L’Italia del post covid come laboratorio politico e sociale per un neo keynesianesimo non socialista

C’era una volta in Italia la sinistra. Era per lo più comunista e stava all’opposizione. Un’opposizione numericamente importante e molto influente a livello sociale. Al governo invece, dalla fine della guerra sino a tangentopoli, stava la democrazia cristiana, un partito un po’ cattolico, un po’ di destra ma anche un po’ di sinistra. Con Craxi il partito socialista, che era stato di sinistra, passava dall’opposizione al governo, diventando anch’esso di centro. Questo equilibrio tra sinistra di piazza e centro di governo ha funzionato per decenni, dando luogo a politiche economiche e sociali – di tipo keynesiano – capaci di creare un benessere diffuso ed esteso a diversi strati della popolazione. Eppure il miracolo italiano si fondava su un equivoco ideologico.

Soltanto la DC è stato infatti il movimento che ha davvero perseguito in Italia politiche keynesiane, mentre il PCI (insieme ai socialisti del dopoguerra) era un movimento politico profondamente legato al marxismo sovietico, che – di conseguenza – non ha mai condiviso ideologicamente quelle ricette. I comunisti accettavano le politiche democristiane, certo, ma esclusivamente per pragmatismo ed esigenza tattica, perché – rispetto alle ricette proposte dai liberali – il keynesianesimo democristiano conduceva a risultati più favorevoli per proletari e impiego pubblico (tradizionali bacini elettorali del PCI). Ma i comunisti, quelle ricette, non perdevano occasione per criticarle con forza “da sinistra”. Keynes – in altre parole – non è mai stato “abbastanza socialista” per un partito che considerava ancora Mosca il suo modello ideale di società. Dunque occorre dirlo chiaro: i nostri socialisti (quelli ortodossi) non sono mai stati keynesiani e mai hanno considerato Keynes “uno dei loro”. Del resto, non poteva che essere altrimenti, essendo noto che lo stesso J.M. Keynes aveva criticato il marxismo, giungendo a dichiarare apertamente di non riuscire a capirlo e di non trovarvi nulla di interessante.

A riprova di questo atteggiamento del socialismo storico nazionale verso l’economista britannico citiamo qui sotto – dal sito dell’Avanti – ampi stralci di un articolo di Gianfranco Sabattini del 26 novembre 2019 in cui si riassumono con chiarezza le ragioni per cui i socialisti ortodossi affermavano (ed affermano anche ora) che Keynes non poteva essere considerato socialista. “Poiché (Keynes, n.d.r.) non aveva previsto la necessità di allargare l’intervento pubblico, sino a realizzare un socialismo di Stato che abbracciasse la maggior parte della vita economica della collettività, Keynes, per i suoi critici marxisti, non è possibile ritenerlo un socialista; anche perché, essendosi egli limitato ad affermare che, per assicurare il pieno impiego dei fattori produttivi, non è tanto necessario che lo Stato assuma la piena proprietà dei mezzi di produzione, quanto che agisca con la sua diretta iniziativa per promuovere un volume complessivo di produzione corrispondente alla piena occupazione, la teoria neo-classica che lui criticava ha avuto modo di riproporre la validità dei suoi algoritmi. Il non-socialismo di Keynes, quindi, non sarebbe tanto motivato sulla base del rifiuto del socialismo di Stato, quanto sul fatto che le sue prescrizioni varrebbero a riproporre la validità della teoria neo-classica, sia pure in presenza dell’azione diretta dello Stato, per stabilire un volume complessivo di produzione tale da richiedere la piena occupazione”. Per proseguire così: “Keynes, quindi, non può essere considerato un socialista, perché la sua analisi non coglie le contraddizioni intrinseche all’ordinamento del capitalismo, e perché la sua critica al pensiero economico tradizionale è limitata al rifiuto della validità solo di due dei massimi principi del liberalismo: il primo, che ogni singolo soggetto sociale, perseguendo egoisticamente la propria felicità, concorra a realizzare quella di tutti; il secondo, che il mercato sia il sistema in grado di contribuire, meglio di ogni altro, alla ricchezza generale e all’equa distribuzione del prodotto sociale. Con ciò Keynes avrebbe concorso a salvare il capitalismo, limitandosi ad indicare quanto di esso può essere salvaguardato per assicurare l’uso efficiente delle risorse”. E chiudere con un perentorio “ciononostante, il mito di un Keynes socialista si è stato preservato e il suo pensiero ha continuato ad essere proposto come alternativa all’economia di mercato e all’ideologia propria del liberalismo. In realtà, la sua critica alla teoria neo-classica non ha nulla a che vedere con la critica marxista del modo di produzione capitalista; ciò perché la critica keynesiana non è stata volta al superamento della logica del profitto, ma è stata orientata a porre rimedio alle sue contraddizioni, solo attraverso una “macro-gestione tecnica” dell’economia. Troppo poco perché Keynes possa essere considerato un socialista; secondo i critici marxisti, la sua denuncia dei presunti malfunzionamenti del capitalismo “liberale” non gli ha consentito di proporre una strategia politica, economica e sociale con cui “salvare” la civiltà nel lungo periodo”.

La cartina al tornasole di come stessero davvero le cose tra socialisti e keynesiani è del resto rappresentata dal rapporto della sinistra storica con la classe media italiana. La DC ha infatti costruito il proprio successo politico proprio sulla creazione del benessere in una ampia classe media che potremmo definire come “trasversale” (usando le categorie marxiste), in quanto composta tanto da dipendenti privati e pubblici (dunque da proletari) quanto da piccoli imprenditori, artigiani e professionisti (dunque da soggetti che erano detentori di mezzi di produzione). I socialisti ortodossi e i comunisti invece – ragionando in termini marxisti e leninisti – dividevano la classe media in due categorie: i lavoratori dipendenti, che erano dei proletari da tutelare, e tutti gli altri che invece erano kulaki ai quali espropriare (a colpi di tasse) il capitale e i mezzi di produzione. La sinistra storica italiana ha dunque – per decenni – sostenuto e alimentato la divisione sociale tra la classe media “buona” da tutelare e quella “cattiva” da colpire, laddove la DC ha cercato sempre una sintesi nel benessere diffuso, mirando a trasformare gli ex proletari in piccoli borghesi.

Tangentopoli, come è noto, spazzava via DC e pentapartito. Il vuoto politico veniva però rapidamente occupato da Berlusconi che, essendo un uomo d’impresa, non comprendeva immediatamente che il successo dello scudo crociato non era fondato sull’anticomunismo in quanto tale, bensì su una abile disattivazione per via keynesiana delle derive marxiste della porzione “proletaria” del ceto medio. Berlusconi voleva diventare un Craxi o un Andreotti senza averne compreso fino in fondo la politica. Questo spiega perché lo stesso Berlusconi – cavalcando l’onda della caduta del muro di Berlino – si impelagava in una retorica liberale (del tutto estranea al sentire dell’ex democristiano di classe media) e anticomunista (sentimento invece ben radicato nei “kulaki” nazionali). Il tutto col risultato di aggravare la polarizzazione e la divisione nella classe media del paese, dunque – in sostanza – facendo, a differenza della DC, esattamente il gioco della sinistra ex comunista, che ovviamente non chiedeva di meglio per proseguire coi vecchi slogan, dunque accusando Berlusconi di essere un fascista e l’amico degli evasori-kulaki e – di conseguenza – il nemico giurato di chi aveva il cuore a sinistra.

Guardando tuttavia ai programmi del centrodestra del post-tangentopoli, si nota come – passando il tempo – Berlusconi, dopo un inizio dai toni assai “liberali”, si sia via via spostato verso politiche di stampo più democristiano. Col tempo, probabilmente, Berlusconi aveva intuito cosa la DC voleva essere e perché ha avuto successo. Il punto che mancava a Berlusconi – o che forse ha realizzato solo quando era tardi – era che la DC era stata in grado di “disattivare” i marxisti con le politiche keynesiane, perché lo stato, in passato, era libero di far due cose: svalutare la moneta e far emettere alla banca d’Italia moneta per acquistare i titoli del debito pubblico emessi dal tesoro. Il miracolo italiano indotto dal keynesianesimo non socialista della DC era stato infatti finanziato con debito pubblico monetizzato e sostenuto da svalutazioni competitive della lira al fine di rafforzare l’esportazione senza dover ricorrere alla compressione salariale per recuperare competitività. Dunque Berlusconi non si è accorto che – a partire dal divorzio tra Banca d’Italia e tesoro ma, soprattutto, con l’adesione dell’Italia all’Euro e al trattato di Maastricht – riproporre la politica keynesiana con cui la DC aveva reso benestanti così tanti italiani, creando una classe media “allargata e trasversale” che aveva lasciato in panchina per diversi decenni i comunisti, era diventato impossibile.

In quegli stessi anni, la sinistra che era stata comunista – pur accogliendo nel partito esponenti della DC (in particolare i dossettiani facenti capo a Prodi) – anche dopo la caduta del muro di Berlino era invece restata leninista, seguitando tetragona a perseguire l’ideale dell’ugualitarismo “al ribasso”. Laddove la DC aveva cercato di usare la spesa pubblica – finanziata col debito pubblico – per creare una sempre più ampia classe media (dunque con una spinta a migliorare il tenore di vita dei lavoratori dipendenti), la sinistra, anche dopo tangentopoli, continuava invece a concepire l’intervento pubblico essenzialmente come strumento – fondato sul prelievo fiscale – per “redistribuire” la ricchezza, dunque per rendere tutti uguali, ma al ribasso. In breve: mentre la DC voleva (ed era riuscita per decenni a) usare il debito pubblico per rendere borghese il proletario, la sinistra italiana ha sempre voluto (e vuole ancora oggi) usare le tasse per ridurre il borghese alla condizione di proletario.

La maniera in cui gli ex comunisti intendono l’uguaglianza è tuttavia, paradossalmente, quella che risultava più gradita ai nuovi padroni della globalizzazione: assai più del vecchio keynesianesimo democristiano. Questo spiega perché a “spingere” tangentopoli (ma soprattutto le riforme che sono seguite alla mattanza del pentapartito) ci siano stati interessi finanziari e imprenditoriali (anche stranieri) di vario tipo e genere. Anzi, spiega bene perché quegli stessi interessi avessero iniziato a “lavorare ai fianchi” il sistema democristiano ben prima di tangentopoli, a partire appunto dal divorzio tra bankitalia e Ministero del tesoro, che può considerarsi senza dubbio l’inizio della fine del keynesianesimo all’italiana. Può dunque essere il caso di fare una breve digressione sul tema.

Il libero mercato – in mancanza di correttivi adeguati – spinge naturalmente il lato dell’offerta verso le concentrazioni e l’oligopolio. E gli oligopolisti, non dovendo per definizione temere la concorrenza dei loro pari, finiscono per concepire la questione della produttività in termini di ricerca tecnologica e riduzione di costi. Dal canto suo, il sistema finanziario – che nel frattempo, anche in Italia, aveva visto la cancellazione della distinzione tra banche d’affari e banche a tutela del risparmio e del credito diffuso – non vedeva di buon occhio politiche espansive, in quanto potenzialmente inflattive, e per altro verso aveva tutto l’interesse a prestare danaro ai “solidi” oligopolisti piuttosto che non alla piccola borghesia imprenditoriale, meno remunerativa in termini di rendimento e meno affidabile in termini di solvibilità. Se dunque lo stato non poteva più iniettare ricchezza nell’economia usando il debito monetizzato, ecco che le banche potevano sostituirlo, ovviamente lucrandoci sopra. Ma, a differenza dello Stato che era stato disposto per ragioni politiche a “finanziare” ampiamente anche la piccola borghesia imprenditoriale, le banche (ormai tutte banche d’affari) avevano un chiaro interesse a prestare soldi esclusivamente alle imprese più “performanti”, ossia quelle grandi e strutturate. Per altro verso, se lo stato dismetteva le sue partecipazioni nelle grandi imprese pubbliche, ecco che le finanziarie di venture capital potevano sostituirlo, ma per fare utile. E, anche qui, investire soldi in grandi imprese in situazione di oligopolio era certamente un affare assai più lucrativo che non tutelare il risparmio e far credito alla piccola e media impresa. Infine, se lo stato non poteva più far debito pubblico “facile”, l’inflazione restava bassa e le imprese potevano comprimere i costi, soprattutto quello del lavoro. Una situazione che conveniva sia alle grandi imprese (che tagliavano i costi invece che fare ricerca e innovazione) sia alle banche (che potevano iniziare a fare credito al consumo anche ai lavoratori a basso reddito che non erano più in grado di risparmiare).

Questo significa, in sostanza, che tanto gli oligopolisti quanto le grandi banche d’affari e i grandi investitori istituzionali – tra le altre cose – erano (e sono) tutt’altro che contrari, da un lato, alla distruzione della piccola e media impresa (concorrenti fastidiosi e debitori meno affidabili) e, dall’altro, a un’economia a crescita moderata, sostenuta dal lavoro di una massa di proletari poco pagati e finanziata da un sistema creditizio che elargisce prestiti a tassi contenuti alle poche imprese di grandi dimensioni che in tal modo si spartiscono il mercato esercitando una posizione dominante collettiva. Ecco dunque spiegate le ragioni per cui tanto la finanza quanto la grande impresa sono state disposte a scendere a patti con gli eredi della nostra sinistra storica, ad esempio concedendo che alla massa degli ugualmente poveri – invece di un lavoro stabile e adeguatamente remunerato  – fosse concesso, ad integrazione di impieghi precari e poco pagati, un sussidio o qualche posto pubblico precarizzato.

Da parte sua, alla sinistra che era stata comunista, bastava rinunciare al dogma del monopolio pubblico dei fattori produttivi e i termini dell’accordo col grande capitale erano belli e pronti: riduzione complessiva del welfare pubblico e aumento della tassazione sulla classe media (anche su patrimonio e risparmio) con utilizzo delle risorse, da un lato, per fornire servizi gratuiti di assistenza solo ai cittadini in situazione di indigenza certificata e, dall’altro lato, per attuare politiche di incentivo sul lato dell’offerta di fatto accessibili solo per le grandi imprese e i grandi operatori finanziari e – infine –  concedendo dei sussidi assistenziali agli inoccupati e/o ai salariati sottopagati, con conservazione delle “vecchie” garanzie di stabilità e progressione salariale solo per il pubblico impiego, al prezzo – per il settore privato – di accettare una generalizzata compressione dei salari e una progressiva precarizzazione del lavoro (compensata appunto dai sussidi di stato).

