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Politica

La Suprema Corte di Londra come Gertrude Stein – Una donna è una donna è una donna è una donna

23 Aprile 2025 - di Luca Ricolfi

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Raramente mi è capitato di assistere a tanti e tali contorsionismi logico-filosofici-linguistici quanti ne ho incontrati in questi giorni a proposito della sentenza della Corte Suprema Britannica che ha stabilito che donna è chi è biologicamente tale. Estrarre una argomentazione razionale da tanto furore ideologico è molto arduo, ma ci provo lo stesso: sfrondato dai voli pindarici, il nucleo del discorso è che anche il sesso biologico è un costrutto culturale (idea copiata a Judith Butler), e comunque ogni persona avrebbe sia tratti maschili sia tratti femminili.

Questo genere di osservazioni, sfortunatamente, eludono la vera questione. Che non è affatto che cosa dobbiamo intendere con il termine ‘donna’, una questione cui –ovviamente – si possono fornire infinite risposte diverse, tutte almeno in parte arbitrarie. La vera questione è un’altra. La vera questione è di natura giuridico-sociologica. E può essere messa così: posto che in tutte le società occidentali esistono spazi e prerogative riservate alle donne, e quasi nessuno ne mette in discussione la legittimità e l’opportunità, dobbiamo continuare a riservare tali spazi e prerogative alle donne biologicamente tali, o dobbiamo estenderne l’accesso ai maschi biologici transitati a donne, o autopercepiti come tali?

Questa è la questione. Una questione molto pratica e concreta che riguarda, ad esempio: bagni, spogliatoi, gare sportive, reparti ospedalieri, centri anti-violenza, sezioni delle carceri, quote rosa, esenzione dal servizio militare, età della pensione, per non parlare delle numerose norme a tutela delle donne in materia di assunzione, condizioni di lavoro, interazione con le forze dell’ordine (perquisizioni).

Dire che i concetti di uomo e donna sono sfumati, perché sono astrazioni sotto le quali sta l’infinita varietà del mondo, non risolve minimamente la questione di che cosa ne facciamo del pacchetto di prerogative attualmente riservate alle donne. La definizione giuridica di donna serve a risolvere in modo chiaro e univoco una questione che non può essere lasciata in sospeso. E chi pretende di adottare una definizione diversa (includendo le donne trans) ha l’onere di dimostrare che i problemi che deriverebbero dalla nuova definizione sarebbero meno gravi di quelli che derivano dalla definizione tradizionale, che la Suprema Corte Britannica ha ribadito.

Sotto il profilo giuridico-sociologico la binarietà (o sei donna o non lo sei) è inevitabile, perché riflette il problema di individuare le condizioni di accesso (sì o no) a un insieme di prerogative, non certo la pretesa di stabilire il significato di un termine, che ognuno – come già succede – continuerà a usare come vuole.

Ma perché siamo precipitati in un simile stato di confusione?

Fondamentalmente per due motivi distinti. Il primo è che in diversi paesi la difesa dei diritti trans è andata ben oltre le conquiste originarie, ovvero la possibilità di cambiare il genere sulla carta di identità in seguito a un’operazione chirurgica o comunque alla fine di un percorso giudiziario. Il cosiddetto self-id, vigente in Spagna da un paio di anni (Ley Trans) e in Germania dal novembre scorso, sancisce il diritto di cambiare genere (anche più di una volta, nel caso tedesco) con un semplice passaggio all’anagrafe. Di qui la possibilità di usare tale diritto in modo opportunistico (ad esempio per sfruttare le quote rosa, o evitare il servizio militare), o pericoloso per le donne-donne (reparti femminili delle carceri), o semplicemente iniquo (accesso alle gare femminili).

Il secondo motivo che ci ha portati alla babele attuale è una credenza errata, ma più volte ribadita dall’attivismo trans e dalle cosiddette transfemministe: ovvero che l’estensione dei diritti non abbia costi, non discrimini, e non tolga nulla a nessuno. È vero esattamente il contrario. A differenza di conquiste come il diritto di voto o il diritto al divorzio, la maggior parte delle rivendicazioni trans o hanno un costo per la collettività (benefici economici), o mettono a repentaglio la sicurezza delle donne (spazi nelle carceri), o tolgono possibilità alle donne (quote rosa, gare sportive).

La soddisfazione delle femministe gender-critical, che hanno festeggiato la sentenza della Suprema Corte Britannica, è più che comprensibile.

