo è semplicemente la piena libertà di espressione, il diritto di parlare come ci pare senza subire processi sommari per le parole che usiamo.

D. Sulla gestione dei migranti, tema molto sentito sia in Europa che in Usa, capace di condizionare intere campagne elettorali anche progressiste, l’ultimo decreto del governo Meloni sugli hotspot in Albania è stato giudicato negativamente dagli italiani, stando ai sondaggi. Come lo spiega?
R. C’è stato un enorme deficit di comunicazione da parte del centro-destra.

D. Che cosa non è stato spiegato dal governo?
R. Molte cose, ma innanzitutto i costi. La gente si è fatta l’idea che i costi fossero esorbitanti, e che con quei soldi si sarebbero potuti ridurre i tempi di attesa nella sanità pubblica. La realtà è che il costo procapite (per ogni italiano) è di 2 euro all’anno, una goccia nel mare della spesa sanitaria, che è di 2300 euro procapite. Chiunque capisce che 2 euro su un budget di 2300 sono un’inezia, che non sposta minimamente le cose.

D. Diciamo che la destra è capace di andare al potere, ma ancora non riesce a comunicare?
R. Sì, la comunicazione non funziona bene. Ma non è l’unica criticità: le vicende del Ministero della cultura suggeriscono che i problemi non siano solo di comunicazione, ma più in generale di selezione e gestione della classe dirigente.

[intervista uscita su Italia Oggi il 31 ottobre 2024]




Politica e morale

Ha suscitato un certo scalpore, a sinistra, la recente vicenda di Inigo Errejón, deputato progressista spagnolo, portavoce della coalizione SUMAR, un raggruppamento di una ventina di sigle di sinistra radicale che, con il loro 12% di consensi, hanno permesso al socialista Pedro Sanchez di formare il suo terzo governo, con vicepresidente Yolanda Diaz, storica dirigente di Unidas Podemos (unite possiamo), primo e unico partito europeo che usa il femminile sovraesteso.

I fatti, in breve. Pare che, qualche anno fa (era il 2021) il vispo quarantenne abbia aggredito sessualmente l’attrice Elisa Mouliaa, chiudendo a chiave la stanza in cui si trovava con lei e mostrandole il membro. Fin qui è una notizia orribile fra le tante, e non è
neppure certo che sia vera (sarà un processo a stabilirlo, o meglio a stabilire la verità giudiziaria sulla vicenda).

Quel che è interessante è lo sconcerto con cui la notizia è stata presa da molti. Ma come, una persona così per bene, così istruita, così progressista, così impegnata sulle battaglie a difesa delle donne, come è possibile che si comporti in questo modo? Da uno così “non ti aspetti che ti spinga sul letto, che chiuda la porta a chiave e che per quanto tu gli dica che cosa stai facendo sguaini la prova evidente del suo genere, in questo caso maschile, con la non benvenuta intenzione di condividerla” (Concita De Gregorio su Repubblica).

Lasciando da parte i giri di parole scelti per descrivere un’aggressione sessuale, concentriamoci sullo sconcerto, ben evidenziato anche dal titolo dell’articolo (“Il MeToo che non ti aspetti”). Ecco, a me quello che sconcerta è lo sconcerto. Notate bene: non il
dispiacere, la rabbia, l’indignazione, l’orrore, il disgusto, ma proprio lo sconcerto. Lo stupore. L’accadere di una cosa “che non ti aspetti”.

Ma perché mai dovremmo non solo sentire disgusto, ma pure stupirci? Qual è la matassa di pregiudizi da cui un simile stupore scaturisce? L’articolo citato lo spiega bene, quando snocciola la serie di antecedenti della vita di Errejon, antecedenti da cui sarebbe stato lecito aspettarsi un comportamento più civile: il ragazzo era “cresciuto negli scout”, “si è laureato alla Complutense di Madrid, la più prestigiosa e selettiva delle università”, nientemeno che “con tesi di critica alle egemonie e studio delle identità”. E poi, soprattutto, “ha fondato il primo partito che usa il femminile sovraesteso per definirsi” (Unidas Podemos), “a compensazione della millenaria sopraffazione lessicale”.

L’elenco delle fonti di stupore non potrebbe chiarire meglio qual è l’idea di fondo sottostante: le aggressioni sessuali non te le aspetti dai maschi istruiti, meno che mai se sono progressisti. Implicazione logica: suscitano meno stupore se provengono da maschi di ceto basso, specialmente se sono di destra.

