Rubrica A4 – Crisi della nazione e wokismo

La cancel culture, il wokismo (l’<ideologia che esorta a stare all’erta verso tutti quei comportamenti discriminatori nei confronti delle minoranze, di qualsiasi genere esse siano>), i cortei a sostegno di Hamas, le Università dei ricchi americani che gettano fango sull’Occidente e sui suoi valori hanno ispirato miriadi di commenti non soltanto ai soliti columnists e Catoni in s.p.e. ma, altresì, a studiosi della più varia estrazione—archeologi, scienziati, teologi—che, sconvolti dalle guerre che si combattono oggi in Medio Oriente e in Ucraina, non hanno mancato di far sentire la loro voce accorata e sgomenta. Qualcuno, Federico Rampini sul ‘Corriere della Sera’, ha ricordato ai giovani contestatori, per i quali essere ricchi è una colpa, che “senza la nostra Rivoluzione industriale, quella cosa orribile che ha insozzato il pianeta, oggi non sarebbero vivi tre miliardi di cinesi e indiani, o un miliardo e mezzo di africani: è la nostra agricoltura moderna a base di fertilizzanti e macchinari a consentire la loro alimentazione; è la nostra medicina ad avere ridotto la mortalità e allungato la longevità”. Sono rilievi giusti ma scontati e che, a ben riflettere, non
spiegano per quale motivo l’universalismo illuminista—di questo invero si tratta, del sentimento della radicale unità del genere umano che porta a condannare ogni tipo di violenza nei confronti di quanti sono titolari di inalienabili ‘diritti umani’—si stia rovesciando, come una valanga, sulla nostra civiltà, che delle sue radici, l’eredità greco-romana, il cristianesimo, i Lumi, sembra fedele solo alla terza.

A mio avviso, sfugge il nesso tra il declino dell’idea di nazione e la messa sotto accusa dell’Occidente e ciò in virtù della demonizzazione che si continua a fare dell’appartenenza a una comunità politica, riguardata come privilegio, esclusione, discriminazione. In realtà, la nazione, come la famiglia, è una ‘comunità di destino’: può essere buona o cattiva ma è l’unico tramite che, quando è buona, ci lega per empatia agli altri. Ripudiarla per le pagine nere della sua storia comporta il pericolo di smarrire il senso delle pagine luminose che pure ha scritto.

La cultura woke è quella di individui cosmopoliti che non sono persone, segnate da appartenenze e tradizioni, ma fondamentalisti del mondialismo, incapaci di riconoscere le luci e le ombre che caratterizzano ogni istituzione, dalla Famiglia allo Stato. Non è casuale che nei paesi in cui è ancora sentito il legame patriottico la storia non venga messa sotto accusa, a meno che non sia quella degli altri segnata da violenza e da ipocrisia—consistente, quest’ultima, nel richiamarsi a idealità che poi vengono calpestate. Le conquiste civili sono sempre conquiste di uno stato, di un popolo, di una nazione particolare. L’Uomo, che l’immortale de Maistre diceva di non aver incontrato da nessuna parte, non crea nulla, anche se viene ogni volta arricchito da ciò che gli uomini in carne e ossa hanno di volta in volta prodotto.




Elezioni in Francia e Regno Unito – Starmer e la sinistra blu

Una settimana fa il primo turno delle elezioni legislative in Francia. Pochi giorni fa elezioni nazionali nel Regno Unito. Oggi secondo turno delle elezioni in Francia. Non ricordo vi sia stata, in Europa, una settimana più densa di appuntamenti elettorali
importanti.

Se le previsioni degli istituti di sondaggio francesi si riveleranno azzeccate, domani diremo che il Fronte Repubblicano ha fermato Marine Le Pen, così come oggi diciamo che Keir Starmer – leader dei laburisti – ha posto fine al lungo primato dei Conservatori nel Regno Unito, un primato durato ben 14 anni. L’aritmetica dei seggi dice che i laburisti hanno una maggioranza schiacciante in
Parlamento, mentre – grazie alla desistenza – il Rassemblement National potrebbe non avere abbastanza seggi per governare. Sul piano politico è tutto, perché i seggi sono l’essenziale.