[articolo uscito sulla Ragione il 22 aprile 2025]

A proposito delle ingerenze di Trump – Harvard e la libertà accademica

22 Aprile 2025 - di Luca Ricolfi

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Antefatto. L’università di Harvard, una delle più prestigiose del mondo, è un ente privato che, per il proprio funzionamento, usufruisce di cospicui finanziamenti pubblici. Una settimana fa l’amministrazione Trump ha inviato ai vertici dell’università una lettera in cui ricorda che ricevere il finanziamento pubblico non è un diritto, e che d’ora in poi i fondi federali continueranno ad essere erogati solo a determinate condizioni. Alcune di tali condizioni sono sicuramente discutibili, ad esempio la richiesta di non ammettere studenti “ostili ai valori e alle istituzioni americane” (che cosa sono i valori americani?). Altre sono ragionevoli ma difficili da applicare, come la richiesta di combattere le discriminazioni contro gli studenti ebrei o israeliani, o evitare vessazioni anti-semite e programmi ideologizzati.

Ma le condizioni più interessanti sono quelle che appaiono decisamente ovvie o scontate. Due su tutte. Primo, Harvard dovrà abbandonare politiche di reclutamento che discriminano in base a “razza, colore della pelle, religione, sesso, origine nazionale”. Secondo, Harvard dovrà rinunciare alle politiche di ammissione (degli studenti) e di assunzione (dei docenti) che discriminano sulla base dell’orientamento politico-ideologico, e dovrà cercare di promuovere il pluralismo delle idee (viewpoint diversity).

E’ curioso che, anziché apprezzare gli intenti egualitari e anti-discriminazione delle raccomandazioni di Trump, la maggior parte dei media italiani abbia interpretato tali raccomandazioni come un attacco “senza precedenti” alla libertà accademica, un’intromissione indebita della politica nel mondo della cultura, una prepotenza rispetto a cui Harvard e le altre università minacciate da Trump avevano non solo il diritto ma il dovere di opporre “resistenza” (termine evocativo della lotta al nazi-fascismo).

Come mai questa reazione della maggior parte dei nostri media?

Credo che la risposta sia che pochi conoscono la vera storia delle università americane, e in particolare di quel che è capitato dal 2013 in poi, ossia da quando la cultura woke e l’ossessione per il politicamente corretto si sono saldamente installate nei campus e nelle redazioni dei giornali.

Difficile riassumere, nello spazio di un articolo, quel che è successo nel corso di un decennio, ma ci provo lo stesso elencando alcuni dei cambiamenti (o delle radicalizzazioni) che più hanno messo a soqquadro la vita universitaria.

Uno. I criteri di reclutamento di studenti e professori sono diventati sempre più politici e meno meritocratici, con l’adozione di politiche esplicitamente discriminatorie verso bianchi, maschi, eterosessuali, studenti conservatori o non impegnati.

Due. Sono stati aperti appositi sportelli (BRT, o Bias Response Teams) per permettere non solo la denuncia (sacrosanta) di abusi, violenze, intimidazioni, ma anche quella di qualsiasi violazione dei codici woke in materia di linguaggio o espressione delle proprie idee e sentimenti. Qualsiasi situazione fonte di disagio per qualcuno è stata ricodificata come micro-aggressione, con conseguente instaurazione di un clima di paura e di autocensura (chilling effect). Il numero delle prescrizioni e dei divieti del galateo woke è enormemente cresciuto, non solo nelle università ma più in generale nei media, nella vita sociale e nel mondo del lavoro.

Tre. Si sono diffuse e ampliate le pratiche volte a togliere la parola agli studiosi considerati politicamente scorretti o portatori di idee non gradite all’establishment progressista, con campagne di delegittimazione o boicottaggio, con pressioni a non concedere la parola a determinati relatori (deplatforming), con cancellazioni di inviti  (disinvitation), con azioni collettive volte a impedire materialmente di parlare a ospiti sgraditi per le loro opinioni.

Quattro. Si sono moltiplicati i tentativi (per lo più riusciti) di ottenere licenziamenti e sanzioni nei confronti di professori per le idee che avevano espresso. Greg Lukianoff, presidente della Fondazione FIRE, che si occupa di difendere i diritti individuali e la libertà di espressione, ne ha contati centinaia in pochi anni, e ha osservato – a partire dal 2015 – un ritmo di crescita superiore al 30% all’anno.

Tutto questo fin dai primi anni ’10, ben prima dell’inasprirsi della situazione con le proteste studentesche seguite all’intervento israeliano a Gaza.

