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Politica

Sulla degenerazione del discorso pubblico – Il linciaggio di Valditara

27 Novembre 2024 - di Luca Ricolfi

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La vicenda del ministro Valditara, contestato per alcune affermazioni fatte alla inaugurazione della Fondazione Giulia Cecchettin, è a suo modo meravigliosa, preziosa, insostituibile. Raramente, infatti, è dato trovare concentrati in così poco tempo e spazio i peggiori difetti del nostro discorso pubblico, per non dire della nostra democrazia.

Nel suo messaggio videotrasmesso Valditara aveva osato – nel quadro di un ragionamento molto ampio – fare due affermazioni, che gli hanno scatenato addosso un mare di critiche, contestazioni, insulti, nonché la piacevole esperienza di vedere la propria immagine bruciata in piazza.

La prima affermazione è che in Italia il patriarcato non c’è più da tempo, anche se forse non da così tanto tempo come ritiene Cacciari (ossia da due secoli), e che dal punto di vista giuridico è finito nel 1975, con la riforma del diritto di famiglia. Le
reazioni a questa affermazione sono state di scandalo, rabbia, indignazione, come se il ministro avesse detto una bestialità, e tale bestialità fosse oggettivamente offensiva per le donne (un po’ come lo è, per gli ebrei, sentirsi dire che la Shoah non c’è mai
stata). In questo esercizio di demonizzazione (del ministro) e di virtue signalling (degli indignati) si sono cimentati un po’ tutti, comprese legioni di giornalisti, editorialisti, conduttori televisivi. Peccato che la tesi di Valditara sia assolutamente pacifica fra gli scienziati sociali (oltreché fra le persone di buon senso), se non altro perché uno dei tratti distintivi delle società occidentali è precisamente la scomparsa dell’autorità paterna, per non dire la scomparsa di ogni autorità: e un patriarcato senza autorità paterna è una contraddizione in termini. Qui osserviamo una prima malattia del discorso pubblico: anziché ascoltare le ragioni di chi parla, se ne manipolano i contenuti (è la tecnica dello straw man) si reagisce in modo pavloviano, caricando a testa bassa il reprobo di turno.

La seconda affermazione è meglio riportarla per esteso: “occorre non far finta di non vedere che l’incremento dei fenomeni di violenza sessuale è legato anche a forme di marginalità e di devianza in qualche modo discendenti da una immigrazione illegale”. Ho messo in evidenza gli avverbi ‘anche’, e ‘in qualche modo’ perché sono queste due cruciali specificazioni che sono saltate nella stragrande maggioranza dei resoconti del discorso di Valditara, resoconti il cui prototipo è stato: “i femminicidi sono colpa dell’immigrazione”. Ma Valditara non aveva parlato dei femminicidi, ma più in generale dei reati di violenza sessuale. E i dati del ministero dell’Interno gli danno pienamente ragione: da anni la percentuale di stranieri accusati o incarcerati per tali reati è sensibilmente maggiore della quota di stranieri, ed è enormemente superiore se consideriamo il segmento degli stranieri irregolari.

Le cifre, le fonti, le statistiche si possono discutere, naturalmente, ma il punto è che il ministro non aveva detto quel che gli è stato messo in bocca, e quel che ha effettivamente detto è supportato dai dati, e appare più che plausibile. Di nuovo, non solo il mondo politico, ma anche il mondo dell’informazione e della cultura hanno dato prova di scarsa professionalità e nessuna imparzialità. Le affermazioni di Valditara sono state deformate, le cifre da lui evocate sono state ignorate, o contrastate con cifre mal comprese, o lette faziosamente.

Si parla tanto di fake news e della necessità di contrastarle, ma che cosa è stata – se non una gigantesca fake news – la campagna contro il discorso del ministro dell’istruzione?

Sì, a ben pensarci è stata anche qualcos’altro: è stata una sconfitta della democrazia.

Perché il linciaggio che un ministro della Repubblica ha subito sui media e nelle piazze, con slogan truculenti, minacce di morte e gesti simbolici terribili – prima l’incendio di un fantoccio del ministro, qualche giorno dopo di una sua fotografia – è qualcosa che, come molte altre manifestazioni di violenza degli ultimi mesi, avrebbe meritato una presa di posizione ferma, solenne e unanime dei media, del mondo della cultura, della politica, delle organizzazioni sindacali, delle maggiori istituzioni della Repubblica. Una presa di posizione che, ad oggi, non ci è stato dato ancora di ascoltare.