Ma se quel che ci chiediamo non è chi governerà, bensì dove vadano le opinioni pubbliche dei due paesi, il quadro si fa molto meno nitido. Con i sistemi maggioritari, è normale che la distribuzione dei seggi in Parlamento e le sue variazioni nel tempo
non riflettano i movimenti profondi dell’elettorato. E talora li contraddicano. I recenti casi della Francia e del Regno Unito non fanno eccezione.

In Francia il dato di opinione cruciale è che il consenso a Marine Le Pen è al massimo storico: ai ballottaggi per le presidenziali era al 33.9% nel 2017, salito al 41.5% nel 2022. E fra il 1° turno delle Legislative 2022 e il 1° turno delle Legislative 2024 il suo consenso in termini di voti è ulteriormente salito (quasi un raddoppio in due anni). In breve: quale che sia il risultato dei ballottaggi odierni nei collegi uninominali, è verosimile che il consenso a Marine Le Pen si aggiri intorno al 50%.

Ancora più intricata la situazione nel Regno Unito. Qui il “trionfo” di Keir Starmer in termini di seggi coesiste con una modestissima avanzata in termini di voti. Nel 2019 Corbyn, il leder laburista di allora, aveva perso le elezioni con il 32.1%, oggi il suo successore le ha stravinte con il 33.7%, nemmeno 2 punti percentuali in più. In sostanza: i laburisti, con 1/3 dei voti, governeranno con 2/3 dei seggi. A ulteriore riprova del fatto che, con un sistema elettorale maggioritario, può accadere che voti e
seggi raccontino due storie profondamente diverse. Si potrebbe osservare che, quantomeno, il voto inglese segnala un netto spostamento a sinistra dell’opinione pubblica, visto che i Conservatori quasi dimezzano i loro consensi (dal 43.6% del 2019 al 23.7% attuale). Ma anche questa conclusione andrebbe ponderata e qualificata. Intanto perché il deflusso di voti dal partito Conservatore ha premiato innanzitutto il partito anti-europeo di Farage (Reform UK), che è ancora più a destra. E poi per una
ragione più fondamentale: quello che ha vinto le elezioni nel Regno Unito è un partito laburista molto particolare, diverso da quello estremista di Corbyn, ma anche (almeno in parte) da quello di Tony Blair, stella polare dei riformisti e dei teorici
della Terza via.

Il partito che Keir Starmer ha pazientemente forgiato nel corso degli ultimi anni si riallaccia, semmai, al cosiddetto Blue Labour, una componente del Labour Party nata una quindicina di anni fa con il proposito di recuperare il consenso dei “colletti blu”, e di farlo anche con idee spesso considerate conservatrici, come famiglia, fede, vita di comunità e, soprattutto, limiti all’immigrazione irregolare. E infatti, nel programma di Starmer, il controllo dell’immigrazione illegale occupa un posto tutt’altro che marginale. Il rifiuto della soluzione-Sunak (deportare i migranti illegali in Ruanda) non si accompagna a benevole proposte di apertura dei confini o di rafforzamento dell’accoglienza, ma punta semmai all’introduzione di misure radicali di contrasto degli arrivi illegali, come il conferimento alle forze dell’ordine di super-poteri, analoghi a quelli previsti nella lotta al terrorismo. Detto più esplicitamente: la critica alle politiche dei Conservatori in materia migratoria non è di principio, quanto di efficacia: siete stati 14 anni al governo, e il problema dell’immigrazione siete solo riusciti ad aggravarlo. Ecco perché la lettura dei dati britannici non è semplice.

Hanno qualche ragione i riformisti a compiacersi dell’abbandono del massimalismo di Corbyn, e del parziale ritorno alle idee di Tony Blair. Ma questa è solo una faccia della medaglia. L’altra faccia è che i laburisti hanno raccolto solo 1/3 dei consensi, e lo hanno fatto anche grazie a idee che siamo abituati a considerare ben poco progressiste.

[articolo uscito sul “Messaggero” il 7 luglio 2024]




A chi interessa la sorte di Satnam Singh?

Possiamo starne certi, nel giro di pochi giorni della sorte di Satnam Singh, ucciso dallo spietato egoismo del suo datore di lavoro, non si parlerà più. Eppure dovremmo renderci conto che quella del lavoro sottopagato e iper-sfruttato nei campi di raccolta
è solo la punta di un iceberg. Qualche anno fa, cercando di descrivere la struttura della “società signorile di massa”, avevo anche provato a contarli, usando la (scarsa) informazione statistica disponibile. Il risultato, stimato per difetto, fu 3.5 milioni di
persone, circa 1 occupato su 7. Era il 2019, il governo giallo-rosso aveva da poco preso il posto di quello giallo-verde.

