Stiamo diventando nervosi

Ieri mattina sul tetto della casa di fronte c’era una ragazza con degli short gialli, in piedi sulle tegole scoscese. Stamattina una signora mi ha fulminata di improperi perché chiedevo educatamente chi era l’ultimo della fila per entrare dal ferramenta.

Non si canta più tanto, mi pare. C’è andato giù l’ormone dell’allegria, resta l’adrenalina della sfida, ma sta diventando lunga e sfibrante questa via Crucis senza Resurrezione.

Siamo stanchi di Zoom e FaceTime, di telefonate, di video condivisi, di video in cui recitiamo la fiaba della buona notte a nipotine recluse da un’ altra parte. Siamo stufi di retorica Patriottarda, stufi delle pennellate di melassa da libro Cuore dietro cui si cerca di nascondere lo scacco, la paura, l’incertezza. Stufi di indicazioni sempre nuove e sempre uguali. Siamo stanchi di dover attingere al nostro patrimonio di resilienza, stiamo raschiando il fondo del barile. Siamo delusi dalla riapertura richiusa, anche se probabilmente è saggia. Siamo intontiti dal mantra delle mascherine e delle distanze, ripetuto fino allo sfinimento, manco fossimo un popolo di deficienti…

Personalmente se sento ancora una volta la frase “Non abbassiamo la guardia” mi butto dalla finestra… un cadavere con mascherina e guanti mono uso in un’orgia di sangue sul selciato. Lo sappiamo che non la dobbiamo abbassare la guardia. Fateci grazia. So che è a fin di bene, ma sono stufa di dover autocertificare il mio sacrosanto bisogno di prendere una boccata d’aria, di portare a spasso un bambino (anche loro hanno diritto, anche se pisciano da bravi nel vasino), di correre per un’ora, come faccio con regolarità da 38 anni, perchè la sedentarietà fa male e il coronavirus è un problema di salute.

Sono stufa di minacce a chi ha più di 65 anni, oppure 70 o magari 80: vi chiuderemo in casa fino al terzo giovedì di dicembre, fino al marzo prossimo, fino a quando tirerete in calzini, stremati da queste discriminazioni persecutorie. Siamo stanchi che chi governa metta le mani avanti. Ci rendiamo conto che è difficile, ma non possiamo caricarci il peso di decisioni non prese o prese tardi. Vogliamo sottoporci tutti al tampone, isolare i malati, curarli, liberare i sani, prima che l’onda lunga della paralisi produttiva, del blocco dei consumi, dell’annientamento del turismo ci travolga e ci faccia naufragare nella povertà assoluta, quell’abisso senza ritorno.

Siamo preoccupati per la cultura e per chi vive di cultura non soltanto economicamente, ma anche per un bisogno dell’anima. Siamo preoccupati per le migliaia di artisti e lavoratori dell’arte e dello spettacolo ridotti alla fame (per abitudine sono considerati bambini che giocano nella nursery dei privilegiati, ma non è così). Franklin D. Roosevelt, investì, esattamente cent’anni fa, nel 1929 sull’arte e sulla cultura ingenti somme di danaro. Aveva capito che dalla crisi si esce osservandola e rappresentandola, per capire e far capire. E quindi cambiare.

Chi canterà questi giorni di sconcerto e di fatica?

Copyright 2020 Lidia Ravera
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Tamponi e fakenews di governo: non è vero che l’Italia è il paese che ne fa di più

Grande rilievo ha assegnato il Tg1 di oggi, lunedì 28 aprile, a questa dichiarazione del Commissario Governativo Domenico Arcuri, diffusa attraverso l’Agenzia Nova:

“Per evitare che anche questa diventi materia di dibattiti comunico che l’Italia è il primo paese al mondo per tamponi fatti per numero di abitanti: a ieri erano stati fatti 2.960 tamponi ogni 100 mila aitanti. In Germania 2.474, il 20 per cento in meno; in Inghilterra 1.061, un terzo che in Italia e 560 in Francia, un sesto”.

La notizia comunicata è falsa: sono una decina i paesi che, alla data considerata dal Commissario Arcuri, fanno più tamponi dell’Italia.

Alcuni sono paesi molto piccoli, come Islanda, Lussemburgo, Malta, Cipro, Lituania, Estonia, ma altri – Norvegia, Israele, Portogallo – lo sono assai meno, e comunque sono anch’essi “paesi del mondo”.

Quanto al confronto con la Germania, è basato su un artificio, che sfrutta il fatto che in Germania il numero dei tamponi viene comunicato solo una volta la settimana. Il dato riportato nel comunicato di Arcuri non si riferisce al numero di tamponi della Germania ieri (27 aprile), ma al numero di tamponi comunicato dalla Germania l’ultima volta che ha aggiornato il dato, ovvero più o meno una settimana prima.

