Federalismo fiscale addio – Intervista a Luca Ricolfi

  1. Il Sacco del Nord, Federalismo addio. Cosa è cambiato in Italia da quando ha scritto quel testo?

Impossibile dare una riposta rigorosa. Il sacco del Nord, che è una radiografia degli squilibri territoriali, è stato scritto nel 2009, e ha richiesto un anno di lavoro a tempo pieno a me a alle mie collaboratrici. Per aggiornare la radiografia, ci vorrebbe un altro anno di lavoro, che peraltro fotograferebbe la situazione del 2020, stante la lentezza con cui escono i dati necessari. Quindi le rispondo lo stesso, ma avverto che nessuno ha i dati e gli strumenti per dare una risposta circostanziata.

Bene, data la lentezza con cui si modificano gli squilibri territoriali, la cosa più probabile è che poco sia cambiato. Probabilmente, se potessimo aggiornare Il sacco del Nord, ritroveremmo squilibri simili.

1bis. E cioè?

Che il Nord stacca ogni anno un assegno di 50 miliardi (che nel frattempo saranno alquanto lievitati, causa inflazione) a favore delle regioni del Sud, ma anche di alcune regioni inefficienti del Centro e del Nord. E che quell’assegno, oltre a coprire l’eccesso di spesa pubblica corrente del Sud (che è “solo” di 12 miliardi), copre le inefficienze nella erogazione dei servizi (20 miliardi) e il mancato gettito fiscale (18 miliardi), dovuto all’abnorme tasso di evasione della maggior parte delle regioni meridionali.

La vera differenza rispetto al 2010, quando uscì il mio libro, è che mentre allora si poteva temere che la Lega avrebbe tradito il progetto federalista (un dubbio che espressi allora, perché gli indizi c’erano tutti), ora è evidente che alla Lega quel progetto non interessa più. Molti l’hanno dimenticato, ma secondo le promesse di allora, oggettivate nella legge 42 del 2009, il federalismo avrebbe dovuto decollare entro 5, massimo 10 anni. Qualcuno lo ha visto?

Del resto è stato il Parlamento stesso, nel 2019, a certificare che quella legge è rimasta largamente inattuata, nonostante i partiti che l’avevano proposta siano stati quasi sempre al governo.

  1. Ha sempre la stessa idea sull’Autonomia?

Sì e no. Penso, come pensavo allora, che – in teoria – il federalismo fiscale sarebbe un’ottima via per far ripartire la crescita, che in Italia è ferma da quasi 30 anni. Ma, a differenza di allora, penso che ormai sia troppo tardi e che i politici non abbiano la minima intenzione di attuare quel progetto. Il che si vede anche dalla domanda che lei mi ha posto: come mai mi parla di autonomia, dopo trent’anni di discorsi sul federalismo fiscale?

La ragione è semplice: il ceto politico attuale del federalismo fiscale se ne infischia, perché comporterebbe un costoso (elettoralmente) richiamo alla responsabilità dei territori, e preferisce assecondare la spinta del ceto politico locale ad espandere la propria sfera di intervento. E, di conseguenza, le proprie possibilità di acquistare consenso con la spesa pubblica e l’aumento dei propri poteri regolativi e autorizzativi. Un progetto politico che, giustamente, viene portato avanti in nome dell’autonomia, senza alcun riferimento al federalismo fiscale.

  1. La riforma proposta dal ministro Calderoli può funzionare?

Certo. Dal momento che non stabilisce nulla, nessuno può affermare che non funzionerà.

  1. Condivide le proteste dei governatori del Sud?

Le capisco, più che condividerle. È possibile che, nell’attuazione dell’Autonomia, i territori che più dissipano risorse e meno contribuiscano al gettito fiscale, possano essere costretti a subire qualche ridimensionamento. Ma secondo me lo scenario più verosimile è quello di un ulteriore aumento della spesa pubblica in tutti i territori, compresi quelli che dovrebbero ridurla.

  1. Sono legate probabilmente al fatto che ci sono Regioni che in questo particolare momento hanno maggiori difficoltà economiche rispetto ad altre?

No, sono legate alla consapevolezza che – con l’Autonomia – il paradigma vittimario con cui il Mezzogiorno ha finora negoziato il proprio rapporto con lo Stato centrale potrebbe subire un’incrinatura, perché la gestione della riscossione e dei servizi pubblici del Sud è indifendibile. E, prima o poi, quel paradigma potrebbe dover competere con il paradigma responsabilista di Dambisa Moyo, la coraggiosa scrittrice zambiana che – giusto nel 2009, anno in cui in Italia veniva approvata la legge 42 sul federalismo fiscale – pubblicava Dead Aid, il suo libro più famoso (La carità che uccide. Come gli aiuti dell’Occidente stanno devastando il Terzo mondo).