Questa infrastruttura para-schiavistica non è un mero retaggio del passato, un pezzo della società italiana non ancora “incluso”. Tutto al contrario, è un arcipelago di comparti produttivi, spesso irregolari o illegali, essenziali al funzionamento della nostra società per il resto relativamente benestante quando non opulenta. La cosa sconcertante è che nessuno se ne occupa davvero, salvo protestare, indignarsi, promettere interventi quando un fatto di cronaca estremo costringe a vedere quel che
non si vuol vedere. Ma perché nessuno vuole vedere?

Le ragioni sono tante, e non sono sempre le stesse nei vari comparti. Ma alcuni fattori sono comuni, o preponderanti.
Il più importante, a mio parere, è che solo una parte della infrastruttura paraschiavistica è rimovibile senza chiudere aziende e distruggere attività economiche. Questo, in particolare, è il dramma del comparto agricolo: i prezzi di vendita dei prodotti agricoli, anche a causa delle scelte della PAC (politica agricola comune), non sono in grado di coprire adeguatamente il costo degli input fondamentali (mangimi,sementi, fertilizzanti, fitofarmaci, carburanti agricoli). Di qui una pressione al ribasso sui salari e il largo ricorso al lavoro stagionale in nero, che non si limita a tenere basse le paghe orarie ma permette enormi risparmi sul versante previdenziale e dei diritti dei lavoratori (ferie, malattia, permessi, tredicesima, liquidazione).

Un altro fattore rilevante sono le scelte dei sindacati e dei politici, sotto qualsiasi governo. I primi, comprensibilmente, trovano più facile e conveniente occuparsi di assistenza fiscale, pensionati, operai e impiegati delle imprese grandi e medie (e sconcerta che, in occasione del dramma di Satnam Singh, siano riusciti a indire manifestazioni separate e litigare ferocemente fra loro). Quanto ai politici, per forma mentis e anche qui per convenienza, preferiscono credere che la loro missione sia approvare nuove leggi sulla carta giustissime, piuttosto che garantire l’applicazione delle leggi esistenti attraverso gli strumenti ordinari (ispettorati, magistratura, forze dell’ordine). Forse, prima di chiedersi quali nuove norme introdurre, dovrebbero cercare di capire come mai quelle in vigore restano sistematicamente inapplicate, e questo nonostante quasi sempre le situazioni di iper-sfruttamento e illegalità siano visibili ad occhio nudo.

Sindacati, politici, apparati pubblici, magistrati, forze dell’ordine, nessuno può chiamarsi fuori. L’elenco delle responsabilità, però, non sarebbe completo se non menzionassimo anche noi stessi: società civile, opinione pubblica, mass media. È un fatto che, negli ultimi decenni, la cultura dei diritti ha progressivamente relegato ai margini i diritti sociali classici (a partire da quelli nella sfera lavorativa), concentrando l’attenzione sui diritti civili e di specifiche minoranze degne di protezione, tutela, rispetto. Il concetto di inclusione, che in origine indicava l’imperativo di tutelare i “non garantiti” del mondo del lavoro in quella che stava
diventando una “società dei due terzi” (felice espressione dovuta a Peter Glotz), è stato sempre più declinato in una chiave individualistica, come se i problemi centrali del nostro tempo fossero diventati quelli del riconoscimento, anziché quelli classici
dello sfruttamento capitalistico.

Lo so, conosco l’obiezione: diritti civili e diritti sociali possono avanzare insieme. Ed è vero, almeno in parte. Ma il fatto è che la soluzione dei grandi problemi dipende anche da quanta attenzione, quanta vigilanza, quanto interesse cittadini e mass media
riservano a determinati drammi sociali piuttosto che ad altri. E il nostro più grande dramma, quello di una infrastruttura para-schiavistica gigantesca, che pesa su milioni di lavoratori e sulle loro famiglie, di attenzione ne ha ricevuta sempre di meno. Se a
questo dramma avessimo riservato anche solo un decimo dell’attenzione che siamo abituati a riservare ai diritti delle minoranze sessuali e alle diatribe sul linguaggio politicamente corretto, forse non saremmo al punto in cui siamo.