Se Italia e Germania vengono confrontate alla medesima data (19 aprile), è la Germania a fare più tamponi, non l’Italia (25.1 ogni mille abitanti la Germania, 22.4 l’Italia). Dunque non è vero che la Germania ne fa “il 20% in meno”, la realtà è che ne fa l’11.9% in più.

Questo per quanto riguarda le cifre nude e crude. Se però vogliamo fare una comparazione sensata, non è certo il numero di tamponi per abitante che dobbiamo confrontare. Per fare un confronto corretto fra due paesi si dovrebbe, come minimo, tenere conto della “anzianità epidemica” del paese. Le cifre da confrontare, in altre parole, non sono quelle dei tamponi totali per abitante, ma dei tamponi al giorno per abitante.

In Italia l’anzianità epidemica è circa il doppio che in Germania.  Se si tiene conto di questo fattore ci si rende conto che la Germania fa più del doppio dei tamponi dell’Italia. Per l’esattezza, fatto 100 il numero di tamponi giornalieri per abitante dell’Italia, la Germania ne fa 241.5.

Sottigliezze statistiche?

Per niente. Il fatto che gli esponenti del governo continuino a vantare un (inesistente) primato dell’Italia nel numero di tamponi è un chiaro segnale della volontà di non aumentarne troppo il numero. E’ come se dicessero: se già ne facciamo più di chiunque altro, perché voi giornalisti (e voi cittadini) continuate a infastidirci con questa faccenda dei tamponi?

Una scelta che, inevitabilmente, non potrà non appesantire il già drammatico bilancio dei morti.

Per un’analisi più sistematica leggi Tamponi. L’Italia ne fa di più degli altri paesi? pubblicato il 16 aprile 2010



Esuli pensieri. Un’agenda dell’epidemia

Esuli pensieri

Su l’uscio a rimirar
tra le rossastre nubi
stormi d’uccelli neri,
com’esuli pensieri,
nel vespero migrar 

(Giosuè Carducci, San Martino)

Un’agenda dell’epidemia

Era un po’ di tempo che avevo voglia di cominciare una specie di diario, una sorta di “agenda della crisi” che raccontasse questi giorni funestati dal Covid-19.

Un’agenda fatta di numeri e di analisi, perché maneggiare numeri è il mio mestiere. Ma un’agenda, anche, fatta di riflessioni e di pensieri, che il procedere della crisi continuamente sollecita. Li ho chiamati “esuli pensieri”, perché mi sento in esilio.

Ora ho sentito in Tv il discorso di Conte che annuncia la riapertura il 4 maggio, e non posso più rimandare. La mia agenda comincia da qui, dal discorso che ci è stato inflitto stasera.

E allora andiamo subito al sodo. Che cosa ha detto Conte?

Il succo è questo: Cari italiani, è giunto il momento di riaprire. Certo, riaprire già adesso comporta dei rischi, perché l’epidemia può ripartire in qualsiasi momento. Ma impedire al virus di tornare a circolare si può: dipende essenzialmente da voi, dal vostro senso di responsabilità. Se rispetterete le regole, l’epidemia si potrà tenere sotto controllo, se non le rispetterete l’epidemia ripartirà.

Eh no, caro presidente del Consiglio, questo non puoi proprio dirlo. Dire che l’epidemia potrebbe ripartire è già un inganno. L’epidemia è tuttora in corso, non c’è un solo indizio empirico che sia finita, quindi la prima cosa che dovevi dirci è che voi, politici, avete cambiato idea. Ci avete fatto credere che prima avremmo fermato l’epidemia, e poi avremmo riaperto. Invece ora ci dite che riaprite ad epidemia in corso, esponendo tutti noi a rischi drammatici.

Ma l’inganno più grande è scaricare su di noi, comuni cittadini, la responsabilità di impedire una nuova esplosione del contagio. Troppo comodo. Questo lo potreste dire se, in questi mesi, ci aveste messi in condizione di difenderci. Se, dopo settimane e settimane in cui siamo stati dimenticati nelle nostre case (o nelle nostre residenze per anziani), senza assistenza, senza mascherine, senza tamponi, ora foste in grado di dirci: state tranquilli, ora le mascherine ci sono per tutti, ora un tampone non ve lo negheremo più, ora i medici vi verranno a trovare a casa quando state male.

Invece su tutto questo non una parola, non un numero. Apprendiamo che verrà fissato un prezzo massimo per le mascherine, e si sprecano parole di fuoco contro la speculazione che fa lievitare i prezzi. Ma nemmeno Manzoni avete letto? Non lo sapete che, se gli speculatori prosperano, è perché voi non siete in grado di assicurare un approvvigionamento adeguato? Non vi vergognate a chiederci di mettere le mascherine, salvo coprirci con foulard, sciarpe e asciugamani se le mascherine non le troveremo?

