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Politica

La caduta degli DEI

1 Aprile 2025 - di Luca Ricolfi

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Ci sono parecchi equivoci nelle polemiche degli ultimi giorni sulle misure adottate da Trump conto le politiche DEI, acronimo che sta per Diversity, Equity, Inclusion. In estrema sintesi, per politiche DEI si intendono un vasto insieme di misure di sensibilizzazione, controllo e reclutamento con cui, da parecchi decenni (ma con particolare veemenza dal 2012), aziende e organizzazioni hanno cercato di tutelare, proteggere o privilegiare varie minoranze definite per lo più su base sessuale, razziale, etnica, nonché altre varie caratteristiche (disabilità, orientamento sessuale, ruoli di genere). L’effetto più tangibile della politiche DEI è stata la modificazione dei criteri di reclutamento e assunzione nelle imprese, nella pubblica amministrazione e nelle università, con la parziale sostituzione del criterio del merito (capacità di svolgere bene il compito per cui si viene reclutati) con criteri estrinseci, come il colore della pelle e il sesso biologico. Di qui la frustrazione, talora il risentimento, delle categorie penalizzate, cui non sempre era chiaro perché – ad esempio – una ragazza bianca di oggi dovesse essere penalizzata per le colpe, vere o presunte, dei suoi antenati colonialisti e/o padroni di schiavi. È il caso di aggiungere che, nella storia americana, la pressione a praticare politiche DEI ha rappresentato un completo capovolgimento del sogno di Martin Luther King, che aspirava a una società color blind (cieca al colore, o “daltonica”) in cui finalmente i suoi figli potessero essere giudicati non per il colore della pelle ma per il tipo di persone che erano. Viste con gli occhi dei loro critici, le politiche DEI – recentemente messe in discussione – altro non erano che forme di “discriminazione alla rovescia”, oltreché violazioni del principio della responsabilità individuale, che vieta di far cadere sul singolo colpe del suo gruppo, o peggio dei suoi antenati.

Ed eccoci al primo equivoco: quello che a noi europei spesso appare come un attacco ai valori occidentali di inclusione, per l’amministrazione Trump è semmai una affermazione del principio occidentalissimo di equità, che vieta di valutare le persone per le loro caratteristiche ascritte (di nascita) o non pertinenti (orientamento sessuale ecc.). Insomma: il confronto non è fra difesa (europea) dei valori occidentali e attacco (americano) ai medesimi valori, ma semmai è fra due diverse – e incompatibili – interpretazioni dei valori occidentali, dove Trump sta con Luther King, mentre Macron – indignato per l’attacco USA alle politiche DEI – sta con la cultura woke.

Ma c’è anche un secondo equivoco. Dalle cronache di questi giorni sembrerebbe che lo smantellamento delle politiche woke sia il nefasto effetto dell’autoritarismo trumpiano. In parte è vero, ma non dobbiamo dimenticare che sia negli Stati Uniti sia nel Regno Unito il processo era iniziato ben prima della vittoria di Trump. Sono centinaia le grandi imprese e organizzazioni che, specie negli ultimi 4-5 anni, hanno fatto retromarcia rispetto alle politiche DEI, anche se per ragioni non sempre simili. Nel Regno Unito la retromarcia è stata favorita dagli eccessi delle lobby LGBT+ e da scandali come quello che ha coinvolto la clinica Tavistock, un tantino leggera nelle autorizzazioni alle transizioni di genere di ragazzi e ragazze. Negli Stati Uniti, invece, decisive sono state le prosaiche leggi dell’economia. Dopo anni di infatuazione per le politiche DEI, grandissime aziende come Jack Daniels, Harley-Davidson, Tesla, Microsoft, Google si sono rese conto degli inconvenienti a esse associati: i costi elevati degli staff DEI, l’inefficienza delle politiche del personale (non poter scegliere i migliori per una data mansione ha un ovvio costo economico), la ribellione di una parte degli utenti e dei dipendenti. Anche qui Trump non c’entra molto: se nel primo mandato non aveva fatto quasi nulla, e ora pare scatenato, è perché allora l’onda woke era fortissima e invincibile (anche grazie agli scandali sessuali che, fra il 2016 e il 2017, innescarono il MeToo), mentre oggi al neo-presidente è bastato fare surf sull’onda di una ribellione anti-woke in corso da alcuni anni.