[articolo uscito sulla Ragione il 26 novembre 2024]

Il fantasma del patriarcato

25 Novembre 2024 - di Luca Ricolfi

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Domani è la “Giornata internazionale contro la violenza sulle donne”. Possiamo star certi che, fra gli slogan, non mancheranno quelli contro il patriarcato. Del resto ne abbiamo avuto un assaggio in questi giorni: chiunque neghi l’esistenza del patriarcato
viene guardato con stupefatto rimprovero, come se avesse osato negare la Shoah.

La ragione è semplice: siamo stati talmente martellati dalla tesi che la violenza sulle donne dipende dalla sopravvivenza del patriarcato che, per molti, negare il patriarcato suona come negare la violenza sulle donne.

Eppure, se lasciamo per un attimo gli ardori ideologici dei credenti nel patriarcato, e ci concediamo il minimo sindacale di lucidità, non possiamo non vedere le ottime ragioni dei negazionisti. Che sono tante e solidissime.

La più importante è che, a parte alcune specifiche enclave di cui parlerò fra poco, nelle società occidentali sono scomparsi quasi interamente i tratti distintivi delle società patriarcali: il potere dispotico del capofamiglia, il matrimonio combinato, la
sottomissione dei figli (anche dei figli maschi) all’autorità genitoriale, più in generale il primato dei doveri sui diritti in quasi ogni campo della vita sociale (lavoro, famiglia, guerra). Il processo è durato secoli, ma ha avuto due impulsi fondamentali: l’ascesa del matrimonio d’amore fra Settecento e Ottocento, in epoca romantica, e le rivoluzioni libertarie e anti-autoritarie degli studenti e delle donne negli anni ’60 e ’70 del Novecento. Un aspetto fondamentale di questi processi è l’evaporazione della figura del padre, e più in generale di ogni autorità, tempestivamente annunciata da Alexander Mitscherlich con il suo libro Verso una società senza padre, uscito in lingua tedesca fin dal 1963. Su questo, fra i sociologi, gli psicologi sociali e gli psicoanalisti sussistono ben pochi dubbi.

Di qui un’ovvia domanda: come si fa a parlare di società patriarcale, quando la figura del padre è scomparsa non solo nella famiglia, ma più in generale nella società?

La realtà è che la nostra società è profondamente maschilista, o machista, o basata sul “dominio maschile” (titolo di un importante libro di Bourdieu), a dispetto della scomparsa del patriarca, del padre, di ogni autorità. E anzi, l’ipotesi che dovremmo
prendere seriamente in considerazione è che la violenza di cui le donne sono vittime sia semmai il risultato – controintuitivo e paradossale – della sconfitta del patriarcato.

Sono sempre più numerose le voci che attirano l’attenzione sul fatto che potrebbero essere proprio le grandi conquiste di libertà e di autonomia delle donne negli ultimi 50 anni, combinate con il crescente individualismo, consumismo, ipertrofia dei diritti
– tutti tratti tipici del nostro tempo – ad avere reso gli esautorati maschi sempre più aggressivi, insicuri, fragili, possessivi, e in definitiva incapaci di reggere la minima sconfitta, o di accettare un semplice rifiuto. Insomma: l’odierno maschilismo sarebbe
anche una sorta di contraccolpo a conquiste delle donne per cui i maschi non erano pronti, né disposti a farsi da parte. La violenza maschile non sarebbe il segno della sopravvivenza del patriarcato, ma semmai della sua agonia, e del disordine che da quest’ultima deriva.

Questa linea di pensiero, su cui mi paiono convergere anche importanti settori del femminismo (vedi il recentissimo coraggioso intervento di Marina Terragni sul sito Feminist Post), ha un importante vantaggio concettuale: spiega il “paradosso nordico”, ovvero il fatto – a prima vista sorprendente – che la violenza sulle donne, dagli stupri ai femminicidi, sia maggiore nei paesi più civilizzati (come quelli scandinavi) e che un paese come l’Italia, in cui il gender gap è ancora relativamente ampio, sia fra i meno insicuri del continente europeo.

Ma quali sono le implicazioni pratiche di questo schema interpretativo, che distingue nettamente fra patriarcato e maschilismo?