Tra sinistra ex comunista, grandi oligopoli nazionali e stranieri e finanza internazionale si è insomma creata – a partire dagli anni novanta del secolo scorso – una convergenza di interessi nel senso di trasformare progressivamente l’Italia (ma il discorso vale anche per altri stati del sud Europa, come ad esempio Francia e Spagna) da una società del welfare diffuso in una società orizzontale di ugualmente poveri e sussidiati, sostenuta dall’influenza degli oligopoli e della finanza così come dal voto dei rentier così come dei poveri sussidiati, di quello dei dipendenti privati sindacalizzati e delle varie burocrazie e clientele pubbliche. Nel contesto di questo nuovo modello sociale, gli ex comunisti potevano infatti ritagliarsi il ruolo di elite burocratica e politica che gestisce il potere e le risorse pubbliche (dunque, grosso modo, il ruolo che avrebbero rivestito in un sistema di socialismo reale), lasciando tuttavia agli oligopoli privati sostenuti dalle banche e dagli investitori istituzionali (invece che alle imprese di stato) il compito di dare lavoro (poco pagato) ad una parte della popolazione attiva e di creare la ricchezza necessaria per consentire allo stato di distribuire ancora salari e posti pubblici e/o sussidi agli inoccupati. Il tutto garantendo la presenza costante nel paese di una grande massa di cittadini impoveriti e sussidiati e di dipendenti pubblici che, avendo un interesse alla continuità del “sistema”, sarebbero stati elettori assai fedeli di quella stessa sinistra che faceva favori ai loro padroni. E quando i poveri autoctoni hanno iniziato a scarseggiare (per ragioni demografiche), ecco che la soluzione per mantenere il sistema in piedi veniva immediatamente trovata dalla nuova sinistra nell’importazione dei poveri da altri paesi, mediante una politica dell’immigrazione (e – in prospettiva – della concessione della cittadinanza) a maglie a dir poco larghe.

Il vecchio comunismo socialista, a valle dello schianto del blocco sovietico, si è insomma evoluto in un neo-statalismo più mercantilista che marxista, nel senso che diversi principi tradizionali della vecchia sinistra ortodossa sono stati sacrificati dai post comunisti sull’altare dell’alleanza strategica con gli interessi degli oligopoli e la finanza. Questa è dunque l’essenza ultima dell’azione politica delle forze della neo-sinistra italiana (PD e M5S), ma che ispira anche – in Europa – la cosiddetta “grande coalizione” tra popolari e socialisti. Questa deriva del resto spiega bene anche perché l’ex PC (ora PD) manifesti di recente sempre più forti simpatie sia verso i democratici americani e professi una incondizionata adesione, per non dire aperta sudditanza, vero le politiche rigoriste e deflattive dell’UE a trazione tedesca. I post comunisti di casa nostra sono fatalmente attratti dal vincolo esterno dell’UE rigorista e deflattiva, in quanto vi scorgono – analogamente a quanto accadeva con l’URSS prima della caduta del muro – l’appiglio ideologico ideale per continuare la loro narrazione fondata sull’eterna lotta al kulako che impoverisce il proletario. Certo, tutto questo avviene al prezzo di consegnare il tenore di vita del proletario ai padroni delle ferriere e ai grandi banchieri. Però, tutto sommato, se quei padroni sono pochi, dare in pasto agli elettori di sinistra la rovina della piccola borghesia potrebbe bastare per evitare che la base elettorale del partito scenda al di sotto di un certo livello. Il resto lo fanno il deep state, l’informazione e la cultura “amiche” oltre naturalmente all’influenza economica di quegli stessi padroni. Sinora peraltro, lo schema ha funzionato molto bene, contando che il PD è da dieci anni che governa senza quasi mai aver vinto le elezioni.

Per giungere ad un simile risultato, come si diceva, la sinistra giallorossa ha accettato di sacrificare il tema del benessere diffuso dei cittadini in nome dell’ugualitarismo classista al ribasso, “finanziato” e sostenuto dalla pretesa maggiore efficienza, in termini aggregati, dal mercato oligopolistico a trazione finanziaria e dalle politiche deflattive e rigoriste imposte all’Italia dai paesi del nord Europa per mezzo del vincolo esterno dell’UE. La nuova sinistra ha smesso di promettere progresso economico al paese, riducendosi a garantire ai suoi elettori che – nella decrescita – almeno il loro vicino di casa non potrà avere qualcosa più loro (tutto questo, ovviamente, al prezzo di far accettare a quegli stessi elettori che i pochissimi padroni del vapore abbiano tantissimo). La deriva dalle “sorti progressive” di un tempo verso la decrescita felice con sollecitazione dell’invidia verso il kulako di oggi, insomma, è il destino cui vanno incontro gli eredi della tradizione del PCI così come gli ex contestatori del sistema a suon di vaffa. Un destino mesto e – visti i presupposti ideologici di partenza – ben poco esaltante. Non stupisce dunque che la “nuova sinistra” sia oggetto di critica anche “da sinistra”.

Di recente si sono moltiplicate infatti nel dibattito le voci che, dichiarandosi “di vera sinistra”, sostengono che la neo-sinistra piddo-grillina sarebbe niente meno che “neoliberista”, dunque omettendo di considerare che il fatto che la sinistra attuale di certo ha abbandonato alcuni dogmi marxisti, ma in compenso è restata classista (seppure restando legata alle classi ottocentesche, senza essere capace di usare l’analisi marxista per rileggere i rapporti di classe alla luce della situazione sociale attuale) e pure in certo modo è ancora leninista nel suo odio per la classe media, dunque che – in sostanza – è ancora “un po’ comunista”. Ma è proprio qui che emerge il tic gauchista più duro a morire (e che, come vedremo, rende velleitari i tentativi di criticare la sinistra da sinistra): l’incapacità di separare Marx (e la sua teoria sociale ed economica) da Lenin (e il sistema di socialismo reale), con conseguente difficoltà a ripensare Marx in modo non integralista, vale a dire riuscendo a mettere in discussione alcuni dei suoi aspetti.

Quello che i neo-gauchisti faticano a intuire è probabilmente che la nuova sinistra “ufficiale” – ossia PD e M5S – persegue in fin dei conti lo stesso fine ultimo di Marx (uguaglianza di un popolo fatto quasi solo di lavoratori dipendenti) per mezzo di una struttura sociale simile a quella che voleva lo stesso Lenin (elite ristretta che gestisce in autonomia e in modo centralizzato il potere politico ed economico), con la differenza però che – per la neo-sinistra in salsa europeista giallorossa – gli apparati politici e burocratici occupati dal partito spartiscono l’appartenenza alla cerchia della ristretta elite di potere con pochi grandi (oligo)capitalisti e con i padroni della moneta privata (dunque non rispettando il dogma marxista della proprietà pubblica dei mezzi di produzione). Siccome però lo stesso Marx sosteneva che la società comunista sarebbe sorta spontaneamente per effetto delle contraddizioni del capitalismo (mentre Lenin, con la dittatura del proletariato e il socialismo reale sovietico, intendeva solo dare un “aiutino” alla storia per velocizzare il processo dialettico), ecco che per un elettore medio di sinistra (che sia poco attento all’ortodossia ideologica, ma dotato della naturale invidia che spesso lo connota) è possibile leggere questa nuova fase come un passaggio intermedio (alternativo al socialismo reale ispirato al leninismo) nell’evoluzione del sistema capitalistico verso la società comunista dell’uguaglianza (al ribasso) che da sempre quel tipo di elettore vagheggia. Ed ecco spiegato il modo in cui la sinistra giallorossa – facendo leva in pratica solo sull’invidia sociale – riesce ad autoassolversi davanti a Marx, continuando ad apparire “autenticamente di sinistra” ai suoi elettori. Questa è del resto anche la ragione per cui i post comunisti del PD (così come i neo pauperisti del M5S) non hanno avuto problemi di sorta a mandare al macero il Keynesianesimo per sposare una specie di leninismo del mercato capace di sostenere al contempo gli oligopoli e le grandi banche, il rigore dei conti pubblici, la disoccupazione assistita, il reddito di cittadinanza e il mercantilismo globalista. Anzi, proprio la deriva antikeynesiana dei postcomunisti da quando sono arrivati al governo, rappresenta la conferma definitiva del fatto che il comunismo italiano non è mai stato keynesiano, ma – nella sua effettiva attuazione in prassi politica – profondamente leninista e sovietico (ancor più che marxista).

Chi invece critica la nuova sinistra da sinistra lo fa proponendo un “ritorno” al modello di sviluppo keynesiano, sul presupposto che quel modello sarebbe “autenticamente di sinistra”, perché corrisponde a quello pensato dai vecchi comunisti e socialisti italiani che hanno contribuito alla stesura della carta costituzionale. Il problema è che, a differenza della DC (e degli altri partiti che poi avrebbero costituito il “pentapartito”) che erano keynesiani, il socialismo tradizionale e il comunismo in Italia – come si è visto all’inizio di questo scritto – non sono mai stati keynesiani. Questo significa che i “neo socialisti costituzionali” di oggi si trovano costretti a proporre, spacciandola per autenticamente di sinistra, una costituzione economica (keynesiana) che i veri marxisti e socialisti dell’epoca (cui, si badi bene, questi nuovi “veri socialisti” vorrebbero ispirarsi) criticavano duramente proprio perché non la consideravano abbastanza socialista. Il che finisce per disorientare – inconsciamente – l’elettore medio di sinistra, per il quale essere di sinistra, proprio grazie alla lunga stagione del PCI, non può significare tornare alle politiche democristiane, ma semmai consiste nel considerare ancora il kulako come la sola causa di tutti i mali dei poveri, con la conseguenza che, per l’elettore medio che si riconosce nell’ideologia delle sinistra storica italiana, è difficile pensare che possa essere essere davvero “di sinistra” una qualunque proposta di politica economica che consente ai bottegai o agli idraulici di arricchirsi più degli operai.

Criticare la sinistra giallorossa “da sinistra”, nel nome della tradizione socialista e comunista, non porta dunque molto lontano, per il semplice fatto che i cittadini che mettono l’uguaglianza davanti alla crescita equilibrata della ricchezza (tratto assai comune a sinistra, sia nell’elettorato del vecchio PCI che in quello piddo-grillino cresciuto a pane e odio verso Berlusconi) si sono ormai quasi tutti naturalmente convertiti alle idee della “nuova” sinistra giallorossa, parte politica che sostiene con forza la retorica (tradizionale del comunismo italiano ma proseguita con l’antiberlusconismo) della lotta alle disuguaglianze mediante la disgregazione del benessere del ceto medio. I giallorossi, dunque, in sostanza cercano e trovano ancora i loro voti come i loro illustri predecessori, essenzialmente aizzando la massa degli ultimi contro i penultimi, ma lo fanno ora per favorire (oltre a sé stessi a livello politico) i pochissimi primi del grande capitale globalizzato. I nuovi “keynesiani socialisti” si sforzano invece di criticare la sinistra giallorossa sostenendo le stesse ricette democristiane che il socialismo tradizionale in passato non ha mai condiviso ideologicamente, ma anzi ha sempre attaccato. Critica che – dunque – è inevitabilmente destinata ad infrangersi contro la spessa coltre di invidia sociale che la sinistra ufficiale (comunista prima e antiberlusconiana poi) non ha mai smesso di creare nel paese dal dopoguerra ad oggi.

Tutto questo mi porta a concludere che, se qualcuno volesse proporre oggi in modo credibile il ritorno alle ricette dell’epoca d’oro del dopoguerra keynesiano, dovrebbe per prima cosa avere il coraggio di smarcarsi dall’eredità ideologica comunista e socialista, rifacendosi assai più a un De Gasperi e a un Mattei piuttosto che non, tanto per fare quale esempio illustre, a un Lelio Basso o a un Berlinguer. Ma i neogauchisti di casa nostra questo difficilmente potranno farlo, in sostanza perché sono ancora dei nostalgici, che – a livello profondo – non hanno ben metabolizzato la caduta dell’URSS, non accettando in particolare il dato storico per cui il socialismo reale sovietico è fallito perché modello economico meno efficiente, in termini di produzione di ricchezza aggregata, rispetto al mercato. Riconoscere questo, infatti, li avrebbe obbligati ad ammettere che la strada per l’attuazione del marxismo pensata in URSS (e risalente al bolscevismo leninista) non rappresenta più il modello cui un marxista moderno dovrebbe ispirarsi per far evolvere il capitalismo nella società comunista descritta da Marx. Questa resistenza inconscia a restare marxisti pur “lasciando Mosca” fa in modo che la maggior parte di chi critica la sinistra da sinistra non riesca a collocarsi politicamente: risulterà infatti non abbastanza “socialista” (nel senso non sufficientemente anti piccolo borghese) per la massa dei convertiti alla neo-sinistra piddo-grillina dell’invidia sociale, sarà ovviamente troppo marxista per i liberali ma – quel che è paggio – risulterà ancora troppo “comunista” per tutti i moderati (di centro) che, non essendo liberisti, sarebbero comunque a favore di politiche keynesiane volte a creare un benessere maggiore e diffuso. I nostalgici del socialismo postbellico (quello comunista e marxista), nella misura in cui parlano da Keynesiani ma usando come auctoritas dei padri costituenti socialisti e comunisti, si condannano dunque all’irrilevanza politica.

Dalla sostanziale sterilità delle critiche “da sinistra” alla nuova sinistra si deduce che quello che con ogni probabilità manca nel nostro panorama politico e sociale – come credibile antitesi dialettica del pensiero unico vertente sul dirigismo oligopolistico e mercantilista del nuovo centro-sinistra giallorosso – è un movimento keynesiano, che – senza cercare padri nobili o geniture ideologiche nella tradizione socialista e comunista del dopoguerra – metta semplicemente al centro del proprio programma delle politiche economiche espansive e anticicliche. Un movimento che, in altre parole, persegua – restando equidistante sotto il profilo ideologico tanto dal socialismo quanto dal neo-liberalismo classico – la creazione di un benessere diffuso e ben distribuito mediante lo stimolo alla domanda interna e la creazione di lavoro, evitando di cadere nella facile retorica della dekulakizzazione del ceto medio così come nella facile scappatoia dell’assistenzialismo strutturale come misura idonea per risolvere il problema della povertà indotta dalla carenza di lavoro. D’altro canto, questo movimento neo-keynesiano dovrebbe respingere con decisione una serie di concetti liberali che invece oggi vanno per la maggiore, quali l’austerità come virtù a prescindere, l’inoccupazione sussidiata e la estrema flessibilità del lavoro come valido strumento di soluzione del disagio sociale, il taglio della spesa pubblica come bene assoluto e l’inflazione come male assoluto. Sul versante dell’impiego pubblico, essere keynesiani vuol dire ammettere che assumere dipendenti pubblici (o investire in appalti pubblici) per fare cose utili è cosa buona, mentre non essere socialisti significa riconoscere d’altro canto che invece non è affatto cosa buona assumere persone che non vanno a fare cose utili né è cosa buona finanziare con danaro pubblico attività inutili. E si noti che mi sono riferito ad attività “utili” e non “necessarie”, per sottolineare che l’impiego di risorse pubbliche nell’economica non va ritenuto un male da ridurre al minimo, bensì – quando serve a far qualunque qualcosa che vada oltre il solo fatto di dotare di reddito spendibile una persona (per quello basta il reddito di cittadinanza, che è misura più socialista che keynesiana) – è comunque un arricchimento per il paese. Il debito pubblico è infatti ricchezza privata. Essere keynesiani ma non liberisti, infine, dovrebbe significare anche – contro i dogmi del capitalismo finanziario –  riconoscere che il credito e le banche devono avere anche la funzione di favorire il risparmio diffuso e l’incentivo a far credito alla piccola e media impresa territoriale, non rappresentando solo strumenti per la moltiplicazione del danaro e per l’investimento speculativo.

