L’odio al di là del linguaggio. È davvero Trump il pericolo maggiore per la democrazia americana?

Quando dopo il disastroso dibattito televisivo del 26 giugno i Democratici si posero (finalmente) il problema di sostituire Joe Biden, molti analisti dissero giustamente che il rischio non era solo che perdesse, ma anche che vincesse. La cosa non era impossibile, nonostante le sue condizioni, perché la polarizzazione era ormai tale che moltissimi suoi sostenitori avrebbero votato perfino per la sua mummia (così come moltissimi altri avrebbero fatto con Trump), ma il problema era che in tal caso non sarebbe stato in grado di guidare il paese più potente del mondo per altri quattro anni (in realtà non era in grado di farlo neanche nei quattro anni precedenti, ma meglio tardi che mai…).

Tuttavia, a dispetto dell’entusiasmo con cui la sua nomination è stata accolta da tutto l’establishment occidentale, lo stesso problema si pone ora con Kamala Harris. Anzitutto, infatti, anche lei rischia di perdere: i sondaggi danno i due candidati alla pari, ma sappiamo che gli elettori di Trump sono molto più restii a dichiarare la loro preferenza, proprio come succedeva in Italia con Berlusconi, dove i sondaggi lo hanno sempre sottovalutato per i quasi trent’anni della sua carriera politica, rifiutando per ostinazione ideologica di correggersi nonostante l’evidenza.

Negli USA, dove il successo conta ancor oggi più di ogni altra cosa, quindi anche più dell’ideologia, i sondaggisti hanno invece tentato di tenere conto di questa tendenza, ma mi sorprenderebbe molto (nel momento in cui scrivo le votazioni non sono ancora cominciate) se ci fossero riusciti del tutto, anche perché è probabile che la reticenza dei trumpiani a pronunciarsi sia ulteriormente cresciuta, a causa del clima ancor più ostile nei loro confronti. Certo non sbaglieranno più del 4%, come è successo nel 2020, ma è probabile che Trump prenda comunque tra l’1 e il 2% in più di quanto gli viene attribuito, il che basterebbe a garantirgli la vittoria.

Ma c’è di più. Anche con Kamala, infatti, il problema è anche che rischia di vincere, perché neppure lei è in grado di guidare gli Stati Uniti, anche se per ragioni diverse da Biden, perché certo non è rincoglionita come lui. Ma dal punto di vista della salvaguardia della democrazia è almeno altrettanto pericolosa quanto Trump, se non addirittura di più. Come ha giustamente detto Cacciari qualche giorno fa a LA7, la differenza tra i due è soltanto “estetica”, nel senso che Trump è sguaiato e volgare, mentre la Harris rispetta maggiormente il galateo, ma per il resto sono simili.

Cacciari lo diceva soprattutto rispetto alle loro politiche, da cui non si aspetta grandi differenze (né grandi cose), ma ciò vale anche per la loro intolleranza, nonché per quella dei loro sostenitori. Il vero problema, infatti, non è il linguaggio d’odio, come oggi è di moda dire, ma l’odio in sé stesso, che è nato prima del linguaggio d’odio e che ne è la vera causa. E tale odio non solo esiste anche a sinistra, ma è nato prima a sinistra, negli Stati Uniti come in tutto l’Occidente.

Se c’è una cosa su cui la sinistra ha ragione, è quando dice che la destra è reazionaria: infatti, la crescita della destra in tutto l’Occidente (che continua, lenta ma costante, da oltre 25 anni) è principalmente una reazione alla crescita, altrettanto costante, di quella che Ricolfi ha molto esattamente definito «una forma di isteria – individuale e collettiva – che si propaga attraverso meccanismi intimidatori e ricatti morali [..], un mix di narcisismo etico, nella misura in cui rafforza l’autostima, di esibizionismo etico, nella misura in cui viene sbattuto in faccia al prossimo, e di bullismo etico, quando si accanisce su una o più vittime» (https://www.fondazionehume.it/politica/a-forza-di-includere-tutti-ci-siamo-esclusi-noi-intervista-di-maurizio-caverzan-a-luca-ricolfi/).

Non insisterò su questo, visto che, appunto, ne ha già parlato Ricolfi, più volte e in modo (come sempre) tanto preciso quanto documentato. Quel che vorrei fare è solo citare alcuni fatti, ignorati o distorti da tutto il nostro sistema mediatico, che dimostrano che presentare Kamala Harris come la paladina della civiltà contro la barbarie è non solo falso, ma addirittura grottesco.

In realtà la storia era già iniziata con Biden, che, un minuto dopo aver rivendicato la vittoria, affermando di voler essere il Presidente di tutti gli americani e di voler ricucire le lacerazioni che si erano prodotte durante la campagna elettorale, non ha trovato di meglio che chiedere l’impeachment per Trump, che tra l’altro era impossibile da ottenere e quindi l’unico effetto che poteva avere (e che di fatto ha avuto) era inasprire le tensioni. A ciò si è poi aggiunta una forsennata campagna giustizialista anti-Trump, condotta da magistrati (guarda caso sempre di provata fede democratica) che ha ricordato molto quella già vista in Italia contro Berlusconi.