Una delle lezioni di quel libro è che gli aiuti ai territori sotto-sviluppati, se prolungati, privi di controllo e meccanismi di mercato, possono favorire la nascita di una classe politica inefficiente e priva di senso di responsabilità, con il risultato di bloccare lo sviluppo anziché promuoverlo.

  1. Si è parlato anche di macroregioni. Potrebbe essere la strada da seguire?

E’ la vecchia e saggia idea della Fondazione Agnelli, ma il ceto politico locale si opporrà con tutte le sue forze: macroregioni significa anche riduzione dei poteri dell’immensa rete di vassalli, valvassori e valvassini che si spartiscono il potere locale. Contrariamente a quanto sembra credere Bonaccini (e con lui tanti altri governatori e sindaci) gli amministratori locali – anche quando governano bene – sono una delle forze più ostili alla razionalizzazione e semplificazione della Pubblica Amministrazione.

  1. Altro tema il presidenzialismo. L’Italia è matura?

La maturità degli italiani è fuori discussione. E’ il ceto politico che non è maturo per varare una riforma delle regole del gioco senza mettere in primo piano gli interessi egoistici delle forze politiche coinvolte.

  1. Cambiando argomento, oggi tornano gli anarchici. Cosa sta succedendo nel Paese?

Sta succedendo che, come sempre, un piccolo problema gestibile (un terrorista che fa lo sciopero della fame) è stato trasformato in un grande problema ingestibile per la miopia delle forze politiche. E qui mi riferisco sia al duo Delmastro-Donzelli, sia al quartetto Orlando-Serracchiani-Verini-Lai.

  1. Considerando la crisi attuale, possiamo e dobbiamo temere qualcosa, considerando che più di qualcuno non condivide la linea troppo atlantista del governo, secondo i più assoggettata agli Stati Uniti?

Certo che dobbiamo temere qualcosa! Dobbiamo temere la terza guerra mondiale, che la classe politica occidentale sta rendendo ogni giorno più probabile. E questo non perché mandiamo armi all’Ucraina, ma perché – come ha spiegato nei giorni scorsi il generale Fabio Mini – non abbiamo alcuna ipotesi seria su come far terminare questa guerra. Non esiste un end state, un obiettivo finale che si cerca di raggiungere. Dire che l’unica soluzione è la resa della Russia, con il ritiro integrale dall’Ucraina, significa preferire il rischio di una guerra nucleare piuttosto che accettare un compromesso sui territori occupati. E il fatto che l’opinione pubblica sia poco preoccupata per la guerra è pericolosissimo, perché favorisce e alimenta l’irresponsabilità dei governanti. Zelensky a Sanremo è il simbolo perfetto di tutto ciò: l’orchestra europea continua a suonare mentre il Titanic affonda.

 

[intervista al quotidiano L’identità, 7 febbraio 2023]




L’auto-jamming della sinistra

Sapete che cos’è un jammer? Fondamentalmente, è un apparecchio per disturbare e neutralizzare, fino a mandarlo in tilt, qualsiasi dispositivo che funzioni emettendo onde radio. Ladri, servizi segreti, investigatori, guardie del corpo se ne servono quotidianamente, in modo più o meno legale, per rilevare e confondere i propri nemici, in una sorta di evoluzione moderna e ipertecnologica dell’antico comando “facite ammuina”.

Da quando la destra è al governo, però, c’è una novità assoluta: il jamming, anzi l’auto-jamming è entrato prepotentemente nell’arena politica. Vediamo come funziona.

La sinistra odia la destra, ed è convinta (per lo più sinceramente) che da quella parte lì non possa uscire nulla di buono. E infatti la destra non le fa mancare buone occasioni di conferma: prima un decreto anti-rave discutibile e mal scritto; poi una serie di condoni più o meno mascherati; poi l’innalzamento del tetto al contante; poi le restrizioni alle Ong; poi gli interventi pasticciati sul reddito di cittadinanza. Di fronte a tutto questo, la sinistra grida, strepita e si indigna, e fa benissimo a farlo, dal suo angolo visuale.

Ma poi succedono alcune cose. La destra al governo non si limita a fare e dire cose discutibili, insensate, o genuinamente di destra. La destra dice e fa anche cose di puro buonsenso, o cose che la sinistra aveva già fatto, o cose nuove ma genuinamente di sinistra; e persino cose che la sinistra poco prima le aveva chiesto di fare.

