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Politica

Salario minimo legale – Le conseguenze

10 Agosto 2023 - di Luca Ricolfi

EconomiaIn primo pianoPolitica

Sul problema di un minimo salariale decente, tutti i governi fin qui succedutisi hanno nicchiato. Ora però non sarà più possibile far finta di niente: l’Unione Europea, infatti, ha fissato al 24 novembre del 2024 la data ultima per recepire la direttiva UE sul “salario minimo adeguato”.

In Italia, l’opposizione tutta (Renzi a parte) ha trovato nella proposta di un salario minimo di 9 euro lordi un punto di convergenza, anzi la prima vera occasione di convergenza dal giorno dell’insediamento del governo di Giorgia Meloni. Qui non voglio entrare nella disputa politica, già asprissima, sulla giustezza o meno di questa misura. Piuttosto, vorrei provare a rispondere alla domanda: se dovesse passare la proposta delle opposizioni, che conseguenze osserveremmo sul mercato del lavoro?

Su questo, fortunatamente, la teoria economica ha molto da dire. Ma, prima di indicarne alcune, dobbiamo mettere a fuoco due punti.

Primo, la proposta delle opposizioni non riguarda la retribuzione oraria complessiva, che, oltre alla paga base, include tredicesima, quattordicesima, scatti di anzianità, e altre voci, ma il cosiddetto trattamento minimo tabellare, che esclude tutti gli elementi aggiuntivi della retribuzione. Questo significa che i 9 euro lordi proposti, possono diventare 11 o 12, in dipendenza delle varie situazioni. Le associazioni delle imprese artigiane, come la CGIA di Mestre, hanno già lanciato l’allarme: 9 euro lordi possono andare bene ma solo se vengono calcolati sulla retribuzione complessiva, incluse le voci aggiuntive come la tredicesima.

Il secondo punto è: quali saranno le categorie escluse dal salario minimo? Solo colf e badanti, o anche apprendisti, stagionali, voucher, collaborazioni, finte partite Iva? A seconda della platea di lavoratori coinvolti, l’aggravio di costi complessivo per i datori di lavoro (circa 6.7 miliardi secondo l’INAPP) potrebbe variare considerevolmente.

Ed ora passiamo alle conseguenze. Supponiamo che il salario minimo venga introdotto per legge, ossia che la strada non sia quella di estendere la contrattazione, ma di stabilire un obbligo giuridico. Che cosa capiterebbe dopo l’entrata in vigore della norma?

Dipende dal tipo di datore di lavoro. Nelle imprese regolari in salute e che non ricorrono al lavoro nero, avremmo un aumento dei salari per i lavoratori sottopagati, e quindi una riduzione dei profitti, talora accompagnata da una contrazione degli investimenti. Nelle imprese regolari che operano con margini ridotti, invece, a seconda della propensione al rischio dell’imprenditore, potremmo assistere alla chiusura dell’impresa, o al ricorso al lavoro nero. Nelle imprese che già attualmente operano in modo irregolare, con ampio utilizzo di lavoro nero, non succedere nulla, a meno che cambiasse completamente la politica dei controlli (attualmente quasi del tutto inesistenti). In quest’ultimo caso, avremmo due impatti di segno opposto: per le imprese più floride, l’emersione del nero, per quelle più fragili la chiusura.

In sintesi: il salario minimo legale produrrebbe sia effetti positivi, sia effetti negativi. Nessuno però ha ancora calcolato il saldo di tali effetti, ovvero se quelli positivi supererebbero quelli negativi. Una valutazione di massima suggerisce che quelli positivi potrebbero essere prevalenti nel Centro-nord, quelli negativi nel Sud, dove si concentra il grosso del lavoro irregolare e dei salari inferiori al minimo legale di 9 euro l’ora.