E non è tutto, a proposito di equivoci. Noi europei troviamo scandaloso che l’amministrazione americana discrimini le aziende europee che ancora adottano politiche woke. Anche a me non piace, ma per ragioni diverse da quelle invocate da Macron (la presunta ingerenza negli affari interni di un paese). Quel che trovo pericoloso (e alla lunga controproducente) è, in generale, il fatto che gli acquirenti di un bene o servizio anziché scegliere in base alle sue qualità intrinseche, lo valutino in base a fattori esterni, di tipo morale, etico, politico o ideologico. All’amministrazione americana non dovrebbe interessare nulla il fatto che l’azienda che fornisce i pasti al personale dell’ambasciata a Parigi sia più o meno impegnata nelle politiche DEI. Un tramezzino è un tramezzino è un tramezzino, direbbe Gertude Stein. E invece no: ora pare diventato importante se l’azienda ha o non ha una determinata politica del personale. E, orrore degli orrori, per l’amministrazione Trump conta che l’azienda non abbia una politica inclusiva, basata sui principi DEI.

E qui incontriamo l’ultimo equivoco. Che sta in questo: non ci rendiamo conto che quel che fa Trump è solo una variante di quel che, da molti decenni, fanno le imprese e i consumatori occidentali, ossia includere la virtù nel calcolo economico. Le imprese hanno capito, già molti decenni fa, che la reputazione di un marchio è fondamentale, e può essere migliorata con politiche di pura immagine, molto meno costose di quanto lo sarebbero modificazioni effettive del prodotto o miglioramenti delle condizioni di lavoro dei dipendenti. Ma i consumatori non sono stati da meno: quanta gente compra un prodotto anche perché è pubblicizzato come green, eco- sostenibile, agganciato a qualche pandoro benefico? Quanti consumatori smettono di comprare determinati beni o servizi perché detestano chi li produce? Oggi tocca a Fratoianni e consorte dismettere la loro Tesla in odio a Trump, ma quante volte abbiamo assistito a campagne di boicottaggio contro i prodotti israeliani, o contro le aziende di Berlusconi, a partire dalla campagna Bo.Bi (Boicotta il Biscione, 1993)?

La realtà è che, ormai da tempo, viviamo in un mondo in cui anche il mercato è drogato dall’ideologia. Un mercato che noi stessi abbiamo contributo a drogare. E in cui Trump sguazza benissimo.

[articolo uscito sul Messaggero il 31 marzo 2025]

A proposito del riarmo europeo – Pronti per il 2030?

26 Marzo 2025 - di Luca Ricolfi

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Anch’io, come il ben più ascoltato Fausto Bertinotti, detesto la ossessiva ripetizione della formula latina si vis pacem para bellum (se vuoi la pace prepara la guerra), variamente fatta risalire nientemeno che a Platone, Cicerone e altri. E la detesto non perché io creda, come Bertinotti, che se ti riarmi poi le armi le usi, ma più semplicemente perché non credo nelle formule di (presunta) saggezza usate in ambiti complessi, come quello militare e strategico.

In realtà entrambe le formule sono state vere, e non sappiamo quale si applichi alla situazione di oggi. La proliferazione degli armamenti nucleari ha garantito 70 anni di (relativa) pace, ma potrebbe riservarci la terza guerra mondiale fra qualche tempo. Il riarmo tedesco degli anni ’30 ci ha regalato la seconda guerra mondiale, mentre di quello – non solo tedesco – annunciato in questi giorni nessuno è in grado di dire se dissuaderà la Russia dall’attaccare l’Europa, o se sarà la miccia che farà deflagrare una nuova guerra sul Continente.

Insomma, sono scettico. E alquanto stupito sia delle certezze di Marco Travaglio (cui “non risulta” che Putin voglia invaderci) sia di quelle di Prodi (il quale sa che, se non ci riarmiamo, saremo invasi dalla Russia).

Quello che più di tutto mi sorprende, però, sono le convinzioni che, da un po’ di tempo, vengono fatte circolare dai fautori del riarmo europeo. Secondo alcune fonti (ad esempio i servizi segreti tedeschi), riprese da vari organi di stampa, l’Europa subirà un attacco russo entro la fine del decennio. Di qui il piano Readiness 2030, che auspica e pianifica un rapido riarmo europeo in modo da essere pronti per il 2030, in vista di un probabile attacco russo.