L’apice di tale campagna è stata la denuncia contro Trump per complicità nell’assalto al Campidoglio, classificato come un tentativo di colpo di Stato. E, quando la Corte Suprema ha annullato il processo perché le accuse erano da ritenersi esagerate, è esplosa l’indignazione dei liberal di tutto il mondo, alla cui testa si è messa proprio Kamala Harris. Eppure, la Corte Suprema aveva semplicemente detto le cose come stavano. L’assalto a Capitol Hill, infatti, è stato un atto (grave) di teppismo, che va certamente perseguito con la massima severità, ma parlare di colpo di Stato è semplicemente ridicolo: i colpi di Stato si fanno con l’appoggio dell’esercito e mettendo in strada i carri armati, non qualche migliaio di esaltati guidati da Jake lo Sciamano.

Ma la Harris, con l’appoggio di tutti gli intellettuali liberal dell’Occidente, ha attaccato la Corte Suprema anche in molte altre occasioni, accusandola di essere favorevole a Trump, che ne ha nominato gli ultimi membri. Ora, questo è vero, ma non è una novità: la Corte Suprema è sempre stata politicamente orientata, perché i suoi membri sono sempre stati nominati dal Presidente di turno (che ovviamente gli sceglie tra quelli a lui politicamente vicini), perché così stabilisce la Costituzione. La vera novità è che per la prima volta nella storia ciò è stato preso a pretesto per delegittimarla, che è un comportamento oggettivamente eversivo e assai più grave degli attacchi di Trump a singoli magistrati, essendo diretto contro il più alto organo giudiziario del paese.

Più in generale, la Harris già da Procuratrice in California aveva preso posizione estremistiche, molto vicine a quelle di Black Lives Matter (che non è un movimento per i diritti civili, ma un movimento eversivo che ha come scopo dichiarato la cancellazione della civiltà occidentale), In particolare, ha di fatto legalizzato il furto, depenalizzandolo fino a 1000 dollari, il che ha colpito (come sempre succede ai progressisti da qualche decennio in qua) i commercianti più poveri, che, non potendo assumere dei vigilantes privati come hanno fatto quelli più ricchi e la grande distribuzione, hanno dovuto scegliere tra cambiare lavoro e cambiare Stato.

Da quando si è candidata, la Harris sta facendo di tutto per far dimenticare quel suo vergognoso passato, il che dal suo punto divista è comprensibile. Meno comprensibile è invece che tutti i nostri intellettuali, compresi quelli più moderati, le reggano il gioco.

Faccio solo un esempio, che mi ha particolarmente colpito, perché, appunto, ne sono state protagonisti due intellettuali moderati e solitamente (ma non questa volta) assai ragionevoli. Domenica scorsa, a Mezz’ora in più, Monica Maggioni ha commentato insieme a Vittorio Emanuele Parsi una cartina degli Stati Uniti su cui erano indicati tutti i luoghi dove erano in atto campagne di suprematisti bianchi sostenitori di Trump, insieme a una serie di interviste piuttosto deliranti ad alcuni di essi, che in alcuni casi inneggiavano perfino a Hitler e facevano il saluto nazista.

Ora, è certamente giusto denunciare questi comportamenti, che sono inaccettabili e preoccupanti. Ma perché la Maggioni non si è sentita in dovere di mostrare (e perché Parsi non si è sentito in dovere di chiederglielo) anche una cartina in cui fossero indicati tutti i luoghi degli Stati Uniti dove sono state introdotte le liste dei libri proibiti nelle università o dove ci sono state manifestazioni pro-Hamas o dove si sono verificati episodi di quello che Federico Rampini (che certo uomo di destra non è) ha recentemente definito «l’unico vero razzismo oggi presente negli USA, cioè quello verso i maschi bianchi non laureati»? E perché non sono state fatte analoghe interviste ai rappresentanti più fanatici della ideologia woke, che molti nostri intellettuali negano addirittura che esista?

Temo che, se la Maggioni l’avesse fatto, il risultato sarebbe stato almeno altrettanto inquietante. Con in più una differenza, che non è da poco: mentre è improbabile che i nazisti dell’Illinois (o di altri Stati non citati dai Blues Brothers) possano determinare in modo significativo la politica di Trump, è invece assolutamente certo che quei gruppi radicali da cui la candidata Kamala Harris sta cercando di prendere le distanze determinerebbero in modo sostanziale molte delle scelte politiche della Presidente Kamala Harris.