Esempi: la destra dice che, di norma, i telefonini non si possono usare in classe; la destra proclama che a scuola occorre premiare il merito; la destra vara provvedimenti molto favorevoli ai ceti popolari, e pure provvedimenti molto sgraditi ai ricchi e ai ceti medi.

Ed è qui che scatta l’auto-jamming, che colpisce un po’ tutto il mondo progressista, ma tocca vertici inarrivabili di masochismo con il Pd. Anziché compiacersi che la destra faccia anche cose condivisibili, o addirittura recepisca consigli della sinistra (ad esempio sul cuneo fiscale, o sul Pos), non resiste alla tentazione di riclassificare come negativo tutto ciò che la destra pensa, dice o fa. Può accadere, così, di ascoltare accuse di arretratezza, luddismo, anti-modernismo, ostilità alla tecnologia allorché un ministro ripropone la vecchia circolare di Fioroni (ministro del governo Prodi) sull’uso dei telefonini. E si deve assistere, con sconcerto, al fiorire di articoli e articolesse contro il merito, fino a ieri apprezzato dalla sinistra, ma – ora che piace alla destra – riconcettualizzato come strumento di selezione, discriminazione, esclusione, umiliazione dei non meritevoli. Per finire nel grottesco quando, di fronte alla legge di Bilancio, si deve registrare l’assoluta incapacità di comprendere che le misure più incisive sono pro-ceti bassi e anti-ceti alti.

Il risultato è una drammatica perdita, da parte degli esponenti della sinistra, delle proprie coordinate ideologiche e ideali. Di fronte ai segnali imprevisti della destra, la macchina mentale della sinistra non reagisce riprogrammandosi per tenerne conto e auto-correggersi, ma andando in confusione, come un impianto di allarme messo in crisi da un ladro che lo disturba con un jammer. Anziché accorgersi che la destra fa anche cose di sinistra, rinuncia alle proprie bandiere per il solo fatto che alcune di esse sono entrate nel discorso della destra. Anziché prendere atto che le proprie previsioni catastrofiche – aumento dello spread, bocciatura dell’Europa, cancellazione dei diritti civili – sono risultate clamorosamente errate, tenta maldestramente di confermare il modello che le ha generate, a dispetto di ogni evidenza empirica contraria. Insomma, si comporta nel modo che Karl Popper denunciava nel marxismo e nella psicanalisi, due modalità della conoscenza incapaci di apprendere dai propri errori.

Un modo di operare profondamente antiscientifico. Ma anche il più autolesionistico possibile.




La chimera della “congruità”

Se voleva attirare l’attenzione sull’esistenza del suo partito (“Noi moderati”, meno dell’1% dei consensi), forse Maurizio Lupi poteva scegliere una proposta migliore di quella che, per qualche ora, è circolata nei giorni scorsi. Dire, come in un primo tempo è stato detto, che un’offerta di lavoro deve essere accettata anche se “non congrua”, pena la perdita del sussidio, non è certo la via più saggia per riformare il reddito di cittadinanza.

Al di là del modo in cui si vorrà rimediare a questo ennesimo infortunio parlamentare, il problema della “congruità” resta. Che cosa è la congruità?

In tutte le formulazioni della legge, ossia quella originaria (2019) e quella del governo Draghi (2022), il concetto di congruità è piuttosto pasticciato, e in parte mal definito. Per congruità, infatti, si intende da un lato la coerenza dell’offerta con le esperienze e competenze maturate dal percettore del reddito di cittadinanza, dall’altra la sua adeguatezza in termini di sicurezza, reddito, distanza da casa, il tutto tenendo conto della durata dello stato di disoccupazione e del numero di offerte già ricevute. Nella versione Draghi, ad esempio, la distanza da casa massima è di 80 km da casa se il posto offerto è a tempo pieno e indeterminato, e inoltre costituisce la prima offerta, mentre, se costituisce la seconda offerta, la distanza da casa può essere qualsiasi (purché entro il territorio italiano). La definizione di congruità si complica poi ulteriormente se il lavoro offerto è a tempo parziale o determinato, o se il percettore di reddito di cittadinanza è al secondo utilizzo. Per non parlare delle regole che intervengono al momento di definire il livello minimo di reddito che il posto di lavoro offerto deve garantire.

Ma è ragionevole il modo in cui la legge vigente nel 2022 definisce un’offerta come congrua?