Si potrebbe osservare che, almeno, verrebbe raggiunto l’obiettivo più volte proclamato da Elly Schlein, ossia una drastica riduzione del fenomeno dei working poor (lavoratori poveri, che lavorano ma guadagnano troppo poco). Sfortunatamente, nemmeno questo obiettivo è realisticamente raggiungibile: le statistiche dimostrano che il grosso del fenomeno non si deve ai salari orari bassi, ma allo scarso numero di ore lavorate.

Conclusione: l’idea di un salario minimo legale merita la massima attenzione, ma è ingenuo pensare che basti a spazzare via sfruttamento, precarietà e lavoro povero.

Sinistra in tilt

3 Agosto 2023 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPoliticaSocietà

Sulla gestazione per altri (o utero in affitto), appena proclamata “reato universale” da un voto della Camera dei deputati, la sinistra è andata in tilt. I suoi due leader principali, Schlein e Conte, non se la sono sentita di partecipare al voto. E i suoi intellettuali annaspano. Michele Serra, ad esempio, dichiara che con il voto della Camera “un’opinione è diventata legge”. E evoca lo “stato etico” (di gentiliana memoria), contrapponendolo allo stato liberale.

Ma è un errore logico grossolano, che farebbe inorridire i grandi maestri del pensiero liberale, a partire da Isaiah Berlin. Il fatto che un’opinione in materia etica possa diventare legge è parte integrante della logica delle società liberali, che si distinguono dai regimi proprio perché assumono che, su questioni fondamentali, possano scontrarsi concezioni, valori, visioni del mondo inconciliabili.  Fra le quali è inevitabile che la legge, attraverso il Parlamento o il voto popolare (referendum), operi una scelta.

È successo in modo esemplare ai tempi del referendum sull’aborto. In quell’epoca (anni ’70) le opinioni inconciliabili erano quelle dei cattolici, per i quali il feto è una persona, e quindi l’aborto è un omicidio, e quelle dei laici, per i quali l’aborto non è un omicidio, ma una libera scelta della donna. In quel caso, a diventare legge fu l’opinione dei laici, che con la legge 194 del 1978, riuscirono a imporre il loro punto di vista. E a nulla valse, qualche anno dopo, il tentativo del Movimento per la vita di imporre il punto di vista dei cattolici con il (fallito) referendum abrogativo.

In breve, come non vi era nulla di illiberale nella legge che rese ammissibile l’aborto, imponendo ai cattolici il punto di vista dei laici, così non vi è nulla di illiberale nelle leggi (presenti e future) che vietano la gestazione per altri, imponendo agli ultra-laici il punto di vista di quanti – non solo cattolici – considerano inaccettabile la pratica dell’utero in affitto.

Perché, dunque, tanto scalpore e tanto imbarazzo nel mondo progressista?

Credo che il motivo sia sottile, ma molto potente. La ragione per cui la gestazione per altri mette in difficoltà lo schieramento progressista è che incrina irrimediabilmente il racconto che, almeno dalla caduta di Renzi in poi, la sinistra ha scelto per dar forma alla propria immagine. Quel racconto era basato sostanzialmente su un principio: sostituire le grandi, storiche, battaglie per i diritti sociali con nuove, grandiose, battaglie per i diritti civili, pensate – e qui sta il punto cruciale – non come lotte di una parte politica contro un’altra, bensì come epiche “battaglie di civiltà”, condotte in nome di diritti universali, contro l’oscurantismo e la barbarie. Cittadinanza agli immigrati, unioni civili, diritti Lgbt, leggi contro l’omotransfobia, norme su eutanasia e fine vita, tutto ciò per cui il mondo progressista si batteva era pensato nel registro “civiltà contro barbarie”. Era una forzatura, certo, ma era retoricamente sostenibile, perché quelle battaglie erano condotte in nome di valori forti e abbastanza largamente condivisi, come l’apertura al diverso e la libertà individuale.

Ma con l’utero in affitto, come la mettiamo?