Si tratta peraltro di principi tutti ampiamente riconosciuti nella nostra Costituzione (che ha un impianto keynesiano, anche se questo assetto deriva in realtà dal compromesso tra liberali e comunisti, sotto la spinta del mondo cattolico) e che si pongono nel solco della dottrina sociale tradizionale della chiesa cattolica, ai quali potrebbero dunque prestare adesione sia elettori liberali moderati, sia di area cattolica. Per altro verso, si tratta di principi che non dovrebbero dispiacere a quegli elettori di sinistra, che hanno saputo superare il “trauma sovietico” e la retorica leninista fondata sull’invidia sociale verso il kulako.

Per tutti questi elettori il mercato può insomma ancora ben rappresentare la trave portante dell’economia nazionale, a patto che non si guardi con sfavore preconcetto – come invece predica la vulgata attuale del mainstream mercantilista della nuova sinistra europea – all’intervento pubblico per stimolare la domanda interna e la crescita della piccola e media impresa. Si badi bene, infatti, che anche nella società del mercantilismo oligopolista a trazione finanziaria vengono spesi soldi pubblici. E ne vengono spesi anzi parecchi, ma solo per alimentare le burocrazie e le clientele pubbliche e per incentivare le grandi imprese e banche private. Chi invece lavora nel privato (dipendente o kulako che sia), viene tagliato fuori dal circuito degli incentivi e, anzi, è chiamato a subire (sia fiscalmente che a livello di reddito) la forte deflazione artificialmente indotta dal meccanismo del rigore dei conti pubblici in presenza di una alta spesa pubblica di cui non può beneficiare. Un movimento neo keynesiano (non socialista) dovrebbe dunque proporsi come interprete della coscienza di classe di questa ampia e trasversale categoria di classi lavoratrice e produttrici oppresse dai percettori di rendite pubbliche e private. Che poi è quello che era riuscita a fare – più o meno consapevolmente, grazie al gioco delle correnti interne – la vecchia democrazia cristiana.

Certo, per portare avanti una linea politica di questo genere occorrono risorse (che non siano reperite nei redditi e nei risparmi del ceto medio lavoratore). Questo significa che, per attuare il paradigma keynesiano in un sistema di economia di mercato, diviene ineludibile sottrarre i decisori politici alla necessità di farsi prestare le risorse della finanza privata, che in cambio chiede incentivi alla produttività, strette fiscali mirate sui lavoratori, precariato e compressione salariale. Dunque, voler essere keynesiani oggi in Europa significa mettere sul tavolo il tema di un ritorno alla possibilità per le banche centrali di acquistare i titoli emessi dal tesoro e di emettere moneta per farlo, tornando ad agire come prestatori di ultima istanza. Inoltre, occorre anche affrontare la questione della restituzione ai governi nazionali della possibilità di svalutare competitivamente la moneta, invece di obbligarli – con un sistema di cambi fissi in aree economiche non omogenee – a svalutare il lavoro. Tutto questo porta inevitabilmente al “problema dei problemi”, rappresentato dal rapporto dell’Italia con l’Euro e con la costituzione economica del trattato UE.

Si tratta di un problema ormai ineludibile: la nostra costituzione economica è chiaramente keynesiana e dunque è ispirata a principi pressoché opposti rispetto a quella dei trattati fondamentali dell’UE. Questo significa che qualunque movimento che voglia oggi essere keynesiano ma non socialista deve dunque in certa misura essere anche sovranista (quanto meno sui temi di politica monetaria e sulla questione del controllo del tesoro sulla banca centrale). Quella del sovranismo in politica economica è infatti questione tutt’altro che ideologica, considerando che l’attuazione della nostra costituzione economica nazionale, in passato, ci ha resi ricchi ed ammirati nel mondo (tanto da giungere ad essere la quinta potenza economica mondiale), mentre – da quando abbiamo iniziato ad adeguarci alla costituzione economica impostaci dall’unione europea – ci siamo impoveriti progressivamente e, ormai, veniamo trattati dagli altri paesi dell’UE come uno stato mezzo fallito e come un popolo di incapaci e fannulloni. E la scusa della spesa pubblica eccessiva (con annessa retorica del “vivere al di sopra della proprie possibilità”) non regge di fronte alla constatazione che – prima dell’esplosione del debito da covid – il paese è stato in costante avanzo primario per due decenni e che, se il debito si allargava, era solo per pagare gli interessi su operazioni finanziarie (sbagliate) fatte dal Tesoro decenni addietro: interessi che, manco a dirlo, stanno arricchendo le grandi banche d’affari internazionali. In sostanza: siamo rimasti in debito per pagare interessi spropositati alle banche d’affari che ci avevano prestato soldi quando gli interessi erano alti e che, invece, noi dobbiamo restituire quando gli interessi sono bassi. Quello della spesa pubblica eccessiva è dunque un mito. Del resto, se fosse stato così, come si potrebbe spiegare il fatto che per decenni sono stati tagliati tutti i servizi pubblici, sono aumentate le imposte e il debito pubblico è comunque salito?

Dunque la verità è che gli stati del nord Europa è da decenni che ci legano mani e piedi – con regole unioniste di rigore di bilancio ritagliate per funzionare bene solo coi loro modelli economici – per poi poterci meglio accusare di non saper stare al loro passo ed obbligarci ad adottare misure di austerità che ci legano ancora di più. La cosa più grave non è peraltro la comprensibile volontà degli altri stati di perseguire il loro interessi nazionali a danno nostro, bensì il fatto che – qui da noi – tanto i liberal-liberisti all’amatriciana quanto gli ex comunisti e molti dei neo tribuni della plebe grillini (tutti folgorati sulla via di Bruxelles) si fanno in quattro per sostenere questa retorica anti-italiana, forse dimenticando che – quando quelle splendide regole unioniste non c’erano e dunque la piccola borghesia nazionale e le imprese di stato erano lasciate libere di fare “a modo nostro” – nel paese c’erano meno disuguaglianze e più ricchezza, tanto che erano gli stati del nord Europa a dover rincorrere noi.

Ma forse qualcosa si muove, per effetto dello scossone subito dal sistema per effetto del ciclone Covid. Se si presta attenzione alle fibrillazioni politiche seguite alla chiamata a Palazzo Chigi di Mario Draghi per guidare un governo di salvezza nazionale (e – soprattutto – a quelle attualmente in corso per il Quirinale), si comprende che in pentola sta bollendo qualcosa di grosso. Non credo che tutti gli attori politici del processo siano consapevoli di quel che sta accadendo, ma – per dirla con Hegel – la dialettica storica agisce spesso a prescindere dagli (e addirittura contro gli) intenti delle persone che di volta in volta la incarnano. Fatto sta che Mario Draghi è allievo di Federico Caffè, non è di certo né socialista né marxista, è vicino a certo mondo cattolico, non ha mai mostrato particolare simpatia per le politiche rigoriste dell’UE (dunque risultando inviso ai tedeschi), ma soprattutto a Rimini, l’estate dell’anno scorso, ha tenuto un discorso interessante (qui il mio commento). Inoltre – con le prossime elezioni politiche italiane e, ancora prima, con l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica – assisteremo con ogni probabilità a uno spostamento verso destra (e verso una destra che include una forte componente sovranista) del baricentro politico delle istituzioni nazionali. Il che potrebbe favorire l’inizio di una stagione politica nel segno della discontinuità rispetto al decennio piddino prima e piddo-grillino dopo.

Contando allora che – nel frattempo – si svolgeranno anche elezioni politiche sia in Germania (con probabile vittoria dei falchi dell’austerità, che dovrebbero far cessare le attuali politiche monetarie espansive della BCE) sia Francia (in cui Macron è sempre più debole di fronte alla destra nazionalista e, in caso di cessazione della politica espansiva, si troverebbe a gestire un bilancio pubblico peggiore del nostro); ma contando anche sul fatto che è in atto da tempo un duro scontro a livello geopolitico tra Stati Uniti e Germania (sempre più vicina alla Cina e alla Russia); e contando infine sul fatto che gli Stati Uniti hanno adottato un poderoso pacchetto di stimoli economici monetari alla loro economia che andrà avanti qualche anno, mentre l’UE – sotto spinta della Germania e dei soliti “frugali” – sta già iniziando a mostrare i primi segni di voler cessare il quantitative easing post covid; tenendo conto di tutti questi fattori – dicevamo – il quadro geopolitico appare propizio per consentire un cambiamento di traiettoria in senso neo-keynesiano nella nostra politica economica nazionale. Stiamo dunque a vedere, perché viviamo tempi difficili ma anche interessanti e – forse – di svolta. Potrebbe essere infatti che questa volta la “crisi” sia vera, nel senso di corrispondere all’etimo greco della parola.




Lega e Forza Italia, la fusione fredda

Non appassiona per niente il balletto che, da qualche giorno, Forza Italia e Lega stanno inscenando intorno all’ipotesi di fondersi o federarsi. Ed è giusto così: tutto, infatti, si sta svolgendo senza alcun coinvolgimento di militanti ed elettori, senza alcun vero confronto di idee e programmi, senza alcun dibattito sul futuro dell’Italia e sulle cose da fare.

Che il gioco in atto appassioni solo i parlamentari e le nomenklature di partito non significa, però, che l’esito di tali manovre non abbia ripercussioni anche su di noi.  Quel che accadrà in queste settimane, infatti, cambierà l’offerta politica e, per questa via, potrà produrre conseguenze per tutti.

Vediamo, dunque, di che cosa stiamo parlando. A dar credito alle dichiarazioni ufficiali, la proposta di federare Lega e Forza Italia sarebbe venuta da Salvini, e Berlusconi la starebbe valutando.

Ma è un racconto fuorviante: la realtà è che l’idea di conferire Forza Italia alla Lega risale a due anni fa, e si deve a Berlusconi stesso, che ebbe ad avanzarla in una riunione dei parlamentari azzurri a Palazzo Grazioli. Era il 12 giugno del 2019, Forza Italia veniva da un risultato deludente alle Europee (8.8%), i sondaggi la davano al 6%, e Berlusconi dichiarava: “Forza Italia è destinata a stare con la Lega o attraverso un’alleanza o con una fusione (…). Con Salvini sono in costante contatto. Mi è sembrato interessato a ragionare sull’ipotesi di una federazione di centrodestra”.

Le cronache dell’epoca (2 anni fa esatti) raccontano che, in quella occasione, Berlusconi aveva addirittura calcolato i seggi uninominali conquistabili, e commissionato ben tre sondaggi per la scelta del nome: Centrodestra unito in caso di partito unico, Centrodestra italiano in caso di federazione. Alla fine quest’ultimo nome gli era parso il più promettente, perché i sondaggi gli attribuivano la capacità di aumentare del 25% i voti.

E’ anche il caso di ricordare che, nei due mesi successivi, avvengono alcuni cambiamenti decisivi dentro e intorno a Forza Italia. Il 19 giugno Giovanni Toti e Mara Carfagna vengono nominati coordinatori di Forza Italia, con il compito di riorganizzare il partito e modificarne lo statuto, anche in vista di un congresso da tenersi a settembre.

Non essendo addentro alle faccende di Forza Italia, non ho idea delle ragioni per le quali questa operazione, nel giro di poco più di un mese, ebbe ad incepparsi. Sta di fatto che, già ai primi di agosto del 2019, il piano salta e Giovanni Toti avvia la costruzione di Cambiamo!, piccola formazione politica cui nel tempo aderiranno diversi big di Forza Italia (fra gli altri Paolo Romani e Gaetano Quagliariello), fino alla recentissima confluenza di varie sigle e persone in Coraggio Italia, il partito fondato dal sindaco di Venezia Luigi Brugnaro.

In breve: il progetto di fusione con la Lega è farina del sacco di Berlusconi, risale a ben due anni fa, ed ha già provocato la formazione di un’area di resistenza alla fusione stessa, area attualmente capeggiata da Toti e Brugnaro.

Ma veniamo al punto. Perché si torna a parlare di fusione?

Difficile rispondere con sicurezza. Per quanto riguarda Berlusconi, la mia sensazione è che, più che la (ingenua?) speranza di essere candidato alla presidenza della Repubblica, conti l’esigenza di sistemare le cose della sua vita, in un tempo in cui la salute è malferma e il futuro è incerto. Forse non è un caso che la prima idea di consegnare Forza Italia alla Lega maturi, un paio di anni fa, in un periodo in cui Berlusconi prepara o conclude altre liquidazioni, come la cessione del Milan ai cinesi, o di Panorama a “La Verità”, o la chiusura della sede romana del Giornale. Insomma: mi pare comprensibile che, non avendo trovato un leader in grado di succedergli, Berlusconi trovi più onorevole mettere il suo suggello a un marchio nuovo di zecca che assistere mestamente al tramonto del suo giocattolo.

Per quanto riguarda Salvini, ci sono almeno tre ragioni, due buone e una meno, per guardare con interesse alla annessione con Forza Italia. La prima è che “a caval donato non si guarda in bocca”, posto che Berlusconi non pare richiedere contropartite significative. La seconda è che la ibridazione con Forza Italia non può che rafforzare  la credibilità della Lega in Europa. La terza è che, agli occhi di Salvini, una eventuale fusione con Forza Italia potrebbe allontanare lo spettro del sorpasso da parte di Fratelli d’Italia, con conseguente passaggio della leadership del Centrodestra da lui stesso a Giorgia Meloni.

Ma è un calcolo ben fondato?

Io ne dubito. Trent’ anni di analisi dei flussi elettorali permettono, infatti, di azzardare due previsioni piuttosto solide: primo, la somma dei voti dei due partiti diminuirà; secondo, i voti perduti resteranno nel centro-destra (secondo la dottrina della “fedeltà leggera”, copyright Paolo Natale).

Dunque la domanda è: dove andranno i voti perduti?

Fondamentalmente verso due destinazioni. La prima è la galassia di centro, dove sarà interessante capire chi sarà più lesto ad acciuffarli (potrebbe essere Coraggio Italia, ma anche Azione di Carlo Calenda, se si posizionerà sufficientemente lontano dal Pd). La seconda destinazione, ahimè per Salvini, è proprio Fratelli d’Italia, che già ha il vento in poppa, e potrebbe trarre ulteriore slancio dall’arrivo di quanti non gradiranno la fusione fredda fra Lega e Forza Italia.