Così come è certo che, se dovesse vincere lei, ripartirebbe immediatamente la persecuzione giudiziaria contro Trump e i suoi seguaci, col risultato di far montare ancor più l’odio nel paese, al di là del linguaggio. Su cui peraltro anche Kamala non scherza, visto che ha ripetutamente chiamato Trump «fascista» e «criminale», mentre appena eletta l’aveva definito «predatore sessuale», che significa stupratore seriale, mentre lui è stato condannato solo per aver pagato una pornostar perché tenesse nascosta una relazione consensuale (ma questi sono insulti “politically correct” e quindi leciti…).

Al contrario, nonostante le sue roboanti dichiarazioni, Trump, se eletto, ben difficilmente perseguiterebbe i suoi avversari politici, se non altro perché faticherebbe a trovare dei giudici disponibili a farlo, dato che il giustizialismo è una (in)cultura tipica della sinistra.

In definitiva, quindi, se guardiamo ai fatti, al di là del linguaggio, mi sembra che di odio nella Harris che ne sia almeno quanto in Trump. Ma, soprattutto, in caso di sua vittoria sarebbero molto maggiori i rischi che tale odio venga tradotto in comportamenti lesivi della democrazia. Se ho qualche remora ad augurarmi esplicitamente che perda è solo per due ragioni.

La prima è l’incertezza su cosa farebbe Trump in Ucraina, dove l’Occidente si sta giocando la pelle senza esserne minimamente consapevole. Anche se non bisogna esagerare. Se infatti è certo che Trump cercherebbe di trattare con Putin, non credo invece affatto che sia suo amico, come molti sostengono, visto che è già stato Presidente per 4 anni e non mi risulta che gli abbia mai fatto particolari favori. Quello che lui pensa davvero è che Putin sia un “duro” con cui solo uno ancora più duro (come lui ritiene di essere) possa trattare con successo. Quindi ci proverà, ma quando si accorgerà che Putin non ha nessuna intenzione di ascoltarlo andrà su tutte le furie e potrebbe decidere di dare all’Ucraina un sostegno perfino maggiore di quello (peraltro tentennante e insufficiente) che le ha dato Biden e che verosimilmente le darebbe Kamala.

Il vero problema è quanto ci metterà Trump a rendersi conto che Putin lo sta prendendo in giro, perché nel frattempo potrebbero prodursi danni non più rimediabili. E qui veniamo alla mia seconda e più grave preoccupazione. Perché negli ultimi tempi anche Trump sembra aver cominciato a dare qualche segno di rincoglionimento, certo non al livello di Biden, ma tuttavia tale da non lasciare tranquilli, soprattutto considerando che ha già 78 anni e che, se vincesse, dovrebbe governare fino a 82.

Se non fosse per questo, pur turandomi democristianamente il naso, farei sicuramente il tifo per lui. Così stando le cose, posso solo sperare che Dio ce la mandi buona. E, soprattutto, che alle prossime elezioni ci mandi dei candidati più decenti.




Elezioni Usa – I silenzi di Harris e Trump

Se i sondaggi sulle elezioni americane non mentono, il risultato finale sarà vicino a un pareggio. E immancabilmente ascolteremo innumerevoli spiegazioni dell’esito del voto, che sarà agevole attribuire a specifici fattori (l’immigrazione, l’economia, la
sanità…) o a specifici gruppi sociali (i maschi bianchi, gli afro-americani, le donne…). Quando la vittoria è risicata, quasi tutto e tutti possono – con il senno di poi – apparire come decisivi, perché basta ipotizzare un piccolo spostamento di voti di una categoria o di uno Stato per immaginare un esito opposto a quello effettivo.

C’è un gruppo sociale, tuttavia, che sembra – in questa elezione – poter svolgere un ruolo particolarmente rilevante, anche a livello simbolico: quello delle donne. Questo non tanto perché le donne hanno un tasso di partecipazione elettorale più elevato di
quello degli uomini, ma perché mai come in questa occasione sono stati così centrali alcuni temi cruciali per la condizione femminile.

Sotto la voce onnicomprensiva “diritti riproduttivi”, negli Stati Uniti da anni si discute di almeno due questioni, che da noi (e più in generale in Europa), vengono trattate sotto due etichette distinte: diritti LGBT e diritto all’aborto. La cosa interessante è che le due questioni tendono a giocare un ruolo opposto nella dinamica elettorale. Detto brutalmente: parlare di diritti LGBT, tendenzialmente, favorisce Trump; parlare di diritto all’aborto, tendenzialmente, favorisce Harris.