Improvvisamente, il mondo progressista ha sperimentato, come in parte era già successo con il Ddl Zan, che le sue proposte non erano inquadrabili nel racconto standard degli ultimi anni, quello di una ennesima “grande battaglia di civiltà” da condurre contro retrogradi e nemici della ragione. Era troppo evidente che, nella gestazione per altri, c’è qualcosa che non va: la mercificazione del corpo della donna, ad esempio, o la separazione del bambino dalla madre. Di qui l’imbarazzo di Schlein e Conte.

Ai quali mi permetto di dare un consiglio: anziché demonizzare la destra, riconoscete che la faccenda è complessa, e lasciate libertà di coscienza ai vostri parlamentari.

Il declino dell’Occidente. Se spariscono critica e dubbio si uccide la liberal-democrazia

29 Luglio 2023 - di Dino Cofrancesco

In primo pianoPolitica

Ferdinando Adornato e  Rino Fisichella hanno dialogato, in un libro pubblicato da Rubbettino (a cura di Gloria Piccioni), sul problema cruciale del nostro tempo, La libertà che cambia. Dialoghi sul destino dell’Occidente. ”Mi sono chiesto, scrive Adornato, quale sia il vero senso delle riflessioni raccolte in questo volume. Ebbene, credo si possa dire che siamo entrambi andati alla ricerca dei motivi che possano rimotivare una grande alleanza tra la fede e la ragione. Tra il pensiero cristiano”. Insomma, il vecchio progetto che ispirò la nascita del ‘Multino” prima che diventasse una delle tante riviste del pensiero unico della sinistra.

Dico subito la dimensione etico-teologica del saggio mi sembra non poco problematica. Quando leggo  certe riflessioni–”.. se la libertà non avesse relazione con la verità, come potrebbe, anche un non credente, decidere cos’è il Bene e cos’è il Male? In base a quale ordine di valori si potrebbe decidere che Hitler o Stalin sono il Male? Chi ha stabilito, infatti, che uccidere o fare del danno agli altri è peccato se non le Tavole della Legge oppure, se si preferisce, i precetti dell’ordine naturale? In base a quale altro criterio di verità un essere umano potrebbe definire la propria e l’altrui libertà?”–mi vengono in mente non solo le parole di Ponzio Pilato,”quid est veritas?’ma, altresì, il   libro di un filosofo del diritto analitico, Etica senza verità. In politica non ci sono verità ma valori in conflitto di cui dobbiamo essere realisticamente consapevoli. Per citare Joseph A. Schumpeter: “Rendersi conto della validità relativa delle proprie convinzioni, eppure difenderle senza indietreggiare, è ciò che distingue un uomo civile da un barbaro”. Parlare di una scienza del bene e del male significa, in ultima istanza, ignorare che l’essenza della democrazia sta nel registrare le cose che i cittadini, di volta in volta ,ritengono buone  o cattive.

Più convincente, invece, è la critica (sia pur non nuova) dell’individualismo dei diritti che sta inaridendo le società occidentali.” In sostanza, scrive Adornato, a partire dalla fine degli anni Sessanta, si è fatto strada un convincimento generale che ha assunto quasi le sembianze di verità di fede. E cioè l’idea che il benessere di una democrazia sia direttamente proporzionale all’estensione dei diritti individuali. Più diritti per l’individuo=più democrazia. Da allora in poi, sulla base di questa equazione, ogni provvedimento teso a far prevalere “diritti di comunità” (o soltanto norme di tutela collettiva) sui “diritti individuali” è stato letto come un “attentato alla democrazia”. Ed è logico: se la bontà del sistema viene vista unicamente nella realizzazione di un’illimitataespansione dell’individuo, qualsiasi proposta che punti a perseguire un equilibrio tra valori comunitarie diritti individuali non può che essere ritenutaantidemocratica. Lungo questa strada laicista, però,non viene colpita soltanto la morale cattolica: vienemessa fuori gioco qualsiasi nozione di etica pubblica. Escluso, ovviamente, il precetto della totale soddisfa-zione esistenziale” <L’esasperata ricerca della soddisfazione del diritto individuale—gli fa eco Fisichella—sta distruggendo il diritto sociale>.