Morale. Può darsi che l’intervento di Trump, alla fine, non riesca a ristabilire la libertà accademica, che per definizione richiede l’astensione della politica. Ma quel che è certo è che nel decennio precedente la libertà accademica era stata distrutta dall’attivismo woke, che aveva reso irrespirabile la vita nei campus. L’intervento di Trump, sicuramente ruvido e sgradevole nei modi, è stato dettato dalla necessità di ristabilire la libertà accademica, non certo di sopprimerla. La domanda quindi non è “riuscirà Harvard a resistere alle ingerenze di Trump?”, bensì: riuscirà Harvard a tornare un’università normale, in cui chiunque possa sentirsi libero di esprimere il suo pensiero, anche se contrasta con l’ortodossia woke?

[articolo uscito sul Messaggero il 20 aprile 2025]

Il Fascismo. Le verità nascoste

22 Aprile 2025 - di Dino Cofrancesco

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Nelle celebrazioni del 25 aprile si continua a vedere nel fascismo un regime estraneo al mondo moderno, una mela marcia di un paese di antica civiltà come l’Italia, una banda di malfattori di cui Mussolini fu il capo (per citare il titolo di un discutibile pamphlet di Aldo Cazzullo) e così via. In realtà, le cose non stanno così: al fascismo aderì la parte migliore del paese (non tutta, l’altra, minoritaria, rimase coerentemente antifascista): dai ceti medi emergenti – di cui parlò Renzo De Felice. nella celebre Intervista sul fascismo rilasciata a Michael Ledeen nel 1975, Ed. Laterza – al mondo dell’arte delle lettere, delle scienze—v. il Manifesto fascista di Giovanni Gentile. A motivare uomini che erano autentici patrioti, anche se non rifuggivano certo dalla violenza contro gli oppositori politici, erano l’insofferenza per una classe politica che, nel primo dopoguerra, non aveva saputo imporre la legge e l’ordine e il timore, non del tutto ingiustificato, dell’eversione rossa (Rosario Romeo, il maggiore storico italiano della seconda metà del Novecento, non riuscì mai a perdonare a Giovanni Giolitti il mancato uso delle maniere forti contro gli eversori rossi e neri). I Parlamenti con le loro “clases discutidoras” (come le aveva definito nel 1851 il grande tradizionalista spagnolo Juan Donoso Cortes) apparivano loro residui di un passato medievale, da chiudere al più presto dando le redini del governo ai combattenti, ai tecnici, alla borghesia imprenditoriale, alle maestranze operaie inquadrate in sindacati nazionali responsabili, a quanti avevano a cuore le sorti del paese e odiavano la ‘politique politicienne’. Come scriveva Giovanni Gentile, in un articolo Il liberalismo di B. Croce (ora in Id., Opere complete di Giovanni Genti­le. XLV Politica e cultura, 2 voll., Firenze, Le Lettere, vol. I, 1990), ironizzando su quanti si facevano ‘scrupolo di anteporre la patria all’idolo della libertà’ :“Silvio Spaventa e i deputati del 15 maggio, violatori della Costituzione, furono rivoluzionari, Ricasoli e Farini, senza la cui magnanima risolutezza Cavour sarebbe fallito, furono dittatori, come Garibaldi; e della libertà costituzionale si ricordarono soltanto a tempo e luogo. E Cavour, liberalissimo, a tempo e luogo, protestò anche lui, a proposito di libertà di stampa, contro i grandi principii, che rovinarono sempre le nazioni: e governò sempre da padrone di quella Camera a cui s’inchinava”.

 Gli antiparlamentari videro nel fascismo l’occasione per procedere a riforme di vasto raggio in linea col processo di modernizzazione in atto in tutta l’area euroatlantica. E le loro attese non andarono del tutto deluse, se si pensa alla politica delle bonifiche, al Welfare State affidato a grandi enti parastatali, alla messa in sicurezza del territorio, alle grandi realizzazioni urbanistiche (Roma in primis), alle riforme scolastiche, all’IRI che cambiarono il volto della nazione e sopravvissero al 25 aprile. Un deciso fautore delle nazionalizzazioni come il socialista Riccardo Lombardi ebbe a dichiarare che l’Italia per fortuna poteva disporre di una sfera pubblica che rappresentava il 60% dell’economia nazionale e che questo le avrebbe consentito un più agevole passaggio al socialismo. Dimenticò di dire due cose:1) che quella ‘fortuna’ si doveva proprio al regime fascista;2) che in un’economia liberale di mercato era alquanto problematico che potesse rappresentare una fortuna.