Per non parlare dei tamponi, che avete negato e disincentivato in tutti i modi, nascondendovi – finché vi è stato possibile – dietro le direttive dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. E ora che l’OMS ha fatto macchina indietro, e invita a fare tamponi (“test, test, test”), perché continuate a farne così pochi? Non lo sapete che i paesi in cui la conta dei morti è meno drammatica sono quelli che hanno puntato sui tamponi di massa? Quanti dati, quante analisi, quanti grafici dobbiamo darvi per convincervi che le cose stanno così?

E i lavoratori cui chiedete di tornare al lavoro, “nella massima sicurezza”? Ci sarebbe piaciuto sentire qualche numero sui cosiddetti dispositivi di protezione individuale. Quanti ne occorrono, quanti sono attualmente disponibili, chi provvederà a fornirli alle imprese, chi si farà carico del costo.

E invece no. Anziché dare garanzie su questo, il governo si compiace di farci sapere che presto inonderà imprese e organizzazioni con dettagliatissimi “protocolli di sicurezza”, nel solito consueto stile degli apparati pubblici: io ti dico a quali norme devi attenerti, non mi preoccupo di metterti effettivamente in grado di rispettarle.

E allora, almeno una cosa lasciatecela dire. Avete deciso di ripartire, avete scelto di farlo senza che la macchina per il controllo dell’epidemia fosse pronta sui 4 versanti fondamentali delle mascherine, dei tamponi, del tracciamento dei contatti, dell’indagine campionaria sulla diffusione del virus. Ne avevate il potere, perché ve lo siete preso. Tutto potete fare, perché avete cancellato tutte le nostre libertà fondamentali.

Ma una cosa non potete farla, anche se ci proverete: dare a noi la colpa, quando l’epidemia rialzerà la testa.

 




L’azzardo della ripartenza

Sono stato facile profeta quando, una settimana fa, scrissi che ai primi di maggio la fase 2 sarebbe partita comunque, a prescindere dall’andamento dell’epidemia. E infatti così è: il mese di maggio sarà il mese della ripartenza. Più o meno modulata, più o meno differenziata, ma comunque ripartenza, allentamento delle misure restrittive, riapertura di molte fabbriche ed esercizi commerciali.
Può essere più o meno sbagliato, ma è inevitabile. La democrazia è sospesa, l’opinione pubblica preme, gli operatori economici scalpitano: impensabile che la politica non ne tenga conto.
Che poi tanti medici e tanti scienziati dicano che è pericoloso, poco importa. E nemmeno contano le parole del prof. Andrea Crisanti, probabilmente il nostro epidemiologo più esperto, quello che ha realizzato l’indagine su Vo’, ha scoperto l’enorme peso degli asintomatici, e fin da febbraio ha avvertito che occorreva chiudere, e chiudere subito: “tutti quelli che si affannano e spingono per riaprire non si rendono conto delle conseguenze a lungo termine; i rischi esistono perché c’è ancora tantissima trasmissione: tremila casi al giorno sono ancora molti, mica pochi”.
Che dire, dunque?
Forse semplicemente a che punto siamo, quel che sappiamo e quel che non sappiamo.
Soprattutto quel che non sappiamo, perché nessuno può pensare di governare un’epidemia senza i dati di base della situazione, e senza strumenti di monitoraggio ragionevolmente precisi.

Ignoranza 1. Non sappiamo quanti sono i contagiati, né quanti fra i contagiati sono tuttora contagiosi. E non lo sappiamo innanzitutto perché, nonostante fin da metà marzo vi fossero proposte di condurre un’indagine su un campione nazionale rappresentativo, e per quanto alla fine anche le autorità si fossero convinte della sua utilità, il pachiderma dell’apparato addetto all’indagine nazionale non ha ancora fornito un solo bit di informazione. Dunque, se vogliamo avere un’idea della diffusione del contagio siamo costretti a ricorrere a stime ultra-incerte, che viaggiano arditamente fra i 2 e i 12 milioni di persone.

Ignoranza 2. Non conosciamo neppure la diffusione territoriale relativa del contagio. Il dato meno inquinato di cui disponiamo è quello dei morti per Covid-19 in ogni regione. Ma da quando si è appreso che non solo il numero dei morti effettivo è molto superiore a quello ufficiale (da 2 a 4 volte), ma il numero oscuro dei morti nascosti è estremamente variabile da regione a regione, da provincia a provincia, da comune a comune, siamo costretti a concludere che la distribuzione territoriale del contagio potrebbe essere molto diversa da quella suggerita dai morti per abitante, e che i rischi per il Sud potrebbero essere sensibilmente maggiori di quel che si pensa basandosi sul numero di morti ufficiali (del numero di contagiati fornito dalla Protezione Civile non vale neppure la pena di parlare, tanta è la loro dipendenza dai tamponi effettuati in ogni territorio). E dire che, per saperne di più, basterebbe che le autorità, anziché trincerarsi dietro il paravento della privacy, si degnassero di comunicare il numero di morti comune per comune.