 Sulle cause di questo oscuramento dell’intelligenza occidentale, gli autori però non vanno a fondo: non c’è traccia nel libro dell’imponente letteratura che, sulle due rive dell’Oceano, ha analizzato il nesso tra il declino della comunità politica (lo stato nazionale) e l’affermazione di quell’universalismo etico, giuridico ed economico inteso a delegittimare tutto ciò che si riferisce al ‘particolare’—dalla famiglia alla nazione. Penso ad autori come Pierre Manent, Pierre-André Taguieff, Yael Tamir, Margaret Canovan, lo stesso Yoram Hazony.

Adornato, in particolare, che pure stila una sorta di catalogo del conservatore, entra in polemica con una sinistra—ormai sparita–che al liberismo etico unirebbe stranamente uno statalismo economico, impensabile oggettivamente senza sovranismo. E’ come se  le analisi di Luca Ricolfi sulle metamorfosi della sinistra fossero cadute nel vuoto. In realtà, quella odierna è una sinistra europeista, globalista, iperatlantista (George Soros non è certo un simbolo di destra) che non dovrebbe dispiacere ad Adornato, che citando <una (per lui) felice espressione di Biagio de Giovanni> parla dell’emergere di uno <scontro tra ’potere orientale’(Russia, Cina, India, Iran) e ’potere occidentale’>che vede esploso nella guerra russo-ucraina. E’il  leit motiv di ‘Repubblica’, della ’Stampa’ etc.

 Nel suo iperatlantismo, Adornato arriva a prendersela con Papa Bergoglio che agli inizi del conflitto  sarebbe stato <troppo equidistante>.<La presunta la colpa della Nato di aver ‘abbaiato ai confini della Russia’> gli è sembrata <un’opinione geopolitica infondata>.Sennonché era pure l’opinione di George Kennan, di Harry Kissinger, di John Mearsheimer, il più grande scienziato politico statunitense dopo la morte di Samuel P. Huntington! A scanso di equivoci, ritengo anch’io che l’Europa, la Nato, il dovere di prestare aiuto a un paese aggredito come l’Ucraina rientrino nel bagaglio ideologico del democratico liberale. Credo, però, nel diritto di esaminare liberamente e criticamente le decisioni riguardanti la politica internazionale. Siamo alleati consapevoli e responsabili degli Stati Uniti o siamo gli ascari della Grande Arméeatlantica? Le colpe di Putin sono evidenti e indelebili ma come mai nel libro non c’è alcun accenno agli Accordi di Minsk, su cui aveva richiamato l’attenzione Matteo Renzi, deprecandone il mancato rispetto? <Certo, scrive Fisichella, si potrebbe discutere all’infinito se quei determinati confini siano ucraini o russi, ma nel momento in cui la comunità internazionale li riconoscesse come ucraini, quella dovrebbe essere accettata come l’identità di una nazione>. Se la comunità internazionale, quindi, decide che il Lombardo-Veneto è territorio austriaco, la guerra contro Francesco Giuseppe diventa  un attentato all’indipendenza degli stati sovrani? Forse va recuperato il senso della complessità insuperabile delle vicende umane.

L’opposizione Mariarosa

27 Luglio 2023 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPolitica

Ci sono parecchie cose, nelle politiche messe in atto da Giorgia Meloni, che possono non convincere (a me, giusto per fare un esempio, non piacciono per niente i condoni più o meno mascherati). Per cui trovo normalissimo che l’opposizione faccia le sue critiche. E che abbia da ridire su un mucchio di cose, dalla politica economica a quella sociale, dalle scelte in materia di immigrazione a quelle in materia di giustizia. Però c’è qualcosa di vagamente patologico nel modo in cui la stampa progressista e tutte le forze di opposizione (eccetto i due partitini del Terzo polo) si rapportano al governo e alle sue scelte. Solo che non so bene come chiamarlo, questo qualcosa.