Ma qual è la base empirica di simili credenze? Non sono a conoscenza di alcuno studio che permetta di affermare che le persone colte e di idee progressiste siano meno propense a commettere reati sessuali delle persone poco istruite e di destra.

Forse sarebbe meglio che cominciassimo a prendere in considerazione un’ipotesi più semplice e più basica: le aggressioni sessuali sono il precipitato di un mix, singolare e a suo modo unico, di esperienze, circostanze contingenti, vicende personali, pressioni
ambientali, condizionamenti culturali, disturbi della personalità, che possono – per un determinato individuo – condurlo a comportarsi in un determinato modo.

Pensare che la cultura o le credenze politiche possano esercitare un effetto sistematico su comportamenti così estremi e ripugnanti è ingenuo. Soprattutto, è ingenuo pensare che l’ideologia possa influenzare in modo apprezzabile i comportamenti, a sinistra come a destra. Se l’ideologia contasse davvero, i politici conservatori e pro-famiglia non sarebbero quasi tutti divorziati o conviventi, e i maschi che lavorano nel mondo dello spettacolo (quasi tutti progressisti) non incapperebbero così sovente in scandali sessuali.

E il principio vale anche per altri comportamenti. Pensate all’evasione fiscale: se l’ideologia contasse davvero, gli insegnanti che danno ripetizioni private (in maggioranza progressisti) non accetterebbero di farlo in nero, come quasi sempre fanno.

Ma, forse, non tutto il male vien per nuocere: lo scandalo Errejon è l’occasione, per la sinistra, di liberarsi del complesso di superiorità morale che da sempre l’affligge.

[articolo uscito sulla Ragione il 29 ottobre 2024]




«A forza di includere tutti ci siamo esclusi noi» – Intervista di Maurizio Caverzan a Luca Ricolfi

Il politicamente corretto come isteria diffusa. Nel suo nuovo saggio il sociologo ne sfata le «follie», specialmente nella politica di una sinistra elitaria, con esempi tragicomici e paradossali. Dal banchetto Lgbtq+ alle Olimpiadi di Parigi agli abbagli del patriarcato, passando per i «sì» a prescindere con l’islam. Così un’ideologia a costo zero sostituisce persino la lotta per l’uguaglianza.

Maneggiando magistralmente il bisturi della ragione, nel suo nuovo saggio Il follemente corretto (La Nave di Teseo), Luca Ricolfi, docente di Analisi dei dati, presidente e responsabile scientifico della Fondazione David Hume, viviseziona la nuova patologia contemporanea: «L’inclusione che esclude» e ha portato all’«ascesa della nuova élite».

Professore, il «follemente» del titolo è sinonimo di eccentricità o di vero impazzimento, come se vivessimo in una distopia dolce?
È vero impazzimento, purtroppo, ma la distopia che ne è venuta fuori non è affatto dolce. Il follemente corretto ha le sue vittime:
la libertà di espressione, le donne, i ceti popolari.

Le propongo un gioco: dovendo comporre il podio delle «follie corrette» in cui si è imbattuto a chi assegnerebbe i primi tre posti?
Mi mette in imbarazzo, perché di follie clamorose ce ne sono almeno 10-15, su 42 episodi selezionati. L’eventuale graduatoria dipende dal criterio. Se ci interessa il grado di demenzialità, segnalerei (1) la proibizione di salutare con il «care signore e cari signori» (per non escludere chi non si sente né maschio né femmina), (2) la censura di espressioni come «elefante-nano» e «l’evoluzione è cieca» (per non offendere nani e ciechi), (3) il regolamento dell’Università di Trento che obbliga a declinare tutti i ruoli al femminile. Se invece ci interessa l’impatto sociale, ovvero la capacità di opprimere o discriminare, segnalerei (1) l’invasione degli spazi femminili nelle carceri e nello sport, (2) le persecuzioni delle donne «gender-critical», (3) le discriminazioni nei confronti dei bianchi eterosessuali nelle università e più in generale nelle politiche di assunzione.

Il follemente corretto è una fenomenologia o un’ideologia, aggiornamento del progressismo?
Il follemente corretto è tante cose, ma fondamentalmente è una forma di isteria – individuale e collettiva – che si propaga attraverso meccanismi intimidatori e ricatti morali. In un certo senso è un mix di narcisismo etico, nella misura in cui rafforza l’autostima, di esibizionismo etico, nella misura in cui viene sbattuto in faccia al prossimo, e di bullismo etico, quando si accanisce su una o più vittime. Ne abbiamo avuto un esempio recente, quando l’assessore alla cultura del Comune di Livorno, Simone Lenzi, è stato sottoposto alla gogna e costretto alle dimissioni per alcuni post ironici sugli aspetti più ridicoli della dottrina woke. Il sindaco che l’ha licenziato ha illustrato in modo mirabile che cos’è il bullismo etico: ti caccio e ti punisco per mostrare a tutti la mia superiore moralità.

