Campo largo, mission impossible?

Il sogno di costruire a sinistra un “campo largo”, che vada dai liberal-riformisti (tipo Calenda) all’estrema sinistra (tipo Fratoianni), ha subito un duro colpo con il recente spettacolo di confusione, divisioni e ripicche andato in scena in Basilicata in vista delle imminenti elezioni regionali.

Qualcuno ha provato a dire che “solo uniti si vince”, sorvolando sul fatto che in Sardegna il centro-sinistra aveva vinto nonostante fosse diviso, e in Abruzzo aveva perso nonostante fosse unito. A quanto pare, il puzzle non possiede una soluzione semplice.

Ma ne possiede una?

Solo il tempo fornirà la risposta, ma forse un ripasso della storia della seconda Repubblica qualcosa ce lo può insegnare.

Intanto non è vero, come talora si sente dire, che le forze di centro-destra sono sempre state unite, e quelle di centro-sinistra quasi sempre divise. Il primo governo di centro-destra, guidato da Berlusconi, cadde per mano della Lega di Bossi; le elezioni del 1996 furono perse dal centro-destra perché al Lega andò al voto da sola; e alla caduta di Berlusconi nel 2011diede un contributo non secondario la sanguinosa frattura fra Berlusconi e Fini.

Quanto al centro-sinistra, i ricorrenti litigi non impedirono a Prodi di sconfiggere Berlusconi due volte (nel 1996 e nel 2006); le bizze di Bertinotti nel 1997-98 – pur costando la presidenza del consiglio a Prodi – non impedirono al centro-sinistra di governare indisturbato per cinque anni, dal 1996 al 2001.

Dunque, se stiamo alla storia degli ultimi 30 anni, non c’è eterna granitica compattezza a destra, né ineluttabile divisione a sinistra. La partita è aperta.

Che la partita sia aperta, tuttavia, non significa che la situazione sia simmetrica. Nonostante i precedenti speculari che abbiamo richiamato, ci sono almeno due ragioni di fondo che rendono più difficile unificare la sinistra che unificare la destra. La prima è che le differenze entro il campo di centro-destra sono di natura pragmatica (e quindi ricomponibili), mentre quelle entro il centro-sinistra sono di tipo valoriale (e quindi difficilmente ricomponibili). I politici di sinistra hanno perfettamente ragione quando osservano che anche a destra ci sono divisioni importanti sulla guerra, sulla politica fiscale, sull’immigrazione, ma si illudono se pensano che siano divisioni comparabili a quelle interne alla sinistra. Che sono invece basate su questioni di principio, in quanto tali percepite come non negoziabili, per non dire identitarie.

Faccio un esempio per rendere l’idea: anche a destra ci sono differenze importanti  sull’immigrazione, con Salvini che punta sulla chiusura dei porti, e Meloni sul blocco delle partenze, ma sono differenze che impallidiscono a fronte di quelle che separano Renzi e Minniti da Bonelli e Fratoianni. Queste ultime sono percepite come enormi e inconciliabili perché, complice l’atavico complesso di superiorità della sinistra, le si tratta come contrapposizioni morali, anziché come scelte fra opzioni politiche tutte legittime. Il fatto è che, su molti temi non secondari – l’immigrazione, il precariato, la guerra – le differenze di opinione a destra restano semplici differenze di opinione, a sinistra diventano irriducibili differenze etiche (detto per inciso: è per questo che Renzi e Calenda sono indigeribili per la sinistra, ma compatibili con la destra).

C’è anche una seconda ragione, però, che rende ardua – a sinistra – la costruzione di un campo largo vincente. Una ragione che definirei “idraulica”, in quanto ha a che fare con la dinamica dei flussi di voto. In breve: se il campo largo si presenta con un profilo riformista, una parte dell’elettorato Cinque Stelle non va a votare, ma se il profilo è massimalista (come attualmente) una parte dell’elettorato riformista si rifugia a destra.

Detto in altre parole: a destra la circolazione dei voti resta all’interno del perimetro della coalizione, a sinistra coinvolge anche i flussi verso astensione e coalizione avversa.