Fra i diritti LGBT, più o meno estensivamente interpretati, rientrano rivendicazioni come l’autodeterminazione di genere o self-id (poter cambiare genere senza ostacoli o restrizioni), le transizioni di sesso/genere dei minorenni, l’accesso a tecniche riproduttive controverse, come la Pma (procreazione medicalmente assistita) e soprattutto la Gpa (gestazione per altri, o utero in affitto). Su questo terreno, i conservatori sono nettamente avvantaggiati, perché sono numerose le donne che non vedono di buon occhio l’invasione degli spazi femminili da parte di maschi transitati a femmine in luoghi come le carceri, i centri anti-violenza, le competizioni sportive (ricordate il caso Khelif?), più in generale nelle situazioni in cui le donne godono di speciali tutele e privilegi rispetto ai maschi (quote rosa, età della pensione, servizio militare ecc.).

Che questo sia un vantaggio dei conservatori e un punto debole dei democratici è del resto testimoniato dalle numerose e sempre più frequenti prese di posizione anti diritti LGBT o anti self-id da parte di donne di fede progressista, da Hillary Clinton (già due
anni fa), alle femministe americane (Kara Dansky, dirigente di Women’s Declaration International), e ora pure britanniche (Joanne Rowling e Julie Bindel pochi giorni fa). Prese di posizione che, in alcuni casi, hanno portato le protagoniste a porre la domanda scandalosa, fino a ieri impronunciabile: dobbiamo, in quanto femministe radicali, prendere in considerazione la possibilità di votare conservatore

Le cose cambiano radicalmente se, dai diritti riproduttivi in chiave LGBT, passiamo ai diritti riproduttivi in termini di contraccezione e aborto. Qui è Trump ad avere tutto da perdere, perché il recente (giugno 2022) annullamento della sentenza Roe vs Wade ha permesso a molti Stati a guida repubblicana di limitare fortemente (quando non di vietare del tutto) il ricorso all’aborto, con grave restrizione della libertà delle donne di disporre del proprio corpo. È chiaro che, questa, è una carta preziosa in mano a Kamala Harris, che può presentarsi come colei che è in grado di ripristinare una fondamentale libertà perduta.

Si capisce meglio, alla luce di queste asimmetrie, perché – sui temi che più interessano le donne – entrambi i candidati siano stati reticenti. Kamala Harris non ha mai voluto prendere le distanze, come le chiedevano alcune femministe, dalle politiche del suo vice Tim Walz che, come governatore del Minnesota, ha convintamente favorito le transizioni di sesso/genere precoci, a dispetto delle emergenti evidenze scientifiche contrarie. Analogamente, Trump non ha mai preso una posizione netta e chiara sul diritto all’aborto, preferendo – pilatescamente – rimandare tutto alle scelte elettorali dei cittadini nei singoli Stati.

Di qui, un vero rebus per le donne. Una elettrice che, come diverse femministe, considerasse l’aborto un diritto inalienabile, ma al tempo stesso fosse risolutamente contraria al self-id e ai cambi di sesso degli adolescenti, non saprebbe per chi votare.

Ecco un altro motivo per cui quel che succederà domani è terribilmente difficile da indovinare.

[articolo uscito sul Messaggero il 3 novembre 2024]




Il Follemente corretto: dalla libertà di espressione alla società dell’omologazione – Intervista di Alessandra Ricciardi a Luca Ricolfi

D. Siamo passati dalla schiavitù del politicamente corretto alla gabbia del follemente corretto. Professore lei quando se ne è accorto?
R. Non c’è un momento preciso, è stato un processo lento che ha avuto però un’accelerazione intorno al 2020, quando stavo iniziando a lavorare al mio libro La mutazione. Come le idee di sinistra sono migrate a destra (Rizzoli). Lì ho capito che la libertà di espressione era gravemente compromessa, specie negli Stati Uniti e massimamente nelle università di quel paese, e che l’attivismo trans stava mettendo a repentaglio sia alcuni diritti delle donne, primo fra tutti quello di proteggere i propri spazi protetti nei centri anti-violenza, nelle competizioni sportive, nelle carceri e dei minorenni, sia il diritto dei minorenni a non essere manipolati e precocemente avviati a percorsi di modificazione del sesso.

D. Lei ha censito nel libro la quantità di pronomi che il follemente corretto ha imposto per le identità sessuali.  Una tale proliferazione non è in fondo la negazione stessa di una identità sessuale?
R. Sì, la tendenza è a rendere evanescenti, soggettivi, e indefinitamente riprogrammabili sia l’identità sessuale, che quella di genere (ma ci sono anche casi di cambio di razza, e persino di età). Che tutto questo non conduca, specie fra i minorenni, a gravi problemi di identità, sicurezza e autostima è tutto da dimostrare.