Ignoranza 3. Non sappiamo a che velocità viaggia effettivamente l’epidemia, nonostante vi siano esperti che presumono di conoscere il cosiddetto “numero riproduttivo” (ossia il numero di contagiati per persona) addirittura regione per regione.
Credo non a tutti sia chiaro che i numeri che quotidianamente ci vengono comunicati dalla Protezione civile non si riferiscono al “mare” dei contagiati, ma a un “laghetto” di pazienti intercettati dalle autorità sanitarie. Nessuno conosce esattamente le dimensioni relative del laghetto rispetto al mare, ma le stime più ottimistiche dicono che il mare potrebbe essere “solo” 10 o 20 volte più grande del laghetto, mentre le più pessimistiche (vedi la virologa Ilaria Capua) si spingono ad ipotizzare che possa essere 100 volte tanto (la stima della Fondazione Hume, che verrà pubblicata nei prossimi giorni, è che il mare sia circa 50 volte più grande del laghetto). Questo significa che, quando la sera ascoltiamo con trepidazione le cifre dei nuovi casi, quello di cui gli esperti ci stanno parlando è quel che succede nel laghetto che loro riescono ad osservare, mentre di quel che capita nel restante 90, 95 o 98% della realtà nulla di preciso è dato sapere.

Dobbiamo concludere che stiamo per ripartire, ma nulla sappiamo dell’epidemia?
Non esattamente. Sfortunatamente alcune cose, invece, le sappiamo eccome, e non sono cose che ci possano rassicurare.
Che cosa sappiamo?
Quasi tutto quel che sappiamo è legato ai decessi accertati. Rispetto ai casi, infatti, i decessi hanno molto minori possibilità di essere occultati. E’ vero, ci sono i decessi nascosti nelle residenze per anziani. E ci sono le persone lasciate a casa a morire perché nessuno è venuto a visitarle, o il numero verde non risponde, o il 118 non arriva, o una mail si è perduta nel labirinto della sanità moderna e digitalizzata. Ma, nonostante tutto ciò, resta il fatto che il numero di morti nascosti può essere 2 o 3 volte il numero di morti ufficiali, ma non 20, 30, o 100 volte, come avviene nel caso dei contagiati non diagnosticati. Il “mare” dei morti totali è più grande del “lago” dei morti accertati, ma non è immensamente più grande. Di qui un’importante conseguenza: se vogliamo avere un’idea dell’andamento dell’epidemia, l’evoluzione dei decessi è la migliore (o la meno inaccurata) fonte di informazione di cui disponiamo (anche le ospedalizzazioni sarebbero una buona fonte, se solo a Protezione Civile fornisse dati un po’ più analitici).
Ebbene, lavorando sui decessi, alcune cose possiamo dirle con ragionevole sicurezza. La prima è che, in base ai dati dell’ultima settimana, in almeno la metà delle regioni l’epidemia non dà chiari segni di arretramento, e in diversi casi è tuttora in espansione
La seconda è che, nel percorso di avvicinamento alla meta di “contagi zero”, siamo ancora molto indietro. E’ passato un mese esatto dal giorno in cui le morti raggiunsero il loro picco (919 in un giorno), ma da allora – dopo una sensibile riduzione nella prima settimana (da 919 a circa 600) – la diminuzione dei decessi è stata decisamente lenta. Negli ultimi giorni siamo a quota 400-500 morti al giorno, ossia esattamente a metà del cammino che ci separa dall’obiettivo di azzerarli. Il progresso tendenziale, in altre parole, nelle ultime 3 settimane è di circa 10 morti in meno al giorno: a questo ritmo, il numero di morti quotidiani si azzererebbe solo a metà giugno, e i contagi – presumibilmente – nell’ultima parte di maggio (i morti di oggi, infatti, sono la traccia di contagi avvenuti circa 3 settimane prima).
Ma la cosa più preoccupante che la contabilità dei decessi rivela è un’altra ancora: nel confronto internazionale l’Italia non solo risulta ai primissimi posti fra i paesi occidentali per gravità e precocità dell’epidemia, ma è anche fra i paesi in cui più lenta è la discesa dopo il picco del contagio e la messa in atto delle misure di contenimento. In Germania, Francia, Spagna, Stati Uniti, la curva di discesa dei decessi è molto più ripida che da noi (solo il Regno Unito, fra i grandi paesi, presenta un profilo simile al nostro).
Insomma, siamo ancora lontani dalla condizione che – fino a poco tempo fa – da tutti veniva considerata una pre-condizione ovvia e inderogabile dell’avvio della fase 2: che il numero di nuovi contagi sia prossimo a zero. Possiamo ugualmente sperare che, nonostante tutto, l’epidemia resterà sotto controllo?
Penso proprio di no. E questo non perché la cosa sia in linea di principio impossibile, ma perché – per riaprire evitando la ripartenza del contagio – occorrerebbe essere consapevoli che il mero fatto di moltiplicare il numero di persone che lavorano e si muovono sui trasporti pubblici non può non facilitare la trasmissione del contagio. Tale consapevolezza porterebbe, o meglio avrebbe già portato, a prendere tutte le contromisure che sono indispensabili per evitare che i nuovi i focolai tornino ad espandersi come hanno fatto tra febbraio e marzo. Fra tali misure vi sono indubbiamente le procedure di tracciamento (che da noi sono “allo studio”), l’indagine nazionale sulla diffusione (che partirà il 4 maggio, se va bene), ma soprattutto i tamponi di massa.
E’ questa la via che sta permettendo alla Germania (ma anche ad altri paesi: Austria, Danimarca, Norvegia, Portogallo, Canada) di limitare drasticamente il numero di morti. Ed è questa la via che, inspiegabilmente, noi non abbiamo voluto seguire, e continuiamo ostinatamente a non percorrere.
Non capisco perché. E non lo capisce uno sconsolato Andrea Crisanti, che grazie ai tamponi sta salvando il Veneto, ma non può salvare il resto del paese: “penso che ora la vera questione sia che non si è capito perché è così importante fare i tamponi. E non si è capito che fare i tamponi, e particolarmente farli a quelli che potenzialmente sono entrati in contatto con la persona infetta, abbatte la trasmissione”. Trasmissione il cui inevitabile aumento – strano doverlo sottolineare – è il nodo cruciale della fase 2.