Perché funziona così?

Un po’ perché il maggior partito della sinistra non ha mai compiuto una vera scelta fra riformismo e massimalismo. Ma un po’, anche, per una ragione per così dire antropologica: dall’avvento di Berlusconi in poi, la tendenza a porre le questioni politiche in termini etici si è profondamente radicata nella psicologia dell’elettorato progressista. Il problema è che, alla lunga, l’eticizzazione del conflitto politico finisce per ritorcersi contro chi la promuove.

[articolo uscito sul Messaggero il 22 marzo 2024]




Squadrismo e dissenso – Sulla contestazione a Donatella Di Cesare

La recente vicenda in cui è incappata la filosofa Donatella Di Cesare è interessante e istruttiva. Ricapitoliamo i fatti.

Il 4 marzo scorso, all’età di 75 anni, viene a mancare Barbara Balzerani, brigatista rossa, unica donna nel commando che rapisce Aldo Moro. Arrestata nel 1985, era rimasta in carcere per più di 20 anni, e nel 2011 era tornata in libertà, dopo 5 anni di libertà condizionale.

Appresa la notizia, la prof.ssa Di Cesare, che insegna Filosofia teoretica alla Sapienza, posta il seguente pensiero:

La tua rivoluzione è stata anche la mia. Le vie diverse non cancellano le idee. Con malinconia un addio alla compagna Luna.

Come era facilmente prevedibile, si scatena una bagarre mediatica. La professoressa rimuove il post, e spiega che lo ha rimosso in quanto accortasi che “non solo veniva frainteso, ma veniva anche utilizzato per scatenare una polemica”.

A quel punto le autorità accademiche minacciano sanzioni, e qualche giorno dopo una sua lezione viene interrotta da alcuni giovani di Forza Italia, che mostrano dei cartelli con le foto di alcune vittime delle Brigate Rosse. La professoressa, che comunque riesce a terminare la lezione, accusa i giovani di Forza Italia di aver messo in atto una “violenta azione di squadrismo”, e lamenta che non le viene consentito di svolgere il suo insegnamento.

Perché la vicenda è istruttiva?

Fondamentalmente, perché in essa si presentano in modo paradigmatico un po’ tutti i problemi – e gli interrogativi – della libertà di espressione.

Primo problema, può un docente (ma vale a maggior ragione per chi fa altri mestieri) essere sanzionato dall’Università per le idee che esprime al di fuori del ruolo che ricopre? Il post della Di Cesare era su una piattaforma social, non su una slide di Power Point mostrata agli studenti durante una lezione.

A quel che si apprende, “la Sapienza ha avviato un iter di cui è stato informato il Ministro dell’Università e della Ricerca, Anna Maria Bernini”. Se stiamo ai precedenti, l’università potrebbe sanzionare la docente, come ha già fatto l’università di Milano con il prof. Marco Bassani, colpevole di aver condiviso sui social una vignetta ritenuta offensiva su Kamala Harris, vice presidente USA.

Secondo problema, qual è il confine fra la libertà di espressione, e il diritto di manifestare il dissenso?

Difficile non rilevare il doppio standard con cui la questione viene affrontata, specie a sinistra. Da un lato, una breve, silenziosa, interruzione di una lezione come quella attuata dai giovani di Forza Italia, viene classificata come squadrismo, dall’altro azioni effettivamente squadristiche vengono derubricate a legittime manifestazioni del dissenso nei casi, sempre più numerosi, in cui a un relatore viene impedito fisicamente di parlare. Penso a quel che è successo nei giorni scorsi al giornalista David Parenzo, o al direttore di Repubblica Maurizio Molinari, ma anche ai numerosi casi del passato, in cui – spesso in nome dell’antifascismo – è stata negata la parola a personaggi sgraditi ai collettivi studenteschi.

Terzo problema, quali sono – in una democrazia liberale – le idee che è inammissibile manifestare, e a chi tocca sanzionare chi le manifesta?

