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Politica

Elezione di Ursula von der Leyen – L’arroccamento

20 Luglio 2024 - di Luca Ricolfi

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Con 401 voti favorevoli Ursula von der Leyen è stata rieletta alla presidenza della Commissione Europea. Ne bastavano 361, ne ha avuti 40 in più. Il numero di voti ottenuti è quasi identico al numero di seggi (401) di cui dispongono i tre partiti – popolari, socialisti, liberali – che da sempre reggono le sorti dell’Unione Europea. Ma la corrispondenza aritmetica è fallace: in realtà, contro von der Leyen hanno votato diverse decine di franchi tiratori della sua stessa maggioranza, ed è solo grazie al soccorso dei Verdi che la maggioranza è risultata ampia. Quanto al partito di Giorgia Meloni, dopo molti dubbi e incertezze, ha finito per votare contro, insieme alle destre-destre.

L’ampio discorso con cui von der Leyen ha chiesto la riconferma conteneva, tra le altre cose, alcune robuste aperture ai Verdi sul Green Deal, e qualche timido segnale ai Conservatori di Giorgia Meloni sul problema migratorio. È abbastanza logico che i
Verdi non si siano fatti sfuggire l’opportunità di entrare in maggioranza, è meno chiaro se abbia fatto bene o male Giorgia Meloni a votare contro.

Le due letture che ascolteremo nei prossimi giorni sono entrambe ragionevoli: gli ultra-europeisti diranno che così l’Italia si è isolata, gli euro-scettici diranno che von der Leyen ha concesso troppo poco sul contrasto all’immigrazione e quasi nulla sui problemi degli agricoltori. Quel che mi sembra difficile negare è che le aperture ai Verdi sul Grean Deal sono state più significative di quelle ai Conservatori sul contrasto all’immigrazione (è mancato, in particolare, qualsiasi riferimento all’esternalizzazione delle frontiere e al modello Albania).

Quanto ai partiti italiani, è interessante notare che il voto su von der Leyen ha spaccato sia la maggioranza di governo sia l’opposizione. Fra i partiti di governo Forza Italia ha votato convintamente a favore, la Lega convintamente contro, mentre Fratelli d’Italia è rimasto incerto fino all’ultimo (salvo poi votare come la Lega). Fra i partiti di opposizione il Pd ha votato a favore, i Cinque Stelle contro, mentre l’alleanza Verdi-Sinistra si è già spaccata fra Verdi (a favore) e Sinistra (contro).

Sul piano internazionale, un aspetto molto importante – e non del tutto scontato – del discorso di von der Leyen è stato il suo netto posizionamento pro-Ucraina (sostegno a oltranza) e il suo altrettanto netto richiamo anti-Israele sugli eccidi di civili nella
striscia di Gaza. Una presa di posizione che non meriterebbe particolare attenzione se non avvenisse nelle stesse ore in cui le dichiarazioni del neo-nominato vice di Trump, il sentore James David Vance, delineano una linea politico-militare statunitense
diametralmente opposta: compromesso territoriale con la Russia di Putin, disco verde a Israele per Gaza. Dobbiamo prepararci, in caso di vittoria di Trump, a un inedito quanto drammatico contrasto strategico-militare fra Europa e Usa?