Perciò provo a descriverlo. Primo aspetto: non c’è una sola azione del governo in carica che non riceva critiche severissime. Non vanno bene le misure della Legge di bilancio, comprese quelle a favore delle famiglie meno abbienti. Non va bene la riduzione del cuneo fiscale per le fasce deboli, anche se sono soldi in più in busta paga. Non va bene il bonus di 383 euro per le famiglie povere con figli, che suscita solo ironia (“un caffè al giorno”) o disprezzo (“la dignità comprata a 383 euro”).

Ma l’aspetto più interessante è un altro. Giorgia Meloni viene criticata, rimproverata,  denigrata, anche quando ottiene un successo, o quantomeno un risultato che la stragrande maggioranza delle persone normali non esita a considerare un successo. L’esempio più clamoroso è la grazia a Zaki, frutto del lavoro diplomatico del governo italiano. Nemmeno in quel caso, l’opposizione è riuscita ad evitare lo schema: “è una buona notizia, però…”.

Però che cosa? Però il merito è anche del governo Draghi; però chissà che cosa il governo Meloni ha dato in cambio; però non ci sarà un baratto con il caso Regeni?

Stesso problema con i successi in campo internazionale, come il coinvolgimento dei vertici dell’Unione Europea nei negoziati con la Tunisia. O come la grande conferenza di domenica a Roma con 21 paesi africani e mediorientali. Anche qui scetticismo e ironia a gogo. Qualcuno arriva a dire che la conferenza è stata organizzata per “far dimenticare la guerra alle Ong, la gestione del naufragio di Cutro, le promesse di blocchi navali e porti chiusi”. Insomma, non una scommessa politica più o meno valida, più o meno rischiosa, ma una banale, miserevole, furbesca manovra di gestione del consenso elettorale.

In realtà, quel che succede è che, da quando ha vinto le elezioni, Giorgia Meloni sembra baciata dalla fortuna. L’inverno è stato uno dei più miti. La crisi energetica ha creato molti meno disagi del previsto. L’occupazione galoppa. I sondaggi premiano Fratelli d’Italia. Una dopo l’altra, le fosche previsioni degli avversari si rivelano sbagliate: niente esplosione dello spread, niente ostilità dell’establishment europeo, nessun problema con Nato e Stati Uniti.

Di qui lo sconcerto dell’opposizione, e la progressiva formazione di un frame, di una sorta di schema fisso. Più la fortuna arride a Meloni, più l’opposizione (con poche eccezioni) assume una postura da “gufi e rosiconi”, incapaci di visione e privi di ogni senso dell’interesse nazionale. Era già successo con Renzi, quando in tanti non sopportavano che avesse il vento in poppa.

Ecco, finalmente mi è venuta la parola che cercavo: Mariarosa. Anzi Olivella e Mariarosa. Chi ha almeno 50 anni ricorderà la meravigliosa pubblicità dell’olio Bertolli ai tempi di Carosello (per i più giovani, ecco qui un link a youtube: https://www.youtube.com/watch?v=_97KBdnlzvE ). A Olivella, fresca sposina, tutto andava bene, ma ogni successo scatenava l’invidia di Mariarosa. E a Mariarosa i tentativi di fare come Olivella andavano sempre storti. La filastrocca recitava: “Là, là, là, tutto bene mi va” (Olivella). E “Oh, oh, oh, ed invece a me no” (Mariarosa). E un cartone animato raccontava le avventure di Olivella e le esilaranti disavventure di Mariarosa.

Il problema è che oggi noi abbiamo una premier-Olivella e un’opposizione-Mariarosa. Difficile chiedere a Giorgia di non fare Olivella. Ma possiamo sperare che, prima o poi, Elly smetta di fare Mariarosa?

Scontro magistrati-politici: anche la politica ha le sue colpe

15 Luglio 2023 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPolitica

Che, negli ultimi 30 anni, la magistratura sia esondata, andando molto al di là del ruolo che le assegna la Costituzione, non è una opinione, ma una constatazione che a nessuno storico del futuro parrà controversa. Che la politica voglia mettere fine a questo stato di cose, che mina l’autonomia del potere legislativo e del potere esecutivo, è perfettamente comprensibile, e più che ragionevole.