Pubblicato su Il Messaggero del 26 aprile 2020




Morti COVID e numero oscuro: l’importanza della granularità

Abstract

È ormai convinzione pressoché unanime che il numero di decessi COVID-19 positivi sia ampiamente sottostimato. A partire dai dati sulla mortalità generale pubblicati dal SISMG e dall’ISTAT diversi studi hanno cercato di individuare dei moltiplicatori, coefficienti calcolati come il rapporto tra il numero di decessi in eccesso rispetto alla mortalità attesa e il numero di decessi COVID-19 positivi ufficialmente censiti. Grazie a un tweet di Giorgio Gori sappiamo che a Bergamo dal 1 marzo al 12 aprile a fronte di 626 decessi in eccesso rispetto alla media storica risultavano appena 272 decessi ufficialmente COVID-19 positivi. Se per Bergamo, al 12 aprile, è possibile affermare che il moltiplicatore è 2.3, per la maggior parte dei comuni italiani non è possibile fare un calcolo esatto.

Ovviamente è sempre possibile tentare delle stime, ma uno dei problemi principali è la mancanza di dati ufficiali dotati di un livello di dettaglio significativo: anche conoscendo la mortalità in eccesso rispetto alla media storica di un determinato comune non è possibile calcolare con sicurezza alcun moltiplicatore proprio perché il dato sui decessi ufficialmente COVID-19 positivi è generalmente disponibile soltanto come aggregato regionale.

Tra i tanti lavori sull’eccesso di mortalità meritano particolare attenzione quelli dei fisici Daniele Del Re e Paolo Meridiani. Analizzando alcuni dei loro risultati è possibile ad esempio ipotizzare che al 3 aprile i moltiplicatori di alcuni capoluoghi del Nord Italia (Milano 2.4, Torino 2.7, Genova 4.4) fossero significativamente inferiori rispetto a quelli di alcuni capoluoghi del Sud Italia (Messina 12.5, Bari 7.2, Palermo 6.8). Si tratta ovviamente di stime, per di più all’interno di intervalli di confidenza talvolta abbastanza ampi.

Scopo di questo articolo è evidenziare come la diffusa disponibilità di dati ufficiali meno aggregati rispetto a quelli della Protezione Civile possa contribuire a ridurre significativamente il margine di errore in cui ogni stima necessariamente incorre.

Introduzione

È ormai convinzione pressoché unanime che il numero di decessi ufficialmente positivi a COVID-19 sia ampiamente sottostimato. Il notevole incremento della mortalità generale registrato nelle zone più colpite dall’epidemia di COVID-19, rilevato inizialmente da inchieste indipendenti come quella condotta dal Sindaco di Nembro (BG), successivamente confermato in Italia dal SISMG ha recentemente trovato ulteriori riscontri grazie alla diffusione dei primi dati sulla mortalità generale rilasciati da ISTAT.

Diversi studi, per diversi scopi, hanno cercato di individuare dei moltiplicatori, coefficienti calcolati ad esempio come il rapporto tra il numero di decessi in eccesso rispetto alla mortalità attesa e il numero di decessi COVID-19 positivi comunicati dalla Protezione Civile[1]. Uno dei problemi principali è la mancanza di dati ufficiali dotati di un livello di dettaglio significativo: senza conoscere ad esempio quanti sono i decessi COVID-19 positivi nel comune di Milano, giorno per giorno, o almeno settima per settimana, risulta difficile stimare un ipotetico moltiplicatore per il comune di Milano. Giorgio Gori, sindaco di Bergamo, ha comunicato che nella città da lui amministrata “dal 1/3 al 12/4 sono deceduti 795 residenti, 626 più della media – nello stesso periodo – dei dieci anni precedenti. L’aumento è del 370%. I decessi ufficialmente ricondotti a Covid-19 sono stati 272, gli unici sottoposti a tampone”. Per il comune di Bergamo calcolando il rapporto tra i decessi in eccesso (626) e i decessi COVID-19 positivi (272) si ottiene il moltiplicatore è 2.3. E nel resto d’Italia? Come ragionevolmente rilevato da Andrea Gentile, Gianluca Dotti e Riccardo Saporiti su Wired, “la capacità del Sistema Sanitario di intercettare i malati di Covid-19 è cambiata nel tempo e non è omogenea nelle diverse aree geografiche” e quindi probabilmente il moltiplicatore non è né omogeneo sul territorio nazionale né costante nel tempo.