A mio parere no, per due distinti motivi. Il primo è che l’obbligo di accettare un’offerta in qualsiasi parte d’Italia, che scatta già alla seconda offerta, dovrebbe essere accompagnato da garanzie reddituali differenti a seconda che l’offerta obblighi oppure no a trasferire il domicilio, e a seconda del costo della vita nel nuovo domicilio. Manca, in altre parole, un meccanismo che permetta di misurare il valore economico dell’offerta, e su questa base fissi la soglia che obbliga ad accettarla. Credo che, se questo meccanismo venisse messo a punto in modo ragionevole, molte offerte che ora appaiono congrue cesserebbero di esserlo. E penso che la ragione per cui, finora, il problema delle offerte formalmente congrue, ma in realtà impossibili, non è ancora esploso, sia solo che la macchina che dovrebbe mettere in contatto domanda e offerta di lavoro non è mai stata messa in condizione di funzionare a dovere.

Il secondo motivo per cui la normativa attuale mi pare poco ragionevole è la pretesa che l’offerta sia coerente con “le esperienze e competenze maturate”. Questo è un tipico requisito fuzzy, sfumato, o mal definito, che come tale si presta a controversie e interpretazioni soggettive. Rendere obiettiva e impersonale la valutazione del grado di coerenza è praticamente impossibile, anche perché i titoli di studio sono spesso ben lungi dal certificare le capacità, conoscenze e capacità effettive dei loro possessori. Qui le strade mi paiono solo due: o si fornisce una definizione operativa plausibile della coerenza (vasto programma), oppure si taglia la testa al toro e si sopprime questo requisito, almeno nei casi in cui il posto offerto è a tempo pieno e indeterminato, e il salario è al di sopra di una determinata soglia.

L’unica alternativa da evitare mi pare quella di aggrapparsi al reddito di cittadinanza com’è, ossia nella versione severa ma tutto sommato iniqua attuale. Non solo il Pd e il Terzo Polo, ma anche i Cinque Stele farebbero bene a prendere atto che quella legge, sia nella versione originaria, sia in quella modificata dal governo Draghi, è piena di limiti, difetti e ambiguità. Prima fra tutte la chimera della “congruità”.




Ma che senso ha dirsi anticomunisti?

Le guerre civili dei padri sono sempre state da noi fonti di insanabili divisioni ideologiche tra figli e nipoti. Nel nostro tempo, però, abbiamo una significativa variante: le divisioni continuano ma una parte della barricata (i paladini del Bene) è sempre più piena mentre l’altra (i vinti della storia) è sempre più vuota. Un regime come il fascismo caduto quasi ottant’anni fa continua ad essere il nemico mortale di una nutrita schiera di giornalisti, professori, militanti di partito, acchiappafantasmi, mentre a farne l’apologia è una sparuta, esaltata – e spesso violenta – minoranza che nulla sa di Giovanni Gentile o di Gioacchino Volpe. A un destino analogo, però, è andato incontro anche un altro ‘caro estinto’ meno lontano, il comunismo. Oggi è considerato il principio di ogni male, il volto feroce e sanguinario della tirannide: solo che dalla parte giusta della barricata si trovano tanti che avevano osannato al ‘sol dell’avvenire’ e, dalla parte sbagliata, quei pochissimi fedeli a cui nessun Gulag riesce a far cambiare idea. Forse dovremmo ricordarci, anche per i regimi politici, dell’antico adagio ‘parce sepulto’ e, soprattutto, chiederci perché, nel caso del comunismo, almeno a est dell’Elba, vi siano tanti nostalgici (come certi taxisti moscoviti sospiranti: “ah quando c’era Stalin!”) che non sembrano apprezzare le benedizioni della democrazia liberale. Diceva Sandro Pertini, che la peggiore delle democrazie è preferibile alla migliore delle dittature. Sono d’accordo ma non tutti la pensano così e molti non riescono a dimenticare le performances sociali e assistenziali dei regimi esecrati dalla retorica liberale. Nel mondo umano non c’è salto dalla luce della libertà politica all’inferno della dittatura. C’è democrazia e democrazia, dittatura e dittatura e, spesso, le seconde si affermano per l’incapacità delle prime ad assicurare ai popoli un minimo di legge e di ordine. Quando Kruscev era in auge gli analisti americani ritenevano che se i russi avessero potuto votare liberamente, Kruscev sarebbe stato rieletto. A una democrazia liberale è più utile lo scetticismo di Montaigne che il fideismo dei nuovi liberali, ciechi davanti alla storia e alle sue lezioni di realismo.