Quello che, invece, non mi pare adeguatamente compreso, è come si è arrivati a questa situazione, e quale sia il modo di uscirne. A dar retta ai detrattori della magistratura, pare quasi che la propensione di una parte dei Pm e dei giudici a venir meno ai doveri di neutralità e imparzialità, sia stata il frutto di una sorta di deviazione o degenerazione interna.

Ma non è andata così. O meglio: non è andata solo così. Se vogliamo guardare i fatti della nostra storia con un minimo di obiettività, è difficile non vedere che la degenerazione di una parte della magistratura ha anche cruciali cause esterne, anche molto remote nel tempo.

La prima sono le inadempienze della politica e, a dirla tutta, pure quelle della società civile. Quando si rimproverano i magistrati di “fare politica”, si dimentica che l’invadenza e l’arroganza del potere giudiziario sono anche il risultato di nostre mancanze, e di una sorta di delega che noi stessi abbiamo conferito. Se per tanta parte dell’opinione pubblica i magistrati sono diventati delle specie di giustizieri, è anche perché alla magistratura è stata affidata una sorta di funzione di supplenza nei confronti degli altri poteri pubblici. L’incapacità di fare i conti con la mafia, la corruzione, gli appalti truccati, l’evasione fiscale, lo spreco di denaro pubblico, hanno alimentato, in una parte dell’opinione pubblica, la speranza che la magistratura potesse fare quel che la politica non sapeva o non voleva fare.

C’è però anche una seconda causa, che ha reso abnorme il potere dei magistrati, e in particolare quello dei Pubblici ministeri: il modo in cui la politica è solita reagire alle inchieste e agli avvisi di garanzia nei confronti di propri esponenti. Quando un politico viene colpito dal sospetto, si assiste invariabilmente alla medesima commedia. Politici (e spesso giornalisti) della sua parte politica si sperticano in dichiarazioni di garantismo. Ma, dall’altra parte dello steccato che divide destra e sinistra, gli esponenti della parte avversa, dopo la rituale dichiarazione di garantismo, innocenza fino a prova contraria, auspicio che la giustizia faccia “piena luce”, pronunciano la parola chiave, quella che ribalta tutto e vanifica il garantismo: “però…”. E giù sospetti, allusioni, commenti alle notizie di stampa, fino al passaggio cruciale: l’invito a fare “un passo indietro” (anche se innocenti) in nome della “opportunità politica”. In sostanza, la richiesta di dimissioni.

In breve: qualsiasi avviso di garanzia a un esponente politico dà luogo, inesorabilmente, a una campagna di stigmatizzazione (e talora di odio) da parte della parte avversa, con conseguente e automatico coinvolgimento di tutti i maggiori media.

Ebbene, come non rendersi conto che questo è un formidabile assist alla magistratura?

Come non capire che è proprio la reazione pavloviana della politica a conferire ai magistrati un potere spropositato?

Come non vedere che, senza la certezza di quella reazione, nessun magistrato potrebbe perseguire la celebrità a colpi di avvisi di garanzia indirizzati al bersaglio grosso?

Se tutti i politici, come regola generale, si comportassero da veri garantisti chiunque sia sotto inchiesta, i media si darebbero una calmata, e la politica sarebbe al riparo dalle incursioni della magistratura.

Sarebbe un modo, per i politici, di garantirsi un’autoassoluzione permanente e automatica?

No, sarebbe il contrario. Non solo perché comunque le inchieste farebbero il loro corso, ma perché, evitando di gridare ogni volta “al lupo al lupo”, ci si metterebbe in condizione di essere creduti quell’unica o rara volta in cui il lupo c’è davvero. Se la richiesta di dimissioni cessasse di essere un rito consunto che non emoziona nessuno, ma fosse un evento eccezionale, che segnala la gravità di un comportamento, la politica diventerebbe più, e non meno, in grado di autodisciplinarsi. E ne guadagnerebbe non poco in termini di autorevolezza.

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