Personalmente, stento ad accettare che la censura possa toccare opinioni che non configurano reati. Ma trovo semplicemente raccapricciante che un’università, una istituzione culturale, un’impresa possiedano o si auto-attribuiscano il diritto di comminare sanzioni sindacando la legittimità delle opinioni espresse da loro funzionari o dipendenti. Eppure, è questo che sta succedendo sempre di più, specialmente negli Stati Uniti, dove può capitare che una piattaforma di pagamenti come PayPal multi i suoi utenti, o ne congeli i fondi, solo perché hanno espresso opinioni che non collimano con i codici etici della piattaforma.

Tornando alla vicenda Di Cesare, credo che chi ama la libertà non possa in alcun modo auspicare sanzioni per il suo melanconico post. Semmai, dovrebbe invitarla a ripristinarlo. Perché anche il suo ragionamento, è istruttivo. Esso illustra infatti nel modo più vivido la tragedia del comunismo, e di una parte non trascurabile della generazione del ’68. Che si è perduta proprio perché è caduta nell’errore che Donatella Di Cesare reitera nel suo post, ossia credere che le idee possano essere distinte dalle “vie”, cioè dai mezzi, attraverso i quali si cerca di realizzarle.

(uscito su La Ragione il 19 marzo 2024)




Faziosità a sinistra, incultura a destra

Come sia finito Tommaso Cerno alla direzione del ‘Tempo’, il quotidiano di Renato Angiolillo e di Vittorio Zincone, resta per me un mistero. Certo un editore  può imporre al foglio di cui è proprietario una nuova linea politica ma la rottura con la tradizione non ha nulla di esaltante per quanti hanno a cuore la continuità col passato e con i valori ai quali per tanti anni si è rimasti fedeli, pur nella consapevolezza che, col mutar dei tempi, le strategie per preservarli e consegnarli alle generazioni future possono e debbono variare. E’ superfluo aggiungere che la continuità che si è apprezza è quella che si accompagna allo ‘stile’, al rispetto degli avversari, alla misura.

 Non voglio essere equivocato,   Tommaso Cerno è un giornalista di sinistra e rimasto tale, che spesso, tuttavia, nei talk show televisivi, ha assunto apprezzabili atteggiamenti anticonformisti e contro-corrente. In un primo momento, avevo pensato, ingenuamente, che forse la sua nomina fosse dovuta alla definitiva entrata dell’ex direttore dell’Espresso nella area politica liberale. Mi ha stupito, pertanto, nel vederlo, la sera del 15 marzo su un canale di Mediaset–il 35–raccontare la marcia su Roma con un linguaggio che sarebbe piaciuto all’Anpi. Il commento al documentario storico, infatti, era scandito da frasi come ‘la marcia dei malfattori’,’i malfattori sfilano..’,i malfattori tornano nelle loro tane provinciali etc.

 Mi sono venute in mente due considerazioni: ma com’è possibile che, a più di un secolo dalla marcia su Roma e dopo le ricerche di Renzo De Felice, “che tanta ala vi stese”, si riguardino le camicie nere come una banda di mascalzoni, violenti e ubriachi? Che Mussolini e i quadrumviri abbiano affossato–ma non nel 1922 bensì nel 1924– l’Italia liberale non ci piove ma ancora adesso ci è così difficile  riconoscere che avevano in mente un progetto politico, un’etica, dei valori, che non sono certo i miei ma che, non pertanto, vanno compresi (anche per evitare il pericolo che la dimenticanza del passato comporti la sua ricomparsa) e analizzati sine ira ac studio? Viviamo ancora nel clima della guerra civile in cui quanti hanno in odio la democrazia liberale —siano rossi o neri—sono da riguardare alla stregua dei delinquenti comuni? Brutto segno questo sprofondare politica e diritto, etica e religione nell’abisso dell’indistinzione indotta dal fanatismo moralistico più ottuso! Quando il nemico diventa un criminale tout court e la sua neutralizzazione una faccenda che riguarda non l’esercito ma la polizia, ci si pone al di fuori  della civiltà liberale, che distingue Al Capone da Adolf Hitler.