Non meno gravido di implicazioni è quanto Ursula von der Leyen ha annunciato sul piano politico interno, e cioè il suo impegno nella “lotta agli estremismi”. Un monito chiaramente rivolto a Viktor Orbán e ai nuovi gruppi dei Patrioti e dei Sovranisti, piuttosto che ai Conservatori di Giorgia Meloni o al piccolo gruppo della sinistra estrema. Quel che la neo-presidente ha delineato, per molti versi, è la variante europea della strategia francese del “cordone sanitario” contro la destra estrema, con la sola importante differenza di non aver chiesto i voti dell’estrema sinistra.Questa linea politica non è priva di senso, specie se si crede che la posta in gioco sia la democrazia, che le destre estreme costituiscano una seria minaccia all’ordine democratico, e che la santa alleanza delle forze democratiche – dai Verdi ai Popolari – sia in grado di erigere una robusta e duratura barriera contro la “marea nera” montante. Ma siamo sicuri che sia la lettura giusta, o l’unica possibile? I risultati elettorali mostrano che i tre raggruppamenti di destra cui von der Leyen ha chiuso la porta sono i medesimi che il voto popolare ha premiato. E che il gruppo cui invece la ha aperta (i Verdi) è fra quelli puniti dal voto. Insomma: la nuova Commissione europea ha scelto di muoversi nella direzione opposta a quella dell’opinione pubblica, pur avendo l’opportunità – grazie alla presenza dei Conservatori – di dare un sia pur piccolo segnale di sintonia con le preoccupazioni degli elettori. Quasi che l’avanzata simultanea delle destre – di tutte le destre, compresi Conservatori e Popolari – fosse il sintomo di una malattia, piuttosto che un segnale di preoccupazioni più o meno legittime dei cittadini, come quelle in materia di immigrazione e di politiche agricole.

Che questa scelta di arroccamento dell’establishment europeo sia stata lungimirante o miope, lo vedremo fra qualche anno, quando si tornerà al voto. Per ora sia lecito sollevare il dubbio.

[articolo uscito sul Messaggero il 19 luglio 2017]

Follemente corretto – LGBTQIAPK+

18 Luglio 2024 - di Luca Ricolfi

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Che fra sesso e cibo vi sia una stretta relazione è noto da tempo: medici, psicologi, sessuologi ci spiegano che le aree del cervello attivate sono le stesse, e che il meccanismo chiave del piacere è il rilascio di dopamina. E certo non stupisce il fatto
che, nelle nostre società opulente, in cui la maggior parte della popolazione si è lasciata alle spalle i problemi della mera sussistenza, una quota altissima della vita sociale sia dedicata al cibo e al sesso, processati, ostentati, condivisi in innumerevoli
forme e varianti. Sul versante del food: ricette di cucina, tornei fra aspiranti chef, festival gastronomici, circolazione impazzita di foto che riprendono quel che si sta mangiando o cucinando. Sul versante del sesso: sfruttamento intensivo del corpo femminile nella pubblicità e nel cinema, pornografia on line, sexting (invio di immagini osé) più o meno spinto e più o meno precoce. Cibo e sesso sono diventati i capisaldi delle nostre società, e occupano una frazione sempre maggiore del nostro tempo.

Non è una novità. È dagli anni ’80, dalla stagione del riflusso nel privato, che il trend è quello. Però c’è una differenza, fra allora e oggi. Allora la società edonistica, basata sul piacere, sul sesso e sul cibo, era vista come una espressione delle politiche liberiste di Reagan e della signora Thatcher, una equazione che, nel decennio successivo, parrà confermata con l’ascesa di Berlusconi e della tv commerciale, visti come coronamento e perfetti interpreti dell’ “Edonismo Reaganiano” (copyright Roberto D’Agostino). L’ossessione per il sesso, insomma, era una cosa di destra. Oggi non più. Oggi il sesso, anzi le infinite sfumature della sessualità, in tutte le loro manifestazioni – orientamento sessuale, identità di genere, percezione del corpo, relazioni di coppia, genitorialità, aspirazioni e fantasie varie – hanno progressivamente monopolizzato l’attenzione del mondo progressista. Se nel primo ventennio della seconda Repubblica il sesso e tutto ciò che gli ruota intorno sono stati la marca distintiva del berlusconismo, dalla metà degli anni ’90 l’ossessione sessuale ha cambiato campo e forma: da allora è nel mondo della sinistra che le tematiche del sesso e del genere trovano sempre più spazio e ascolto. Alle lotte per i diritti sociali, centrate sugli interessi dei ceti popolari, subentrano quelle per i diritti civili, a partire da quelli di due specifiche minoranze sessuali: i gay e le lesbiche. Poco per volta, la stella polare dell’uguaglianza, che aveva sempre guidato i partiti progressisti, cede il passo a quella dell’inclusione.
Ma che vuol dire inclusione?