Perché ne sono sorpreso?

Perché non conosco la risposta a due ordini di domande.

Primo. Come mai stiamo già parlando di riarmo, senza aver chiarito con gli Stati Uniti il futuro della Nato? Siamo sicuri che gli Trump voglia uscire dalla Nato, e che il Congresso glielo permetterebbe? (una legge del 2023 obbliga il presidente a passare da un voto del Congresso, con maggioranza di due terzi). Il problema posto da Trump (per inciso: già dal 2016, non da oggi) è solo quello dei costi della difesa, troppo onerosi per gli Usa, o è di alleanze? Lo sganciamento degli Stati Uniti sarà graduale, o è già una realtà di fatto? Mi pare che le risposte a queste domande facciano grande differenza. Se fosse solo un problema di costi, ad esempio, sarebbe molto più efficiente pagare la permanenza delle basi americane in Europa piuttosto che rafforzare gli eserciti nazionali e/o dare l’arma nucleare alla Germania. Come mai la sinistra, così preoccupata della “onda nera” nazista, non ha ancora alzato un sopracciglio sui rischi di un riarmo tedesco gestito dalla Afd? Possibile che la Afd sia un mostro temibile quando promette l’espulsione dei migranti irregolari, e non lo sia quando si profila l’eventualità di una Germania nazisteggiante e armata fino ai denti?

Secondo ordine di domande. Tutti concordano sul fatto che, anche nella più efficiente delle ipotesi, il riarmo dell’Europa non ne aumenterà significativamente il potenziale difensivo prima di qualche anno. Ma allora: se è vero che Putin ci vuole attaccare entro il 2030 (cosa che nessuno sa, ma molti fingono di sapere), ed è vero che stiamo facendo di tutto per essere prontissimi per il 2030, perché mai Putin dovrebbe aspettare 5 anni per attaccarci? Se davvero ha intenzione di farlo, il messaggio che gli mandiamo è di sbrigarsi, prima che diventiamo in condizione di respingerlo.

In breve: siamo sicuri che, prima di annunciare con le fanfare il riarmo europeo (come sta facendo il sempre meno pacioso Prodi), non sarebbe meglio fare due chiacchiere con Trump, e attendere di conoscere gli accordi di pace sull’Ucraina?

[articolo uscito sulla Ragione il 25 marzo 2025]

La maestra che arrotonda su OnlyFans – La scelta di Elena

26 Marzo 2025 - di Luca Ricolfi

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Ho pensato che il mio corpo sia un bel vedere, visti i sacrifici sportivi che faccio ogni giorno, e che vederlo non dovrebbe essere gratuito”.

Così si è difesa Elena, maestra di un asilo cattolico in provincia di Treviso, beccata a vendere immagini osé di sé stessa sulla piattaforma OF (OnlyFans), ed ora sospesa dall’insegnamento. Per chi non lo sapesse OnlyFans è una piattaforma, nata nel 2016, in cui si possono esporre i propri contenuti (di qualsiasi genere, ma di fatto soprattutto immagini e video sessualmente espliciti) e farli circolare, gratis o a pagamento. Giusto per dare gli ordini di grandezza: il fatturato è sfiora i 7 miliardi di euro, i produttori di contenuti sono diversi milioni (soprattutto donne), gli utenti sono più di 300 milioni (soprattutto maschi).

I guadagni medi sono modesti, ma possono diventare considerevoli se i contenuti sono stuzzicanti e il numero di “abbonati” è elevato. La maestra in questione dice di guadagnare 1200 euro in mezza giornata, tanto quanto le dà – in un mese – l’onorata professione di educatrice di marmocchi.

La vicenda è interessante non in sé (è arcinoto che internet è una formidabile via Salaria digitale) ma per le reazioni che ha suscitato, e ancor più per la luce che getta sulla società in cui viviamo.

Le reazioni sono polarizzate, ma non bilanciate. Una minoranza (circa 1 commento su 4) mostra indignazione o sgomento: un’educatrice dovrebbe essere un esempio, se sei su OnlyFans non puoi fare la maestra; è vero che ti vedono solo gli abbonati, ma poi si viene a sapere (come in effetti è successo), e la cosa non fa bene alla classe.