La prima, e più ovvia, è di combattere il patriarcato ovunque sopravvive davvero, e cioè nelle enclave religiose e culturali che, all’interno delle società occidentali, ospitano famiglie davvero patriarcali, come quella di Saman Abbas, che ha pagato con la vita il suo rifiuto di un matrimonio combinato. I dati del Ministero dell’interno sulle vittime di reati gravissimi, come la costrizione al matrimonio, lo stupro di gruppo, la violenza sessuale, il revenge porn, mostrano con grande nettezza che le ragazze straniere corrono rischi enormemente maggiori di quelli delle ragazze italiane. Forse ci vorrebbe, accanto alla ultra-meritoria “Fondazione Giulia Cecchettin”, anche una “Fondazione Saman Abbas”, che aiuti le ragazze straniere oppresse a liberarsi dei rispettivi patriarchi, della cui nefasta influenza si possono trovare indizi anche nelle scuole, ad esempio ogniqualvolta il tasso di partecipazione ad attività sociali delle ragazze straniere è sensibilmente inferiore a quello delle ragazze italiane.

Ma la implicazione più importante del passaggio dalla lotta al patriarcato alla lotta al maschilismo, è quella di sollecitarci a cercare, individuare e combattere le vere determinanti del maschilismo stesso. Che a me paiono almeno due. Innanzitutto,
l’uso sistematico del corpo delle donne per promuovere la commercializzazione di ogni genere di merce, servizio, evento, spettacolo: una prassi più che gradita ai maschi, ma non di rado assecondata dalle donne stesse, e che solo una parte del
femminismo osteggia. E poi, una determinante più sfuggente, ma forse ancora più impattante: gli eccessi della cultura dei diritti, a partire dal diritto a non soffrire, né patire sconfitte, né subire scacchi, né vivere frustrazioni, né sostenere sacrifici o lunghe attese.

Se il maschio si rivela incapace di reggere un rifiuto, o non sa rinunciare a prendersi con la forza quello che vuole, è anche perché vive in una società nella quale – sul piatto della bilancia – il peso dei diritti è diventato incomparabilmente maggiore di quello dei doveri.

[articolo uscito sul Messaggero il 24 novembre 2024]

Rubrica A4 – Destra e cultura

18 Novembre 2024 - di Dino Cofrancesco

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Mi ha davvero sconcertato vedere su  Blob (Rai 3) la sparata di Giorgia Meloni contro l’egemonia culturale della sinistra che imperversa in tutti i campi del sapere, dell’editoria, delle arti, dell’intrattenimento televisivo, dello spettacolo (cine, teatro). E’ indubitabile quanto afferma la premier ma non si capisce né l’indignazione (i fatti sono quelli che sono e ,se sono quello che sono, è colpa anche di chi ha lasciato crescere l’erba cattiva dell’”impegno intellettuale”) né, tanto meno, i possibili rimedi. Si vuole forse sostituire (o affiancare) ad ogni responsabile di sinistra di un qualsiasi settore culturale un esponente della destra? Maurizio Gasparri (tra l’altro di Forza Italia, una formazione politica di centro liberale non di destra), ha detto:” Noi di destra rispetto alla sinistra abbiamo meno professori. E dunque meno scemi in giro”. Se fosse vero dovremmo reclutare, attraverso i concorsi di ogni tipo, nuovi professori (e avere più scemi in giro) in modo da dotarli di un potere culturale oggi in mano, oggettivamente, alla sinistra? Un tempo i concorsi universitari, nella rosa dei vincitori, almeno in certe materie (prevalentemente quelle storiche, filosofiche, giuridiche ed economiche) dovevano tener conto delle quote: un tanto ai cattolici, un tanto ai laici. Dovremmo pensare a diverse quote per il reclutamento degli intellettuali in posizione chiave: un 70% alla destra un 30% alla sinistra (tenendo conto che quest’ultima è sovrarappresentata?)

