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Politica

Le 10 grandi tendenze planetarie che più influenzano il nostro futuro

3 Febbraio 2025 - di Mario Menichella

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“Chi non pensa al futuro, non ne avrà uno”

John Galsworthy

Una ventina d’anni fa usciva il mio libro “Mondi futuri. Viaggio fra i possibili scenari”, che affrontava il tema delle reciproche interconnessioni fra i problemi globali, le minacce emergenti e le grandi forze del cambiamento che plasmano lo sviluppo della nostra civiltà tecnologica. Accanto a scenari ottimistici, si prospettavano catastrofi che avrebbero potuto mettere a rischio il futuro del mondo. Oggi questi ultimi scenari sembrano essere quelli più vicini a realizzarsi e il libro pare rivelarsi profetico. La strada per migliorare le condizioni del nostro mondo passa attraverso l’individuazione dei problemi realmente importanti e la successiva ricerca di soluzioni interdisciplinari e condivise. L’uomo, con i suoi comportamenti, le sue conoscenze, la sua coscienza e responsabilità può agire positivamente, sia nei diversi campi a cui è chiamato ad impegnarsi che sul proprio territorio di appartenenza. Ma tutto parte da una chiara consapevolezza di quella che è l’evoluzione in atto e degli enormi rischi ad essa connessi, che sono spesso sottovalutati o per ignoranza o perché – erroneamente – ritenuti improbabili.

L’importanza di una visione d’insieme che oggi manca

Se vi chiedessi all’improvviso di elencare le 10 principali forze di cambiamento che stanno maggiormente influenzando il presente e il prossimo futuro della nostra civiltà tecnologica, è probabile che fatichereste a trovare una risposta completa (ma, anche solo per curiosità, chiudete un attimo gli occhi e provateci per davvero): forse ne individuereste alcune, ma dubito che riuscireste a identificarne più di 6 o 7, anche concedendovi un’ora di tempo per rifletterci.

La ragione principale risiede nel fatto che, in una società così complessa e interconnessa, manca una visione d’insieme, quello che mi piace definire “il guardare la foresta invece dei singoli alberi”. Il sistema scolastico e universitario, infatti, forma nella maggior parte dei casi degli specialisti che, proprio a causa di una eccessiva specializzazione, finiscono col sapere – passatemi l’espressione un po’ tranchant – “tutto di nulla”, dato che il loro campo di approfondimento è assai ristretto. Ciò porta a una grave carenza di veri scienziati o esperti in grado di cogliere i collegamenti fra discipline diverse.

Occorre, in altre parole, avere la capacità di cogliere le connessioni invisibili fra problemi, fenomeni, avvenimenti e aree del sapere all’apparenza distanti fra loro. E non è solo una questione teorica: basti pensare a come la pandemia di COVID-19 abbia mostrato quanto siano fragili e interdipendenti le nostre strutture sanitarie, economiche e sociali su scala globale. Oppure come l’innovazione tecnologica accelerata dall’intelligenza artificiale stia ridefinendo non solo il lavoro, ma anche le nostre relazioni sociali, politiche e culturali. Siamo, insomma, soggetti a potenti forze del cambiamento ed ai relativi rischi.

Questo è stato uno dei motivi, insieme alla mia curiosità e alla passione per le tematiche interdisciplinari, che mi spinsero, 26 anni fa, a intraprendere un’approfondita analisi dei problemi globali e delle loro interconnessioni. Questo percorso mi portò, sette anni più tardi, a scrivere e pubblicare il libro “Mondi futuri: Viaggio fra i possibili scenari” (oggi non più in commercio, ma scaricabile gratuitamente dal mio sito web personale: trovate il link nella bibliografia in fondo a questo articolo), che è stato definito da molti lettori  un saggio sorprendentemente attuale e, in certi aspetti, quasi “profetico”.

Tuttavia, considerando che nel frattempo la situazione è evoluta e sono emerse nuove minacce per l’umanità, ho ritenuto opportuno aggiornare quell’analisi. Ho presentato per la prima volta una sintesi di questo aggiornamento durante una conferenza pubblica tenutasi circa un anno fa presso la splendida Biblioteca Comunale di Pistoia. L’evento faceva parte di una serie di incontri-dibattito intitolata “Dal Macro al Micro“, organizzata dall’associazione culturale Orizzonte Green (https://www.orizzontegreen.it/), fondata principalmente grazie all’iniziativa dell’ing. Marco Bresci.

Le 10 principali forze del cambiamento nella civiltà attuale

Considerando la vastità dell’argomento trattato nel mio libro, in questo articolo mi concentrerò su uno degli aspetti a mio avviso fondamentali: le grandi tendenze a breve ed a medio termine. Queste tendenze sono, da un lato, la causa dei problemi immediati che l’umanità deve affrontare e, dall’altro, rappresentano minacce future già visibili o che potrebbero emergere nel lungo periodo.