Apparentemente, significa allungamento della lista delle minoranze sessuali protette. Prima GLB, ossia gay, lesbiche e bisessuali. Poi, in omaggio al gentil sesso, LGB, ossia la medesima sigla a 3 lettere con inversione di posto fra G di gay e L di lesbiche. Poi LGBT, con l’aggiunta della T di transessuali. Fin qui tutto abbastanza chiaro e comprensibile. Le lotte a tutela di queste minoranze hanno condotto, in molti paesi, a riconoscere sempre nuovi diritti, talora anche per altre categorie: matrimonio ugualitario, unioni civili, leggi a supporto della genitorialità (adozioni, fecondazione in vitro, inseminazione artificiale), legalizzazione della gestazione per altri (GPA), leggi per favorire il cambiamento di sesso, nuovi reati per punire i crimini d’odio verso le varie minoranze sessuali. Poi però le cose hanno preso una piega strana. La sigla LGBT si è arricchita di nuove lettere: Q per queer (o questioning), I per intersessuale, A per asessuale, da cui l’acronimo allungato LGBTQIA+, il più usato degli ultimi anni. E infine ci sono le proposte più audaci, che da qualche tempo insistono per allungare ancora la lista delle minoranze sessuali con le lettere P di pansessuale e K di kinky, fino all’acronimo-mostro LBGTQIAPK+.

Vediamo il significato di alcune di queste parole recenti. La parola queer allude all’incertezza sulla propria identità sessuale o di genere. Asessuale vuol dire persona che non ha interesse per il sesso. Pansessuale, che prova attrazione per persone di qualsiasi sesso: maschi, femmine, non binari. Kinky che è appassionato di pratiche sessuali non convenzionali (comprese quelle sadomaso).

Siamo sicuri che tutte le lettere del super-acronimo individuino categorie oppresse, perseguitate, vittime di odio, e quindi degne di protezione? Che senso ha, con tutte le minoranze fragili, oppresse, emarginate, iper-sfruttate che affollano la vita sociale,
continuare ad allungare la lista delle minoranze sessuali? Perché la sinistra, come a suo tempo (e a modo suo) la destra, è così ossessionata dai problemi del sesso?

[Articolo uscito sulla Ragione il 17 luglio 2024]

Rubrica A4 – Crisi della nazione e wokismo

10 Luglio 2024 - di Dino Cofrancesco

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La cancel culture, il wokismo (l’<ideologia che esorta a stare all’erta verso tutti quei comportamenti discriminatori nei confronti delle minoranze, di qualsiasi genere esse siano>), i cortei a sostegno di Hamas, le Università dei ricchi americani che gettano fango sull’Occidente e sui suoi valori hanno ispirato miriadi di commenti non soltanto ai soliti columnists e Catoni in s.p.e. ma, altresì, a studiosi della più varia estrazione—archeologi, scienziati, teologi—che, sconvolti dalle guerre che si combattono oggi in Medio Oriente e in Ucraina, non hanno mancato di far sentire la loro voce accorata e sgomenta. Qualcuno, Federico Rampini sul ‘Corriere della Sera’, ha ricordato ai giovani contestatori, per i quali essere ricchi è una colpa, che “senza la nostra Rivoluzione industriale, quella cosa orribile che ha insozzato il pianeta, oggi non sarebbero vivi tre miliardi di cinesi e indiani, o un miliardo e mezzo di africani: è la nostra agricoltura moderna a base di fertilizzanti e macchinari a consentire la loro alimentazione; è la nostra medicina ad avere ridotto la mortalità e allungato la longevità”. Sono rilievi giusti ma scontati e che, a ben riflettere, non
spiegano per quale motivo l’universalismo illuminista—di questo invero si tratta, del sentimento della radicale unità del genere umano che porta a condannare ogni tipo di violenza nei confronti di quanti sono titolari di inalienabili ‘diritti umani’—si stia rovesciando, come una valanga, sulla nostra civiltà, che delle sue radici, l’eredità greco-romana, il cristianesimo, i Lumi, sembra fedele solo alla terza.