Ho sempre ritenuto che, con la sinistra schleiniana che ci ritroviamo, la destra al governo sia il meno peggio che potesse capitare all’Italia ma non chiudo gli occhi dinanzi alla inadeguatezza della sua classe dirigente, del tutto priva di un senso alto, quasi gramsciano, della cultura e della sua importanza. Nei rapporti con gli assessorati del centro-destra, si collezionano solo esperienze frustranti di ottusa insensibilità agli aspetti simbolici della politica. A Genova, dove vivo e lavoro da una vita, è quasi impossibile  parlare con le autorità cittadine e regionali (di centro-destra)  per proporre loro, ad esempio, di dedicare luoghi pubblici al più grande sociologo ed economista europeo, tra 800 e 900, Vilfredo Pareto, di antica famiglia genovese;  al più prestigioso giornalista del suo tempo, Giovanni Ansaldo, venuto al mondo all’ombra della Lanterna;  a un regista, come Pietro Germi, di umili origini, uno dei protagonisti della più grande stagione del cinema italiano (tra l’altro, venne ostracizzato dai suoi colleghi in quanto ‘socialdemocratico’, cioè socialfascista). Per gli amministratori della destra, i convegni culturali—come il Festival della Politica di Santa Margherita Ligure organizzato dall’Associazione Isaiah Berlin e ,quindi, all’insegna del più autentico  pluralismo—non sono poi così importanti.. A essere lautamente finanziati, ma dalle sinistre e dai loro ricchissimi sponsor, sono, invece,  convegni e festival in linea con il pensiero unico.  Persino a Santa Margherita Ligure dove trascorreva diversi mesi dell’anno Isaiah Berlin, forse il più prestigioso filosofo liberale del suo tempo—è stata una battaglia perduta quella di intitolargli una piazza, un  giardino, un istituto scolastico etc.

 A destra non c’è cultura? Sicuramente, non nei partiti e movimenti politici oggi al governo—ove si eccettuino ministri come Carlo Nordio, Giuseppe Valditara e altri pochi. Ma ce n’è abbastanza se si pensa alle produzioni intellettuali della destra. Dal compianto Augusto Del Noce al geniale Marcello Veneziani, sono non pochi i saggisti, gli articolisti, i filosofi, gli storici di quest’area culturale. Non ne faceva parte, tanto per fare qualche nome, Vittorio Mathieu, forse il più prestigioso studioso di Kant del suo tempo, autore, oltreché di poderosi volumi di storia della filosofia, di saggi divenuti classici sulla rivoluzione, sulla libertà, sul diritto di punire etc.? Un governo di destra  responsabile e competente dovrebbe, innanzitutto, preoccuparsi di sostenere le fondazioni intitolate alle grandi icone del pensiero liberale e liberalconservatore, pronto a finanziarne i convegni, i seminari di studio, i corsi di lezioni. A figure dimenticate, perché lontanissime dalla cultura dominante—per fare qualche nome, Panfilo Gentile, Mario Vinciguerra, Randolfo Pacciardi, Giacomo Noventa—dovrebbero venire intitolate bose di studio, premi per la migliore tesi di laurea, ‘dignità di stampa’ etc. Non si combatte l’intelligentsia che da decenni spadroneggia in Italia con patetici annunci di guerra—destinati a irritare anche quanti non simpatizzano con le nuove sinistre (e spesso rimpiangono le sinistre d’antan ancora marxiste e, pertanto, dotate di senso della realtà).Quando, in sostanza, si dice:  “ora è la volta nostra”, non si sospetta che, in realtà, è “la volta di sempre” e che agli italiani si presenta un vestito rivoltato ma che , in quanto tale, è sempre lo stesso vestito. E’ l’eterna tentazione del Minculpop che da destra era passata sinistra e che ora qualcuno vorrebbe, incautamente, riportare a destra.

Il rebus di Elly

13 Novembre 2024 - di Luca Ricolfi

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Non vorrei essere al posto di Elly Schlein. Se prima della vittoria di Trump poteva ancora accarezzare l’idea di una possibile futura vittoria della sinistra, oggi coltivare quel sogno è diventato ancora più difficile di prima. Le elezioni americane hanno mostrato infatti almeno due cose. La prima è che l’adesione acritica alla cultura dei diritti, da cui Kamala Harris non ha saputo prendere le distanze, è una pesantissima zavorra nella corsa elettorale. La seconda è che la sinistra non ha più un’idea di società, o meglio di cambiamento degli assetti sociali, capace di convincere gli strati popolari.

Il perché lo ha spiegato, con qualche tortuosità, Massimo Cacciari in un mesto articolo comparso sulla Stampa pochi giorni fa. Ridotto all’osso, il suo ragionamento è il seguente. La sinistra non ha perso per ragioni contingenti, ma per ragioni strutturali. E la ragione strutturale fondamentale è che ai ceti popolari impauriti e impoveriti la sinistra stessa non è più in grado di offrire la risposta che dava un tempo: più welfare finanziato in deficit. Di qui una certa comprensione (manifestata in altri interventi) per i limiti della legge di bilancio varata da Meloni, e il riconoscimento che – vigente il patto di stabilità europeo – ad analoghi vincoli si troverebbe soggetto un eventuale governo Schlein.