Una mia illustrazione grafica della relazione fra 1. Tendenze, 2. Problemi attuali e 3. Minacce future. In primo piano la copertina del libro “Mondi futuri”, da cui la figura è tratta.

Un esempio concreto è l’epidemia di SARS-CoV-2, che possiamo considerare quello che io chiamo “un problema immediato” (almeno lo è stato fino a poco tempo fa), derivante da una tendenza più ampia: la “crescente vulnerabilità alle epidemie”. Questa tendenza racchiude in sé minacce per il futuro potenzialmente ancora più gravi, come quella descritta nel mio libro: un virus ingegnerizzato in laboratorio che combini la letalità del virus Ebola, il lungo periodo di incubazione dell’HIV e la facilità di trasmissione dell’influenza. Un virus del genere potrebbe avere una letalità vicina al 100%!

Non stiamo quindi parlando affatto di questioni marginali, bensì di tematiche fondamentali per il futuro della nostra civiltà su questo pianeta. Ma andiamo al sodo: in questa slide, tratta dalla mia conferenza, è riportato l’elenco delle 10 grandi tendenze di cui ho parlato in apertura. Le prime 7 erano già presenti nel mio libro “Mondi futuri”, mentre le ultime 3 rappresentano, purtroppo, delle nuove e sgradite “new entry”.

Le 10 grandi tendenze del cambiamento che sono, a mio avviso, all’origine della maggior parte dei più seri problemi globali attuali e delle principali minacce per il futuro della nostra civiltà tecnologica.

Come si può notare, le aree trattate spaziano dalla demografia all’ecologia, dalla genetica alla fisica, dalla geopolitica all’antropologia, dall’economia all’intelligenza artificiale, solo per citare alcune delle macro-discipline coinvolte in questa analisi. Naturalmente, non intendo qui approfondire ciascuna di queste tendenze, molte delle quali sono illustrate dettagliatamente nel mio libro. Il mio obiettivo è piuttosto quello di far comprendere l’importanza di adottare una visione globale e sistemica del mondo.

All’inizio di questo articolo ho citato un aforisma del romanziere inglese John Galsworthy: “Chi non pensa al futuro non ne avrà uno”. Questo aforisma sembra voler sottolineare l’importanza, valida anche per la nostra civiltà tecnologica, di pianificare e riflettere sul futuro. Se non ci si preoccupa delle scelte che si fanno oggi e di come queste possano influenzare il domani, si rischia di non avere un futuro soddisfacente o, peggio, di non averlo affatto! È come dire che le azioni di oggi determinano il nostro domani: se non ci si prepara, il futuro potrebbe risultare fortemente problematico o assolutamente buio e incerto.

Le connessioni tra le problematiche e il fattore “imprevisti”

Un aspetto fondamentale che desidero sottolineare è che ciascuna delle tendenze di cambiamento menzionate non è stata selezionata casualmente: ognuna di esse ha il potenziale di innescare, direttamente o indirettamente, il collassodella nostra civiltà tecnologica. Si tratta quindi di questioni di massima rilevanza, che devono essere considerate all’interno di un quadro complessivo più ampio e che ci invitano a prendere responsabilità per le decisioni presenti, affinché possano guidarci verso un domani migliore.

Il punto centrale è che molte delle 10 tendenze descritte sono strettamente interconnesse. Per esempio, la carenza di determinate risorse può sfociare in conflitti armati; il cambiamento climatico può provocare migrazioni su larga scala; e l’incremento demografico può intensificare sia il consumo di risorse che il degrado ambientale. Non sorprende, dunque, che nel mio libro abbia incluso un grafico delle interconnessioni tra i vari “problemi”, “minacce” e “tendenze” (intese/i nel senso illustrato in precedenza), elaborato durante i sette anni di preparazione del testo e di ricerca di informazioni presso le più prestigiose biblioteche italiane (all’epoca Internet era ancora agli inizi, non ricco di materiali come oggi).

Nonostante l’analisi delle connessioni tra le sfide attuali e le minacce future aiuti a immaginare i possibili scenari futuri, esistono sempre dei fattori imprevedibili, che nel mio libro definisco “imprevisti”. Due esempi emblematici risalenti agli anni Ottanta sono la scoperta, nel 1985, del buco dell’ozono stratosferico (causato dai clorofluorocarburi rilasciati dall’uomo nell’atmosfera attraverso le bombolette spray, gli agenti refrigeranti, etc.) e, l’anno seguente, l’identificazione del morbo di Creutzfeldt-Jacob – noto come la “mucca pazza” – dovuto ai prioni.