Sennonché una dittatura resta pur sempre una dittatura, e solo sui tempi lunghi si diventa consapevoli che la peggiore delle democrazie è preferibile alla migliore delle dittature, sempre che si viva in una società civile segnata dall’Umanesimo, dall’Illuminismo, dalla filosofia dello Stato di diritto. Nei primi anni i treni arrivano in orario, le amministrazioni pubbliche sono più efficienti, ci si preoccupa di più dei ceti meno abbienti e della sanità pubblica. Un apparato di potere, che abbia abolito il pluralismo politico, però, alla lunga non può legittimarsi con politiche che ricalchino quelle delle democrazie liberali più avanzate: il fascismo non poteva essere una versione all’italiana del New Deal di Franklin Delano Roosevelt (un presidente molto interessato alla politica economica di Mussolini). Doveva essere, per non perdere il potere una volta rimessa la ‘casa in ordine’, qualcosa di più e di diverso. Di qui la sua  hybris—‘l’orgogliosa tracotanza che porta l’uomo a presumere della propria potenza e fortuna al centro delle tragedie di Eschilo—e l’ambizione di costruire la Terza Roma, non quella di Giuseppe Mazzini, fondata sul primato dello spirito, ma quella degli Scipioni e dei Cesari, ”donna di province”, signora del Mediterraneo. Ma di qui anche la corsa verso un totalitarismo sempre più permeato di spiriti antiborghesi e pagani, pur se incapace di radicarsi in un paese in cui Monarchia, Esercito e Chiesa erano rimasti contropoteri indeboliti ma inattaccabili. La guerra d’Etiopia, la guerra di Spagna, l’Asse Roma-Berlino, le infami leggi razziali, furono il risultato di questa hybris, sempre più lontana dalle idealità risorgimentali che avevano animato i ‘nuovi ceti emergenti’. Ne dà un ampio resoconto il saggio The Tainted Source. The Undemocratic Origins of the European Ideas (Warner Books 1998) di John Laughland. Quella ‘fonte inquinata’—rileviamo per inciso—avrebbe portato la nuova destra, erede della RSI, a non riconoscersi più nel pensiero di   Giovanni Gentile e di Gioacchino Volpe, Maestri osannati a parole ma sempre meno letti—bensì negli ideologi imperialisti (come Julius Evola) che ritenevano ormai superato il modello dello stato nazionale, troppo legato agli ideali dell’89 e all’odiato illuminismo.

 Dalla retorica resistenziale che vede nel fascismo la negazione dello spirito moderno e il trionfo del nazionalismo tribale (laddove il fascismo fu, agli inizi, un fenomeno del tutto moderno e, dopo la sua ingloriosa fine, la negazione dello stato nazionale) avrebbe potuto guarirci Renzo De Felice – al quale il suo erede spirituale, Francesco Perfetti, ha dedicato una ponderosa monografia, Per una storia senza pregiudizi. Il realismo storico di Renzo De Felice, Ed. Aragno – coi suoi numerosi studi sul fascismo visto nella sua epoca. Tali studi non sono soltanto – come è stato scritto da autorevoli recensori – un contributo a una storiografia meno ideologica e più critica del ventennio; sono qualcosa di più: un capitolo fondamentale della storia della cultura politica italiana del nostro tempo giacché, indirettamente, ne mostrano i ritardi e le anomalie, a cominciare dall’incapacità di prendere sul serio il pluralismo, riconoscendo che i valori, gli interessi, i bisogni che costellano il mondo umano sono molteplici e che demonizzare, senza comprendere, porta solo alla perpetuazione della guerra civile, ai ‘no pasaran’, agli ‘SOS Fascisme!’, ai cortei minacciosi, alle commemorazioni intese ad approfondire il solco ideologico tra i connazionali e non a ravvicinarli come accade nella grandi feste patriottiche del 4 luglio in America e del 14 luglio in Francia. Sennonché l’opera di De Felice è stata quasi del tutto rimossa e la sua alta lezione di liberalismo è stata immiserita e ridotta al banale apprezzamento della sua–pur indubbia–obiettività’ storiografica.

[articolo pubblicato su Paradoxa-Forum]

Il grande tabù – Femminicidi e suicidi

14 Aprile 2025 - di Luca Ricolfi

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Le donne uccise nel mese di gennaio di quest’anno sono state di meno di quelle uccise nel medesimo mese dell’anno scorso. Può essere un caso. Però anche a febbraio c’è stata una diminuzione rispetto a un anno fa. Anche qui può essere un caso. Ma la medesima diminuzione è stata osservata a marzo. E pure nella prima settimana di aprile.