Rimedi?

Come sempre, una lieve oscurità avvolge i pensieri del filosofo veneziano, però leggendo tra le righe la risposta la si intuisce: quello su cui la sinistra dovrebbe puntare è una politica di sviluppo “radicalmente riformista”, basata su “una efficace politica ridistributiva”. In concreto: ripudio della stagione renziana, che abbassava le tasse e puntava sulla crescita, nella credenza che “quando la marea sale fa salire tutte le barche”; e ritorno a una stagione bertinottiana, in cui “anche i ricchi piangono”, perché è dalle loro tasche che vengono prelevate le risorse necessarie per rifinanziare lo stato sociale (sanità e scuola innanzitutto).

Abbiamo trovato la quadra, dunque?

In un certo senso sì. La linea Cacciari ha una sua logica. Prende atto che l’Europa non ci lascia finanziare il welfare facendo ulteriore debito, e dà per scontato il ripudio irreversibile della della “terza via”, a suo tempo entusiasticamente sottoscritta da
Renzi. Un ripudio che, a ben guardare, è un punto di forza del nuovo gruppo dirigente del Pd, che alle reiterate domande della destra “come mai, quel che proponete ora, non lo avete fatto quando eravate al governo?” può tranquillamente rispondere “noi al governo non c’eravamo, e il Pd di allora è il contrario del Pd che stiamo cercando di costruire adesso”.

Apparentemente tutto fila. C’è un punto, però, che non funziona. Finora Elly Schlein si è ben guardata dall’ammettere (come invece fa Cacciari) che, stanti i vincoli europei, non si poteva fare una legge di bilancio sostanzialmente diversa (e più pro
ceti bassi) di quella varata da Meloni. Ma soprattutto si è ben guardata dal dire la verità sulle tasse, e cioè che già solo per raddrizzare sanità e scuola occorre prevedere un prelievo fiscale aggiuntivo ingente, permanente, e inevitabilmente gravante anche sul ceto medio-alto, non certo sui soli ricchi. In breve: occorre che il Pd diventi come il Labour Party di Jeremy Corbyn, che però proprio con quel tipo di programma non era mai riuscito a battere i conservatori.

Se riflettiamo su questo nodo, forse capiamo meglio anche perché – negli ultimi anni – il Pd è diventato sempre più il partito dei diritti, attento alle rivendicazioni delle minoranze sessuali, ossessionato dalla cultura woke, irremovibile nella tutela dei migranti, paladino delle grandi battaglie di civiltà, ma dimentico dei diritti sociali, dei drammi del lavoro e dello sfruttamento: la ragione è che le battaglie sui diritti civili, a differenza di quelle sui diritti sociali, costano poco, e quindi non mettono a repentaglio i conti pubblici. Voglio dire che, paradossalmente, puntare tutte le carte sulla cultura dei diritti ha il notevole vantaggio di non esporre alla domanda delle domande: ma dove le prendete le risorse? Mentre, puntare sui diritti sociali, quella domanda non permette di eluderla facilmente (anche se, ovviamente, ogni politico fingerà di sapere dove trovarle, quelle benedette
risorse).

Conclusione: tornare a puntare sui diritti sociali, e mettere la sordina su quelli civili, può riavvicinare la sinistra alla sensibilità dei ceti popolari. Più difficile supporre che la stangata fiscale permanente che quel ritorno comporta non spaventi i ceti medi, come già è accaduto con il Labour di Corbyn nel Regno Unito e con il Fronte Popolare di Mélenchon in Francia.

Ecco perché non vorrei essere al posto di Elly Schlein.

[articolo uscito sulla Ragione il 12 novembre 2024]

Lezioni americane

11 Novembre 2024 - di Luca Ricolfi

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Sul fatto che le follie del politicamente corretto abbiano aiutato Trump, in questa elezione come in quella del 2016, quasi tutti convengono. Meno chiaro, invece, è quali lezioni, dalla vittoria di Trump e dalla sconfitta di Harris, possano trarre la sinistra e la destra in Europa.