Com’è capitato che l’eguaglianza, stella polare della sinistra, sia stata sostituita dall’inclusione?
La storia di questa metamorfosi non è mai stata ricostruita accuratamente. Se guardiamo alla teoria, direi che un contributo importante l’ha dato Alessandro Pizzorno, uno dei più illustri sociologi italiani, che a metà anni Novanta ha esplicitamente proposto la sostituzione della coppia uguaglianza/ disuguaglianza con la coppia inclusione/esclusione. La sua idea, energicamente e saggiamente contrastata da Norberto Bobbio, era che – con la nuova coppia – sarebbe diventato più facile per la sinistra presentarsi come paladina del bene, perché pro-inclusione, e bollare la destra come incarnazione del male, perché pro-esclusione.

È l’unica molla di questa metamorfosi?
No, se guardiamo ai meccanismi sociali, la spiegazione più convincente è di natura economica: le battaglie sui diritti delle
minoranze sessuali hanno costi bassissimi perché – a differenza di quelle per l’eguaglianza – non richiedono di cambiare la
distribuzione del reddito, e in compenso permettono di reclutare chiunque, perché a tutti piace sentirsi dalla parte del bene. Tutto
questo è diventato tanto più vero dopo il 2010, quando l’esplosione dei social ha permesso davvero a tutti di partecipare al concorso di bontà e ai riti di lapidazione del dissenso con cui i buoni rafforzano la propria autostima.

Perché, in un certo senso, la cerimonia inaugurale delle Olimpiadi di Parigi è stata un momento di svolta nell’espressione del follemente corretto?
Per almeno due ragioni. Primo, perché ha sancito il disprezzo delle élite che controllano le istituzioni per i sentimenti del pubblico, che ovviamente non poteva essere tutto pro-woke e pro- gender. Secondo, perché ha portato anche dentro lo sport una tendenza da anni presente nell’arte, ovvero l’ambizione di indottrinare il pubblico. Con la scusa della «sensibilizzazione», da anni la letteratura sta facendo prevalere i messaggi etico-pedagogici sulla qualità artistica. Dopo Parigi sappiamo che analoga opera di snaturamento è destinata a colpire lo sport.

Chi maneggia la neolingua sono docenti, magistrati, operatori dell’industria culturale, giornalisti: in forza di cosa un’élite vuole pilotare il linguaggio comune?
In forza del suo potere e, soprattutto, della propria autoriproduzione. Esattamente come succede con la burocrazia, che proprio attraverso l’uso di una lingua specializzata e esoterica riproduce sé stessa e si immunizza rispetto a qualsiasi potere esterno. Ne sanno qualcosa i politici, i cui piani sono spesso vanificati o deviati dal controllo che i burocrati esercitano sulle procedure.

Perché siamo così preoccupati che le comunità musulmane si offendano se a scuola si fa il presepio a Natale?
Perché siamo malati di eccesso di zelo e sottovalutiamo il buon senso di tanti musulmani.

Che cosa ha causato l’inimicizia che si è instaurata fra i rappresentanti del mondo transessuale e il femminismo storico?
La prepotenza del mondo trans, o meglio delle lobby che lo hanno monopolizzato.

I casi del ministro Eugenia Roccella e dei giornalisti Maurizio Molinari e David Parenzo ai quali, in occasioni diverse, è stato impedito di presentare un libro o di parlare in università, mostrano che certi custodi del correttismo scarseggiano di basi democratiche?
Il vizietto di non lasciar parlare gli altri è, da sempre, la tentazione dell’estrema sinistra, anche quando non era woke.

Nella Carmen di Leo Muscato al Maggio fiorentino del 2018 la gitana addirittura ammazza don José perché non si perpetri un altro femminicidio. Il maschicidio è meno grave?
Agli occhi dei cultori del follemente corretto sì, a quanto pare.

Perché, come evidenziato dal silenzio sul caso di Saman Abbas, la ragazza uccisa per aver rifiutato di sposare il prescelto dal padre, le femministe tacciono sulla grave subalternità delle donne arabe?
Perché le femministe hanno riflessi condizionati di sinistra, e la sinistra –  almeno dai tempi di Bettino Craxi – ha un occhio di
riguardo per il mondo islamico.