D. Eppure secondo le ultime ricerche i fenomeni di bullismo, in particolare a sfondo sessuale, non fanno che aumentare così come le violenze verso le donne. Si è molto attenti alle classificazioni, ma non alle parole che nella vita quotidiana si usano. Si ha la sensazione di vivere in un deserto di emozioni, in cui manca il senso dell’altro e dunque il rispetto per la persona. Come lo spiega?
R. Mutamenti così complessi non sono spiegabili con una formula. Come sociologo, qualche anno fa ho provato a leggere i fenomeni che lei richiama con il concetto di “società signorile di massa”, ma oggi sento il bisogno di arricchire quella chiave
interpretativa con altri tasselli, che vengono soprattutto dalla psicanalisi e dalla psicologia sociale. Mi riferisco, in particolare, all’evaporazione del padre e all’insofferenza per ogni limite o attesa. Checché ne dicano tante femministe, non viviamo affatto in una società patriarcale, semmai in una società maschilista che – come ha più volte spiegato Massimo Recalcati – aspira al godimento immediato, ma è incapace di desiderio, che è fatto anche di attesa, rinuncia, sacrificio, dilazione della gratificazione.

D. Il follemente corretto ha il potere di condizionare pubblicità, far ripulire opere d’arte, romanzi, film, cartoni per ragazzi. Siamo arrivati al punto di dover rinnegare la nostra storia e anche noi stessi?
R. Sì, è il grande tema del rimorso dell’occidente, ma anche del nostro nichilismo, che Nietzsche aveva capito e profeticamente descritto già 150 anni fa.

D. Utero in affitto come diritto di chi cerca la maternità, imposizione del non genere sessuale che soppianta anche il femminismo, diritti dei migranti a immigrare, alcune delle iperboli del politicamente corretto. Perché hanno così tanta presa presso le élite?
R. Le élite, proprio perché vivono molto più agiatamente delle masse popolari, hanno continuamente bisogno di mostrare la loro virtù e la loro sollecitudine nei confronti dei deboli, ma dato che occuparsi dei veri deboli e dei loro bisogni (a partire dal welfare) costerebbe uno sproposito, hanno trovato una soluzione geniale: occuparsi dei diritti LGTBT+, che costano pochissimo, e dei migranti, che costano relativamente poco in termini di accoglienza e salvataggi, e in compenso forniscono manodopera a basso costo a datori di lavoro più o meno spregiudicati. Nel mio libro sulla società signorile di massa avevo contato ben 3.5 milioni di ipersfruttati, o para-schiavi, di cui né i sindacati né le forze politiche sembrano intenzionate ad occuparsi.

D. Siamo alla contrapposizione tra classe dirigente e popolino, alla faccia dell’inclusione…
R. Sì, la classe dirigente accoglie, e il popolino spesso paga il conto, sotto forma di insicurezza e concorrenza sleale sulle paghe.

D. Lo sa che lei con questo libro ha consacrato il suo essere antiprogressista?
R. Non direi, semmai ho invitato i progressisti ad esserlo davvero, occupandosi di diritti sociali e abbandonando la zavorra del follemente corretto. I diritti civili vanno benissimo, ma solo se non sostituiscono quelli sociali e accettano dei limiti,
innanzitutto in materia di utero in affitto e di cambio di sesso dei minori.

D. Lei continua a massacrare tutti i luoghi comuni o totem della sinistra italiana.
R. È la sinistra, non solo italiana, che me li offre su un piatto d’argento.

D. Se a sinistra vige il follemente corretto, a destra vale il politicamente scorretto. Piace perché è più popolare?R. Il politicamente scorretto di una parte della destra non mi piace per niente, perché è semplicemente l’altra faccia del follemente corretto: una reazione eguale e contraria. Quel che io e tanti altri rivendichiamo è semplicemente la piena libertà di espressione, il diritto di parlare come ci pare senza subire processi sommari per le parole che usiamo.

D. Sulla gestione dei migranti, tema molto sentito sia in Europa che in Usa, capace di condizionare intere campagne elettorali anche progressiste, l’ultimo decreto del governo Meloni sugli hotspot in Albania è stato giudicato negativamente dagli italiani, stando ai sondaggi. Come lo spiega?
R. C’è stato un enorme deficit di comunicazione da parte del centro-destra.

D. Che cosa non è stato spiegato dal governo?
R. Molte cose, ma innanzitutto i costi. La gente si è fatta l’idea che i costi fossero esorbitanti, e che con quei soldi si sarebbero potuti ridurre i tempi di attesa nella sanità pubblica. La realtà è che il costo procapite (per ogni italiano) è di 2 euro all’anno, una goccia nel mare della spesa sanitaria, che è di 2300 euro procapite. Chiunque capisce che 2 euro su un budget di 2300 sono un’inezia, che non sposta minimamente le cose.

D. Diciamo che la destra è capace di andare al potere, ma ancora non riesce a comunicare?
R. Sì, la comunicazione non funziona bene. Ma non è l’unica criticità: le vicende del Ministero della cultura suggeriscono che i problemi non siano solo di comunicazione, ma più in generale di selezione e gestione della classe dirigente.