La maggioranza (circa 3 commenti su 4), invece, difende l’operato della maestra, che risulta apprezzata nel suo lavoro con i bambini, e avrebbe tutto il diritto – fuori del lavoro – di fare quello che vuole. Ma la maggior parte dei difensori, più che difendere il principio libertario secondo cui “del mio corpo faccio quello che voglio”, si prodiga in esercizi di indignazione contro l’indignazione altrui: la maestra fa benissimo, immorale non è lei ma il misero stipendio che riceve; e i moralisti che la accusano sono bigotti, anzi magari sono papà registrati su OnlyFans (del resto, com’è che hanno scoperto le foto della maestra?).

Non so quanto le reazioni che ho incontrato su internet siano rappresentative, ma se dovessero esserlo dovremmo prendere atto di un fatto significativo, e cioè che nel pubblico non prevalgono le idee delle femministe radicali, ostili alla prostituzione, alla pornografia e al sexting, ma quelle della sociologa Catherine Hakim, espresse nel suo famoso libro Capitale erotico (Mondadori, 2012): le donne fanno bene a valorizzare, anche economicamente, il loro aspetto fisico e il loro fascino. È il capitalismo, bellezza!

Ovviamente ognuno può stare con chi preferisce, maestra ardita o genitori moralisti. Quel che però mi colpisce è che nessuno, almeno fra le decine e decine di commenti che ho letto, si sia chiesto che cosa avremmo detto se il mestiere in questione non fosse stato quello di insegnante ma, poniamo, quello di giudice della Corte Costituzionale, o quello di colf, o “collaboratrice familiare”. Come sociologo, non ho molti dubbi che nel caso di una giudice della Corte, una schiacciante maggioranza avrebbe deprecato che la avvenente magistrata vendesse i suoi scatti su OnlyFans, mentre nel caso della colf un’altrettanto schiacciante maggioranza avrebbe sentenziato che quel che fa fuori dell’orario di lavoro sono fatti suoi.

Questo esperimento mentale mostra che la fonte primaria dei nostri diversi giudizi non sono tanto le nostre inclinazioni morali, il nostro essere dalla parte dei moralisti-bacchettoni piuttosto che da quella degli amoralisti-libertari, quanto il prestigio delle diverse occupazioni e dei ruoli sociali connessi. Se il ruolo è prestigioso o eticamente delicato, scattano i divieti moralisti, se il ruolo non lo è scatta l’impulso libertario e tollerante del “liberi tutti”. La netta maggioranza che si schiera con la maestra, più che rivelare la nostra apertura mentale, testimonia quanto sia caduto in basso il prestigio del mestiere di insegnante.

Dobbiamo rammaricarcene?

Sì, possiamo esserne dispiaciuti. Ma non possiamo stupircene. Il processo che ci ha condotti fin qui è iniziato intorno al 1600, con la progressiva “obsolescenza del concetto di onore”, come ebbe a chiamarla oltre mezzo secolo fa in un saggio famoso  Peter Berger, uno dei maggiori sociologi del XX secolo. Una obsolescenza le cui prime evidentissime tracce sono nel Don Chisciotte di Cervantes, plastica descrizione del declino degli ideali cavallereschi e dell’etica dell’onore.

La formazione dell’identità moderna, spiega Berger, non poggia più sul concetto di onore, ovvero sulla capacità di interpretare al meglio il ruolo che si ricopre, ma su quello di dignità umana, sempre più intesa come scelta libera, incondizionata e meritevole di riconoscimento, di ciò che vogliamo essere. È quello che, nel suo libro Il disagio della modernità (del 1991) il filosofo canadese Charles Taylor ha chiamato l’ideale morale dell’autenticità, per cui quel che conta non è come interpreti i ruoli che la società ti assegna, bensì quel che tu veramente sei e vuoi essere, nella vita privata così come in quella pubblica (e ora pure nello spazio metà pubblico e metà privato di internet). Con un’importante qualificazione, che spesso si dimentica: il primato della dignità umana, nella modernità pienamente dispiegata, non significa solo diritti umani e rispetto della persona, ma piena sovranità del consumatore-cittadino nella costruzione della propria identità e nella propria autorealizzazione, quali che siano le credenze e i pregiudizi altrui.