In ambito economico, questi eventi imprevisti e negativi sono spesso denominati “cigni neri”. Un “cigno nero” rappresenta un evento estremamente improbabile ma dalle conseguenze potenzialmente catastrofiche. Un esempio potrebbe essere l’impiego (da parte di qualsivoglia soggetto e per qualsivoglia ragione) di una bomba atomica tattica, che potrebbe rapidamente degenerare in un conflitto termonucleare globale, come ipotizzato in alcuni celebri film del passato (The Day After, Wargames, ecc.).

Un “cigno nero” è un evento che esula dalle aspettative convenzionali, il quale solitamente quanto più ha un impatto significativo e può cambiare l’attuale stato delle cose, tanto più è ritenuto improbabile.

La durata tipica di una civiltà tecnologica

Una delle motivazioni principali che mi spinsero a scrivere Mondi futuri fu la mia curiosità generale e, in particolare, l’interesse verso la durata di una civiltà tecnologica. Già qualche anno prima, infatti, avevo affrontato questo tema nel libro A caccia di E.T.: La ricerca di vita e intelligenza nello spazio, seguendo le orme di Piero Angela, che lo aveva esplorato agli inizi della sua carriera di divulgatore.

Escludendo l’ipotesi che la nostra civiltà sia un caso unico nell’Universo, è logico supporre che nella nostra galassia si siano sviluppate altre civiltà tecnologiche. Il loro numero può essere stimato, seppur in modo approssimativo, tramite la piuttosto nota “equazione di Drake”, formulata dall’astronomo americano Frank Drake. Questa equazione considera diversi fattori: il tasso medio di formazione di stelle simili al Sole, la frazione di queste stelle con sistemi planetari, e così via. L’ultimo termine dell’equazione è rappresentato da L, ovvero la durata di una civiltà tecnologica capace di comunicare, cioè in grado di emettere onde radio e segnali ottici nello spazio.

Slide che mostra l’astronomo Frank Drake e la sua famosa equazione per stimare il numero di civiltà galattiche comunicative. In primo piano, il mio libro “A caccia di E.T.”, con prefazione di Margherita Hack.

Il problema è che disponiamo di un solo esempio concreto di civiltà tecnologica: la nostra. Siamo diventati una civiltà comunicativa poco più di un secolo fa e potremmo autodistruggerci in qualsiasi momento. Questo pensiero mi ha spinto a esplorare il futuro e la possibile fine del mondo, dell’Universo, del pianeta Terra e della specie Homo sapiens. Era un tema che nessuno aveva mai analizzato in modo sistematico e interdisciplinare come tentai di fare nel mio saggio, nonostante fosse principalmente un’opera divulgativa.

Il mondo, così come lo conosciamo oggi, potrebbe finire, come già suggeriva il poeta Thomas S. Eliot, con un “botto” improvviso o con un “laménto”, intendendo con quest’ultimo semplicemente un lento declino. Per determinare la durata tipica di una civiltà tecnologica come la nostra, è necessario analizzare a fondo le possibili strade che conducono al declino o al collasso, sia totale che parziale. Questo è un tema affascinante che offre molte scoperte davvero interessanti durante il percorso.

La crisi di “intelligibilità” e le sfide attuali

Già vent’anni fa, nella prefazione del mio libro Mondi futuri, scrivevo che “avere una prospettiva globale e prevedere il futuro a lungo termine della società e del mondo intero non è, per l’Homo technologicus attuale, solo un modo per soddisfare una curiosità innata; rappresenta soprattutto un esercizio utile per la propria sopravvivenza. Oggi, infatti, ci troviamo in una crisi di ‘intelligibilità’: si è creato uno scarto profondo tra ciò che bisognerebbe comprendere e i mezzi concettuali necessari alla comprensione, dovuto alla differente velocità di crescita tra tecnologia e cultura”.

Nella stessa prefazione, rileggendola oggi, si possono trovare previsioni che si sono rivelate sorprendentemente accurate, come quelle relative alle epidemie e alle migrazioni di massa: “All’alba del terzo millennio, l’umanità si trova, per la prima volta nella sua storia, di fronte a una serie di grandi sfide e problemi globali emergenti che minacciano non solo la sicurezza e il benessere dei paesi più ricchi e industrializzati (come l’Europa e gli Stati Uniti), ma anche la sopravvivenza della civiltà tecnologica e dell’intera specie Homo sapiens sul nostro sempre più piccolo e fragile pianeta”.

Oggi è evidente a chiunque che ci troviamo sull’orlo di potenziali catastrofi in diversi ambiti. Tuttavia, la tendenza a concentrarsi sui singoli problemi, piuttosto che avere una visione d’insieme, rende difficile per i cittadini comuni e per i leader politici stabilire una gerarchia chiara dei rischi e delle priorità da affrontare (un esempio di problema assai serio ma largamente sottovalutato per la disinformazione alimentata dalle lobby è la crescita esponenziale dell’inquinamento elettromagnetico, ma questo è un tema che merita un articolo a sé). Dunque è come navigare a vista in un mare pieno di pericoli, senza un radar, proprio come fece il Titanic meno di un secolo fa… e sappiamo tutti come è andata a finire!