È sempre un caso?

La statistica non lo esclude, ma lo considera molto improbabile. La Polizia ha comunicato che il numero di donne uccise nei primi 3 mesi del 2025 (16) è stato del 36% inferiore al corrispondente numero del 2024 (26). Se le cose dovessero continuare così, o non tanto diversamente da così, il 2025 potrebbe risultare il primo anno in cui il numero di donne uccise, che erano in lentissima diminuzione nel 2023 e nel 2024, scende sensibilmente al di sotto di quota 100 (erano state 120 nel 2023, e 113 nel 2024).

Speriamo. Ma se così fosse, come potremmo spiegare la diminuzione? E soprattutto: che fare per rendere ancora più ripida la discesa?

Qui siamo ovviamente nel campo delle ipotesi. Comincerei da una spiegazione che ritengo sbagliata: i maschi sono diventati meno aggressivi, o più civili. Questa spiegazione è poco convincente perché chiama in causa un cambiamento culturale, senza tenere conto che i cambiamenti culturali sono quasi sempre lenti, molto lenti. Certo si può pensare che l’enorme pressione sociale sui maschi innescata dal femminicidio di Giulia Cecchettin abbia smosso qualcosa, ma è difficile credere che i risultati siano potuti arrivare nel giro di un solo anno.

Contro questa lettura militano anche i dati della criminalità che mostrano che, con l’importante eccezione degli omicidi, la maggior parte dei crimini violenti – rapine, lesioni dolose, maltrattamenti, violenze sessuali solo per citarne alcuni – è in forte  aumento negli ultimi anni, e lo è in special modo fra giovani e giovanissimi. L’impressione generale è quella di una crescita dell’aggressività, che tuttavia non si manifesta attraverso un aumento degli omicidi (che hanno un andamento altalenante), bensì attraverso altre forme di violenza e intimidazione, in netto aumento rispetto agli anni pre-covid.

Colpiscono, in particolare, il numero delle violenze sessuali denunciate, salite a oltre 6500 l’anno (il numero effettivo potrebbe aggirarsi intorno a 30 mila), e la crescita dei reati del “codice rosso”, in particolare lo stalking e il revenge porn (diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti).

Se in generale quel che si osserva non è una diminuzione generalizzata dell’aggressività, forse l’ipotesi che si può avanzare per spiegare la flessione del numero di donne uccise è che, dopo la morte di Giulia Cecchettin, siano aumentate sia la vigilanza delle donne (capacità di cogliere i segnali di pericolo) sia la loro propensione a rivolgersi alle autorità nelle situazioni critiche.

E qui veniamo alla domanda critica: che cosa potremmo fare per accelerare la caduta delle uccisioni di donne, e in particolare dei femminicidi?

Probabilmente la strada più fruttuosa è allargare lo sguardo. I media danno un’enorme importanza ai casi di donne uccise dal partner, ma non paiono rendersi conto che quella dei femminicidi è solo la punta di un iceberg. Le donne uccise dal partner o dall’ex compagno sono circa 1 la settimana, ma per ogni donna uccisa ve ne sono circa 400 vittime di violenza sessuale e migliaia vittime di maltrattamenti e atti persecutori. Eppure l’intorno del femminicidio, fatto di dolore e sofferenza, attira ben poca attenzione. Perché è invisibile, azzarderà qualcuno.

Ma è una risposta che non convince. Perché una parte di questo intorno è visibilissima, solo che la si voglia vedere. Per ogni donna uccisa, ve ne sono 7 che si suicidano: più di 2 al giorno. E tutto fa pensare che, soprattutto nelle fasce giovanili, i drammi che per alcune finiscono nei femminicidi, non siano di natura tanto diversa dai drammi che stanno dietro tanti suicidi.

Perché, dunque, ce ne occupiamo così poco? Perché i suicidi sono diventati tabù, come sotto il fascismo?

Forse perché abbiamo bisogno di un colpevole. E il femminicidio, a differenza del suicidio, ce lo fornisce su un piatto d’argento. Peccato, perché capire meglio che cosa c’è dietro i suicidi di tante donne, verosimilmente, ci aiuterebbe anche a trovare nuove vie per combattere i femminicidi.

[articolo uscito sul Messaggero il 13 aprile 2025]

Fra guerra e pace – Verso le elezioni anticipate?