L’idea dei fisici Daniele Del Re e Paolo Meridiani è partire dal dato ufficiale dei decessi a livello regionale per stimare il numero di decessi ufficiali a livello provinciale, e a partire da quest’ultimo stimare il numero di decessi ufficialmente COVID-19 positivi a livello comunale o per la porzione di territorio interessata. Analizzando alcuni dei loro risultati è possibile calcolare i moltiplicatori come rapporto tra decessi COVID-19 stimati (calcolati a partire dalla mortalità in eccesso rilevata dal SISMG) e decessi COVID-19 ufficiali (ricavati a partire dai dati della Protezione Civile) e ipotizzare che al 3 aprile i moltiplicatori di alcuni capoluoghi del Nord Italia (Milano 2.4, Torino 2.7, Genova 4.4) fossero significativamente inferiori rispetto a quelli di alcuni capoluoghi del Sud Italia (ad esempio Messina 12.5, Bari 7.2, Palermo 6.8). Si tratta ovviamente di stime, per di più all’interno di intervalli di confidenza talvolta abbastanza ampi.

In questo documento viene preliminarmente illustrata una procedura per stimare il numero di decessi ufficialmente COVID-19 positivi a livello comunale che riprende l’idea generale proposta e collaudata da Del Re e Meridiani. Successivamente si evidenzia come la diffusa disponibilità di dati ufficiali meno aggregati rispetto a quelli della Protezione Civile possa contribuire a ridurre significativamente il margine di errore in cui ogni stima necessariamente incorre.

L’importanza della granularità

Per capire l’importanza della granularità dei dati – qui intesa come livello di dettaglio delle informazioni di pubblico dominio sull’esatto numero di decessi di positivi al COVID-19 – può essere conveniente partire dal pionieristico lavoro condotto da Sergio Cima su Scienza in Rete: confrontare giorno per giorno l’eccesso di mortalità registrato dal SISMG con il numero di decessi COVID-19 positivi registrato nella città di Brescia. L’esperimento di Cima è stato possibile soltanto perché l’ATS di Brescia  dirama quotidianamente un bollettino con il dato dei decessi giornalieri e questo bollettino viene ripreso da alcune tesate locali, tra cui Brescia Today.

Nella tabella seguente sono riportati il numero di decessi rilevati dal SISMG (dati ricavati dal quarto rapporto pubblicato il 17 aprile), la mortalità attesa (SISMG baseline), l’eccesso di mortalità rilevato (SISMG excess) e il numero di decessi positivi stimato a partire dai bollettini ATS Brescia. Dal momento che ATS Brescia non comunica l’età dei deceduti positivi, per consentire il confronto è necessario stimare il numero di decessi positivi appartenenti alla popolazione 65+ anni (Decessi 65+ positivi), calcolato per semplicità come meglio spiegato più avanti come il 90% del numero di decessi ufficialmente positivi. Viene infine mostrato il moltiplicatore calcolato come il rapporto tra l’eccesso di mortalità rilevato dal SISMG e il numero di decessi 65+ positivi stimato.

Purtroppo per la maggior parte dei comuni italiani il dato dei morti COVID-19 positivi non è disponibile. Una possibile soluzione è quindi stimare il numero di decessi a partire dai pochi dati resi quotidianamente disponibili per tutto il territorio nazionale dalla Protezione Civile: il numero di decessi a livello regionale e il numero totale di casi positivi a livello provinciale. Nei prossimi paragrafi viene presentata una procedura per la stima dei decessi comunali COVID-19 positivi, che ricalca il metodo adottato da Del Re e Meridiani. Sostanzialmente alla stima finale si arriva per gradi: prima si passa dal regionale al provinciale e quindi dal provinciale al comunale. Per confrontare le stime ottenute con i dati di mortalità rilevati dal SISMG si rende necessario un terzo passaggio, dal comunale al comunale ristretto alla popolazione 65+ anni.