Se siete arrivati a leggere fino a qui, comprenderete meglio cosa intendevo quando affermavo, un po’ brutalmente, che la nostra società forma persone che sanno “tutto di nulla”: si approfondisce la conoscenza in settori molto ristretti a scapito di una visione globale e interdisciplinare, quella che servirebbe ai decisori politici. Paradossalmente, le uniche figure che mantengono una visione più ampia sono scrittori e giornalisti, che però oggi si trovano sempre più limitati dall’aumento della censura e dell’auto-censura, fenomeni legati al crescente potere delle lobby (la già citata tendenza n°10).

L’ultima slide della mia conferenza, dedicata proprio al tema della censura, purtroppo sempre più di attualità. Nella foto, l’ing. Marco Bresci, organizzatore dell’evento.

Esiste, è vero, la cosiddetta “teoria dei sistemi”, una disciplina interdisciplinare che analizza come le parti di un sistema complesso interagiscono fra loro per formare un sistema coerente. La teoria dei sistemi si occupa di studiare i modelli complessi e le interconnessioni fra i diversi elementi in vari ambiti, come la biologia, la sociologia, l’ecologia e la filosofia. Ma ciò non basta minimamente per avere una visione dei problemi globali presenti e futuri e delle loro interconnessioni, tant’è che nel mio libro essa rappresenta una parte piccolissima – seppure molto interessante e originale – delle tematiche trattate.

Quel “vuoto” che va colmato quanto prima

All’epoca della stesura del mio libro a mia conoscenza non esistevano, a livello mondiale, istituzioni accademiche che si interessassero di problemi globali in maniera interdisciplinare: una organizzazione internazionale – peraltro privata – che mi viene a mente è il “Club di Budapest”, fondato dal filosofo e sistemologo Ervin Laszlo, che si occupa(va) di promuovere la consapevolezza globale e il cambiamento sociale sostenibile. Per il resto, gli unici modesti tentativi di interpretazione delle complesse interazioni fra le varie tendenze planetarie erano i lacunosi studi “Global Trends” della CIA.

Perfino l’utile serie dei famosi libri Vital Signs, editi dal prestigioso Worldwatch Institute, che ha fornito annualmente analisi dettagliate su tendenze globali in ambiti quali energia, ambiente, economia e società (insieme ai volumi, altrettanto preziosi, del rapporto State of the World), è andata avanti dal 1992 fino al 2015 (data dell’ultimo volume pubblicato, il numero 22), poiché questo Istituto – fondato nel 1974 dall’economista Lester R. Brown, un pioniere della ricerca sulle questioni ambientali e sulla sostenibilità globale – ha purtroppo cessato la sua attività nel 2017, ovvero ben otto anni fa.

Purtroppo, la “colpa” – se naturalmente di colpa si può parlare – di queste poche istituzioni (mi sono limitato a citarne due fra le più famose a livello mondiale) che si sono interessate di problemi globali in maniera interdisciplinare è quella di non aver lasciato un’“eredità”, intesa sia in termini di continuità operativa sia di una vera e propria “scuola” (come si direbbe in ambito accademico). Sebbene Brown e Laszlo siano ancora vivi e rimangano figure rispettate, oggi sostanzialmente dietro di loro c’è il “vuoto”, complici anche i cambiamenti degli ultimi vent’anni nel panorama della comunicazione.

Infatti, l’ascesa di nuove piattaforme digitali, dei social media e di forme di comunicazione “dal basso”, delle “fake news” e di quant’altro hanno reso più difficile perfino a istituzioni e personaggi autorevoli e già affermati mantenere la loro posizione centrale nel dibattito globale. Inoltre, le organizzazioni no profit e di ricerca affrontano notoriamente problemi legati ai finanziamenti – indispensabili per conservare la propria indipendenza – specialmente in un contesto in cui le priorità politiche e sociali possono cambiare. Il risultato è che oggi viviamo in un “deserto” di ricerca e comunicativo su questioni chiave.

Mario Menichella (fisico e divulgatore) – m.menichella@gmail.com

Riferimenti bibliografici

[1]  Menichella M., “Mondi futuri: Viaggio fra i possibili scenari, Scibooks Edizioni, 2005.

Il libro è liberamente scaricabile dal mio sito personale (http://www.menichella.it) all’indirizzo: http://www.menichella.it/MONDI%20FUTURI.pdf

A proposito del caso Almasri – Ipocrisia?