Come si spiega il silenzio delle sigle femministe sulla pugile intersessuale Imane Khelif nel torneo femminile di boxe delle ultime Olimpiadi?
Veramente qualche femminista, per esempio Marina Terragni e il suo gruppo, non è stata in silenzio. Ma la realtà è che il femminismo classico boccheggia, sopraffatto dal cosiddetto femminismo intersezionale.

Perché si attribuiscono al patriarcato tante violenze contro le donne se il principio d’autorità e la figura del padre sono da anni realtà in via d’estinzione?
Perché uno dei tratti distintivi di larghe porzioni del femminismo è la pigrizia intellettuale, in parte dovuta alla mancanza di strumenti sociologici di tipo analitico.

Individuare la causa sbagliata della violenza sulle donne implica che tante energie per la loro la difesa sono sprecate?
In realtà, una spiegazione non fumosa e non ideologica della violenza sulle donne non esiste ancora.

Che cosa pensa della «lotta agli stereotipi» espressa dal pullulare di «mammi» negli spot pubblicitari?
Mi diverte molto, ma è un segnale che mette a nudo il conformismo dei creativi.

Perché chi va a vivere in un paesino di montagna rinuncia alla spiaggia vicina, ma molti omosessuali maschi vorrebbero piegare la legge al loro presunto diritto di avere figli?
Perché il rifiuto di ogni limite, quello che i greci chiamavano hybris, è il tratto fondamentale del nostro tempo. Un tratto che, combinato con la cultura dei diritti, genera rivendicazioni surreali; penso alla coppia gay che si sente discriminata perché
nata senza utero.

Il diffondersi della cultura woke negli Stati Uniti assomiglia a una nuova forma di maccartismo?
Sono simili, ma è come paragonare una tigre a un gatto: il wokismo è un maccartismo al cubo.

Perché la destra fatica a organizzare una resistenza efficace al follemente corretto?
La destra è minoranza nelle istituzioni fondamentali: magistratura, quotidiani, università, scuole, case editrici, associazioni e
fondazioni più o meno benefiche.

Il follemente corretto ha punti deboli che ne causeranno il declino o diventerà la religione del futuro?
Il follemente corretto dà già segni di declino, specie negli Stati Uniti. I suoi punti deboli sono l’incoerenza logica e il fatto che toglie voti alla sinistra. Kamala Harris l’ha capito, Elly Schlein no. O non ancora?




I giudici e l’Albania

E così anche i 12 migranti (maschi, maggiorenni, non fragili) trasferiti in Albania sono stati riportati in Italia, infliggendo un duro colpo – non sappiamo ancora se fatale – al progetto di (parziale) esternalizzazione delle frontiere del governo Meloni.

La base di questa decisione della magistratura è presto detta. I giudici hanno ritenuto che, per stabilire se i paesi di rimpatrio (Egitto e Bangladesh) potessero essere considerati sicuri, non bastasse la legislazione nazionale (che considera esplicitamente sicuri quei 2 paesi), ma si dovesse tenere conto di una recente pronuncia della Corte di Giustizia Europea (4 ottobre 2024), che ricalca la legislazione italiana, ma se ne discosta su un punto cruciale.

Partiamo dalla legislazione italiana, che si basa su un decreto legislativo del 2008 (e suoi successivi aggiornamenti). Secondo questa fonte un paese può essere considerato sicuro “se sulla base del suo ordinamento giuridico, dell’applicazione della legge
all’interno di un sistema democratico e della situazione politica generale, si può dimostrare che, in via generale e costante, non sussistono atti di persecuzione (…), né tortura o altre forme di pena o trattamento inumano o degradante, né pericolo a causa
di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”.

Fin qui non ci sono radicali scostamenti con la Direttiva europea. Le differenze sorgono al momento di esplicitare se il requisito di sicurezza debba valere per tutto il territorio e per qualsiasi categoria di persone, o possa invece prevedere eccezioni (territori insicuri o categorie perseguitate).

La formulazione italiana afferma che “la designazione di un Paese di origine sicuro può essere fatta con l’eccezione di parti del territorio o di categorie di persone”.

La formulazione europea, invece, afferma che le condizioni di sicurezza “devono essere rispettate in tutto il territorio del paese terzo interessato”.