La seconda considerazione rinvia alle dolenti note sulla cultura della destra liberale. L’antifascismo ‘senza se e senza ma’ di Cerno non è inferiore a quello di Aldo Cazzullo, per il quale Mussolini è stato solo un delinquente–Mussolini il capobanda. Perché dovremmo vergognarci del fascismo Ed. Mondadori (sic!) s’intitola un suo libro recente—ma colpisce che abbia trovato spazio in una TV come Mediaset nata (anche) all’insegna della lotta al pensiero unico. E’ forse il segno inequivocabile che anche per i dirigenti dell’emittente televisiva creata da Berlusconi a stabilire chi sono gli storici che contano è il circolo mediatico Espresso/Repubblica/Stampa etc.

 In realtà, se a sinistra troviamo, da sempre, una faziosità ideologica degna della Russia stalinista, a destra, trionfa  un’incultura non riscattata da quel pragmatismo che fu una delle grandi virtù del liberalismo di governo. In una Regione di centro-destra come la Liguria, la commemorazione del 25 aprile venne affidata ,l’anno scorso, pensate un po’, a Maurizio Viroli, uno degli storici più settari e dogmatici che abbiano calcato le scene delle patrie lettere, autore di libri che presentano Silvio Berlusconi  come il più grande corrotto e corruttore della Prima Repubblica. Ma c’è di peggio: l’amministrazione di centro-destra del Comune di Genova, ripetutamente sollecitata, ha fatto orecchie da mercante alla proposta di dedicare una strada, un giardino, una piazza, una scuola al più grande sociologo del suo secolo, il genovese Vilfredo Pareto, al più grande giornalista del Novecento, Giovanni Ansaldo, nato all’ombra della Lanterna, a uno dei più importanti registi del Novecento Pietro Germi, nato nella genovesissima Via Ponte Calvi e figlio di un portiere d’albergo. Che le amministrazioni di centro-sinistra non l’abbiano fatto si può capire: Vilfredo Pareto, di cui Mussolini aveva il culto, fu proposto nel 1923 come rappresentante italiano in una importante Commissione della Società delle Nazioni a Ginevra e quindi nominato senatore del Regno; Giovanni Ansaldo, dopo la sua adesione al fascismo, aveva diretto ‘Il Telegrafo’ su designazione dell’amico Galeazzo Ciano e, nel secondo dopoguerra, il liberalconservatore ‘Mattino’ di Napoli; Pietro Germi era ritenuto dagli intellettuali e cineasti del PCI un socialdemocratico, quindi un criptofascista. Figli simili, per la Genova antifascista, erano da dimenticare ma la Genova civile, non dovrebbe rendere omaggio a pensatori, giornalisti e artisti che hanno segnato la storia culturale italiana, pur non dimenticando colpe ed errori che possono aver commesso (non Germi naturalmente)?




Intervista di Mirella Serri a Luca Ricolfi

Nel suo libro “La mutazione. Come le idee di sinistra sono migrate a destra” (Rizzoli) lei ha elaborato un insolito modello interpretativo per decodificare gli ultimi inaspettati cambiamenti politici: ovvero come mai destra e sinistra si sono scambiate da qualche tempo la base sociale e, mentre i più poveri e gli operai votano a destra, i più abbienti si volgono a sinistra. Adesso ripropone questo excursus tra vecchie e nuove povertà con una nuova introduzione (Un’altra sinistra è possibile?) in cui si rivolge direttamente alla sinistra riformista italiana.

La sinistra italiana è impegnata soprattutto nelle cosiddette “battaglie di civiltà”: unioni civili, eutanasia, liberalizzazione delle droghe, diritti lgbtq+. La parola d’ordine è “inclusione”. Basta per convincere gli strati popolari a votarla?