3 Febbraio 2025 - di Luca Ricolfi

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Credo siano in pochissimi a sapere quel che davvero è successo nelle convulse giornate che hanno portato prima all’arresto, poi alla scarcerazione, infine al rimpatrio su un aereo di Stato italiano, del capo della polizia giudiziaria libica. In compenso siamo in tantissimi ad esserci fatte alcune domande fondamentali: perché il governo ha scelto di rimpatriare Almasri anziché arrestarlo? Perché Giorgia Meloni non ha detto a chiare lettere quello che quasi tutti credono di sapere, e cioè che la vera ragione del frettoloso rimpatrio di Almasri è stato il timore di ritorsioni del governo libico, pronto a scagliare verso il nostro paese orde di richiedenti asilo? E infine: perché Giorgia Meloni non ha fatto come Trump, che non ha esitato a sbandierare ai quattro venti la durezza delle proprie misure contro i migranti illegali? Perché tanta ipocrisia nella vicenda del torturatore libico?

Come cittadino, sono sconcertato come tutti. Ma, come sociologo, non lo sono per niente. Viste con la lente della mia disciplina, le vicende del caso Almasri sono perfettamente comprensibili. Uno dei cardini della sociologia, posto da Max Weber fin dal 1919 nel saggio La politica come professione, è la distinzione fra etica della convinzione, o dei principi (tipica di missionari e predicatori), e etica della responsabilità (che secondo Weber dovrebbe guidare i politici). Agisce secondo l’etica della convinzione chi opera secondo principi ritenuti giusti, senza curarsi delle conseguenze pratiche che ne possono derivare. Agisce secondo l’etica della responsabilità chi valuta le proprie azioni non solo in base a principi etici o morali, ma anche in base alle loro conseguenze. Ad esempio: un cultore dell’etica della convinzione in nessun caso potrebbe sottoporre a sevizie e torture un altro essere umano, ma che fare se torturare un terrorista è l’unico modo per evitare la morte di migliaia di innocenti minacciati da un ordigno a orologeria che solo lui può disinnescare?

Ebbene, alla luce della distinzione weberiana, è chiaro che Giorgia Meloni si è mossa secondo l’etica della responsabilità, mettendo sui due piatti della bilancia sia la palese ingiustizia di lasciare libero un criminale, sia la (meno palese) ingiustizia di esporre i cittadini italiani alle conseguenze di vari tipi di possibili ritorsioni (ripresa degli sbarchi, sequestri di cittadini italiani in Libia, per non parlare degli interessi dell’ENI in quel paese). Nell’ottica di Weber, stupefacente e discutibile sarebbe stato che il governo avesse agito secondo l’etica della convinzione, anziché secondo quella della responsabilità. Se le cose stanno così, a maggior ragione sembrerebbero porsi gli altri interrogativi: perché non proclamare le proprie ragioni davanti ai cittadini? Perché non adottare una postura trumpiana? Perché tanta reticenza e ipocrisia?

Anche qui la sociologia ha molto da dire, benché non sia stata certo la prima a farlo. Secondo Jon Elster, uno dei più grandi scienziati sociali del Novecento, l’ipocrisia praticata nella scena pubblica ha una fondamentale funzione di coesione sociale, di irrobustimento delle istituzioni, di rafforzamento di valori positivi condivisi. A suo modo, e paradossalmente, funziona come una “forza civilizzatrice”. Il cattivo che ipocritamente si finge buono, proprio attraverso quella finzione proclama il valore della bontà. È esattamente quello che, quattro secoli fa, aveva intuito François de La Rochefoucauld con il suo fulminante aforisma: “l’ipocrisia è l’omaggio che il vizio tributa alla virtù”. Il vizioso che si finge virtuoso riconosce con ciò stesso il valore della virtù.

Ed eccoci al tema della mancata postura trumpiana. Perché adottare un profilo basso? Perché non maramaldeggiare assumendo atteggiamenti ostili nei confronti dei migranti detenuti in Libia?

L’interpretazione malevola è che il governo, come i governi precedenti, si vergogni degli accordi con la Libia ma in cuor suo (ammesso che un governo abbia un cuore) ne è ben felice, purché gli accordi funzionino. L’interpretazione del sociologo che ha recepito la lezione di Elster è che siamo in Europa, non in America. Il nostro orizzonte valoriale certo include la necessità di trovare una soluzione al problema della sicurezza e dei confini, ma include anche l’imperativo etico di rispettare i diritti dei richiedenti asilo. È per questo che, in Italia, nessuno – nemmeno la destra – si permette di fare la faccia feroce, come succede in America con Trump e in Germania con l’Afd di Alice Weidel. L’imbarazzo di Meloni è l’ammissione che, nell’affare Almasri, più che fare la cosa giusta il governo ha scelto il male minore, nonché l’implicito riconoscimento che i campi di detenzione in Libia sono un problema, e non da oggi (già nel 2018 ne diedero un resoconto illuminante Franco Viviano e Alessandra Ziniti in Non lasciamoli soli, Chiare Lettere).