Vista da questa angolatura, la scelta di Elena assume una colorazione di ovvietà. Può scandalizzarci o entusiasmarci, ma segna con chiarezza che il corso della modernità, annunciato fin dal ’600 da Cervantes, sta giungendo al suo epilogo. Attendiamo solo, per chiudere il cerchio, che ministre, cardiologhe e suore sbarchino anche loro su OnlyFans.

[uscito sul Messaggero il 25 marzo 2025]

Perché la sinistra si fa rappresentare dai VIP? – intervista di Pietro Senaldi a Luca Ricolfi

24 Marzo 2025 - di Luca Ricolfi

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Dalla piazza di sabato scorso con sul palco solo intellettuali e artisti alla difesa del manifesto di Ventotene su Rai1 da parte di Benigni: perché la sinistra ha delegato la difesa dei propri capisaldi culturali e la rappresentanza delle proprie idee a questi mediatori?

Domanda difficile, perché i fattori sono tanti. Però almeno due ingredienti del cocktail mi sembrano abbastanza evidenti. Primo ingrediente: da almeno 15 anni, ossia dalla lapidazione di Walter Veltroni in poi (2008-2009), la sinistra non è stata più in grado di esprimere leader dotati al tempo stesso di spessore intellettuale e di carisma. Una situazione che il recente ringiovanimento del gruppo dirigente del Pd non ha fatto che aggravare, come del resto ci si poteva aspettare dato il trend delle istituzioni scolastiche. La distanza fra il livello di preparazione culturale e politica dei dirigenti del vecchio PCI e quello degli attuali dirigenti Pd è siderale, per non dire imbarazzante. Senza una cultura ampia, la difesa dei propri “capisaldi culturali” diventa una mission impossible.

E il secondo ingrediente?

Il secondo ingrediente è la eticizzazione del discorso politico, sempre meno ancorato a obiettivi e rivendicazioni concrete, e sempre più volto ad affermare la superiorità morale dei propri valori, come inclusione, accoglienza, diritti delle minoranze sessuali. Ed è ovvio che se la sostanza politica del tuo discorso è basata su imperativi morali piuttosto che su un vero programma politico, economico, sociale, diventa facile, e del tutto naturale, affidare il messaggio allo star system, sfruttando la popolarità dei suoi protagonisti. Un discorso di Benigni, per quanto arruffato (o proprio perché arruffato), impatta mille volte di più che una mitragliata di slogan emessi dalla bocca di Elly Schlein o di Giuseppe Conte.

Quando tutto questo è successo?

Ci sono alcune date significative: il 1992, con l’esplosione di Mani Pulite. Ma anche il 1994-1995, con l’abbandono – a sinistra – del concetto di eguaglianza a favore di quello di inclusione, un processo voluto da Alessandro Pizzorno e vanamente ostacolato da Norberto Bobbio. La fine del primo governo Prodi, nel 1998. E, ultima tappa, la defenestrazione di Veltroni, come ho già ricordato. Però una vera e propria data della svolta non esiste, perché la supplenza dello star system rispetto alla politica è un fenomeno carsico, un fiume che emerge e si inabissa periodicamente quando la politica è sputtanata, o semplicemente non è abbastanza a sinistra, o ancora più basicamente non ci scalda abbastanza il cuore. Allora arrivano artisti, cantanti, attori, scrittori, studiosi, intellettuali, giornalisti-tribuni. Può capitare per un’inchiesta giudiziaria, ma più sovente perché un governo di sinistra non lo è abbastanza.

Ad esempio?

Renzi che vara il Jobs Act, Minniti che fa gli accordi con la Libia, Enrico Letta che preferisce Draghi a Giuseppe Conte.

Nanni Moretti ci teneva a mantenere le distanze, da “questi dirigenti con i quali non vinceremo mai” e dopo lo storico intervento in piazza è tornato al proprio lavoro: oggi il rapporto sembra più osmotico?

Sì, oggi il mondo dell’arte e della cultura interviene quotidianamente perché il governo è di destra, e l’antifascismo – diversamente dai programmi politici veri e propri – è una canzone facile da cantare. Avete mai visto un concertone per il “salario minimo legale” ? Alla fine è una questione di generi letterari, poesia contro prosa. La politica parla in prosa, lo star system – ma anche il pubblico – detesta la prosa, vuole la poesia. Salire sulle navi che salvano i migranti è poesia, sostenere il salario minimo legale è prosa. Detto per inciso, è una delle ragioni della impopolarità di Carlo Calenda, il meno poetico dei nostri politici.