Ne dubito, se non altro perché fra le categorie di cui – in nome dell’accoglienza – si auspica l’inclusione vi sono anche gli immigrati irregolari, che ai ceti popolari creano almeno tre problemi: pressione al ribasso sui salari (il cosiddetto dumping), insicurezza nei quartieri popolari e nelle periferie, competizione nell’accesso al welfare, specie sanitario. È il caso di ricordare che il tasso di criminalità degli irregolari è dell’ordine di 20-30 volte quello degli italiani, e che l’immigrazione irregolare – a differenza di quella regolare – è essenzialmente un costo, perché non paga né le tasse né i contributi. La sinistra ha tutto il diritto, anzi il dovere, di proporre soluzioni diverse da quelle della destra, ma non può continuare a ignorare o minimizzare il problema, almeno se vuole recuperare una parte del voto popolare.

Lei ha sempre considerato un suo punto di riferimento “L’età dei diritti” di Norberto Bobbio. Lo è ancora oggi?

Sì, perché Bobbio istituisce una distinzione cruciale – oggi perlopiù ignorata – fra legittime aspirazioni e diritti in senso proprio. Oggi si tende a chiamare diritti, e a trattare come diritti naturali e universali, aspirazioni (ma talora Bobbio le chiama pretese) che non hanno ancora un riconoscimento giuridico che ne garantisce il godimento effettivo. È il caso, per fare due esempi di attualità, del matrimonio egualitario e dell’eutanasia.  

È un punto molto importante, perché spiega due cose. Primo, come mai nel nostro sistema sociale sono così diffusi vittimismo, frustrazione, aggressività, rabbia. Secondo, come mai da decenni non si osservano più grandi movimenti sociali e grandi lotte, come quelle del ciclo 1967-1980.

Perché mai la rivendicazione di diritti dovrebbe ostacolare le lotte?

È semplice: perché se pensi che hai diritto a qualcosa il tuo atteggiamento è di esigerla dallo Stato, questa cosa cui hai diritto; se invece pensi che la tua sia solo un’aspirazione, magari anche un po’ controversa, ti poni il problema di portare dalla tua parte chi non è d’accordo, e di lottare per ottenere ciò cui aspiri, come mezzo secolo fa è successo per divorzio e aborto. Le aspirazioni producono impegno, i diritti presunti risentimento.

In questo, pur riconoscendo l’importanza del contributo di Bobbio, mi sento più in sintonia con Simone Weil, che tendeva a ragionare in termini di doveri e di conquiste, più che di diritti.

Esiste una sindrome vittimistica che prevale a sinistra?

Eccome, ci sono studi di psicologia sociale che lo hanno documentato in modo molto preciso, usando la “scala di Rotter”, una geniale invenzione degli anni ’50. La tendenza a chiamare sempre in causa la società, il sistema, la situazione, i condizionamenti, sottovalutando tutto ciò che dipende dall’individuo, è tipico della mentalità progressista. È un problema, perché questo atteggiamento disincentiva l’assunzione di responsabilità, che è un ingrediente essenziale di qualsiasi sistema sociale.

Secondo lei l’accettazione acritica della modernizzazione è un problema?

Lo è perché i progressi tecnologici in campo bio-medico, militare, elettronico, informatico, hanno ricadute pesantissime sulla vita quotidiana e sulla salute. Di recente, statistici e psicologi hanno documentato i danni mentali (fino all’autolesionismo e al suicidio) che i social stanno provocando sui ragazzi, e ancor più sulle ragazze. Altre ricadute della tecnologia, invece, le vedremo solo fra un po’, quando l’intelligenza artificiale e l’automazione verranno sfruttate estensivamente da organizzazioni criminali e stati-canaglia (naturalmente, so benissimo che anche solo accennarne suscita l’accusa di luddismo).

In cosa sbaglia la sinistra in crisi? Trascura tematiche fondamentali come occupazione, miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro e protezione sociale? Sottostima le diseguaglianze?