Forse è questo il motivo per cui, nonostante la maggioranza degli italiani non approvi il comportamento del governo in questa vicenda, il consenso alla premier e al suo partito restano alti, se non in ulteriore ascesa. Segno che, almeno nei paesi mediterranei, tanto per l’opinione pubblica quanto per la classe di governo quello del rapporto con l’immigrazione resta un tragico dilemma, più che una crociata politica da intraprendere con la baldanza di chi si sente dalla parte della ragione.

[articolo uscito sul Messaggero il 2 febbraio 2025]

Deportazioni o rimpatri?

29 Gennaio 2025 - di Luca Ricolfi

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Sono tante le ragioni per cui la grande stampa nazionale, e più in generale i grandi media, hanno perso autorevolezza. Certo, anche in passato ben pochi si fidavano ciecamente di “quel che scrivono i giornali”, o di “quel che dice la tv”. Però mai
come oggi il pubblico ha tanto diffidato dell’informazione che pretende di essere obiettiva, non faziosa, o super partes.

Fra le tante ragioni per cui ciò è accaduto, ve ne è una che forse meriterebbe maggiore attenzione, e forse maggiore vigilanza: l’informazione main stream è diventata subdola. Ossia non conduce le sue battaglie fondamentali in campo aperto,
dichiarando esplicitamente da che parte sta, ma manipolando il flusso delle notizie. Un’arte che, con il tempo, si è arricchita di strumenti via via più potenti (e pericolosi).

Un posto importante, in proposito, è occupato dalla sistematica censura delle notizie gravemente dissonanti, condannate a vivere solo su fogli minori, per ciò stesso considerati estremisti, inaffidabili, o semplicemente irrilevanti. Ma un posto forse ancora più importante è costituito dall’uso, cosciente e intenzionale, di termini inappropriati e fuorvianti per descrivere i fatti della realtà.

Il modo di chiamare le cose è importante, perché può suscitare sentimenti e giudizi, ma proprio per questo è essenziale che non sia distorsivo. Qui si annida un pericoloso equivoco: molti giornalisti, e più in generale comunicatori, pensano di essere responsabili dei sentimenti che i loro scritti possono suscitare, e proprio per questo praticano sistematicamente la censura, la deformazione, la manipolazione terminologica. Come se chiamare le cose con il loro nome fosse legittimo solo quando la verità che il nome rivela è innocua, o non rischia di suscitare i sentimenti sbagliati, o è adatta a suscitare i sentimenti giusti.

Di questo tendenzioso uso della lingua abbiamo avuto un esempio lampante negli ultimi giorni. Tutte le maggiori testate italiane hanno tradotto il termine inglese deportation, che negli Stati Uniti è usato per indicare espulsioni o rimpatri, con il termine italiano ‘deportazione’ che nella nostra lingua ha un significato ben diverso, oltreché un sinistro richiamo alle deportazioni degli ebrei nei campi di concentramento nazisti (vedi in proposito il Dizionario Treccani, che dà due significati principali di ‘deportazione’, nessuno dei quali corrisponde a espulsioni o rimpatri). È vero che se si deve tradurre il nostro ‘deportazione’ si deve usare deportation (non c’è altra parola in inglese), ma il punto è che – nell’uso che ne fanno gli americani – deportation significa espulsione o rimpatrio, e quindi così andrebbe tradotto.

I giornalisti italiani non sono in grado di cogliere la distinzione fra rimpatrio e deportazione? No, semplicemente hanno ritenuto proprio dovere stigmatizzare le politiche migratorie di Trump, e altrettanto loro dovere non stigmatizzare le medesime politiche quando erano attuate da presidenti democratici.

Con questo non voglio dire che chi è contro le espulsioni non abbia le sue ragioni, o non abbia il pieno diritto di esporle pubblicamente. Il punto è che tali ragioni (che in parte io stesso condivido) dovrebbero essere argomentate come tali, non sostenute surrettiziamente manipolando il linguaggio per deformare l’immagine dell’avversario politico. Usare termini inappropriati (e squalificanti) per descrivere quel che l’avversario fa è una variante peggiorativa della ben nota e screditata tecnica dello straw man, ovvero criticare l’avversario mettendogli in bocca cose che non ha detto. Qui, in altre parole, non gli si fa dire quel che non ha detto, ma – chiamando con altro nome quel che ha fatto – gli si fa fare quel che non ha fatto.