Come si vede, si tratta di due approcci decisamente diversi. Se ne potrebbe dedurre che, se deve prevalere l’approccio europeo, in quanto sovraordinato a quello nazionale, bene ha fatto il tribunale di Roma a considerare non sicuri Egitto e Bangladesh, ad esempio perché in entrambi i paesi l’omosessualità è reato, o per le torture inflitte a Giulio Regeni in Egitto.

Le cose, però, non sono così semplici. Una valutazione non faziosa della vicenda Albania dovrebbe prendere in considerazione alcuni aspetti problematici.

Il primo è che, se interpretata letteralmente, la sentenza europea dovrebbe condurre a considerare non sicuri la maggior parte dei paesi del mondo, compresa l’Italia: più di metà dei paesi del mondo non sono democratici; in più di metà degli stati africani
l’omosessualità è reato; anche nei paesi democratici vi sono porzioni di territorio insicure, controllate dalla criminalità, in cui nemmeno la polizia osa entrare; per non parlare degli abusi delle forze dell’ordine, dal caso Floyd negli Stati Uniti al caso
Cucchi in Italia.

Si potrebbe obiettare che la norma europea non va interpretata letteralmente. Giusto, ma allora salta fuori il secondo aspetto problematico: può essere un giudice, o un collegio giudicante, a decidere quando le eccezioni sono abbastanza lievi da
consentire di qualificare un dato paese come sicuro, e quando sono così gravi da obbligarci a qualificarlo come non sicuro?

Insomma, anche fossimo in presenza di una magistratura imparziale, equilibrata, non politicizzata, è sensato conferirle un potere così spropositato?

Che la risposta sia no si può dedurre da un parallelo e da una considerazione collaterale: ci sono innumerevoli situazioni in cui, nonostante le questioni da decidere siano meno complesse di quella della sicurezza di un intero paese, la legge prevede il
ricorso a periti, esperti, tecnici, specialisti di qualche materia, disciplina o ambito scientifico. Nel caso del problema dello “sicurezza” di un paese, la figura che viene immediatamente in mente è quella del sociologo, e subito dopo quelle degli esperti di
diritto internazionale e di scienza politica. Di qui la domanda: come mai per problemi molto più semplici e circoscritti, come le valutazioni psichiatriche su un imputato, appare ovvia le necessità di ricorrere a un esperto, possibilmente non prevenuto, e
invece, per un problema enormemente più complesso e multidimensionale come la valutazione complessiva della sicurezza di un paese straniero, si presume che possa essere un magistrato a emettere un parere vincolante, nonostante la questione su cui
deve decidere abbia ovvie connotazioni politico-ideologiche?

E il bello è che, se a un sociologo serio si ricorresse, la prima obiezione che farebbe sarebbe la seguente: cari signori, la vostra definizione di “paese sicuro” è troppo vaga, per non dire confusa (noi diciamo fuzzy, ossia sfumata, mal definita) per consentirmi di formulare una risposta; siate molto più precisi, datemi una “definizione operativa”, e allora proverò, entro qualche mese, a fornirvi una valutazione.

Così parlerebbe il nostro ipotetico sociologo interpellato. E, nel caso dei migranti portati in Albania, non riuscirebbe a non chiedere: ma scusate, come avete fatto voi giudici, su una questione così complicata, a decidere in poche ore?

[articolo inviato alla Ragione il 20 ottobre 2024; battute: circa 5200]




La grande ipocrisia – Paesi sicuri?

Al momento, nessuno può sapere come la vicenda Albania andrà a finire. Può darsi che il governo italiano trovi una via per far valere la propria lista di paesi sicuri, come può essere che questa via non venga trovata, e in Albania possano finire solo una
piccolissima minoranza dei migranti irregolari intercettati. Vedremo.

In attesa degli eventi, può non essere inutile guardare la questione migratoria non in termini giuridici e formali, ma in termini concreti e sostanziali. A me pare che, alla base, quello cui stiamo assistendo sia lo scontro fra due visioni generali al momento
del tutto incompatibili.

Secondo la prima visione, uno Stato ha tutto il diritto di limitare gli ingressi sul proprio territorio, e l’esercizio del diritto di asilo non può essere assoluto e incondizionato. Ci sono circostanze nelle quali le modalità di ingresso e le norme a tutela di chi è già entrato possono confliggere con la domanda di sicurezza dei cittadini, e la politica ha non solo il diritto ma il dovere di fornire risposte a tale domanda.

Secondo la visione opposta i migranti, da qualsiasi paese provengano, hanno tutto il diritto di entrare in un paese per chiedere asilo o protezione, e le loro richieste devono essere processate nel rigoroso rispetto dei diritti umani (più o meno estensivamente
definiti), anche a costo di minare la sicurezza o altre legittime aspirazioni dei paesi ospitanti.