Insomma, se lo scopo è impedire a Giorgia Meloni di assumere la guida del centro-destra, la fusione non sembra l’arma più appropriata. Quanto allo scopo stesso, lo si può ritenere più o meno condivisibile, ma è difficile non vedere che, stante la popolarità della Meloni (di gran lunga superiore a quella di Salvini e Berlusconi), “fermare Giorgia” renderà meno e non più agevole la vittoria del centro-destra alle prossime elezioni.

Pubblicato su Il Messaggero del 7 giugno 2021




La fedeltà (leggera) di voto c’è ancora

Una delle recenti leggende metropolitane ci racconta come ormai i cittadini, nelle loro scelte di voto, siano condizionati da percezioni superficiali, o dallo story-telling del leader di turno (siano questi Renzi o Grillo, Salvini o Giorgia Meloni), e che abbiano abbandonato criteri di scelta più coerenti con la propria storia personale o con il modo di interpretare la società che li circonda. Vivremmo dunque un periodo di alta volatilità elettorale, con scelte episodiche, quasi casuali, come se fossimo al supermercato elettorale: si compra l’articolo di moda oppure quello con uno sconto più elevato. Ma sarà davvero così?

Come noto, la storia della fedeltà elettorale è piuttosto lunga e complessa, ed ha vissuto due fasi particolarmente significative. Fino agli anni Ottanta il sistema partitico è stato caratterizzato da un’estrema staticità, con incrementi o decrementi dei consensi limitati a pochi punti percentuali: l’elettore aveva un alto livello di vischiosità (si è per questo coniato il termine di “fedeltà pesante”), derivante o da appartenenza (sub-culturale) o dal voto di scambio, che permetteva il costante processo di allocazione mirata delle risorse economiche, determinante soprattutto nel meridione a favore del partito egemone, la DC.

A partire dagli anni Novanta, con il deciso incremento del voto d’opinione, il concetto di “fedeltà leggera” diviene un patrimonio interpretativo particolarmente efficace per leggere i risultati elettorali. L’idea si basa sul presupposto che, da un parte, il credo politico non sia più così fondamentale, per il cittadino-elettore, nella formazione della propria personalità, come lo era stato al contrario nei decenni precedenti (da qui, l’idea di una sorta di “leggerezza” nel proprio coinvolgimento elettorale); dall’altra, che permanga comunque una forte fedeltà di voto, legata non già al partito quanto alla propria coalizione o alla propria area politica di riferimento.

Dopo un periodo di assestamento, dovuto alla scomparsa di molti dei partiti storici, il voto riacquistava dunque una nuova forma di stabilità, motivata non più dall’importanza che il partito rivestiva come rappresentante dei propri interessi, o della propria sub-cultura di riferimento, quanto dalla condivisione delle ideologie che le due aree politiche rappresentavano: destra contro sinistra, stato contro mercato, berlusconismo contro anti-berlusconismo sono state, fino alla fine del primo decennio del nuovo secolo, le fratture che determinavano maggiormente la scelta di voto dei cittadini.

Con l’avvento dei nuovi partiti a-ideologici, come il Movimento 5 stelle, si è presto dato per scontato che di quella contrapposizione non ci fosse più traccia e che, appunto, gli elettori si accostassero al voto privi di “pregiudizi” contro questa o quella forza politica. Come se fossero prodotti di consumo, altamente interscambiabili a seconda del momento e della situazione del paese, e condizionati prevalentemente dalla capacità comunicativa dei diversi leader.

Ma un’analisi più attenta dei flussi di voto, reali o potenziali, ci raccontano una realtà un po’ più complessa. Limitandoci ai passaggi avvenuti tra le ultime elezioni politiche del 2018 e le odierne dichiarazioni di voto (come si vede nella tabella qui accanto), il quadro che ci si presenta dinanzi non si discosta poi molto da quanto accadeva all’epoca della fedeltà leggera dei decenni della seconda repubblica, con un unico (sebbene significativo) mutamento, dovuto alla presenza del M5s.

Dunque, i partiti del centro-sinistra e quelli del centro-destra restano ancorati ad una percentuale di fedeli particolarmente elevata (rispettivamente, dell’88% e del 94%), con un passaggio di voti tra le due aree (i “traditori”) quasi inesistente. Gli unici elettori che al contrario si spostano in misura significativa sono quelli che nel 2018 avevano votato appunto per il movimento fondato da Grillo, che è caratterizzato da un tasso di fedeltà piuttosto limitata, di poco superiore al 50%.

Così, il deciso incremento del centro-destra e quello più circoscritto del centro-sinistra è dovuto sostanzialmente alle scelte dei pentastellati in uscita, che hanno premiato soprattutto la Lega (nel 2019) e più recentemente Fratelli d’Italia, oltre ad una quota minore che è approdata al Partito Democratico. La fedeltà di area esiste ancora, dunque, e i rapidi cambiamenti nelle gerarchie partitiche sono dovuti sostanzialmente a passaggi all’interno della stessa area politica: il partito di Meloni, ad esempio, è parecchio cresciuto negli ultimi due anni grazie agli elettori di Berlusconi e di Salvini che sono passati dalla sua parte.

Se le scelte future del nuovo Movimento 5 stelle, con la leadership di Conte, dovessero realmente andare verso un’alleanza con il Pd, è possibile che ci troveremo presto in una situazione molto simile a quelle dei decenni passati, con un centro-destra vicino al 50% e un’area “progressista”, come sempre a rincorrere, distaccata di una decina di punti. Entro qualche mese lo sapremo…




Il governo non ha scelta

Discutiamo, discutiamo pure. Dividiamoci fra “aperturisti” e “chiusisti”. Ripetiamo il mantra secondo cui la salvezza sono i vaccini. Continuiamo a invocare una “data certa” per le riaperture. Però la realtà è che il governo non ha alternative. Verosimilmente sa benissimo che cosa dovremmo fare, ma altrettanto verosimilmente sa che – arrivati al punto cui siamo arrivati – l’unica cosa che può fare è quella sbagliata: aprire appena si libera qualche centinaio di posti nelle terapie intensive, pregando Iddio che l’Italia non ripercorra la triste parabola della Sardegna, precocemente promossa a “regione bianca” per essere immediatamente retrocessa a “regione rossa”.

Verso questo scenario ci conducono due fattori estremamente potenti. Il primo è la composizione politica del governo, che per la prima volta dall’inizio della pandemia deve tenere conto sia della spinta della sinistra ad aprire le scuole e le attività culturali, sia di quella della destra ad aprire gli esercizi commerciali. Da questo punto di vista, l’allargamento della maggioranza ha rafforzato le spinte aperturiste, e indebolito il già minoritario partito della prudenza: ora sinistra e destra non si confrontano sulle ragioni della salute e su quelle dell’economia, ma semplicemente competono per intestarsi il merito delle riaperture che (presto) verranno.

Ma c’è un altro fattore, ben più potente, che sta riducendo al silenzio il partito della prudenza, ed è che la strada percorsa dai paesi che, per lo più senza vaccini, hanno domato l’epidemia, per noi è divenuta semplicemente impercorribile.

Che cosa hanno fatto paesi come l’Irlanda, la Danimarca, il Portogallo, la Svizzera, il Canada, il Sud Africa?

Hanno fatto quello che noi stessi abbiamo fatto un anno fa, nella prima fase  dell’epidemia: un lockdown tempestivo e serio. Grazie ai dati di mobilità di Google è facile misurare il grado di rispetto del confinamento in casa dei vari paesi, e il risultato è chiarissimo: fatta 100 la forza del nostro lockdown di un anno fa (aprile 2020) il nostro ultimo lockdown è stato inferiore a 50 (e addirittura a 30 nel febbraio scorso), mentre quello dei paesi che ce l’hanno fatta è stato prossimo a 100, cioè eguale al nostro durante la prima ondata. Insomma, loro il lockdown l’hanno fatto davvero, noi ci siamo baloccati per ben 6 mesi con il geniale algoritmo dei colori. E lo abbiamo fatto perché non abbiamo mai cambiato la filosofia che ha guidato il governo dell’epidemia: chiudere solo quando si intravede il collasso del sistema sanitario, e le file di ambulanze che non riescono a entrare in ospedale mettono a tacere il partito del Pil; riaprire non appena gli ospedali accennano a svuotarsi e il valore di Rt scende sotto 1. Una filosofia, peraltro, cui si è sempre accompagnato un comandamento non scritto: “non avrai altro Dio all’infuori del lockdown” (e ora del vaccino…). Un comandamento non sorprendente, perché gli dei minori si chiamano: tamponi di massa, tracciamento, sorveglianza delle quarantene, medicina territoriale, ricambio dell’aria nei locali chiusi, rafforzamento del trasporto pubblico locale, solo per citarne alcuni; e costano molta più fatica di un decreto che ci chiude tutti in casa.

Se questo a grandi linee è quel che è successo, verrebbe da dire: perché, visto che siamo indietrissimo sulle vaccinazioni, non possiamo fare oggi quel che il partito della prudenza (Crisanti, Galli, Ricciardi) non si è mai stancato di raccomandare negli ultimi 6 mesi?

La risposta è drammatica: perché abbiamo esaurito tutte le riserve, a tutti i livelli. E quando le riserve sono esaurite, un governo non può che provare a ricostituirle, anche se questo costerà altre migliaia di morti.

Ma riserve di che cosa?

Riserve di pazienza, innanzitutto: su 14 mesi, ne abbiamo avuti appena 4 di libertà, o meglio di libertà vigilata: giugno, luglio, agosto, settembre. La gente è esasperata, e ha perfettamente ragione. Non si può stare mesi e mesi nell’attesa messianica che “i dati migliorino”, facendo sacrifici che sono certamente minori di quelli di un anno fa, ma a differenza di quelli sono risultati perfettamente inutili: i morti di oggi sono più o meno quelli di novembre, così le ospedalizzazioni, così i ricoveri in terapia intensiva.

Non sono però solo i nostri nervi ad essere messi a dura prova. Per circa metà del paese, ad essere esaurite sono anche le fonti materiali di sostentamento. Noi oggi vediamo scorrere in tv le immagini degli esercenti, degli artigiani, delle partite IVA che ogni giorno protestano in piazza perché 6 mesi consecutivi di chiusure e limitazioni hanno ridotto allo stremo milioni di famiglie. Ma sembriamo non renderci conto che il mondo che essi rappresentano non è un piccolo (sia pur importante) settore della società italiana, ma ne costituisce circa la metà, forse persino qualcosa di più della metà: dietro a 5 milioni di lavoratori autonomi non ci sono solo loro, e le rispettive famiglie, ma c’è la sterminata realtà dei dipendenti delle piccole imprese, dimenticate dalla legge e dalle organizzazioni sindacali. Una società del rischio, esposta alle turbolenze del mercato, che nulla ha a che fare con l’altra metà della società italiana, costituita dal vasto mondo dei garantiti: pensionati, impiegati pubblici, dipendenti delle imprese grandi e medie, tutti soggetti che durante la pandemia non hanno sofferto perdite di reddito, e anzi spesso, grazie al rallentamento dei consumi, hanno aumentato i depositi in banca.

La frattura fra questi due mondi, quello dei tutelati dalla mano pubblica e quello degli esposti ai rischi del mercato, è sempre esistita nella società italiana, ma durante la pandemia si è enormemente approfondita, non solo per ragioni ovvie (le chiusure colpiscono di più il lavoro autonomo), ma perché fino a 2 mesi fa la politica ha nettamente privilegiato i membri della società delle garanzie, incanalando il grosso delle risorse al mantenimento delle tutele dei già garantiti, e lasciando solo le briciole all’altrettanto vasto mondo dei non garantiti. La politica, in altre parole, anziché cercare di attenuare la voragine che si stava allargando fra garantiti e non garantiti, ha parteggiato nettamente per i primi, fino al punto di incrementarne alcune tutele, come nel caso dell’aumento agli statali concesso in piena pandemia non solo a medici e infermieri (come era giusto) ma a tutti, compresi i molti dipendenti in smart working, cui dobbiamo la spettacolare caduta di efficienza della Pubblica Amministrazione.

Perché è successo?

E’ semplice, perché il governo era giallo-rosso, e da decenni la sinistra preferisce rappresentare gli interessi e le aspirazioni della società delle garanzie, lasciando la società del rischio alla destra. Con un risultato paradossale: di fronte alla più grave diseguaglianza prodottasi nella storia repubblicana, la sinistra al governo – da sempre, a parole, paladina della lotta alle diseguaglianze – non solo ha latitato, ma ha fatto quel che era in suo potere per accentuarla, e così garantire i propri ceti di riferimento; mentre la destra, che da decenni i propri ceti di riferimento li ha nel mondo dei produttori, si trova oggi ad essere uno dei pochi argini contro l’aumento delle diseguaglianze.

Ma, da un paio di mesi a questa parte, la destra non è più all’opposizione (Fratelli d’Italia a parte), e partecipa pienamente al governo. E si trova di fronte a un problema che, arrivati a questo punto, ha un’unica soluzione. Il problema è quello di ridare ossigeno ai lavoratori autonomi, stremati da un anno di politiche pro-garantiti. La soluzione, arrivati all’ennesimo (e insufficiente) scostamento di bilancio, non può che essere quella di riaprire, e consentire agli operatori economici di sfruttare le opportunità della stagione turistica.

Ecco perché, dicevo all’inizio, il governo non ha alternative: deve aprire, anche se sa che non ci sono le condizioni per farlo in sicurezza. E’ l’amaro lascito di un anno di inerzia sulle misure alternative al lockdown. C’è almeno da augurarsi che tale inerzia, che già ci è costata la seconda ondata e la terza, non si perpetui nei prossimi mesi, alimentata dalla speranza che il combinato disposto dei vaccini e della bella stagione basti a evitarci la quarta ondata, e ci levi le castagne dal fuoco per sempre.

Perché quella speranza sussiste, ma è ben lontana dal costituire una certezza.

Pubblicato su Il Messaggero del 16 aprile 2021




Terza Repubblica o colonia del nord Europa?

I partiti italiani. Parte terza

Dopo aver trattato per sommi capi della storia della prima repubblica e dopo aver analizzato nascita e crisi della seconda repubblica, giungiamo finalmente alla terza e ultima parte di questo lavoro, in cui mi occuperò dello scenario politico nazionale attuale, ossia della fase che – concludendo il travaglio della seconda repubblica iniziato con il governo Monti – dovrebbe verosimilmente aprire una nuova importante stagione politica nazionale.

Populismo e sovranismo come prime reazioni politicamente organizzate degli esclusi dall’agenda UE.

Come si era già accennato nella seconda parte di questo lavoro, due sono state le forze politiche nazionali che negli ultimi anni hanno incarnato l’opposizione all’agenda mercantilista (da alcuni definita neo-liberista) dell’UE, attuata dal centro sinistra a trazione PD: la Lega e il Movimento 5 stelle. Si tratta tuttavia di due forze politiche differenti per genesi e interessi di riferimento. Il che peraltro spiega l’evoluzione di linea politica che ciascuno dei due movimenti ha avuto durante la lunga stagione del centro-sinistra europeista.