E non si venga a dire che le manipolazioni della lingua sono a fin di bene, ovvero per mostrare al mondo in che orribili mani si sono posti gli americani, e rischiamo di finire pure noi. Questa obiezione è sbagliata non solo perché il compito specifico dell’informazione è dire la verità, non cambiare il mondo nella direzione prescritta dalla “linea” della testata. È sbagliata anche perché, proprio se si crede (erroneamente) che il giornalista sia responsabile dei sentimenti che suscita, è arduo non vedere che parlare di deportazioni produce almeno due effetti opposti: non solo indignazione nei già sempre indignati, ma anche ulteriore entusiasmo e odio in quanti sarebbero ben felici di vedere vere deportazioni. È amaro constatarlo, ma si può istigare all’odio anche cercando di spegnerlo.

[articolo inviato uscito sulla Ragione il 28 gennaio]

Oltre il follemente corretto

27 Gennaio 2025 - di Luca Ricolfi

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Ormai lo riconoscono tutti: una delle ragioni fondamentali del successo di Trump, oggi come otto anni fa, sono stati gli eccessi del
politicamente corretto. O, se preferiamo, la progressiva trasformazione del politicamente corretto in “follemente corretto”, un processo che – negli Stati Uniti – è durato una decina di anni, grosso modo dal 2012 al 2022. Pilastri di questo processo sono stati la colpevolizzazione (e discriminazione) dei bianchi, la proliferazione degli staff DEI (Diversity,Equity, Inclusion) nelle imprese e nelle amministrazioni, le transizioni di genere precoci, la diffusione della gestazione per altri (utero in affitto), le limitazioni alla libertà di espressione, la diffusione della cancel culture, la politicizzazione dell’insegnamento universitario, le discriminazioni verso docenti e studiosi non allineati, l’ingresso di maschi biologici (in transizione di genere) negli spazi delle donne, incluse carceri e gare sportive.

Tutto questo aveva cominciato a scricchiolare per conto proprio già un paio di anni fa, ma oggi – dopo la vittoria elettorale di Trump – sta franando rovinosamente, travolto non solo dalla rivolta del senso comune ma, molto più concretamente, dagli “ordini esecutivi” del neo-presidente, che uno dopo l’altro stanno smontando tutti i caposaldi economici, sociali e culturali dell’ideologia woke. Apparentemente, un grandioso contrappasso collettivo, che giustamente colpisce – e punisce – gli eccessi di una parte politica, quella liberal e progressista.

Ma è solo questo che sta accadendo?

Non mi sembra. Intanto, bisogna notare che la reazione contro la cultura woke, fortissima negli Stati Uniti, robusta nel Regno Unito, agli esordi in Canada, è debolissima se non inesistente in altre parti dell’occidente, e in particolare in alcuni paesi europei. Spagna e Germania, ad esempio, hanno entrambe varato negli ultimi anni una “Ley Trans” (legge sulla transizione di genere), che rende completamente libera la scelta del genere, suscitando la vigorosa (e indignata) reazione di parte del mondo femminile. Come spesso accade, i fenomeni culturali sono sfasati nel tempo: noi europei abbiamo importato la cultura woke dal mondo anglosassone, e ce ne stiamo ancora entusiasmando nel momento in cui loro la stanno già seppellendo.

C’è però soprattutto un altro elemento che, a mio parere, complica il quadro. Quello che sta avvenendo negli Stati Uniti, e potrebbe presto arrivare anche da noi, non è semplicemente il superamento del follemente corretto, il ritorno alla normalità, il ripristino del senso comune. Quella che si sta profilando è una sorta di sanguinosa rivincita, che rischia – insieme alle degenerazioni della cultura woke – di sopprimere anche le buone ragioni che, cinquant’anni fa, ispirarono la nascita del politicamente corretto. Trattare il prossimo con rispetto, combattere l’odio, non discriminare in base al colore della pelle o altri caratteri ascritti (sesso, razza, etnia, nazionalità), tutelare le minoranze oppresse o emarginate, cercare di includere le fasce o marginali, erano ottime cause ieri ma lo sono anche oggi. Il peccato originale della cultura woke non è di avere sollevato determinati problemi, ma di aver imposto soluzioni assurde, e di averlo fatto con hybris, ovvero con fanatismo e disprezzo per i non allineati all’ortodossia progressista.

Di qui un rischio, un grande rischio: che la reazione al follemente corretto travolga anche il nucleo etico e razionale del politicamente corretto delle origini, e che – per insofferenza agli eccessi – si finisca per “gettar via il bambino con l’acqua sporca”. L’alternativa al follemente corretto non può essere il politicamente scorretto, proclamato con baldanza e spregio delle minoranze. La vera alternativa al follemente corretto è tornare alla ragionevolezza, o se preferite al sogno di Martin Luther King, quello di una società “cieca al colore” (colour-blind), una società in cui “i miei quattro figli piccoli non saranno giudicati per il colore della loro pelle ma per ciò che la loro persona contiene”.