Dino Cofrancesco




Niente luna di miele tra elettorato e destra vincente

Cos’è la luna di miele politico-elettorale? Lo sappiamo: è quel periodo post-voto, di lunghezza variabile, in cui l’elettorato di un certo paese tende a premiare il partito, la coalizione, il candidato che ha appena vinto le elezioni, facendo progressivamente lievitare il livello di fiducia nel governo uscente. Così, nelle settimane successive alla consultazione legislativa, si assiste spesso al cosiddetto “bandwagon effect”, la tendenza cioè ad appoggiare il partito vincente e, talvolta, addirittura a riscrivere la propria storia elettorale, ristrutturando ilproprio ricordo di voto in favore di chi ha vinto le elezioni.

Un fenomeno che capita frequentemente, soprattutto nei paesi di tradizione cattolica, a causa della rilevanza della comunità, del senso di appartenenza collettivo, ma anche in quelli di tradizione protestante, sia pur in misura minore. Quando vinse Obama negli Usa 2008, ad esempio, un sondaggio effettuato un mese dopo la sua elezione mostrava come il vantaggio del presidente uscente sul suo sfidante McCain si era incrementato di 6-7 punti percentuali, rispetto al voto presidenziale (da 7% a 14%). Da noi Silvio Berlusconigiunse ad un livello di popolarità prossima al 60% nei mesi successivi alla sua vittoria elettorale contro Veltroni, sempre nel 2008, quasi venti punti oltre la quota di voti che ottenne la sua coalizione alle elezioni politiche.

La domanda che ci poniamo oggi, in riferimento al nuovo governo uscito dalle urne tre mesi orsono, è dunque ovvia: sta accadendo anche per Giorgia Meloni e il suo esecutivo, per Fratelli d’Italia e la coalizione di centro-destra (o, se si preferisce, di destra-centro) questo incremento di fiducia, questa apertura di credito chiamata appunto luna di miele?

Ci sono due aspetti da considerare, nell’analizzare questa situazione, due aspetti che a volte viaggiano nella medesima direzione, ma che a volte non risultano del tutto correlati: il primo è, come ho detto, il livello di approvazione nell’operato del governo e del suo capo; il secondo è l’orientamento di voto a favore della coalizione o del partito di governo.

Per quanto riguarda il primo punto, è indubbio che sia Giorgia Meloni che il suo esecutivo abbiano goduto in questo periodo di un deciso incremento di fiducia, con giudizi positivi che superano di una decina di punti quelli negativi. In particolare, il gradimento per la leader di Fratelli d’Italia è passato dal 40% circa durante il periodo elettorale all’attuale 55%, grazie in particolare all’ulteriore miglioramento dei giudizi provenientidall’elettorato di centro-destra.

E proprio quest’ultimo è in realtà l’elemento rilevante che ci permette di descrivere più compiutamente anche il secondo aspetto, vale a dire l’orientamento di voto, che vede certo in ulteriore crescita la principale componente della coalizione governativa, cioè Fratelli d’Italia, ma è una crescita legata al passaggio di voto proveniente dagli altri partner della coalizione stessa, Lega e Forza Italia. Non si verifica dunque unsignificativo incremento di consensi per l’area di governo, ma solamente una sorta di ridistribuzione in favore della maggiore forza politica. Fratelli d’Italia passa dal 26% delle politiche all’attuale 30-31%, a scapito appunto, in prevalenza, degli altri partner dell’attuale esecutivo (si veda il grafico).

Per poter parlare di “luna di miele” deve verificarsi almeno una di queste condizioni: un significativo passaggio di voti (virtuali, ovviamente) prevenienti da altre aree elettorali e/o un chiaro appeal del governo all’interno della fascia di elettorato meno interessato alla politica (astensionisti o indecisi). Nessuna di queste due situazioni sembra essere presente in queste settimane: le defezioni tra le forze politiche di opposizione(Pd, M5s o Terzo Polo) in favore del governo sono molto limitate, nell’ordine di un paio di punti percentuali complessivi; i giudizi favorevoli al governo da parte dei recenti astensionisti appaiono decisamente minoritari, al contrario di quanto accadeva durante il governo Draghi.

Dunque, è certamente vero che Fratelli d’Italia e Giorgia Meloni possono oggi contare su una maggioranza sia parlamentare che elettorale decisamente solida, benché non riescano a far presa sulla cosiddetta “area grigia” (indecisi e astensionisti), ma questa situazione appare largamente favorita dalla presenza di una opposizione sempre più incapace di esercitare un ruolo di possibile alternativa.