La Lega – come si è accennato – esisteva da decenni, già dalla fine della prima repubblica, come movimento inizialmente connotato da un forte radicamento territoriale ed identitario nelle regioni del nord Italia: regioni in cui – come è noto – è molto alta la percentuale di soggetti che appartengono proprio al quel ceto medio di commercianti, operai ed impiegati benestanti, artigiani e piccoli imprenditori, il cui benessere le politiche mercantiliste che piacciono all’UE mirano specificamente a disgregare. Non dovrebbe dunque stupire che la parte del ceto medio allargato che votava il centrodestra, e in particolare una parte degli elettori che una volta erano berlusconiani, si siano progressivamente spostati – a partire dalla “grande depressione montiana” inaugurata nel 2011 – verso il movimento leghista. Altrettanto ha fatto una certa porzione dell’elettorato di sinistra, rappresentato dai lavoratori dipendenti delle piccole e medie imprese (dunque quelli meno sindacalizzati), che rappresentano la vittima – forse non designata, ma certamente inevitabile – dei modelli economici e sociali che l’UE (e dunque il centrosinistra a guida PD) stava imponendo al paese. E’ tuttavia bene ricordare sin d’ora che nella Lega convivono due anime: quella industriale manifatturiera del nordest e, ma in minor proporzione, anche del nord ovest (e che non è in via di principio sfavorevole a una integrazione europea, in quanto è riuscita a inserirsi nella filiera produttiva tedesca o a farsi finanziare da capitali francesi) e quella meno “nordista” e – in generale – più legata al mondo del commercio, dell’artigianato e delle libere professioni, assai più dipendente dalla domanda interna e, di conseguenza, assai meno europeista.

Questa è la ragione per cui la Lega – scegliendo di restare all’opposizione (a differenza di Forza Italia) sin dall’inizio della lunga fase politica del rigore deflattivo inaugurata da Monti, ma soprattutto decidendo di abbandonare la sua tradizionale identità “nordista” e secessionista – ha gradualmente assunto il ruolo di principale forza anti-europeista (ma sarebbe meglio dire “anti-unionista”) non tanto per precisa scelta ideologica, ma in quanto ha finito per raccogliere i consensi (e dunque rappresentare gli interessi) di una vasta porzione del ceto medio allargato (non più solo del nord del paese) che le politiche del nuovo centro sinistra tendono a ricacciare nel proletariato da sussidiare o, almeno, a collocare fuori dall’area del benessere di cui godeva in passato. Sono stati dunque i “nuovi leghisti” del centro e del sud (insieme ad una parte dei vecchi leghisti del nord) a spostare il baricentro della Lega verso posizioni euroscettiche.

L’altro movimento di protesta contro “il sistema” – ossia il Movimento 5 stelle – appare invece focalizzato sugli interessi di parecchi tra quelli che, già prima di Monti, non se la passavano per niente bene, ma che la crisi e le politiche del rigore montiano hanno portato in “avanzato stato di riproletarizzazione”. Questo significa che il Movimento 5 stelle – quanto meno nella sua fase dei “vaffa” – incarnava una protesta, da un lato, più estrema nelle forme, ma per altro verso decisamente meno omogenea, sotto il profilo degli interessi di classe economica, rispetto a quella della Lega. Nei sostenitori del movimento sono infatti confluite alcune componenti dell’elettorato della sinistra estrema (in particolare quelle deluse dalla svolta europeista e mercantilista del PD ma che non si riconoscevano nel comunismo ortodosso di tradizione marxista), sia alcuni anarchici e sia – soprattutto – tutta quella vasta platea di soggetti, ideologicamente neutrali, che però – per effetto delle crisi economiche degli ultimi anni, aggravate dalle ricette deflattive del rigore europeo – hanno finito, specie nel meridione del paese ma anche nelle grandi aree urbane del centro-nord, a dover “campare” di lavoricchi precari (spesso para dipendenti precarizzati con partita IVA) se non di espedienti. In breve: se la Lega “denordizzata” si preoccupava degli interessi di quelli che temevano di essere i futuri esclusi dal benessere, il M5S nasceva per rappresentare quelli che esclusi lo erano già.

Entrambi i movimenti – Lega e Movimento 5 stelle – sono comunque cresciuti nei rispettivi consensi perché si opponevano alle politiche rigoriste e deflattive della “sinistra europeista” a guida PD, ma la Lega captava la protesta e il consenso delle categorie produttive e dei lavoratori del settore privato che chiedevano in sostanza di poter continuare a lavorare per tornare a far crescere il loro benessere (così come di chi voleva garantirsi pensioni proporzionate ai contributi versati e agli anni di lavoro effettuati), laddove il M5s riscuoteva consensi in categorie che – per migliorare la propria situazione – potevano avere interesse anche solo a percepire sussidi (o posti) pubblici per continuare a campare.

Questa differenza – che si traduce anche in una diversa distribuzione geografica dei relativi elettori: centro nord leghista e sud e isole a cinque stelle – è fondamentale per comprendere l’evoluzione successiva dello scenario politico. Si noti infatti che una fetta non trascurabile dell’elettorato del movimento 5 stelle, anche nella fase di protesta antieuropeista, era rappresentato proprio da quelle categorie di cittadini che – nel sistema tedesco ispirato al modello Hartz – sono destinatari di sussidi pubblici. Questo spiega bene del resto perché i grillini abbiano trovato con la Lega uno dei pochi punti di convergenza (e, per converso, di frizione col PD) sul tema delle politiche migratorie: i migranti economici sono infatti dei diretti concorrenti – specie in alcune aree geografiche del paese – degli elettori grillini proprio sul mercato (oltre che del lavoro, anche) dei sussidi pubblici ai bisognosi.

La differente composizione tra l’elettorato leghista e quello grillino rappresenta peraltro anche la ragione per cui – dopo la tornata elettorale che mandava in minoranza il blocco europeista e vedeva un sensibile successo del Movimento 5 stelle, seguito a distanza dalla Lega – il governo gialloverde riusciva a produrre solo i decreti sicurezza (unica misura realmente condivisa a livello ideologico), la flat tax e quota cento (in quota Lega) e il reddito di cittadinanza (in quota cinque stelle), prima di finire travolto dai conflitti tra i due partiti, peraltro innescati delle abili manovre messe in campo, al momento della formazione del governo, da quelle parti del deep state da sempre favorevoli al blocco europeista e al PD. Merita infatti di essere segnalato che il Presidente Mattarella, a suo tempo eletto dal blocco europeista (specie grazie ad un Matteo Renzi, allora segretario del PD, assai impegnato a favore della sua elezione) soprattutto per assicurare una continuità agli indirizzi politici della presidenza Napolitano, mostrava un deciso, e secondo alcuni irrituale, interventismo nella formazione del governo gialloverde: dapprima il Presidente della Repubblica si rifiutava di accettare una lista di ministri in cui era stato inserito – in quota Lega – un soggetto che era oggettivamente dotato di tutti i requisiti “tecnici” per rivestire l’incarico come Paolo Savona (escluso per il solo fatto di aver manifestato in passato posizioni euroscettiche, dunque per una ragione esclusivamente politica), per poi fare in modo che MEF e ministero degli esteri fossero occupati da due ministri “tecnici” che, oltre a non provenire dalle fila dei partiti della maggioranza di governo, per collocazione e percorso politico potevano essere annoverati tra gli europeisti. E qui c’è davvero poco da replicare a chi stigmatizza l’operato di Sergio Mattarella: un organo che, per costituzione, è privo di ogni responsabilità politica, eccede chiaramente le proprie prerogative nella misura in cui pretende di superare il parlamento per dare un indirizzo politico al governo nazionale. Il vulnus costituzionale c’è stato ed è pure stato assai grave. Ovviamente tutto è avvenuto nell’assordante silenzio di giuristi e mass media.

Oltre che poco in linea con la costituzione, peraltro, si è trattato di un intervento gravido di conseguenze politiche (il che peraltro – secondo alcuni commentatori – era esattamente quel che l’intervento in questione mirava a ottenere). L’inserimento in posizioni chiave di questi due ministri – insieme al successivo doppiogiochismo del premier Conte sui dossier europei, in relazione alle quali prendeva decisioni non aderenti all’indirizzo politico parlamentare – avrebbe infatti rappresentato un fattore decisivo per mettere in crisi il governo gialloverde, entrato in fibrillazione per il fatto che, alle elezioni europee del 2019, la Lega faceva il pieno di voti, accreditandosi dunque come prima forza del paese a livello di consensi. Una simile situazione, secondo le liturgie della politica, avrebbe dovuto portare a un ampio rimpasto di governo, con aumento del “peso” – in termini di ministri e sottosegretari – della Lega rispetto all’allora alleato di governo.

Sennonché l’esperienza di governo gialloverde aveva con ogni probabilità convinto i vertici politici della Lega del fatto che la componente pentastellata della maggioranza – con la sponda dei già citati due ministri tecnici “europeisti” e a causa dell’ormai conclamata ambiguità del Presidente del Consiglio su alcuni dossier europei, peraltro ampiamente sostenuta dal Quirinale – difficilmente avrebbe consentito l’adozione di una linea politica che andasse al cuore del problema italiano che, come dovrebbe essere ormai chiaro a chi legge, per la Lega è rappresentato dal conflitto tra il tradizionale modello di sviluppo keynesiano espansivo del nostro paese (che trova chiaro riscontro nella carta costituzionale nazionale) e l’assetto mercantilista e rigorista del modello economico dell’UE (per come definito da TUE, TFUE e nei regolamenti in materia di moneta unica e aiuti di stato nonché in quelli che regolano il settore creditizio). Questo spiega perché la Lega, invece che spingere per un immediato rimpasto, tentava di forzare la mano, alla ricerca di elezioni anticipate, togliendo l’appoggio parlamentare al primo governo Conte. E qui finisce quella che possiamo definire “storia politica”. Il resto è attualità, di cui parleremo qui appresso.

Premessa: i diversi livelli del conflitto sotteso all’attuale fase politica.

Per comprendere la situazione politica attuale è il caso di fare un po’ di analisi marxista (o, per chi preferisce, hegeliana), senza tuttavia la pretesa (né invero l’auspicio) di essere marxisti anche nelle soluzioni. Il travaglio della seconda repubblica ha infine fatto emergere le due nuove classi economiche e sociali in conflitto (o – per chi preferisce Hegel – la tesi e l’antitesi). E si tratta di un conflitto articolato su più livelli: economico, giuridico e sociale (per questo la sintesi – se mai arriverà – sarà comunque difficile).

A livello economico il discorso dovrebbe essere ben chiaro per chi ha letto le prime due parti di questo scritto: lo scontro è tra il modello keynesiano (fondato su politiche anti cicliche di spesa pubblica espansiva tendente alla piena occupazione e allo stimolo della domanda interna) e il mercantilismo secondo il modello delle riforme Hartz (politiche pro cicliche deflattive e di controllo dei prezzi, con disincentivo della domanda interna e delle dinamiche salariarli, accompagnate da una concentrazione degli interventi pubblici in incentivi alla produttività e all’export con contestuale sussidio diretto – sempre con risorse pubbliche – alle sacche di disoccupazione e povertà che l’adozione del modello in questione inevitabilmente genera).

Questo conflitto tra modelli economici si traduce tuttavia –nel nostro ordinamento – in un conflitto giuridico tra l’assetto costituzionale del ’48 (chiaramente di stampo keynesiano) e i principi (altrettanto chiaramente mercantilisti) che stanno invece alla base dei trattati unionisti di Lisbona e Maastricht, così come dei vari regolamenti in tema di moneta unica, di aiuti agli stati e di mercato finanziario e bancario. Il conflitto, si badi bene, sorge proprio con la creazione della “nuova” Unione Europea (che rappresenta il risultato della ristrutturazione dell’architettura europea seguita alla caduta del blocco sovietico), per aggravarsi ulteriormente con la successiva adozione della moneta unica sotto il controllo dalla BCE. La precedente struttura della CEE secondo il trattato di Roma  – in quanto semplice area di libero scambio e di libera circolazione – era infatti ideologicamente più neutrale, consentendo ancora ai singoli stati membri di adottare i modelli di sviluppo economico che preferivano.

Sul piano sociale, infine, il conflitto economico si risolve nel nostro paese in una forte pressione politica sul ceto medio allargato, tesa a polarizzarlo e, dunque, a spezzarlo: da una parte il ceto medio che potremmo definire “produttivo” (professionisti, artigiani, commercianti al dettaglio e piccole e medie imprese) che – per non scomparire – finisce per sostenere le agende più Keynesiane insieme ai lavoratori dipendenti del settore privato e – dall’altra parte – l’apparentemente paradossale alleanza tra i rentier, la grande finanza e la grande impresa, per un verso, e i variamente diseredati, il ceto medio a più alto reddito, l’impiego pubblico, che hanno un preciso interesse ad appoggiare le forze politiche che propongono modelli mercantilisti e produttivisti, ma anche più assistenzialisti. Lavoro produttivo (ogni tipo e forma di lavoro che contribuisce ad una attività il cui risultato soddisfa una domanda effettiva di beni o servizi) contro rendita (ogni tipo e forma di rendita, incluso il relativo “indotto”) potrebbe dunque essere il modo più semplice – ma anche in certa misura semplicistico – per definire lo scenario attuale sotto il profilo del conflitto sociale. Si tratta di uno scenario semplificato, in quanto la situazione è complicata dal fatto che vi è una parte del mondo produttivo – rappresentato dalle imprese piccole e medie, specie del nord est del paese, che sono integrate nelle filiere produttive della mitteleuropa – che in realtà ha interessi convergenti, quanto meno in termini di integrazione europea, con quelli delle categorie improduttive e del grande capitale.

Inutile dire che una situazione sociale ed economica tanto intricata sta generando uno scenario politico assai complesso e, quel che più conta, molto difficile da ricomporre in una sintesi efficace. Ma vediamo finalmente di capire cosa sta succedendo ai giorni nostri.

La (ri)collocazione del movimento cinque stelle: dai “vaffa” grillini a gamba mancante della dottrina Hartz all’italiana.