[articolo uscito sul Messaggero il 30 giugno 2024]




Macron transfobico?

Chi la fa l’aspetti, verrebbe da dire. A forza di proclamare nuovi diritti, finisce che trovi uno che ne proclama più di te. E ti ritrovi a passare per reazionario-retrogrado-maschilista-nemico delle minoranze.

È quel che è successo a Emmanuel Macron la settimana scorsa, quando ha osato dire che la proposta del Fronte Popolare di sinistra di permettere il cambio di sesso/genere con una semplice visita agli uffici comunali era “grottesca” (ubuesque). Tanto gli è
bastato per finire alla gogna, con l’infamante (per un liberale come lui) accusa di transfobia.

Qui in Italia la vicenda è passata sostanzialmente sotto silenzio. Ma è più seria di quel che sembra. Non perché la proposta sia sensata, ma perché in mezza Europa appare tale. E domani il tema potrebbe prendere piede anche da noi.
Non tutti lo sanno, ma il cosiddetto self-id (ossia la possibilità di scegliere arbitrariamente il genere, anche se minorenni, e anche senza aver avviato un processo di transizione) è ormai legge in molti paesi del mondo, ricchi e poveri, europei e non
europei. Recentemente lo hanno adottato i governi socialisti della Spagna (Ley Trans) e della Germania (Selbstbestimmungsgesetz). Poiché il numero di paesi che introducono il self-id è crescente, e sempre più spesso include paesi che siamo abituati a considerare avanzati, se ne potrebbe ricavare l’impressione di un ordinario processo di modernizzazione, democratizzazione e civilizzazione, come quelli che negli ultimi 80 anni hanno allargato i diritti delle donne. Ma è un’impressione incompatibile con alcuni dati di fatto.

Intanto, bisogna notare che il tema del self-id è strettamente legato a quello della transizione di genere più o meno medicalizzata (bloccanti della pubertà, ormoni cross-sex, operazione chirurgica). Introdurre per legge la possibilità di cambiare precocemente sesso/genere (in alcuni paesi anche più di una volta) aumenta le probabilità che il cambio anagrafico sia l’anticamera di ben più impegnativi percorsi di transizione. Quindi il giudizio sulla sensatezza del self-id dipende anche da quello sulla sicurezza e
opportunità dei protocolli di “autoaffermazione di genere”. E tale giudizio, dopo il recente rapporto Cass e vari studi di revisione della letteratura scientifica, tende ad essere fortemente scettico verso tali protocolli, a partire dal cosiddetto “protocollo olandese”: al punto da indurre il Regno Unito a una precipitosa marcia indietro, in controtendenza rispetto a Spagna e Germania.

Un altro elemento di cui bisogna tenere conto è che, dove non si ascoltano solo le associazioni LGBT+ ma si fanno sondaggi sull’orientamento della popolazione, spesso emerge che la maggioranza dei cittadini è contraria al self-id, in contrasto con
l’orientamento favorevole delle élite politiche, economiche, culturali, mediatiche. È il caso, per fare un esempio recente, della Germania, dove pochi mesi fa il governo ha varato una legge per il self-id a dispetto dell’orientamento dell’opinione pubblica. A
giudicare dal tracollo dei partiti progressisti alle successive elezioni europee, si direbbe che gli elettori non abbiano gradito.

Ma l’elemento empirico fondamentale di cui tenere conto, quando si accusa Macron di transfobia, è che a schierarsi contro il self-id sono innanzitutto molte donne e le associazioni che le rappresentano. L’obiezione che sollevano è tanto semplice quanto
devastante per il progetto politico del self-id: se qualsiasi maschio può proclamarsi femmina, e tale auto-proclamazione ha pieno valore legale, che ne sarà degli spazi e delle speciali garanzie riservate alle donne? Questa obiezione non è teorica, ma parte dall’osservazione che, là dove il self-id è stato introdotto senza forti restrizioni, si sono moltiplicati i comportamenti opportunistici (e talora aggressivi) dei trans MtF, ossia dei maschi transitati a femmine: ex maschi che accedono agli spazi femminili nelle carceri, nei centri antiviolenza, nello sport, ma anche in politica (occupare quote rosa), o nell’accesso al
welfare (andare in pensione prima), o nelle politiche di assunzione (benefici fiscali per i posti femminili), e persino nel processo penale (evitare le aggravanti di pena previste per le aggressioni maschili).