A chi appartengono queste due visioni?

Qui interviene una importante asimmetria. La prima visione, chiusurista, è fatta propria da quasi tutti i governi di destra, ma negli ultimi tempi ha cominciato a suscitare interesse anche da parte di alcuni governi progressisti o liberali, come quelli
di Danimarca e Polonia. La seconda visione, aperturista, è fatta propria da quasi tutti i governi progressisti ma è anche sostenuta e incoraggia dalla stragrande maggioranza degli organismi sovranazionali o transnazionali che si occupano di migrazioni e/o di
diritti umani: Corte Europea di Giustizia, Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Amnesty International, giusto per fare alcuni esempi fra loro assai diversi. Questo significa che, in via generale, lo scontro fra destra e sinistra è complicato dal fatto che
alcuni governi di sinistra stanno con le destre anti-migranti, ma ancor più dal fatto – ben più incisivo – che le sinistre pro-migranti possono sempre contare sulla sponda dei giudici e degli organismi che si occupano di migranti, per loro natura favorevoli alle istanze di questi ultimi.

Ma come si risolve questo conflitto?

Finora è stato risolto con l’escamotage, vagamente ipocrita, del concetto di “paese sicuro”: i migranti che non hanno diritto all’asilo o ad altre forme di protezione possono essere rimpatriati, ma solo se provengono da un paese sicuro (e se esistono
accordi di rimpatrio). E qui scatta l’inghippo. Le definizioni di paese sicuro finora formulate nelle legislazioni nazionali ed europee sono così ambigue, confuse e farraginose da lasciare larghi margini di interpretazione ai giudici, siano essi nazionali o europei. Da questo punto di vista l’ira dei politici contro i giudici appare abbastanza fuori bersaglio: se scrivi leggi poco univoche, non puoi poi lamentarti se i giudici le interpretano secondo la loro visione del mondo, che è tendenzialmente (e intransigentemente) pro-diritti umani. Questa indeterminatezza non riguarda solo le leggi europee, ma anche quelle italiane. Prendiamo, a titolo di esempio, la definizione che di stato sicuro dà il decreto legislativo 25 del 2008: uno stato sarebbe da
considerare sicuro “se, sulla base del suo ordinamento giuridico, dell’applicazione della legge all’interno di un sistema democratico e della situazione politica generale, si può dimostrare che, in via generale e costante, non sussistono atti di persecuzione […] né tortura o altre forme di pena o trattamento inumano o degradante né pericolo a causa di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale. La designazione di un Paese di origine sicuro può essere fatta con l’eccezione di parti del territorio o di categorie di persone” (sottolineature aggiunte).

La formulazione sembra presupporre che per essere sicuro il paese debba essere democratico (più di metà dei paesi del mondo non lo sono), ma anche che certe violazioni dei diritti umani possano essere tollerate se limitate a certe porzioni del territorio o dirette verso specifiche categorie di persone (in più della metà dei paesi africani l’omosessualità è un crimine). Ma chi stabilisce se un paese è sufficientemente democratico? Chi stabilisce quanto piccole devono essere le porzioni di territorio insicure, o quanto irrilevanti debbano essere le categorie perseguitate per poter concedere a un paese lo status di paese “sicuro nonostante…”? Sulla base della medesima formulazione, si può stiracchiare il concetto di paese sicuro fono a considerare insicuri tutti i paesi non democratici, o viceversa a considerare sicuri paesi che si macchiano di orrendi crimini, ma limitati a certe porzioni di territorio o a certe categorie di persone.

Insomma, voglio dire che, se si vuole limitare i rimpatri legittimi ai paesi sicuri, quello di cui avremmo bisogno non è una definizione astratta, che inevitabilmente ogni corte e ogni giudice interpreterà secondo la propria visione del mondo, ma che i
governanti europei partoriscano una lista esplicita dei paesi sicuri o, se non hanno il coraggio di compilare tale lista, che autorizzino ogni paese a compilare la propria.

Quello che non possiamo permetterci è di non cercare un compromesso fra le due opposte visioni del problema migratorio. Perché la visione chiusurista non può che condurre a gravi violazioni dei diritti umani dei migranti, ma quella aperturista non può non portare ad altrettanto gravi violazioni dei diritti dei cittadini europei, primo
fra tutti il diritto alla sicurezza.

[articolo uscito sul Messaggero il 20 ottobre 2024]