[intervista uscita su Italia Oggi il 31 ottobre 2024]




Politica e morale

Ha suscitato un certo scalpore, a sinistra, la recente vicenda di Inigo Errejón, deputato progressista spagnolo, portavoce della coalizione SUMAR, un raggruppamento di una ventina di sigle di sinistra radicale che, con il loro 12% di consensi, hanno permesso al socialista Pedro Sanchez di formare il suo terzo governo, con vicepresidente Yolanda Diaz, storica dirigente di Unidas Podemos (unite possiamo), primo e unico partito europeo che usa il femminile sovraesteso.

I fatti, in breve. Pare che, qualche anno fa (era il 2021) il vispo quarantenne abbia aggredito sessualmente l’attrice Elisa Mouliaa, chiudendo a chiave la stanza in cui si trovava con lei e mostrandole il membro. Fin qui è una notizia orribile fra le tante, e non è
neppure certo che sia vera (sarà un processo a stabilirlo, o meglio a stabilire la verità giudiziaria sulla vicenda).

Quel che è interessante è lo sconcerto con cui la notizia è stata presa da molti. Ma come, una persona così per bene, così istruita, così progressista, così impegnata sulle battaglie a difesa delle donne, come è possibile che si comporti in questo modo? Da uno così “non ti aspetti che ti spinga sul letto, che chiuda la porta a chiave e che per quanto tu gli dica che cosa stai facendo sguaini la prova evidente del suo genere, in questo caso maschile, con la non benvenuta intenzione di condividerla” (Concita De Gregorio su Repubblica).

Lasciando da parte i giri di parole scelti per descrivere un’aggressione sessuale, concentriamoci sullo sconcerto, ben evidenziato anche dal titolo dell’articolo (“Il MeToo che non ti aspetti”). Ecco, a me quello che sconcerta è lo sconcerto. Notate bene: non il
dispiacere, la rabbia, l’indignazione, l’orrore, il disgusto, ma proprio lo sconcerto. Lo stupore. L’accadere di una cosa “che non ti aspetti”.

Ma perché mai dovremmo non solo sentire disgusto, ma pure stupirci? Qual è la matassa di pregiudizi da cui un simile stupore scaturisce? L’articolo citato lo spiega bene, quando snocciola la serie di antecedenti della vita di Errejon, antecedenti da cui sarebbe stato lecito aspettarsi un comportamento più civile: il ragazzo era “cresciuto negli scout”, “si è laureato alla Complutense di Madrid, la più prestigiosa e selettiva delle università”, nientemeno che “con tesi di critica alle egemonie e studio delle identità”. E poi, soprattutto, “ha fondato il primo partito che usa il femminile sovraesteso per definirsi” (Unidas Podemos), “a compensazione della millenaria sopraffazione lessicale”.

L’elenco delle fonti di stupore non potrebbe chiarire meglio qual è l’idea di fondo sottostante: le aggressioni sessuali non te le aspetti dai maschi istruiti, meno che mai se sono progressisti. Implicazione logica: suscitano meno stupore se provengono da maschi di ceto basso, specialmente se sono di destra.

Ma qual è la base empirica di simili credenze? Non sono a conoscenza di alcuno studio che permetta di affermare che le persone colte e di idee progressiste siano meno propense a commettere reati sessuali delle persone poco istruite e di destra.

Forse sarebbe meglio che cominciassimo a prendere in considerazione un’ipotesi più semplice e più basica: le aggressioni sessuali sono il precipitato di un mix, singolare e a suo modo unico, di esperienze, circostanze contingenti, vicende personali, pressioni
ambientali, condizionamenti culturali, disturbi della personalità, che possono – per un determinato individuo – condurlo a comportarsi in un determinato modo.

Pensare che la cultura o le credenze politiche possano esercitare un effetto sistematico su comportamenti così estremi e ripugnanti è ingenuo. Soprattutto, è ingenuo pensare che l’ideologia possa influenzare in modo apprezzabile i comportamenti, a sinistra come a destra. Se l’ideologia contasse davvero, i politici conservatori e pro-famiglia non sarebbero quasi tutti divorziati o conviventi, e i maschi che lavorano nel mondo dello spettacolo (quasi tutti progressisti) non incapperebbero così sovente in scandali sessuali.

E il principio vale anche per altri comportamenti. Pensate all’evasione fiscale: se l’ideologia contasse davvero, gli insegnanti che danno ripetizioni private (in maggioranza progressisti) non accetterebbero di farlo in nero, come quasi sempre fanno.

Ma, forse, non tutto il male vien per nuocere: lo scandalo Errejon è l’occasione, per la sinistra, di liberarsi del complesso di superiorità morale che da sempre l’affligge.