A mio avviso, sfugge il nesso tra il declino dell’idea di nazione e la messa sotto accusa dell’Occidente e ciò in virtù della demonizzazione che si continua a fare dell’appartenenza a una comunità politica, riguardata come privilegio, esclusione, discriminazione. In realtà, la nazione, come la famiglia, è una ‘comunità di destino’: può essere buona o cattiva ma è l’unico tramite che, quando è buona, ci lega per empatia agli altri. Ripudiarla per le pagine nere della sua storia comporta il pericolo di smarrire il senso delle pagine luminose che pure ha scritto.

La cultura woke è quella di individui cosmopoliti che non sono persone, segnate da appartenenze e tradizioni, ma fondamentalisti del mondialismo, incapaci di riconoscere le luci e le ombre che caratterizzano ogni istituzione, dalla Famiglia allo Stato. Non è casuale che nei paesi in cui è ancora sentito il legame patriottico la storia non venga messa sotto accusa, a meno che non sia quella degli altri segnata da violenza e da ipocrisia—consistente, quest’ultima, nel richiamarsi a idealità che poi vengono calpestate. Le conquiste civili sono sempre conquiste di uno stato, di un popolo, di una nazione particolare. L’Uomo, che l’immortale de Maistre diceva di non aver incontrato da nessuna parte, non crea nulla, anche se viene ogni volta arricchito da ciò che gli uomini in carne e ossa hanno di volta in volta prodotto.

Elezioni in Francia e Regno Unito – Starmer e la sinistra blu

9 Luglio 2024 - di Luca Ricolfi

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Una settimana fa il primo turno delle elezioni legislative in Francia. Pochi giorni fa elezioni nazionali nel Regno Unito. Oggi secondo turno delle elezioni in Francia. Non ricordo vi sia stata, in Europa, una settimana più densa di appuntamenti elettorali
importanti.

Se le previsioni degli istituti di sondaggio francesi si riveleranno azzeccate, domani diremo che il Fronte Repubblicano ha fermato Marine Le Pen, così come oggi diciamo che Keir Starmer – leader dei laburisti – ha posto fine al lungo primato dei Conservatori nel Regno Unito, un primato durato ben 14 anni. L’aritmetica dei seggi dice che i laburisti hanno una maggioranza schiacciante in
Parlamento, mentre – grazie alla desistenza – il Rassemblement National potrebbe non avere abbastanza seggi per governare. Sul piano politico è tutto, perché i seggi sono l’essenziale.

Ma se quel che ci chiediamo non è chi governerà, bensì dove vadano le opinioni pubbliche dei due paesi, il quadro si fa molto meno nitido. Con i sistemi maggioritari, è normale che la distribuzione dei seggi in Parlamento e le sue variazioni nel tempo
non riflettano i movimenti profondi dell’elettorato. E talora li contraddicano. I recenti casi della Francia e del Regno Unito non fanno eccezione.

In Francia il dato di opinione cruciale è che il consenso a Marine Le Pen è al massimo storico: ai ballottaggi per le presidenziali era al 33.9% nel 2017, salito al 41.5% nel 2022. E fra il 1° turno delle Legislative 2022 e il 1° turno delle Legislative 2024 il suo consenso in termini di voti è ulteriormente salito (quasi un raddoppio in due anni). In breve: quale che sia il risultato dei ballottaggi odierni nei collegi uninominali, è verosimile che il consenso a Marine Le Pen si aggiri intorno al 50%.