Non è partito tutto con la Rai3 di Angelo Guglielmi, la tv delle ragazze e via discorrendo?

No, secondo me. Quello era un fenomeno diverso. La stagione 1985-2001 ha visto una straordinaria fioritura della satira politica, che non si sostituiva alla politica ma semmai la dileggiava, senza riguardi per nessuno. Sotto la sferza di Arbore, Dandini, Guzzanti, Marcoré cadevano tutti. E cadevano pure i miti della sinistra, sbeffeggiata nelle sue innumerevoli debolezze e nei suoi tic. Nessuno, in quel gruppo, avrebbe mai assunto le posture da guru corrucciati che oggi assumono i vari Saviano e Scurati.

La satira ha perso indipendenza o originalità, per diventare un interprete organico?

Ci sono eccezioni importanti, come Crozza e Checco Zalone, ma in generale la satira mi sembra non all’altezza. Per lo più non fa ridere, e più è politicizzata meno fa ridere. L’idea che possa esistere una “satira di sinistra”, o una “satira di destra”, è già di per sé la negazione della satira.

A sinistra è saltato il concetto di doppia verità, per cui oggi le classi dirigenti dem forzano la realtà, presente e passata, per plasmarla secondo un’unica visione?

Esattamente. I dirigenti del vecchio PCI (anni ’50 e ’60) non credevano a quello che raccontavano alle masse, ed erano perfettamente consapevoli che una cosa è la realtà, un’altra cosa è la propaganda. I dirigenti della sinistra attuale, invece, non conoscendo la pratica della doppia verità, costringono sé stessi a credere vere le cose che dicono. Quindi non dispongono di un’analisi realistica della situazione.

Lo choc di Mani Pulite e la parabola di Silvio Berlusconi hanno un ruolo in tutto questo?

Sì, soprattutto Berlusconi: ha fornito un formidabile bersaglio per le esternazioni delle celebrities, come le chiama Rampini quando rileva gli stessi fenomeni negli Stati Uniti.

Chi conduce il gioco? Benigni che difende Ventotene come Schlein meglio non potrebbe è come se un giornale affidasse al vignettista la propria linea editoriale. Sono saltati gli schemi o c’è un nuovo schema?

C’è il vecchio schema dell’indignazione: mai studiare le carte, mai entrare nei dettagli, sempre scomunicare e demonizzare.

Pare che certi elettori di sinistra preferiscano farsi dire le cose da intellettuali e artisti piuttosto che dai parlamentari che eleggono. È vero?

È così, ma la ragione è la solita: l’elettore progressista ama sentirsi moralmente superiore, e questo stato d’animo glielo procura più facilmente Benigni che Schlein.

Provoco. Non è che nascondendosi dietro gli intellettuali e gli artisti d’area i politici sopperiscono all’assenza di rapporto con l’elettorato, disintermediando così la relazione tra potere e cittadinanza e realizzando il governo delle élite?

Forse, ma è una delle tante conseguenze della riduzione della politica a morale.

Oggi forse il paradigma non è destra contro sinistra ma élite da una parte e cittadini dall’altra e gli intellettuali guidano il popolo per conto delle élite?

In parte è così, ma la destra, almeno in Italia, non ha un establishment intellettuale che la sostiene: destra è diversa anche perché fa politica senza il paracadute delle élite.

Anche negli Stati Uniti i democratici hanno provato a risolvere i loro problemi mobilitando lo star system. Perché è una mossa che non produce mai risultati validi, e perché invece ci si ricorre comunque?

Non direi che non funziona mai. Con Obama lo star system ha funzionato, con Kamala Harris non poteva funzionare perché ogni endorsement di una celebrity confermava l’equazione trumpiana democratici=élite.