[articolo uscito sulla Ragione il 29 ottobre 2024]




«A forza di includere tutti ci siamo esclusi noi» – Intervista di Maurizio Caverzan a Luca Ricolfi

Il politicamente corretto come isteria diffusa. Nel suo nuovo saggio il sociologo ne sfata le «follie», specialmente nella politica di una sinistra elitaria, con esempi tragicomici e paradossali. Dal banchetto Lgbtq+ alle Olimpiadi di Parigi agli abbagli del patriarcato, passando per i «sì» a prescindere con l’islam. Così un’ideologia a costo zero sostituisce persino la lotta per l’uguaglianza.

Maneggiando magistralmente il bisturi della ragione, nel suo nuovo saggio Il follemente corretto (La Nave di Teseo), Luca Ricolfi, docente di Analisi dei dati, presidente e responsabile scientifico della Fondazione David Hume, viviseziona la nuova patologia contemporanea: «L’inclusione che esclude» e ha portato all’«ascesa della nuova élite».

Professore, il «follemente» del titolo è sinonimo di eccentricità o di vero impazzimento, come se vivessimo in una distopia dolce?
È vero impazzimento, purtroppo, ma la distopia che ne è venuta fuori non è affatto dolce. Il follemente corretto ha le sue vittime:
la libertà di espressione, le donne, i ceti popolari.

Le propongo un gioco: dovendo comporre il podio delle «follie corrette» in cui si è imbattuto a chi assegnerebbe i primi tre posti?
Mi mette in imbarazzo, perché di follie clamorose ce ne sono almeno 10-15, su 42 episodi selezionati. L’eventuale graduatoria dipende dal criterio. Se ci interessa il grado di demenzialità, segnalerei (1) la proibizione di salutare con il «care signore e cari signori» (per non escludere chi non si sente né maschio né femmina), (2) la censura di espressioni come «elefante-nano» e «l’evoluzione è cieca» (per non offendere nani e ciechi), (3) il regolamento dell’Università di Trento che obbliga a declinare tutti i ruoli al femminile. Se invece ci interessa l’impatto sociale, ovvero la capacità di opprimere o discriminare, segnalerei (1) l’invasione degli spazi femminili nelle carceri e nello sport, (2) le persecuzioni delle donne «gender-critical», (3) le discriminazioni nei confronti dei bianchi eterosessuali nelle università e più in generale nelle politiche di assunzione.

Il follemente corretto è una fenomenologia o un’ideologia, aggiornamento del progressismo?
Il follemente corretto è tante cose, ma fondamentalmente è una forma di isteria – individuale e collettiva – che si propaga attraverso meccanismi intimidatori e ricatti morali. In un certo senso è un mix di narcisismo etico, nella misura in cui rafforza l’autostima, di esibizionismo etico, nella misura in cui viene sbattuto in faccia al prossimo, e di bullismo etico, quando si accanisce su una o più vittime. Ne abbiamo avuto un esempio recente, quando l’assessore alla cultura del Comune di Livorno, Simone Lenzi, è stato sottoposto alla gogna e costretto alle dimissioni per alcuni post ironici sugli aspetti più ridicoli della dottrina woke. Il sindaco che l’ha licenziato ha illustrato in modo mirabile che cos’è il bullismo etico: ti caccio e ti punisco per mostrare a tutti la mia superiore moralità.

Com’è capitato che l’eguaglianza, stella polare della sinistra, sia stata sostituita dall’inclusione?
La storia di questa metamorfosi non è mai stata ricostruita accuratamente. Se guardiamo alla teoria, direi che un contributo importante l’ha dato Alessandro Pizzorno, uno dei più illustri sociologi italiani, che a metà anni Novanta ha esplicitamente proposto la sostituzione della coppia uguaglianza/ disuguaglianza con la coppia inclusione/esclusione. La sua idea, energicamente e saggiamente contrastata da Norberto Bobbio, era che – con la nuova coppia – sarebbe diventato più facile per la sinistra presentarsi come paladina del bene, perché pro-inclusione, e bollare la destra come incarnazione del male, perché pro-esclusione.

È l’unica molla di questa metamorfosi?
No, se guardiamo ai meccanismi sociali, la spiegazione più convincente è di natura economica: le battaglie sui diritti delle
minoranze sessuali hanno costi bassissimi perché – a differenza di quelle per l’eguaglianza – non richiedono di cambiare la
distribuzione del reddito, e in compenso permettono di reclutare chiunque, perché a tutti piace sentirsi dalla parte del bene. Tutto
questo è diventato tanto più vero dopo il 2010, quando l’esplosione dei social ha permesso davvero a tutti di partecipare al concorso di bontà e ai riti di lapidazione del dissenso con cui i buoni rafforzano la propria autostima.