Al termine dell’esperienza del primo governo Conte, il Movimento 5 stelle, essenzialmente per non correre il rischio di perdere – con elezioni anticipate – il ruolo di prima forza politica in parlamento, sceglieva di allearsi con il suo arcinemico del giorno prima, rappresentato dal PD e dalle altre forze europeiste, creando il paradosso di una maggioranza “giallorossa” a sostegno di un esecutivo appoggiato dal centro sinistra, ma guidato dal medesimo Presidente del Consiglio che aveva retto il governo precedente, che esprimeva un programma in antitesi con quello del PD. La cosa non deve però stupire, giacché Conte – anche nel primo mandato – aveva in realtà, con la sponda del Quirinale e contro l’indirizzo politico dalla sua maggioranza parlamentare, portato avanti un’agenda politica che potremmo definire “cripto-europeista”. Dunque il secondo Conte – inteso come Presidente del Consiglio – è solo il primo Conte che può finalmente agire alla luce del sole nel portare avanti l’agenda europeista (dunque franco-tedesca), in piena continuità rispetto agli esecutivi Monti, Letta, Renzi e Gentiloni.

Le ragioni del favore mostrato sin da subito dall’UE per l’alleanza tra PD e Movimento cinque stelle non dovrebbero  dunque essere difficili da comprendere per chi ha capito i termini dello scontro politico e sociale attualmente in corso in Europa: la maggioranza giallorossa, sotto il profilo della rappresentanza politica, esprime infatti alla perfezione l’alleanza tra gli esponenti delle categorie sociali che stanno ai due estremi del modello Hartz: grande capitale, deep state e impiego pubblico, in quota PD, e neo-proletariato interessato al sussidio pubblico (o al massimo al “posto” pubblico) in quota M5S. Poco conta dunque che il M5S si sia poi spaccato sull’appoggio al governo Draghi, giacché la linea politica che entrambe le anime del movimento rappresenta, seppure in diverso modo e con differenti sfumature di “vaffa”, è appunto il lato assistenziale della dottrina Hartz. Il M5S – anche se scisso o diviso in diversi gruppi parlamentari – tenderà dunque d’ora innanzi a collocarsi nello stesso blocco del PD e dei partiti europeisti più radicali. Un segno evidente in tal senso è il tentativo di Grillo di riconfigurare il movimento affidandolo alla guida dello stesso Conte, ossia a chi era stato il garante dell’alleanza di governo con il PD.

Il gruppuscolo degli ultraeuropeisti

In parlamento vi sono ormai da qualche tempo dei piccoli partiti (Azione, +Europa, Leu) che, di fatto, rappresentano le truppe di complemento della prosecuzione dell’asse tra PD e M5S. Si tratta infatti a ben vedere – sotto il profilo della linea politica – di altrettanti correnti del PD, in quanto ne condividono l’europeismo ad oltranza, pur declinandolo secondo differenti sensibilità: ad esempio abbiamo l’impostazione radical liberal (in linea con la radical left americana) per il partitino di Emma Bonino e anche per Leu, che trovano terreno comune col PD – ritagliandosi uno spazio di agibilità politica – puntando sui noti temi sociali e civili del liberalismo più estremo (gender, cancel culture, individualismo spinto etc.).

Il partito di Calenda è invece assai più interessante, non tanto per quel che dice (proponendo in sostanza una nozione di politica come di buona amministrazione), quanto per il fatto che – in fin dei conti – è il primo partito che ammette di non avere una sua visione politica: la “grande” politica delle scelte di fondo, per Calenda e soci, la fa infatti già l’UE, laddove alla politica nazionale resterebbe in definitiva solo il compito di amministrare bene lo stato nel rispetto di linee programmatiche già decise altrove. Il movimento in questione – non so quanto consapevolmente – è insomma il vero paradigma di quel che potrebbero essere i partiti italiani di centro sinistra: una sorta di versione più efficiente (e meno ispirata a logiche clientelari) del PD, dunque partiti che si occupano di gestire al meglio la colonia italiana nei limiti delle direttive di Bruxelles. Ovviamente – per ragioni intuibili – tutti questi movimenti resteranno per sempre Legati a doppio filo allo schieramento del PD.

Le due anime del carroccio.

La Lega è l’unico partito in senso proprio che è restato sulla scena politica nazionale, essendosi tutti quanti gli altri movimenti politici trasformati o in piccoli o grandi comitati elettorali o in comitati di gestione di piccole o grandi clientele politiche. Il movimento leghista, oltre ad essere ancora presente e capillarmente articolato sul territorio in vere e proprie sezioni, è infatti dotato di una organizzata gerarchia interna ed applica una ferrea disciplina di partito. Gli aderenti si dividono tra semplici sostenitori (che non hanno obblighi di collaborare all’attività del partito ma non possono ambire a cariche o candidature) e veri e propri tesserati (che devono invece fare attività sul territorio e possono in cambio ambire a incarichi politici). Si tratta insomma – quanto a struttura e organizzazione – di un partito di stampo “sovietico”, nel senso che è modellato sulla falsa riga del vecchio PCI degli anni della cortina di ferro. Solo un partito con queste caratteristiche poteva del resto superare pressoché indenne il micidiale colpo assestatogli dalla magistratura con l’azzeramento della sua capacità finanziaria in seguito alla nota vicenda dei 49 milioni di euro.

Proprio questa ferrea disciplina e organizzazione interna rende meno evidenti le dinamiche delle “correnti” interne. Come si è accennato, infatti, nella Lega convivono due componenti, una più antica (e più “nordista”) e una più recente (e più “nazionale”). La componente nordista (facente capo alla vecchia guardia che si identifica in personaggi come Giorgetti e Calderoli e che trova in Zaia il riferimento di nordest) è meno decisamente euroscettica e si mostra più incline ad accettare politiche liberali (nel senso di mercantiliste), trovando i propri consensi sia in un certo mondo finanziario e imprenditoriale lombardo sia nelle imprese medie e piccole del triveneto (ma anche lombarde e piemontesi) che si trovano integrate nelle filiere produttive del nord Europa, così come nelle imprese che si sono internazionalizzate a livello di capitale e in quelle che si reggono principalmente sull’export. La componente più “nazionale” del partito (che si identifica grosso modo nella linea dei “nuovi” economisti della Lega, Borghi e Bagnai) è più giovane anagraficamente ed esprime posizioni nettamente euro critiche nonché una linea di politica economica neo-keynesiana, rappresentando il riferimento politico – oltre che dei lavoratori dipendenti delle piccole e medie imprese e di una parte dell’impiego pubblico – soprattutto del piccolo commercio e dell’artigianato, del mondo delle professioni e, infine, della piccola e media impresa meno internazionalizzata e di quella che ancora si rivolge principalmente al mercato interno.

Si noti anche – perché è importante per capire il senso di alcune mosse della Lega – che gli interessi delle categorie che si riconoscono nella corrente più nordista della Lega sono in certa parte assimilabili a quelli di parte dell’elettorato della “prima” Forza Italia (quella che qualche anno fa rastrellava consensi quasi plebiscitari in Lombardia), di guisa che proprio l’esistenza di questa corrente rappresenta in realtà il collante che tiene in vita l’alleanza tra Forza Italia e la Lega. E’ infatti verosimile supporre che – a una ricollocazione di Forza Italia in un polo di centro con Italia viva a sua volta alleato con il centrosinistra (ripetendo lo schema europeo delle “grandi coalizioni” tra popolari e socialisti) – implicherebbe la conservazione dei voti di Forza Italia nel sud del paese, ma al grave prezzo di una probabile emorragia di voti nordisti verso la Lega: voti che finirebbero per essere intercettati dalla corrente nordista del carroccio. La maggiore importanza acquisita dalla corrente nord-leghista in seguito all’appoggio della Lega al governo Draghi consente dunque in realtà alla Lega di consolidare – nei confronti di Forza Italia – una posizione di vantaggio politico tale da consentirgli di esercitare meglio la sua leadership nel centrodestra.

Matteo Salvini è sinora riuscito a interpretare assai bene il (non facile) ruolo di mediatore tra le due anime del carroccio, sia utilizzando le sue abilità tattiche per far crescere i consensi del partito senza scontentare oltremodo nessuna delle due correnti, sia focalizzando l’elettorato sulla sua figura di “capitano” del movimento. Sino a quando infatti i consensi si manterranno elevati e dipenderanno in ampia misura dal gradimento verso la persona dell’attuale segretario, infatti, nessuna delle due correnti del partito avrà alcun interesse a mettere in dubbio la leadership di Salvini nel partito. Personalizzare il consenso è insomma uno dei modi in cui Salvini riesce a mantenere l’equilibrio nel suo partito. Quel che tuttavia è ancora più interessante notare è come la Lega – in questa fase storica – stia tentando di realizzare al suo interno proprio la sintesi politica che dovrebbe anche realizzare la politica nazionale nel suo complesso, vale a dire coniugare il rilancio della domanda interna nel contesto di un ritorno a politiche economiche più keynesiane con la permanenza del paese nella cornice dell’UE.

Forza Italia dopo Berlusconi e la scommessa al centro di Matteo Renzi

Un tentativo di sintesi, ma differente, potrebbe peraltro essere in atto anche al centro. Dai tempi della vecchia DC il centro era infatti scomparso dai radar, frantumato dal terremoto di tangentopoli per poi essere diviso e assorbito a destra e a sinistra dall’adozione di sistemi elettorali maggioritari. Quando le leggi elettorali hanno iniziato a inserire correttivi proporzionali più significativi, ecco che il centro è magicamente ritornato un ipotesi politica. Si tratta però di un centro assai differente rispetto a quello di un tempo: numericamente assai più esiguo, si propone infatti lo scopo di rappresentare l’ago della bilancia tra il blocco di sinistra a guida PD e quello di destra capeggiato dalla Lega. Un simile ruolo politico potrebbe essere svolto solo se le due ali “centriste” dei due schieramenti – vale a dire forza Italia da una parte e Renzi dall’altra – riusciranno a unirsi in un unico gruppo parlamentare con sufficiente peso elettorale: una specie di kleine Koalition, che – però – avrebbe un peso politico importante – e anche determinante – qualora alle prossime elezioni raggiungesse consensi tali da consentirgli di essere appunto l’ago della bilancia tra le coalizioni di centrodestra e centrosinistra.

In questa direzione pare muoversi abbastanza decisamente una componente di Forza Italia che appare sempre meno allineata a Berlusconi e che, dunque, potrebbe tentare di acquisire un ruolo importante quando si aprirà la successione per la leadership del partito. Quanto a Renzi, la sua ben nota spregiudicatezza e i suoi altrettanto noti repentini ricollocamenti tattici rendono difficile fare previsioni attendibili, ma – guardando alla sua storia politica – è possibile supporre che la creazione di una “piccola DC”, che sommi – trasformandole in correnti interne al partito – le componenti meno berlusconiane di Forza Italia agli esponenti di Italia Viva (includendo magari anche renziani ancora in forza al PD), sia una ipotesi plausibile (e per ora frenata dal fatto che, se questo nuovo soggetto politico si presentasse domani alle elezioni, probabilmente la corrente Renziana avrebbe meno peso elettorale rispetto a quella forzista).

Quel che non è ancora chiaro è dunque se Renzi vuole fare la “nuova DC” riducendosi ad una alleanza di Italia Viva con Forza Italia (o con una sua parte) oppure se mira a qualcosa di ben più ambizioso: riprendere il controllo del PD, ricollocandone la linea politica più al centro, per poi assorbire quel che resta del partito di Berlusconi e creare davvero una nuova DC. Le recenti dimissioni di Zingaretti da segretario del PD, con designazione di Bonaccini, uomo notoriamente vicino a Renzi, potrebbe essere sintomo del fatto Renzi sta lavorando anzitutto a questo secondo scenario, lasciando dunque l’opzione “ago della bilancia” solo come “piano B”.

Fratelli d’Italia come vero partito conservatore italiano e il suo ruolo nel centrodestra

Fratelli d’Italia si è posto in evidente discontinuità di linea politica rispetto alla vecchia Alleanza Nazionale. Laddove infatti il partito di Gianfranco Fini aveva tentato di trasformare il partito in un movimento in giacca e cravatta “moderatamente liberale” (che aveva appoggiato il governo Monti), dunque che puntava allo stesso elettorato di Forza Italia e a una parte degli elettori meno nordisti della Lega, l’epoca di Giorgia Meloni segna invece un percorso di riavvicinamento verso posizioni più coerenti con le radici storiche (missine) del partito.

Fratelli d’Italia appare oggi l’unico partito autenticamente  conservatore presente nel panorama italiano nonché – in campo economico – l’unico movimento politico che esprime compatto una linea ideologicamente avversa al liberalismo. In sostanza la linea di Giorgia Meloni è nazionalista (dunque antieuropeista e sovranista per scelta ideologica), tradizionalista (dunque avversa all’agenda culturale liberal) nonché propensa all’interventismo pubblico in economia di tipo keynesiano (ma anche autarchico e corporativo) e per nulla mercantilista (e tanto meno globalista). Fratelli d’Italia – rispetto alla Lega – offre dunque una solida rappresentanza politica (ideologicamente più coerente anche se più polarizzata a destra) per chi sostiene posizioni euroscettiche, anti mercantiliste e anti globaliste.

Questo spiega perché, con Fratelli d’Italia, il gioco degli equilibri di coalizione nei confronti della Lega si svolge a parti invertite: l’indebolimento, con l’appoggio a Draghi, della componente sovranista della Lega a favore dell’ala più liberale – se rafforza la Lega nei suoi rapporti di potere con l’altro alleato, Forza Italia – gioca invece contro la Lega e a favore del partito di Giorgia Meloni. La presenza di Fratelli d’Italia nella medesima coalizione elettorale con la Lega, tuttavia, ha anche una funzione importante (e invece positiva) nella misura in cui consente che i voti leghisti “persi” per effetto della svolta “moderata” della Lega, restino comunque appannaggio della medesima coalizione, trasferendosi a Fratelli d’Italia. Fratelli d’Italia rappresenta dunque a sua volta una componente fondamentale per l’equilibrio della coalizione di centrodestra e anche per la stessa Lega, che – nella situazione attuale – ha di certo più interesse a conservare l’alleanza con il partito di Giorgia Meloni che non quella con il movimento di Berlusconi, specie contando – come si è detto – che una parte di Forza Italia sta flirtando in modo ormai piuttosto scoperto con Matteo Renzi e il PD.

Quel che resta di Gramsci

Una menzione a parte meritano i partiti (o, per meglio dire, il partito) di “vera” sinistra, ossia ispirati al socialismo marxista. In parlamento sono infatti restati a sventolare bandiera rossa solo i comunisti italiani di Rizzo, che portano avanti una linea politica avversa all’europeismo, individuando correttamente nell’UE un nume tutelare del capitalismo finanziario e mercantilista, che – ovviamente – chi si richiama al marxismo ortodosso non può che osteggiare (con buona pace del PD). E’ tuttavia altamente improbabile che il partito di Rizzo possa apparentarsi – in prospettiva elettorale o anche solo di governo – ad alcuno dei due schieramenti maggioritari e neppure all’eventuale “nuovo centro”. Quel che resta di Gramsci, dunque, starà perennemente all’opposizione, come il vecchio PCI, ma senza avere anche solo un frazione dell’influenza sociale e degli strumenti di pressione su cui poteva contare il vecchio partito comunista.