Passo 1 – Dal regionale al provinciale

Ogni giorno, e quindi ogni settimana, il numero di decessi COVID-19 positivi provinciali è ovviamente una parte di quelli regionali, e ovviamente il numero di decessi di un giorno sono una parte dei casi  positivi rilevati nei giorni precedenti. In altri termini i decessi di oggi sono funzione dei casi attivi dei giorni precedenti, ammettendo di trascurare due categorie: le persone decedute il giorno stesso in cui vengono dichiarate positive e i deceduti a cui viene effettuato un tampone post mortem. Purtroppo il numero di casi attivi è un’informazione disponibile soltanto su base regionale, e comunque è risultata essere priva della dovuta precisione e attendibilità, come evidenziato da un’eccellente inchiesta di GIMBE e Youtrend.

Per stimare il numero di decessi provinciali si estrapolano dunque dai bollettini quotidiani diramati dalla Protezione Civile:
– il dato del totale decessi a livello regionale
– il dato del totale casi positivi a livello regionale
– il dato del totale casi positivi a livello provinciale per la provincia di interesse[2]

Su base settimanale si calcola quindi il rapporto tra i nuovi casi positivi registrati nella provincia di interesse e i nuovi casi positivi registrati in tutta la regione e tale rapporto viene utilizzato per stimare il numero di decessi della settimana successiva. Il rapporto tra nuovi casi positivi provinciali e nuovi casi positivi regionali della settimana X viene moltiplicato per il numero di decessi regionali della settimana X+1 per ottenere una stima del numero di decessi provinciali nella settimana X+1.

Assumere che i decessi di una certa settimana siano proporzionali ai nuovi casi positivi registrati nella settimana precedente è chiaramente una forte semplificazione ed è sicuramente possibile studiare criteri più raffinati e precisi. Si segnala ad esempio un interessante e approfondito studio di Francesco Furno che per altri scopi stima come trascorrano “cinque giorni in media tra il momento in cui viene diagnosticato il caso (e quindi venga conteggiato nei casi totali) e il momento in cui viene registrato il decesso”, evidenziando inoltre come questo dato presenti “significative differenze regionali”. In generale – parafrasando Gentile, Dotti e Saporiti – dal momento che la capacità del Sistema Sanitario di salvare la vita ai malati di Covid-19 è cambiata nel tempo e non è omogenea nelle diverse aree geografiche, potrebbe essere complicato individuare criteri precisi e validi continuamente nel tempo e ovunque nello spazio per stimare il numero di decessi provinciale a partire dal dato regionale.

Passo 2 – Dal provinciale al comunale

In assenza di dati migliori, una volta stimato il numero di decessi a livello provinciale è possibile attribuire ad ogni comune un numero di decessi proporzionale al numero di abitanti. Questa scelta è chiaramente un’approssimazione: così come passando dal livello regionale a quello provinciale è meglio tener conto del numero di casi positivi piuttosto che guardare al numero di abitanti, un discorso analogo potrebbe valere per il passaggio dal livello provinciale a quello comunale.

Effettuare il passaggio dalla provincia al comune utilizzando come criterio il numero di residenti potrebbe causare errori significativi in alcuni comuni. Si segnala tra tutti il caso di Roma: in base ai dati resi disponibili dal DEP-LAZIO a fronte del 66% dei residenti nella capitale rispetto al totale dei residenti della Provincia, risultano soltanto il 47% dei casi positivi provinciali (1732 positivi nel comune di Roma a fronte di 3665 positivi nella provincia di Roma, dato aggiornato al 15 aprile). Senza considerare altri fattori, sarebbe quindi lecito aspettarsi che il rapporto tra il numero di decessi nel Comune di Roma rispetto al numero di decessi in Provincia di Roma sia più vicino al 47% piuttosto che al 66%.

Passo 3 – Dal comunale alla popolazione 65+ anni

Partendo dalle informazioni disponibili nel “Report sulle caratteristiche dei pazienti deceduti positivi a COVID-19 in Italia” curato e aggiornato bisettimanalmente dall’ISS, si assume che il 90% dei decessi COVID-19 positivi abbia più di 65 anni. Si tratta di un’approssimazione semplificativa, anche perché questa percentuale potrebbe essere variabile nel tempo e disomogenea sul territorio nazionale.

Esempio di verifica della stima per il comune di Brescia

Nella seguente tabella si riportano i dati raccolti per la Regione Lombardia e la Provincia di Brescia che consentono di stimare il numero di decessi COVID-19 positivi comunali secondo la procedura precedentemente illustrata. Viene anche mostrato un confronto con i dati ufficiali forniti da ATS Brescia e calcolato l’errore come differenza tra la stima e i dati ufficiali.

Nella tabella seguente si propone un confronto tra il moltiplicatore calcolato a partire dai dati ufficiali di ATS Brescia e quello calcolato a partire dai dati stimati, indicati come stima classica.

Sebbene per la città di Brescia la stima classica possa ritenersi almeno complessivamente una buona approssimazione del dato ufficiale, per altri comuni l’approssimazione potrebbe risultare significativamente lontana dai dati reali. E sebbene per la maggior parte dei comuni non sia disponibile un’informazione dettagliata e precisa come nel caso di Brescia, va segnalato che esiste una diffusa disponibilità di dati oltre a quelli della Protezione Civile che rendono possibile migliorare la stima finale. Nei paragrafi seguenti vengono mostrati due esempi a tal proposito.