Ho scritto La mutazione anche per dire lo sconcerto che in tanti, a sinistra, proviamo di fronte all’involuzione dell’establishment progressista. Di fatto, negli ultimi decenni la sinistra ha abbandonato tre bandiere fondamentali: la difesa dei ceti popolari “nativi”, in omaggio all’accoglienza; la difesa della libertà di pensiero, in nome del politicamente corretto e delle minoranze Lgbt; l’idea gramsciana dell’emancipazione attraverso la cultura, con la distruzione della scuola e il rifiuto del merito. Il guaio è che le prime due idee sono migrate a destra, e la terza lo sta facendo, con la decisione di Giorgia Meloni di attuare gradualmente l’articolo 34 della Costituzione, che prevede borse di studio per i “capaci e meritevoli” ma “privi di mezzi” (“l’articolo più importante”, secondo Piero Calamandrei). Tutto questo ha fortemente depauperato il patrimonio ideale della sinistra, e ha finito per arricchire quello della destra: il valore sottratto al campo progressista si è tramutato in valore aggiunto per il campo conservatore.

È una situazione irrimediabile?

Spero proprio di no, non dobbiamo rassegnarci. E a giudicare da quel che sta accadendo in Europa qualche speranza di cambiamento possiamo nutrirla. In Germania, Francia, Regno Unito, Danimarca, Svezia sono in corso diversi esperimenti politici per costruire una “sinistra blu” (da blue collar), meno sorda alle istanze popolari. Questo tipo di sinistra contende efficacemente il sostegno popolare alla destra perché incorpora sacrosante istanze securitarie, diffida del politicamente corretto, privilegia i diritti sociali rispetto a quelli civili, non ignora gli effetti anti-popolari della transizione green.

L’ascensore sociale si è bloccato? La cultura alta è ancora strumento di emancipazione dei ceti popolari attraverso l’istruzione?

L’ascensore è bloccato perché – con l’illusione di includere – si è drasticamente abbassato il livello degli studi nella scuola e nell’università, e nulla si è fatto per premiare i “capaci e meritevoli ma privi di mezzi”. È uno dei tanti paradossi italiani che tocchi a Giorgia Meloni attuare il sogno di Piero Calamandrei.

(intervista uscita su “La Stampa” il 26 febbraio 2024)




“Ricordiamo interamente!” Il refrain ipocrita.

Storici come Alessandro Barbero, scrittori come Boris Pahor, pasdaran dell’antifascismo come il Presidente dell’Anpi  Gianfranco Pagliarulo, parlando del Giorno del ricordo e delle foibe intonano il ritornello: ”ricordiamo interamente”, stigmatizzando “il silenzio verso l’aggressione dell’Italia fascista nei confronti della Jugoslavia (parte della Slovenia, della Croazia, compresa la Dalmazia, e della Bosnia ed il Montenegro), gli innumerevoli efferati massacri che ne seguirono, le impunite responsabilità dei criminali di guerra italiani”. Insomma saremmo tenuti a considerare ogni tragedia storica effetto di una causa da chiarire ogni volta. Sembra ragionevole ma non è così. Le giornate della memoria, infatti, intendono ricordare le vittime della violenza, tener vivo il patrimonio di ricordi che, nel bene e nel male, fanno l’identità spirituale di una nazione e di una civiltà. Appartengono alla dimensione del ‘mito politico, inteso come cemento ideale di una comunità politica: inserire la vicenda storica rievocata in un continuum di cause/effetto significa confondere etica pubblica e scienza, la ricerca che si svolge nei laboratori del sapere e i riti civici che non  intendono arricchire la conoscenza ma testimoniare una  appartenenza. I critici della Giornata del ricordo   invitano a riflettere sul ‘prima’, su ciò che precede le foibe ma, come capita ai settari, sono loro a fissare il termine a quo. E’ come se nella commemorazione ufficiale dei caduti antifascisti, si fosse obbligati a leggere le pagine di Federico Chabod, di Mimmo Franzinelli, di Zeffiro Ciuffoletti sulla guerra civile che insanguinò l’Italia suscitando la reazione delle camicie nere. E’ l’ennesima riprova della lontananza della nostra civic culture dall’universo liberale. Si esige che l’impegno etico-politico non abbandoni mai il dibattito pubblico, che  si debba continuamente ribadire quale era la parte giusta della storia.. L’immagine della bambina con la valigia più grande di lei, che reca la scritta ‘profuga giuliana’, dovrebbe essere sempre affiancata da quella di Giacomo Matteotti pestato a morte dai suoi sequestratori.