Perché, in un certo senso, la cerimonia inaugurale delle Olimpiadi di Parigi è stata un momento di svolta nell’espressione del follemente corretto?
Per almeno due ragioni. Primo, perché ha sancito il disprezzo delle élite che controllano le istituzioni per i sentimenti del pubblico, che ovviamente non poteva essere tutto pro-woke e pro- gender. Secondo, perché ha portato anche dentro lo sport una tendenza da anni presente nell’arte, ovvero l’ambizione di indottrinare il pubblico. Con la scusa della «sensibilizzazione», da anni la letteratura sta facendo prevalere i messaggi etico-pedagogici sulla qualità artistica. Dopo Parigi sappiamo che analoga opera di snaturamento è destinata a colpire lo sport.

Chi maneggia la neolingua sono docenti, magistrati, operatori dell’industria culturale, giornalisti: in forza di cosa un’élite vuole pilotare il linguaggio comune?
In forza del suo potere e, soprattutto, della propria autoriproduzione. Esattamente come succede con la burocrazia, che proprio attraverso l’uso di una lingua specializzata e esoterica riproduce sé stessa e si immunizza rispetto a qualsiasi potere esterno. Ne sanno qualcosa i politici, i cui piani sono spesso vanificati o deviati dal controllo che i burocrati esercitano sulle procedure.

Perché siamo così preoccupati che le comunità musulmane si offendano se a scuola si fa il presepio a Natale?
Perché siamo malati di eccesso di zelo e sottovalutiamo il buon senso di tanti musulmani.

Che cosa ha causato l’inimicizia che si è instaurata fra i rappresentanti del mondo transessuale e il femminismo storico?
La prepotenza del mondo trans, o meglio delle lobby che lo hanno monopolizzato.

I casi del ministro Eugenia Roccella e dei giornalisti Maurizio Molinari e David Parenzo ai quali, in occasioni diverse, è stato impedito di presentare un libro o di parlare in università, mostrano che certi custodi del correttismo scarseggiano di basi democratiche?
Il vizietto di non lasciar parlare gli altri è, da sempre, la tentazione dell’estrema sinistra, anche quando non era woke.

Nella Carmen di Leo Muscato al Maggio fiorentino del 2018 la gitana addirittura ammazza don José perché non si perpetri un altro femminicidio. Il maschicidio è meno grave?
Agli occhi dei cultori del follemente corretto sì, a quanto pare.

Perché, come evidenziato dal silenzio sul caso di Saman Abbas, la ragazza uccisa per aver rifiutato di sposare il prescelto dal padre, le femministe tacciono sulla grave subalternità delle donne arabe?
Perché le femministe hanno riflessi condizionati di sinistra, e la sinistra –  almeno dai tempi di Bettino Craxi – ha un occhio di
riguardo per il mondo islamico.

Come si spiega il silenzio delle sigle femministe sulla pugile intersessuale Imane Khelif nel torneo femminile di boxe delle ultime Olimpiadi?
Veramente qualche femminista, per esempio Marina Terragni e il suo gruppo, non è stata in silenzio. Ma la realtà è che il femminismo classico boccheggia, sopraffatto dal cosiddetto femminismo intersezionale.

Perché si attribuiscono al patriarcato tante violenze contro le donne se il principio d’autorità e la figura del padre sono da anni realtà in via d’estinzione?
Perché uno dei tratti distintivi di larghe porzioni del femminismo è la pigrizia intellettuale, in parte dovuta alla mancanza di strumenti sociologici di tipo analitico.

Individuare la causa sbagliata della violenza sulle donne implica che tante energie per la loro la difesa sono sprecate?
In realtà, una spiegazione non fumosa e non ideologica della violenza sulle donne non esiste ancora.

Che cosa pensa della «lotta agli stereotipi» espressa dal pullulare di «mammi» negli spot pubblicitari?
Mi diverte molto, ma è un segnale che mette a nudo il conformismo dei creativi.

Perché chi va a vivere in un paesino di montagna rinuncia alla spiaggia vicina, ma molti omosessuali maschi vorrebbero piegare la legge al loro presunto diritto di avere figli?
Perché il rifiuto di ogni limite, quello che i greci chiamavano hybris, è il tratto fondamentale del nostro tempo. Un tratto che, combinato con la cultura dei diritti, genera rivendicazioni surreali; penso alla coppia gay che si sente discriminata perché
nata senza utero.

Il diffondersi della cultura woke negli Stati Uniti assomiglia a una nuova forma di maccartismo?
Sono simili, ma è come paragonare una tigre a un gatto: il wokismo è un maccartismo al cubo.

Perché la destra fatica a organizzare una resistenza efficace al follemente corretto?
La destra è minoranza nelle istituzioni fondamentali: magistratura, quotidiani, università, scuole, case editrici, associazioni e
fondazioni più o meno benefiche.

Il follemente corretto ha punti deboli che ne causeranno il declino o diventerà la religione del futuro?
Il follemente corretto dà già segni di declino, specie negli Stati Uniti. I suoi punti deboli sono l’incoerenza logica e il fatto che toglie voti alla sinistra. Kamala Harris l’ha capito, Elly Schlein no. O non ancora?