Ancora più intricata la situazione nel Regno Unito. Qui il “trionfo” di Keir Starmer in termini di seggi coesiste con una modestissima avanzata in termini di voti. Nel 2019 Corbyn, il leder laburista di allora, aveva perso le elezioni con il 32.1%, oggi il suo successore le ha stravinte con il 33.7%, nemmeno 2 punti percentuali in più. In sostanza: i laburisti, con 1/3 dei voti, governeranno con 2/3 dei seggi. A ulteriore riprova del fatto che, con un sistema elettorale maggioritario, può accadere che voti e
seggi raccontino due storie profondamente diverse. Si potrebbe osservare che, quantomeno, il voto inglese segnala un netto spostamento a sinistra dell’opinione pubblica, visto che i Conservatori quasi dimezzano i loro consensi (dal 43.6% del 2019 al 23.7% attuale). Ma anche questa conclusione andrebbe ponderata e qualificata. Intanto perché il deflusso di voti dal partito Conservatore ha premiato innanzitutto il partito anti-europeo di Farage (Reform UK), che è ancora più a destra. E poi per una
ragione più fondamentale: quello che ha vinto le elezioni nel Regno Unito è un partito laburista molto particolare, diverso da quello estremista di Corbyn, ma anche (almeno in parte) da quello di Tony Blair, stella polare dei riformisti e dei teorici
della Terza via.

Il partito che Keir Starmer ha pazientemente forgiato nel corso degli ultimi anni si riallaccia, semmai, al cosiddetto Blue Labour, una componente del Labour Party nata una quindicina di anni fa con il proposito di recuperare il consenso dei “colletti blu”, e di farlo anche con idee spesso considerate conservatrici, come famiglia, fede, vita di comunità e, soprattutto, limiti all’immigrazione irregolare. E infatti, nel programma di Starmer, il controllo dell’immigrazione illegale occupa un posto tutt’altro che marginale. Il rifiuto della soluzione-Sunak (deportare i migranti illegali in Ruanda) non si accompagna a benevole proposte di apertura dei confini o di rafforzamento dell’accoglienza, ma punta semmai all’introduzione di misure radicali di contrasto degli arrivi illegali, come il conferimento alle forze dell’ordine di super-poteri, analoghi a quelli previsti nella lotta al terrorismo. Detto più esplicitamente: la critica alle politiche dei Conservatori in materia migratoria non è di principio, quanto di efficacia: siete stati 14 anni al governo, e il problema dell’immigrazione siete solo riusciti ad aggravarlo. Ecco perché la lettura dei dati britannici non è semplice.

Hanno qualche ragione i riformisti a compiacersi dell’abbandono del massimalismo di Corbyn, e del parziale ritorno alle idee di Tony Blair. Ma questa è solo una faccia della medaglia. L’altra faccia è che i laburisti hanno raccolto solo 1/3 dei consensi, e lo hanno fatto anche grazie a idee che siamo abituati a considerare ben poco progressiste.

[articolo uscito sul “Messaggero” il 7 luglio 2024]

A chi interessa la sorte di Satnam Singh?

1 Luglio 2024 - di Luca Ricolfi

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Possiamo starne certi, nel giro di pochi giorni della sorte di Satnam Singh, ucciso dallo spietato egoismo del suo datore di lavoro, non si parlerà più. Eppure dovremmo renderci conto che quella del lavoro sottopagato e iper-sfruttato nei campi di raccolta
è solo la punta di un iceberg. Qualche anno fa, cercando di descrivere la struttura della “società signorile di massa”, avevo anche provato a contarli, usando la (scarsa) informazione statistica disponibile. Il risultato, stimato per difetto, fu 3.5 milioni di
persone, circa 1 occupato su 7. Era il 2019, il governo giallo-rosso aveva da poco preso il posto di quello giallo-verde.