Si noti tuttavia che, negli ultimi tempi, vi è stato un fiorire di movimenti catalogabili come di sinistra (ad esempio Vox Italia, recentemente ridenominato in Ancora Italia, o il fronte sovranista italiano). Si tratta di movimenti accomunati dal tentativo di usare la bandiera dell’anti europeismo per cercare una ardita sintesi tra posizioni politiche ispirate alla sinistra più keynesiana (e anche a volte marxista), sovranismo nazionalista, umanesimo laico e libertarismo di matrice liberale classica. Solo il tempo dirà se il tentativo in questione riuscirà, per un verso, a incontrare consensi elettorali tali da portare a una rappresentanza parlamentare effettiva e, successivamente, a esprimere una linea politica parlamentare coerente. L’impressione è che simili movimenti – in ragione della loro forte opposizione alle politiche deflattive unioniste e all’austerità – se giungessero in parlamento potrebbero appoggiare più agevolmente l’azione di governo della coalizione di centro destra, che non quella del centro sinistra a giuda PD. Poco plausibile – per quanto non da escludersi a priori – appare anche l’apparentamento di questi movimenti coi comunisti italiani, considerando che il movimento in questione in questi ultimi anni ha sempre tenuto una linea assai identitaria nei confronti di ogni forma di “nuova sinistra” comparsa nell’agone politico nazionale, finendo in tal modo per perdere pezzi per strada e per non trovare alleati.

Terza Repubblica italiana o colonia dell’Unione Euroteutonica?

Se il governo gialloverde ha rappresentato l’antitesi della tesi politica euro montiana, il governo giallorosso ha segnato un chiaro tentativo di ritornare a quella tesi. Il punto vero è tuttavia che l’economia del paese è in sofferenza da troppi anni e, dopo il colpo tremendo assestato dal Covid, ormai è diventato difficile – per le categorie che del rigore europeista ancora beneficiano – riuscire a sostenere in modo credibile dinanzi alle maggioranze impoverite la narrazione per cui l’adesione al sistema dell’Euro e all’UE garantirebbe un benessere diffuso. La presa progressiva presa di coscienza del ceto medio allargato delle conseguenze nefaste dell’adesione all’UE e alla moneta unica sta quindi portando il sistema verso una vera crisi (nel senso dell’etimo greco); il che – se vogliamo adottare una prospettiva storicistica – significa che i tempi sono maturi per una sintesi.

Se la prospettiva è quella corretta, il tentativo di dare vita a un governo di larghe intese per gestire la coda dell’emergenza Covid potrebbe, hegelianamente, essere considerato lo strumento obbligato per una sintesi dialettica tra i modelli socioeconomici che si fronteggiano nell’agone politico e sociale. Se infatti da un lato sarebbe assai poco realistico proporre un semplice ritorno al vecchio keynesianesimo democristiano (che è il sistema ancora indicato da alcuni per mettere fine al “neoliberismo” globalista), sarebbe per converso ingiusto (oltre che ben poco costituzionale) accettare supinamente l’imposizione ex abrupto al nostro paese di modelli economici e sociali che – oggettivamente – da noi non hanno funzionato, portando a una riduzione sensibile del benessere della maggioranza degli italiani e recando danni enormi al tessuto produttivo ed economico (imposizione che, in sintesi, è invece quello che vorrebbero ottenere i pasdaran dell’europeismo a tutti i costi, PD in testa). Occorre in sostanza che – in Italia – tra Keynes e Hartz venga trovato un punto di equilibrio. Ma, e qui sta il punto vero, la sintesi non è necessaria solo a livello italiano (e, a dire il vero, neppure lo sarebbe solo a livello di Unione Europea). Siccome la crisi generata dallo scontro tra le tesi ed antitesi in conflitto è globale, altrettanto globale deve essere la sintesi. Ma chi potrebbe trovare il bandolo di una simile matassa?

Chi ha letto il mio commento sul discorso di Mario Draghi a Rimini dovrebbe sapere già come la penso al riguardo: Mario Draghi – nascendo keynesiano e dunque comprendendo perfettamente i termini economici e sociali del problema (così come le ricadute a livello globale delle eventuali soluzioni scelte per risolverlo), sapendosi muovere con sicurezza nel mondo della politica economica e monetaria internazionale, avendo dimostrato di essere europeista ma non appiattito sugli interessi di Berlino e Parigi e, dulcis in fundo, godendo di appoggi e fiducia in ambienti che possono decidere di investire risorse ingentissime sulle sue eventuali scelte di politica economica – è forse la sola persona che potrebbe tentare di elaborare, proprio partendo dall’Italia, una proposta di nuovo modello di sviluppo economico-finanziario che, adattando le idee di Keynes al nuovo contesto e alle diverse esigenze della globalizzazione, operi un riequilibrio nella struttura di una UE che invece, ora come ora, è oggettivamente tanto sbilanciata a favore di alcune economie e a danno di altre da rendere più che probabile un suo collasso a medio termine, in assenza di correttivi. Siccome però la stabilità dell’UE rappresenta un tassello fondamentale per gli equilibri geopolitici ed economici globali, ecco che adottare la “cura Draghi” per l’Italia e l’UE potrebbe giocare anche nell’interesse di attori politici, economici e finanziari extraeuropei, primi fra tutti gli Stati Uniti.

La storia potrebbe dunque ripetersi: così come – nonostante i mal di pancia di Berlino – Mario Draghi, con l’assenso di Parigi, aveva già a suo tempo salvato l’Euro cambiando le carte in tavola rispetto alle regole unioniste, ce la farà questa volta supermario a salvare l’Italia e a ravvivare, avviandone un ripensamento complessivo, l’ormai stanco progetto dell’Unione Europea? Solo il tempo può dirlo. A noi tocca sperare che le forze politiche nazionali così come le cancellerie europee (e, come vedremo qui appresso, Parigi in particolare) gli consentano ancora di fare whatever it takes, nella consapevolezza che si tratta di una delle poche persone che è in grado di trovare il bandolo della matassa italiana senza far saltare in aria in malo modo la costruzione europea.

L’Euro non funziona? Facciamone due!

La pre-condizione che potrebbe consentire una sintesi tra Hartz e Keynes in Europa è che – nel contesto di una maggiore integrazione anche politica dell’Unione Europea, che dovrebbe infine dotarsi della possibilità di emettere titoli di debito pubblico autonomo e finanziabile con l’emissione di moneta da parte della BCE – si formino due aree valutarie distinte: un Euro del sud meno forte (che includerebbe Francia, Italia, Spagna, Portogallo, Grecia) e un Euro del nord rivalutato (ossia in sostanza un grande marco) che includerebbe la mitteleuropa insieme alla Finlandia e agli altri paesi inclusi nell’area di influenza economica più diretta della Germania.

La prospettiva non è affatto irrealistica, considerando che la Francia potrebbe trarre benefici tanto da un vero bilancio europeo che solidarizzi il debito pubblico (laddove la Germania da sempre osteggia con vigore simili soluzioni) quanto dallo stare in un’area monetaria unica con l’Italia (ma senza la Germania). La Francia – in questi decenni – ha infatti investito ingentissimi capitali nel nostro paese (acquisendo il controllo di parecchie grandi imprese, banche e assicurazioni nazionali), dunque non dovrebbe essere disposta a correre il rischio di veder svalutare i propri asset finanziari per effetto o di una italexit o della creazione di un “euro 2” che non vedesse la partecipazione anche della Francia. Se invece fosse la Germania, insieme ai suoi paesi satelliti, a lasciare l’area monetaria in cui stanno Italia e Francia, quest’ultima non avrebbe problemi di svalutazione dei propri investimenti nel nostro paese.

Si noti poi che anche la Germania potrebbe in realtà trarre alcuni vantaggi dalla separazione delle aree monetarie, a patto che entrambe le aree restassero nel contesto di un mercato unico europeo di libera circolazione delle merci. I tedeschi potrebbero infatti beneficiare della svalutazione dell’Euro del sud (o, se si preferisce, dalla rivalutazione del grande marco) per importare a minor prezzo quel che già importano ora delle imprese del sud Europa (e, per quel che interessa a noi, del nord Italia) che sono integrate nelle sue filiere produttive. Il problema di una divisione delle aree monetarie, per i tedeschi, starebbe dunque solo nella riduzione dell’export verso il sud Europa e – soprattutto – nel fato che il suo già traballante settore bancario vedrebbe svalutata la (davvero notevole) mole di crediti accumulati in questi anni nei confronti di debitori dei paesi del sud.

 Nello scenario in questione – anche se non è il caso di approfondire in questa sede un argomento tanto complesso – va considerata anche la spinosa questione del saldo passivo Target 2, ossia degli ingentissimi crediti (per ora solo figurativi, a causa del fatto che nel sistema Euro sia le banche centrali dei paesi creditori che quelle dei paesi debitori sono altrettante emanazioni della BCE) vantati dal sistema bancario tedesco confronti di quello italiano e degli altri paesi del sud Europa. In caso di creazione di una duplice moneta nell’area dell’UE, la gestione di questi crediti potrebbe infatti essere negoziata, compensando in qualche modo l’inevitabile svalutazione dei crediti in questione che seguirebbe alla creazione della seconda moneta.

La partita vera – a livello di politica internazionale – si giocherebbe tuttavia sulla creazione di un bilancio dell’UE, che sia finanziato, non solo e non tanto con tasse unioniste, ma anche e con emissioni di titoli pubblici comuni, garantiti da una BCE capace a sua volta, non solo di emettere moneta, ma anche di acquistare direttamente quegli stessi titoli e, dunque, di assumere il ruolo di vero e proprio prestatore di ultima istanza. Una simile prospettiva – come già si diceva – va nell’interesse di Francia e Italia, mentre è qualcosa che la Germania, quanto meno sinora, ha sempre mostrato di non voler in alcun modo accettare. Se dunque nell’UE iniziasse a formarsi – nei paesi del sud Europa – un fronte comune a favore di una riforma nei termini espressi in precedenza, potrebbe a quel punto essere la stessa Germania a prendere in considerazione la soluzione della duplice moneta UE (o di andarsene essa stessa dall’Euro o dall’Unione), in modo da poter organizzare secondo i principi economici e monetari più funzionali ai suoi specifici interessi (ma che poi sono quelli che attualmente ispirano il sistema dell’UE e che vengono imposti a tutti quanti, anche se ne beneficiano in pochi) solo la sua area più prossima di influenza economica.

Si noti infine che, in questo complesso gioco di equilibri, l’Italia ha in mano uno strumento di pressione da non sottovalutare e che sinora non è mai stato messo sul tavolo da alcuno dei governi di centro-sinistra. L’eventuale uscita unilaterale dell’Italia dal sistema della moneta unica (previa “segregazione” pure unilaterale del suo sistema finanziario, ossia limitazione per legge alla possibilità di circolazione dei capitali in uscita dal nostro paese), provocherebbe infatti nell’UE – specie nel sistema finanziario e bancario di Germania, Olanda e Francia – un mezzo cataclisma. Per un verso infatti l’italexit renderebbe assai meno conveniente per la stessa Germania la conservazione di una moneta unica (strumento che, è inutile raccontarsi le favole, è stata voluta dalla Germania anche per ridimensionare il solo vero concorrente europeo sul manifatturiero, ossia l’Italia). La Francia si troverebbe a sua volta di fronte alla prospettiva di una pesante svalutazione dei suoi ingentissimi investimenti in Italia e a dei rischi di rientro dei capitali investiti nel nostro paese. Infine, il già traballante sistema bancario e finanziario tedesco (ma anche quello olandese) dovrebbero affrontare il rischio non riavere mai indietro (o, comunque, di veder pesantemente svalutati) i crediti verso l’Italia, sia a livello di crediti verso i privati sia a livello di saldo Target 2. In sintesi: l’Italia – anche se il gioco in UE dovessi iniziare a farsi duro – avrebbe a disposizione tutti gli strumenti per reggerlo a muso altrettanto duro. Queste sono cose che, ovviamente, Mario Draghi sa benissimo.

Quo vadis Mario?

La linea politica di un nuovo governo si valuta solitamente usando due criteri: equilibri tra partiti nella sua composizione e primi provvedimenti. Vediamo di capire che sta facendo Draghi. La lista dei ministri presentata per il suo governo non include nomi di spicco nei posti chiave (ad eccezione forse del MEF). Dunque è restato deluso chi, come me, si aspettava un esecutivo composto esclusivamente di tecnici di alto livello, senza chiara appartenenza politica, confinando la “vera politica” al livello – pure importante, ma meno decisivo in termini di immagine e di linea politica – dei sottosegretari.

 Se ci limitassimo all’esame dei ministri ci troveremmo di fronte ad una specie di riedizione del Conte bis, che parrebbe voler dare il colpo di grazia politico al M5S e coinvolgere la Lega in ministeri o poco importanti o “difficili”, considerando anche che il solo incarico ministeriale di peso è stato attribuito a un esponente della corrente più europeista della Lega. Quanto ai ministri in quota Forza Italia, ben due su tre stanno a loro volta nell’ala del partito più favorevole all’intesa col PD. In sintesi: il partito che politicamente ha tratto più vantaggi dalle nomine ministeriali è stato il PD, che non solo ha guadagnato ministeri importanti, ma soprattutto ha consolidato la sua leadership nella coalizione di centro sinistra. Per il resto, il governo Draghi pare essere stato composto per dare un assist a Forza Italia (ma indebolendo la posizione di Silvio Berlusconi nel partito) e alla vecchia guardia della Lega (quella nordista e meno keynesiana).

L’impressione è insomma di avere a che fare con ministri nominati più da Mattarella che da Draghi, il quale – quanto meno in quella prima fase – non ha mostrato particolare ansia di cercare una discontinuità di indirizzo politico rispetto al suo predecessore (e – di conseguenza – rispetto ai governi degli ultimi dieci anni), in modo da ritagliarsi sin da subito un ruolo da protagonista che, per competenze e prestigio, avrebbe potuto anche voler assumere sin da subito (e che, a dire il vero, diversi italiani – e non solo di centro sinistra – sperano vivamente che possa assumere). Draghi, uomo notoriamente prudente, potrebbe insomma aver voluto iniziare a saggiare solo in punta di piedi il terreno minato della politica nazionale, onde evitare false partenze.

Si tratterebbe peraltro di una prudenza più che giustificata, se si pensa che conferire l’incarico a Draghi già nella prima parte dell’anno (dunque a emergenza sanitaria in corso) – mettendolo a capo di una maggioranza eterogenea e di una compagine ministeriale che sembra fatta apposta per creare discordia più che per governare in armonia una crisi epocale – potrebbe anche essere una strategia del PD(R) per “bruciare” lo stesso Draghi come candidato alla presidenza della repubblica, onde tentare un Matterella bis (mandato che, nel PD, è ritenuto assai importante trovandosi a cadere in un periodo in cui il parlamento sarà quasi certamente appannaggio del centro-destra). Dalle parti di Berlino (e dunque di Bruxelles), peraltro, un Draghi “forte” al Quirinale piacerebbe certamente meno del remissivo Mattarella. Dunque non è peregrino supporre che il PD, di concerto col Colle, abbia tentato di ostacolare la corsa al Quirinale di Draghi, creando una compagine ministeriale tale da generare tensioni e conflitti nella nuova maggioranza, sperando magari che sia proprio la Lega – come era accaduto già con il primo governo Conte – a volersi poi assumere la responsabilità politica dinanzi al paese di mandare a monte l’esecutivo di larghe intese.