E poi c’è la ciliegina finale. In Germania, dove cresce il timore di un conflitto armato con la Russia, si guarda con preoccupazione a quel che è accaduto in Svizzera, dove un giovane maschio ha evitato il servizio militare sfruttando il self-id. Se molti
maschi tedeschi ne abusassero, la Germania potrebbe essere costretta a mettere restrizioni al self-id, o a introdurre la coscrizione obbligatoria per le donne.

Macron transfobico? Forse solo femminista.

[Articolo uscito sulla Ragione il 25 giugno 2024]




Rubrica A4 – Riflessioni sulla guerra ucraina

Più penso alla vicenda ucraina, più mi rafforzo nell’idea che quell’irresponsabile di Vladimir Putin abbia fatto, inconsapevolmente, il gioco di una potenza da tempo in declino come gli S.U. Grazie all’invasione ucraina, l’Europa è ridiventata il vassallo di Washington e della Nato, il suo braccio armato nel vecchio continente. La Germania merkeliana, con la sua politica estera autonoma (v. il gasdotto fatto saltare in aria, probabilmente con la complicità di Kiev: il fatto che non se ne parli più è non poco significativo) non esiste più e gli stati europei sono come le poleis greche sotto il dominio romano. Non osano neppure proporre l’invito degli stati in guerra – e non solo di quelli in guerra formalmente – a un tavolo di negoziazione per risolvere una crisi scoppiata ‘sotto casa’ loro. E, anzi, talvolta – come Petain, che, in fatto di ebrei, precorreva i desideri di Hitler – diventano persino più realisti del re -v. Scholz e Macron, desiderosi di inviare non solo munizioni ma anche soldati in Ucraina. Clamorosamente sconfitti alle urne, “entrambi hanno pagato, tra l’altro, il prezzo del loro oltranzismo atlantico” come ha detto Massimo L. Salvadori in una recente intervista a l’ ‘Unità’. I governi europei sanno solo tremare come foglie al vento se Biden fa intravvedere, dopo l’Ucraina, l’attacco di Putin ai paesi della Nato, uno dopo l’altro. Per i nostri scienziati politici e columnists
di regime – dal ‘Corriere della Sera’ a ‘Repubblica’, passando per ‘Il Foglio’ – dovremmo ritenere plausibile una nuova invasione della Polonia, come se Mosca avesse davvero le risorse economiche e militari per mettersi contro tutta l’Europa. Il saggio di Manlio Graziano, Disordine mondiale (ed, Mondadori) è illuminante al riguardo.
Gli eventi di questi ultimi anni sembrano quasi preludere a una riedizione di Yalta ma, questa volta tra due potenze azzoppate e che oggi ridefiniscono le aree di influenza in maniera più vantaggiosa per la potenza occidentale (grazie al nuovo, maldestro, zar, Vladimir Putin, della razza degli apprentis sorcièrs).                                                                                                                                           E le stelle “stanno a guardare”, con la scusa di non avere armi a sufficienza per svolgere una politica estera autonoma. E, in effetti non ne hanno per attaccare ma ne hanno per difendersi … ma poi da chi? Ci vuole un’Europa unita e più forte, squillano le trombe politologiche italiane sennonché è proprio l’Ucraina la tomba dell’europeismo. E’ a Mosca e a Washington che si deciderà il destino del martoriato paese e lo si deciderà quando si verificherà un incontro di convenienze. Per ora il piano di pace di Putin – che pretende anche terre non ancora conquistate – e quello non meno pazzesco di Zelensky che, per sedersi al tavolo delle trattative, esige il ritiro totale della Russia dall’Ucraina (un paese impegnato in una disperata resistenza che detta le sue condizioni al vincitore, non si era mai visto nella storia), non fanno sperare nulla di buono. Non sono un elettore del generale Vannacci né mi è simpatico il personaggio (come ho scritto in un lungo articolo su HuffPost), ma non ho esitato a dargli ragione, quando a ‘Quarta Repubblica’, ha detto che nessuna pace è giusta e che, per ottenere la cessazione delle ostilità, i paesi in guerra a qualcosa debbono pur rinunciare. (Ne sa qualcosa l’Italia che dovette firmare – e non poteva fare diversamente – un trattato di pace talmente iniquo che un vecchio liberale come Benedetto Croce si rifiutò di approvarlo).