Migliorare la stima: Lombardia

Per la Lombardia è disponibile un dataset che contiene informazioni sul numero di decessi provinciali, curato e aggiornato grazie al prezioso lavoro di documentazione e analisi dal giornalista dell’Eco di Bergamo Isaia Invernizzi. Si ritiene in generale che la disponibilità di tali dati possa contribuire a migliorare significativamente la stima finale, e che la metodologia di seguito descritta possa ragionevolmente essere generalizzata a tutto il territorio lombardo.

Verifichiamo quindi come e quanto l’utilizzo del “dataset Invernizzi” consenta di migliorare la stima finale, sempre utilizzando come parametro di confronto il comune di Brescia per il quale si hanno a disposizione informazioni precise sul numero di decessi COVID-19 positivi.

Il dataset contiene al momento informazioni sul numero di decessi provinciali per sei giornate comprese tra il 14 marzo e il 14 aprile. A partire da questi punti fissati e attraverso una serie di interpolazioni è possibile costruire una curva che descriva l’andamento del numero totale di decessi provinciali negli intervalli di tempo compresi tra i giorni per cui è noto il numero totale di decessi. Il grafico seguente mostra una stima del numero di decessi totali di COVID-19 positivi per la provincia di Brescia ottenuta a partire dai punti fissi contenuti nel dataset.

Si precisa che tale curva ha un valore puramente descrittivo e non predittivo: se può essere utile per stimare il numero di decessi avvenuto tra il 14 marzo e il 14 aprile, non avrebbe molto senso utilizzarla per stimare il numero di decessi delle settimane a venire. Nella speranza che questo dataset continui ad essere aggiornato come lo è stato finora, si ritiene che la stima del numero di decessi provinciali COVID-19 positivi attraverso questi dati sia da preferire ad altre possibili tecniche di stima.

Nella tabella seguente la stima dei decessi settimanali della Provincia di Brescia calcolata utilizzando la procedura classica viene confrontata con quella ottenuta partendo dal dataset Invernizzi.

Per concludere si propone un confronto sulla stima del moltiplicatore, confrontando il moltiplicatore “esatto”, calcolato a partire dai dati di ATS Brescia e il moltiplicatore stimato, calcolato a partire dai dati presenti nel dataset di Invernizzi.

Migliorare la stima: Piemonte, Puglia, Emilia Romagna

Alcune Regioni (tra le altre Piemonte, Puglia, Emilia Romagna) forniscono quotidianamente il dato relativo al numero di decessi a livello provinciale. Si propone quindi per la Provincia di Torino un confronto tra la stima classica e il dato ufficiale.

Si evidenzia come la stima risulti complessivamente superiore ai dati ufficiali. Questo può essere legato al fatto che in Provincia di Torino l’età media dei casi positivi è inferiore rispetto alla media regionale[3]: a parità di casi positivi in Provincia di Torino si registra un numero inferiore di decessi rispetto alle altre province della regione.

Si ritiene che la disponibilità di informazioni ufficiali sul numero di decessi provinciali consenta di migliorare significativamente la stima finale, evitando le approssimazioni dovute al passaggio dal livello regionale a quello provinciale.

A proposito dell’importanza del livello di dettaglio dei dati va segnalato che proprio mentre veniva scritto questo articolo l’Associazione OnData “liberava” un database sui tamponi effettuati dalla Regione Lombardia. Una miniera di dati finalmente a disposizione di tutti.

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Note

[1] A scanso di equivoci si ritiene che non si possa che far corrispondere automaticamente il numero di morti in eccesso rispetto alla media storica con il numero “reale” di decessi COVID-19 positivi. Da un lato come evidenziato tra gli altri da Carra e Satolli su Scienza in Rete “è probabile infatti che anche altre malattie siano esitate in morte prima del tempo probabilmente anche a causa dell’intasamento dei pronto soccorso”. Dall’altro una parte dei decessi clinicamente correlabili al COVID-19 rientrano nella mortalità attesa. Se il Governatore della Liguria Toti probabilmente sbaglia quando afferma “escludo che ci siano morti di COVID-19 non censiti in Liguria”, ha almeno parzialmente ragione quando spiega che esistano “morti censiti come COVID-19 [che] probabilmente sarebbero morti ugualmente data la loro età”.

[2] Si segnala che quotidianamente una parte di casi positivi è privo di attribuzione provinciale (nei bollettini della Protezione Civile è indicato alla voce “Altro/In fase di verifica”): a voler essere precisi tale dato, soprattutto dove e quando appare significativo, andrebbe tenuto in considerazione.

[3] In base ai dati elaborati dal SEREMI (aggiornamento al 16 aprile) risulta ad esempio che in Provincia di Torino i contagiati con più di 40 anni siano l’82.5%, mentre ad Alessandria siano il 90.2%.