Il sospetto che qualcuno, a sinistra, potrebbe voler mettere in difficoltà Draghi pare avvalorato dalla considerazione che il primo provvedimento adottato dal governo ancor prima della fiducia (e proprio dal ministro Speranza, ossia da uno dei “reduci” di Conte salvati da Mattarella) è stata la chiusura degli impianti da sci dieci ore prima della riapertura già preparata – con il placet dello stesso ministero – da diverse settimane, inducendo gli imprenditori a fare gli ennesimi investimenti inutili in un momento di assenza di fatturato. Draghi è stato informato del decreto e non si è opposto, ma – a governo non ancora “fiduciato” – difficilmente avrebbe potuto fare diversamente. Nello stesso senso potrebbe peraltro essere letta la cronometrica precisione delle esternazioni del solito Ricciardi che chiede immediatamente (al solito Speranza) un lockdown nazionale totale. Ma non diversamente potrebbe dirsi della già ampiamente manifestata volontà del ministro della salute di proseguire fino a Pasqua nella vecchia linea “chiusurista a colori” sinora adottata (peraltro senza particolari risultati) e che trova eco nelle politiche di chiusura ad oltranza imposte anche da Parigi e Berlino nei rispettivi paesi.

Chiunque creda che certe iniziative abbiano a che fare con la crisi sanitaria, coltiva pie illusioni perché evidentemente non conosce bene la politica italiana. Simili provvedimenti e annunci hanno infatti assai poco a che vedere con la volontà di risolvere l’epidemia, ma perseguono scopi chiaramente politici, essendo mirati (dal lato Speranza) più che altro a colpire chirurgicamente gli interessi della piccola borghesia che vota Lega o centroderstra (ossia di chi è costretto a lavorare per campare, non appartenendo a nessuna delle varie categorie protette che vanno a comporre quella che è stata efficacemente definita come “società signorile di massa” e che – in maggioranza – vota il centrosinistra). Simili attacchi al ceto medio lavoratore e produttivo alimentano infatti tensioni interne al governo ma anche tra le due anime della Lega e, infine, creano delle frizioni tra gli alleati della coalizione di centrodestra. Se Draghi – che per ora ha dato assenso alla linea Speranza sulla crisi sanitaria – si mostrasse in futuro troppo condiscendente di fronte simili giochi politici (giochi che, è bene chiarirlo, se davvero sono frutto della strategia sopra ipotizzata, andranno avanti senza tregua), potrebbe essere Draghi stesso a pagare, insieme alla Lega, il conto politico.

Probabilmente in questa prospettiva va dunque letta la scelta del centrodestra che – prevedendo possibili imboscate di Mattarella e del PD – ha scelto, verosimilmente di comune accordo tra i partiti della coalizione, di lasciare Fratelli d’Italia all’opposizione. Una simile scelta mitiga l’impatto negativa, in prospettiva elettorale, dell’appoggio leghista al governo Draghi, dato che i sovranisti più “duri e puri” eventualmente delusi dalla Lega – alle prossime elezioni – traghetterebbero quasi certamente nel partito di Giorgia Meloni, lasciando invariata la forza elettorale complessiva della coalizione. A loro volta, invece, una parte degli elettori di Forza Italia potrebbero scegliere di passare a votare una Lega “più moderata”, specie se – in caso di nuova crisi di governo – l’ala meno berlusconiana di Forza Italia riuscisse a imporre al partito o una alleanza con il centro sinistra o una convergenza col nuovo centro renziano. Se Mattarella e il PD hanno dunque mostrato la consueta abilità nel tentare di trasformare Draghi nel presidente del consiglio dell’ennesimo governo a trazione PD, il centrodestra sta giocando bene le sue carte per mandare a monte il piano senza rompersi le ossa alle prossime elezioni.

Ed infatti le conseguenze politiche dell’appoggio della Lega a Draghi non hanno tardato a mostrarsi: coalizione di centrodestra che resta coeso anche con la Meloni all’opposizione, Movimento 5 stelle prossimo alla scissione che si affida a Conte, dunque togliendo consensi al PD, che dunque a sua volta entra in grave fibrillazione con dimissioni di Zingaretti, aprendo la delicata fase del “con Renzi” o “contro Renzi”. Sin qui, dunque, si può dire con una certa sicurezza che il centrodestra stia portando a casa la partita sul piano tattico. Ma quel che interessa davvero capire è altro: al di là dei giochi dei partiti politici che lo sostengono da che parte sta davvero – in termini di linea politica – Mario Draghi?

Per capire le intenzioni del nuovo Presidente dei Consiglio appaiono interessanti anzitutto le nomine dei sottosegretari (che, a quanto sembra, sono state decise da Draghi in autonomia dopo un confronto coi partiti e dunque senza un intervento diretto di Mattarella). I sottosegretari sono infatti una componente meno nota – ma altrettanto essenziale e politicamente importante – nella composizione dell’esecutivo. E qui Draghi ha mostrato di voler “compensare” la Lega (e scontentare il PD), assegnando al carroccio vice ministri di dicasteri “pesanti” e soprattutto strategici in termini di influenza politica per la stessa Lega (ad esempio gli interni). Pure nel senso di una cesura rispetto al passato piddino suona la scelta di affidare a un tecnico senza evidenti targhe politiche (l’ex capo della polizia, Gabrielli) la delicatissima delega ai servizi segreti, su cui Conte e Renzi erano entrati in conflitto. Analogamente – con l’aggiunta del fatto che si tratta di uomini considerati vicini al ministro Speranza – deve dirsi della sostituzione del capo della protezione civile, Borrelli, e soprattutto del supercommissario Arcuri. Anche i primi passi di politica estera – specie in UE – paiono mostrare una certa discontinuità rispetto alla linea, totalmente filotedesca, mostrata dal Conte bis, ad esempio sulla questione del passaporto vaccinale e sul blocco all’export dei vaccini. Qualche segnale importante di discontinuità rispetto al Conte due, dunque, il nuovo Governo lo sta dando.

Mario Draghi – controllando il ministero dell’economia (che è stato affidato a un tecnico suo fedelissimo) – si è inoltre messo nella posizione di regolare la distribuzione delle risorse economiche e, di conseguenza, di decidere lo spazio di manovra dei vari ministeri. Lo stesso Draghi gode infine anche di contatti al massimo livello nelle istituzioni finanziarie internazionali e straniere, che potrebbero consentirgli di “gestire” sia lo spread che i rating con facilità maggiore rispetto a qualunque altro uomo politico italiano. Quel che è certo è insomma che l’attuale Presidente del Consiglio ha in mano tutti gli strumenti, se vuole, per avviare una fase nuova nel paese, dando inizio a quella che potremo dunque chiamare la “terza repubblica”. Il che – secondo chi scrive – è un passaggio politico ormai ineludibile.

Dopo un anno di “non gestione” dell’emergenza sanitaria ed economica, l’Italia che lavora e che ha ancora voglia di fare e investire è allo stremo delle forze e al limite della sopportazione (e questo Draghi lo sa o quanto meno dovrebbe saperlo). Il paese – specialmente nel suo ceto medio produttivo, lavoratore e “non garantito” – ha bisogno di ritrovare fiducia nel futuro, dopo essere stato martoriato da dieci anni di austerità e deflazione e, da un anno a questa parte, essere stato spaventato, disorientato e maltrattato dal precedente governo. Se non si restituisce al paese che lavora e fa la fiducia nel futuro, non ci sono ristori o recovery plan che tengano: il paese crolla. Nel suo discorso di Rimini (e nel precedente articolo pubblicato sul Financial Times) Draghi aveva fatto capire di avere delle idee piuttosto diverse rispetto al mainstream UE sul come far uscire l’Europa dalla crisi (e non solo da quella Covid). Idee che – se tradotte in azione di governo – potrebbero davvero rilanciare l’economia nazionale, fiaccata da un decennio di austerità e stremata dalle misure di (non) reazione al Covid messe in campo dal precedente esecutivo. Secondo alcuni, invece, Draghi sarebbe solo un nuovo Monti, vale a dire un liquidatore del benessere degli italiani nell’interesse dei paesi dominanti in UE. Io credo sinceramente che non sia così.

Se l’intento che sta dietro l’operazione politica cui stiamo assistendo fosse stato davvero – di concerto con una UE per nulla disposta a scostarsi dal suo tradizionale rigore teutonico – solo una nuova epoca di tagli di spesa pubblica e aumento delle tasse per divorare il risparmio privato, accompagnato dall’azzeramento di interi comparti economici nazionali per far spazio ad attività green e digital e all’ingresso sempre più massiccio in Italia di imprese e capitali stranieri; se l’intento fosse questo – dicevo – non occorreva certo scomodare un pezzo da novanta del calibro di Mario Draghi per fare al ceto medio produttivo e ai lavoratori del nostro paese un funerale di prima classe, con tanto di banda e carrozza con cavalli neri. A seppellirci vivi in casa, farci perdere il lavoro o chiudere l’attività, alzare le tasse e tagliare il welfare, bastava e avanzava un Conte qualunque. Anzi il secondo governo Conte – con la sua incapacità e litigiosità interna e col suo bias pauperista e anti piccolo borghese – sarebbe stato l’esecutore perfetto di un simile disegno.

Se questo fosse dunque lo scenario in cui si colloca la scelta di Draghi, usare il “nome” e il prestigio del personaggio avrebbe avuto un solo plausibile scopo politico: offrire a Forza Italia e alla corrente meno keynesiana della Lega una occasione “vendibile” ai rispettivi elettorati per far fare anche al ceto medio produttivo la stessa misera fine che il PD ha ormai già fatto fare ai lavoratori dipendenti. Il tutto senza andare a toccare le piccole e grandi rendite di posizione dei vari soggetti che compongono quella società signorile di massa, che – come sempre negli ultimi vent’anni – senza far nulla applaude, incassa e – standosene al calduccio – brinda questa volta alla “salute prima di tutto”, ai prodigi dello smart working, al food delivery e a quanto è bella la consegna a domicilio di Amazon.

Siccome non credo che un politico dello spessore tattico di Matteo Salvini sia stato tanto sprovveduto da accettare un simile rischio (quanto meno senza aver avuto qualche concreta garanzia in sede di consultazioni per la formazione del governo), ritengo che la strategia politica di Mario Draghi sia ben più ampia – e soprattutto non condizionata da eventuali desiderata dell’UE, di Berlino e tanto meno del PD o di Sergio Mattarella – rispetto a quella in cui si era a suo tempo mosso Mario Monti. E si tratta di una prospettiva che non coinvolge solo l’azione di questo governo e neppure solo la gestione dell’emergenza sanitaria ed economica Covid, consistendo nell’impostazione – anche da futuro Presidente della Repubblica – di una complessiva e profonda riforma economica ed istituzionale del paese, volta appunto a superare la logica fallata della deflazione cronica causata dalla società signorile di massa. Riforma che, in quanto volta a modificare lo status quo, non potrà che essere condotta in certa misura “contro” i voleri di PD e Germania (anche se non necessariamente contro l’UE, ove questa sia disposta a sua volta a cambiare qualcosa) e, dunque, “da destra”.

In questa prospettiva va anche considerato che Draghi – a differenza di Conte, ormai legato mani e piedi al movimento 5 stelle e ad una alleanza con la componente prodiana del PD – è certamente uomo “americano” assai più che “cinese”. Siccome gli USA, anche con il neo eletto presidente Biden, continuano a mantenere una linea di nettissima ostilità nei confronti di Pechino (che da parte sua, è bene ricordarlo, è divenuto il primo partner commerciale dell’UE a trazione tedesca, scalzando proprio gli USA), è verosimile aspettarsi che Draghi potrebbe contare anche sulla sponda di Washington se decidesse di spingere modifiche all’UE nel senso di ridurre l’egemonia tedesca nel vecchio continente. Infine, e sempre nell’ottica degli interessi strategici degli attori in gioco, non va sottovalutata neppure la tensione tra Francia e Cina che sta generando il crescente espansionismo di Pechino in Africa. Anche a livello internazionale, dunque, un Draghi che voglia avviare un percorso di riforme contro l’attuale UE “tedesca” potrebbe trovare alleati di peso sia all’interno che al di fuori dell’Unione.

Il momento della verità, con ogni probabilità, verrà presto, ossia quando si tratterà di discutere del ritorno dei vincoli europei ai bilanci nazionali, della cessazione del programma straordinario di acquisti di titoli pubblici da parte BCE per finanziare il rientro dell’emergenza Covid e di eventuali possibili vie alternative per finanziare ulteriormente i debiti pubblici nazionali (così come della sorte ultima del debito monstre accumulato durante il Covid da tutti gli stati dell’Unione). La Germania – che, come di consueto, ha saputo sfruttare la “finestra di libertà” offerta dalla sospensione delle regole unioniste per imbottirsi di aiuti di stato in misura assai maggiore rispetto all’Italia – sta infatti già dando i primi segni di nervosismo di fronte all’inflazione (o, meglio, “stagflazione”) che l’iniezione di liquidità da parte della BCE sta provocando e di cui iniziano già a vedersi i primi segni.

Sarà dunque proprio su questi dossier che – con ogni probabilità – si parrà la nobilitate di Draghi: riuscirà a portare la Francia, che pure di ulteriore liquidità ha disperato bisogno, dalla parte dell’Italia e in opposizione alla Germania? Ma – e direi soprattutto – quale è il “piano B” in caso di insuccesso? Che si fa se la Germania, come è prevedibile, cercherà di proporre un cambiamento in corsa delle regole per aiutare solo la Francia e non anche l’Italia? Mario Draghi accetterà a quel punto di mandare l’Italia in default controllato nell’area euro come è già accaduto con la Grecia (salvando l’UE attuale al prezzo di finire di demolire il benessere della maggioranza degli italiani) o avrà la forza – magari con la sponda di Washington – di mettere sul tavolo dell’UE l’ipotesi concreta di una italexit come “mezzo di persuasione di massa” al fine di giungere alla creazione di due aree monetarie nel contesto dell’Unione o alla creazione di un bilancio unionista capace di emettere titoli di debito comune? E se anche così gli diranno di no, il presidente del consiglio farà a quel punto l’interesse della maggioranza dei cittadini italiani o quelli degli ambienti finanziari? Questo non lo possiamo sapere. Possiamo però sperare nel fatto che sia una brava persona.