A prima vista, chi ha più da imparare è la sinistra. Per lei, la lezione principale è che l’adesione acritica alle istanze del politicamente corretto (cultura woke, ideologia gender, cancel culture) è una zavorra elettorale insostenibile, tanto più se – come
accade in Italia, Francia, Germania – il mondo progressista è lacerato da profonde divisioni. È vero che la cosiddetta cultura dei diritti è diventata, da almeno tre decenni, il principale cemento identitario della sinistra e del suo sentimento di superiorità morale, ma bisognerà prima o poi prendere atto che continuare su quella strada la allontana sempre più non solo dai ceti popolari (che hanno altre priorità, a partire dalla sicurezza) ma anche da una parte del mondo femminile, che non vede di buon occhio le istanze dell’attivismo trans, specie quando comportano invasione degli spazi delle donne (carceri, competizioni sportive, centri anti-violenza, eccetera), rischi di indottrinamento nel mondo della scuola, transizioni di genere precoci per i minorenni, promozione della GPA (utero in affitto). Se vuole tornare a vincere, la sinistra dovrebbe smettere di attribuire ogni sconfitta alla disinformazione e ai poteri forti, e semmai prendere atto che aveva ragione Norberto Bobbio quando, a metà degli anni ’90, la avvertiva che rinunciare alla stella polare dell’uguaglianza a favore di quella dell’inclusione, come le suggeriva il sociologo Alessandro Pizzorno, era un errore, foriero di arretramenti e sconfitte.

Ma forse anche la destra avrebbe qualcosa da imparare, specie in Italia. Visto da destra, il follemente corretto di cui la sinistra si è resa prigioniera può diventare una straordinaria opportunità di definizione di sé stessa per così dire “a contrario”.

Culturalmente, la destra è sempre di più, non solo in Italia, l’unico argine significativo alla deriva woke negli innumerevoli campi in cui si manifesta. Anziché puntare sul controllo dell’informazione, sull’occupazione di posizioni nel mondo della cultura, su improbabili incursioni nello star system – più in generale: sul velleitario progetto di ribaltare l’egemonia culturale della sinistra – alla destra converrebbe forse prendere atto che la sua forza non sta nell’occupazione più o meno maldestra delle istituzioni, ma nell’aderenza alle istanze e alle visioni del mondo di ampi settori delle società capitalistiche avanzate.

Se le forze di destra stanno avanzando in Europa, e alcune loro istanze (come il controllo dell’immigrazione) si stanno manifestando anche a sinistra (emblematico il successo del partito di Sahra Wagenknecht in Germania), è perché quello in atto è un profondo smottamento della sensibilità collettiva. Uno smottamento che, fondamentalmente, consiste in una presa di distanze dalla cultura dei diritti e dai suoi eccessi, e si traduce in una richiesta di porre limiti, argini, freni ad alcune tendenze del nostro tempo. È dentro questa cornice che prendono forma la richiesta di contenere l’immigrazione illegale, garantire la sicurezza, ma anche frenare l’espansione di diritti percepiti come arbitrari (la scelta soggettiva del genere), o pericolosi (cambi di sesso degli adolescenti), o contrari all’ordine naturale delle cose (utero in affitto), o semplicemente pericolosi per le donne (invasione degli spazi femminili).

Già, le donne. Pochi ne parlano, ma uno dei fenomeni sociali più significativi degli ultimi anni sono i cambiamenti che stanno avvenendo nel femminismo, e più in generale nel comportamento elettorale delle donne. Nella campagna per le presidenziali americane è successo, per la prima volta, che una parte delle femministe, negli Stati Uniti (Kara Dansky) ma anche nel Regno Unito (Julie Bindel), si siano poste la domanda fatidica, fino a ieri inconcepibile: dobbiamo prendere in considerazione l’ipotesi di votare conservatore?

E non è tutto. Anche sul piano delle leadership, il panorama si sta facendo interessante. Dopo la recentissima ascesa di Kemi Adegoke, donna nera di origini nigeriane, a leader del partito conservatore britannico, sono immancabilmente donne
a guidare la destra nei quattro più grandi paesi europei: Marine Le Pen in Francia, Alice Weidel in Germania, Giorgia Meloni in Italia, e appunto Kemi Adegoke nel Regno Unito.

Insomma, sia sinistra sia a destra, il materiale di riflessione non manca.

[articolo uscito sul Messaggero il 10 novembre 2024]

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