9 Aprile 2025 - di Luca Ricolfi

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Nessuno può escludere che fra qualche mese un raggio di sole accarezzi il mondo. La guerra in Ucraina finisce, in Israele c’è una tregua, l’Europa raggiunge un accordo commerciale con gli Stati Uniti, le borse recuperano il terreno perduto. Il riarmo dell’Europa torna in secondo piano. Insomma, la gente smette di avere paura della guerra e dell’inflazione.

Questo però non è lo scenario più verosimile. Lo scenario più verosimile, purtroppo, è che, comunque evolvano le cose, la paura della guerra e lo spettro della recessione ci accompagnino ancora per un po’. Diciamo (almeno) per due o tre anni.

Ebbene, se questo dovesse essere lo scenario prevalente, il quadro politico potrebbe mutare sensibilmente, e i rapporti di forza fra i partiti al momento delle prossime elezioni politiche (previste per il 2027) potrebbero cambiare drasticamente. E potrebbero farlo nella direzione che, lentamente e quasi impercettibilmente, si sta profilando già in questi giorni.

A segnalare i primi scricchioli è stato l’istituto Ipsos di Nando Pagnoncelli, che fin dagli ultimi giorni di marzo, sul Corriere della Sera, avvertiva che Fratelli d’Italia stava perdendo colpi e soprattutto che, contrariamente a quanto affermato dalla maggior parte degli istituti rivali, era largamente al di sotto del 30% di consensi, e semmai si stava pericolosamente planando verso quota 26%, ossia al risultato elettorale del 2022.

Poi negli ultimissimi giorni è intervenuta la supermedia dei sondaggi calcolata da You Trend, che apparentemente non ha rivelato cambiamenti clamorosi ma in realtà, a leggere attentamente le variazioni rispetto a due settimane prima, non solo conferma il calo di Fratelli d’Italia (più che comprensibile date le evidenti difficoltà di Giorgia Meloni in politica estera) ma mostra che le micro-variazioni in atto negli altri partiti hanno un segno preciso e delineano (forse) una tendenza.

Quale tendenza?

Fondamentalmente il riallineamento del sistema politico lungo la frattura fra partiti europeisti (quasi sempre al governo in Europa) e partiti euroscettici (quasi sempre all’opposizione in Europa). Credo non sia un caso che il segno meno caratterizzi i consensi a Pd, Forza Italia, +Europa, Azione, Noi moderati, e il segno + caratterizzi i consensi a Lega, Movimento Cinque Stelle, Alleanza Verdi-Sinistra. Quel che differenzia i due blocchi è che i primi hanno assunto una posizione sostanzialmente favorevole al riarmo, mentre i secondi ne hanno preso univocamente le distanze non solo a Bruxelles, ma anche nelle piazze (vedi la grande manifestazione di sabato convocata da Conte).

Ebbene, se l’incubo della guerra dovesse perdurare, tutto questo potrebbe preludere ad alcuni cambiamenti importanti sia nella coalizione di governo sia nelle opposizioni.

Nella coalizione di governo la competizione fra Forza Italia e la Lega per la posizione di maggiore alleato del partito della Meloni potrebbe volgere a favore della Lega, unico partito in grado di offrire un approdo al pacifismo di destra. Nel fronte dell’opposizione potrebbe riaprirsi la competizione per la leadership fra Schlein e Conte. Oggi il Pd ha il 22.7% dei consensi, contro il 12.1% dei Cinque Stelle. Sembra un abisso, ma se anche solo il 3% dell’elettorato, in quanto nettamente contrario al riarmo, transitasse dal Pd ai Cinque Stelle, il partito di Schlein scenderebbe sotto il 20%, e quello di Conte salirebbe sopra il 15%. Con un distacco di 5 punti scarsi, e venti di guerra all’orizzonte, la partita per la leadership si riaprirebbe.

Ma il pericolo maggiore, fra tutti i partiti, probabilmente lo correrebbe Fratelli d’Italia: la spina nel fianco pacifista è più dolorosa per chi guida il governo che per chi sta all’opposizione. Un Salvini che superasse il 10% diventerebbe una spina nel fianco per il governo Meloni, specie se il trend di ridimensionamento di Fratelli d’Italia, concordemente rilevato dalla maggior parte degli ultimi sondaggi, dovesse persistere. In quel caso, a meno di un insperato, rocambolesco soccorso del partito di Calenda, il ritorno anticipato alle urne non sarebbe così impossibile come appare oggi.

[articolo inviato alla Ragione il 6 aprile 2025]

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