[intervista uscita su Libero il 21 marzo 2025]

Sulla manifestazione del 15 marzo – Il manifesto di Ventotene, contro il pluralismo e la democrazia

21 Marzo 2025 - di Luca Ricolfi

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Di una cosa sono certo: la maggior parte di coloro che parlano del Manifesto di Ventotene non l’hanno letto. Lo dico a loro discolpa, perché se – anziché lodarlo acriticamente – l’avessero letto con la dovuta attenzione sarebbero da tempo impegnati in un difficile lavoro di reinterpretazione o, come si dice oggi, di “contestualizzazione”. In breve: si sforzerebbero di dimostrare che, nonostante le cose inquietanti che il manifesto indubbiamente dice, possiamo condividerne lo spirito, le finalità, le buone intenzioni (lo Stato federale europeo), e scordarci sia i fini concreti proclamati in quel manifesto sia i metodi invocati per imporre quei fini. E, venendo alla manifestazione di sabato scorso, anziché far circolare il sacro libretto preceduto da un’introduzione del tutto acritica, avrebbero avvertito i convenuti che – per non essere presi in castagna, come Giorgia Meloni ha provveduto a fare ieri – sarebbe stato bene non prendere troppo sul serio quel manifesto, in quanto molto datato e scritto in condizioni di isolamento.

Io invece lascio volentieri l’opera di contestualizzazione, depurazione, rilettura del Manifesto e vado dritto ai fini e ai mezzi esplicitamente dichiarati, perché prima di rileggere occorre leggere.

Ebbene, sui fini, il Manifesto dice chiaramente che l’assetto sociale da promuovere è di tipo socialista (anche se non comunista), con ampi espropri e severe limitazioni alla proprietà privata. Nessuna considerazione riceve l’eventualità che l’assetto possa essere liberale, o non socialista.

Quanto ai mezzi, il Manifesto immagina che il nuovo assetto possa essere instaurato attraverso la “dittatura del partito rivoluzionario”, che imporrà la sua volontà alle masse, ancora incapaci di riconoscere i propri interessi, semplice “materia fusa, ardente, suscettibile di essere colata in forme nuove, capace di accogliere la guida di uomini seriamente internazionalisti”. In una situazione di “ancora inesistente volontà popolare” il partito rivoluzionario, guidato da una élite illuminata, “attinge la visione e la sicurezza di quel che va fatto” non già dal consenso popolare ma “dalla coscienza di rappresentare le esigenze profonde della società moderna”.

E non è tutto. Chi avesse dei dubbi sulla visione politica del Manifesto dovrebbe riflettere sulle parole, sprezzanti e beffarde, rivolte ai “democratici”, ovvero a quanti pensano che il potere del governo debba poggiare su libere elezioni. I democratici sono gente che sogna “un’assemblea costituente, eletta col più esteso suffragio e col più scrupoloso rispetto del diritto degli elettori, la quale decida che costituzione debba darsi”. Illusi, che non comprendono che nella crisi rivoluzionaria “la metodologia politica democratica sarà un peso morto”. Pavidi, che sono disposti a usare la violenza “solo quando la maggioranza sia convinta della sua indispensabilità”.

Insomma, spiace dirlo ma il Manifesto di Ventotene è il più esplicito e conturbante ripudio del pluralismo, la più clamorosa deviazione dal percorso democratico e costituzionale (libere elezioni + Assemblea Costituente) che, molto saggiamente, l’Italia seguirà dopo la fine della seconda guerra mondale.

Possiamo almeno dire che una cosa buona – l’idea degli Stati Uniti d’Europa – il Manifesto di Ventotene l’ha partorita?

Per certi versi sì, perché effettivamente è nel Manifesto del 1941 che per la prima volta viene compiutamente formulata quell’idea. Ma per certi versi invece no, perché il modo di formularla fu elitario, giacobino e anti-democratico. Da questo punto di vista, forse, anziché ripetere meccanicamente che il meraviglioso ideale di Ventotene è stato tradito dalle classi dirigenti che ci hanno condotti all’Europa attuale, forse dovremmo domandarci se il progetto europeo non è fallito proprio perché a quell’ideale si è conformato fin troppo. L’Europa di oggi, governata da una élite burocratica e autoreferenziale, soffre del medesimo male – la costruzione dall’alto, senza coinvolgimento popolare – che affligge il Manifesto di Ventotene.

Si può essere euro-scettici o europeisti convinti, ma chi davvero sogna gli Stati Uniti d’Europa, s crede nel metodo democratico non può prendere a modello il Manifesto di Ventotene. Idolatrare quel modello è stata un’ingenuità, dettata dall’ideologia e dalla scarsa conoscenza. Possiamo fare molto di meglio, e dobbiamo provarci senza rinunciare al pluralismo e alla democrazia.

[articolo uscito sul Messaggero il 20 marzo 2025]

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