Questo è il sogno tradito dalla cultura woke, con la sua pretesa di regolare la vita sociale in base a caratteri ascritti e identità percepite. A quel sogno occorre tornare. E l’Europa, forse più dell’America, è oggi in condizione di provarci.

[articolo uscito sul Messaggero il 26 gennaio 2025]

Il dilemma del Partito Democratico

27 Gennaio 2025 - di Paolo Natale

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Come ogni anno dal 1948 in poi, il partito della “sinistra”, si chiami PCI o PDS o PD, si trova davanti ad una scelta importante, se non decisiva: correre in solitaria o quanto meno con le sole forze a lui affini, con il forte rischio di perdere, oppure fare alleanze, con il forte rischio di snaturare la propria proposta politica e con l’ulteriore rischio di perdere comunque.

La storia elettorale, da quel primo appuntamento in poi, ci dice che la prima scelta – la corsa più o meno solitaria – non è mai risultata vincente, né con le leggi più o meno maggioritarie degli ultimi trent’anni né, tantomeno, con quelle proporzionali della Prima Repubblica.

Il massimo storico del PCI è giunto nel 1976, con oltre il 34% dei voti, distanziato comunque di oltre 4 punti alla Camera e di 5 al Senato dalla Democrazia Cristiana e impossibilitato a formare una coalizione di governo maggioritaria, nemmeno con l’appoggio di tutte le altre formazioni di area social-comunista (dal Psdi a Democrazia Proletaria). Nell’epoca maggioritaria, Veltroni tentò la strada (quasi) solitaria nel 2008, raggiungendo una quota molto simile di consensi, che risultò comunque una debacle molto simile – anche se meno “cocente” dal punto di vista numerico – a quella antica del 1948.

Quello fu infatti l’anno della prima corsa solitaria, con la fusione elettorale con il Partito Socialista, che si trasformò appunto in una netta disfatta, con una quota di consensi di quasi venti punti percentuali inferiori alla Dc. Un primo evidente monito di quale potesse essere la scelta migliore, dal momento che solo due anni prima Pci e Psi, che correvano separati, ottennero sommandoli una percentuale di seggi e di voti nettamente superiore al loro principale avversario politico.

L’unica altra occasione in cui la “sinistra” risultò superiore alla “destra” unita (come noto, nel 1996 la Lega correva da sola) nella storia elettorale italiana avvenne nel 2006, quando Romano Prodi riuscì per pochi voti a battere Berlusconi ed il centro-destra grazie ad una coalizione dove vennero imbarcati tutti, ma proprio tutti, gli oppositori ai governi di Forza Italia. Una coalizione, è bene sottolinearlo, che ebbe comunque vita molto breve, di nemmeno due anni.

La storia ci racconta dunque che per vincere, sia pur di poco, la sinistra non può non allearsi con qualche altra forza politica. L’attuale Partito Democratico non era competitivo nemmeno quando, con Veltroni, viveva un momento di “euforia” da stato nascente. Oggi, ridotto al massimo al 25% dei consensi per essere ottimisti, certamente non può pensare di essere competitivo correndo in maniera solitaria.

D’altra parte, tra i suoi partner ideali al momento sembra esserci soltanto l’alleanza tra Verdi e Sinistra Italiana (AVS), che può garantirgli un altro 5-6% che lo porterebbe intorno ad un terzo dell’elettorato votante attuale. Certo non sufficiente. Ha bisogno dell’appoggio di un’altra importante forza politica, che attualmente è rappresentata dal solo Movimento 5 stelle che, se fosse in salute, potrebbe garantire al Pd quell’ulteriore percentuale di voti da permettergli di diventare maggioranza.

Ma il problema è duplice: da una parte il M5s è chiaramente in crisi elettorale e, dall’altra, la possibile alleanza è piena di “buchi programmatici” di difficile risoluzione. Che fare dunque?

Una strada alternativa, ventilata da più esponenti in questi giorni, da Orvieto a Milano, potrebbe essere quella di far nascere una nuova formazione politica in grado di raccogliere il voto (il ritorno al voto) di tutti coloro che non si riconoscono pienamente nell’attuale Pd: cattolici di sinistra, lib-dem, centristi contrari al governo Meloni, astensionisti stufi di questa alleanza di destra.

I numeri parlano chiaro: è questa la sola ipotesi che può permettere alla sinistra di diventare competitivi con la destra, anche se è un’ipotesi che non piace a coloro che credono nelle capacità del Partito Democratico di incarnare – anche in solitudine – la vera alternativa all’attuale esecutivo. Ma se il Pd non è sufficientemente attrattivo, da solo non può farcela.

Università degli Studi di Milano

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