Questa infrastruttura para-schiavistica non è un mero retaggio del passato, un pezzo della società italiana non ancora “incluso”. Tutto al contrario, è un arcipelago di comparti produttivi, spesso irregolari o illegali, essenziali al funzionamento della nostra società per il resto relativamente benestante quando non opulenta. La cosa sconcertante è che nessuno se ne occupa davvero, salvo protestare, indignarsi, promettere interventi quando un fatto di cronaca estremo costringe a vedere quel che
non si vuol vedere. Ma perché nessuno vuole vedere?

Le ragioni sono tante, e non sono sempre le stesse nei vari comparti. Ma alcuni fattori sono comuni, o preponderanti.
Il più importante, a mio parere, è che solo una parte della infrastruttura paraschiavistica è rimovibile senza chiudere aziende e distruggere attività economiche. Questo, in particolare, è il dramma del comparto agricolo: i prezzi di vendita dei prodotti agricoli, anche a causa delle scelte della PAC (politica agricola comune), non sono in grado di coprire adeguatamente il costo degli input fondamentali (mangimi,sementi, fertilizzanti, fitofarmaci, carburanti agricoli). Di qui una pressione al ribasso sui salari e il largo ricorso al lavoro stagionale in nero, che non si limita a tenere basse le paghe orarie ma permette enormi risparmi sul versante previdenziale e dei diritti dei lavoratori (ferie, malattia, permessi, tredicesima, liquidazione).

Un altro fattore rilevante sono le scelte dei sindacati e dei politici, sotto qualsiasi governo. I primi, comprensibilmente, trovano più facile e conveniente occuparsi di assistenza fiscale, pensionati, operai e impiegati delle imprese grandi e medie (e sconcerta che, in occasione del dramma di Satnam Singh, siano riusciti a indire manifestazioni separate e litigare ferocemente fra loro). Quanto ai politici, per forma mentis e anche qui per convenienza, preferiscono credere che la loro missione sia approvare nuove leggi sulla carta giustissime, piuttosto che garantire l’applicazione delle leggi esistenti attraverso gli strumenti ordinari (ispettorati, magistratura, forze dell’ordine). Forse, prima di chiedersi quali nuove norme introdurre, dovrebbero cercare di capire come mai quelle in vigore restano sistematicamente inapplicate, e questo nonostante quasi sempre le situazioni di iper-sfruttamento e illegalità siano visibili ad occhio nudo.

Sindacati, politici, apparati pubblici, magistrati, forze dell’ordine, nessuno può chiamarsi fuori. L’elenco delle responsabilità, però, non sarebbe completo se non menzionassimo anche noi stessi: società civile, opinione pubblica, mass media. È un fatto che, negli ultimi decenni, la cultura dei diritti ha progressivamente relegato ai margini i diritti sociali classici (a partire da quelli nella sfera lavorativa), concentrando l’attenzione sui diritti civili e di specifiche minoranze degne di protezione, tutela, rispetto. Il concetto di inclusione, che in origine indicava l’imperativo di tutelare i “non garantiti” del mondo del lavoro in quella che stava
diventando una “società dei due terzi” (felice espressione dovuta a Peter Glotz), è stato sempre più declinato in una chiave individualistica, come se i problemi centrali del nostro tempo fossero diventati quelli del riconoscimento, anziché quelli classici
dello sfruttamento capitalistico.

Lo so, conosco l’obiezione: diritti civili e diritti sociali possono avanzare insieme. Ed è vero, almeno in parte. Ma il fatto è che la soluzione dei grandi problemi dipende anche da quanta attenzione, quanta vigilanza, quanto interesse cittadini e mass media
riservano a determinati drammi sociali piuttosto che ad altri. E il nostro più grande dramma, quello di una infrastruttura para-schiavistica gigantesca, che pesa su milioni di lavoratori e sulle loro famiglie, di attenzione ne ha ricevuta sempre di meno. Se a
questo dramma avessimo riservato anche solo un decimo dell’attenzione che siamo abituati a riservare ai diritti delle minoranze sessuali e alle diatribe sul linguaggio politicamente corretto, forse non saremmo al punto in cui siamo.

[articolo uscito sul Messaggero il 30 giugno 2024]

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