Non ci resta che il tampone

Ultimamente siamo tutti quanti presi da uno spasmodico, smodato e paradossale desiderio di tampone.

Non siamo diventati di colpo stupidi o masochisti: è che il tampone è l’unica cosa che ci resta, il solo desiderio che abbia, in questa desolazione, una qualche chance di essere esaudito. Nel nostro immaginario, è diventato la manna che scende nel deserto. Il salvagente lanciato al naufrago. L’oracolo che ci dà un responso. L’amico immaginario.

È anche, bisogna dirlo meno poeticamente, il nostro scarica-coscienza. Lo è stato soprattutto quando siamo tornati dalle vacanze e, dopo bagordi, discoteche, cene, aperitivi, feste affollate, molti di noi, quelli che si erano sfrenati di più, si sono precipitati a farsi un tampone: per togliersi il pensiero, e magari andare più sereni ad altre feste. Da settembre in poi il tampone è diventato l’acqua che lava via i peccati, il gesto che ci libera dai sensi di colpa. Tampone-lavacro, tampone-panacea.

Ma ora è di più: il tampone è l’unica cosa che il cittadino ha a disposizione (seppur con enormi difficoltà) per sapere almeno se si è preso il virus o no, in uno Stato che si nega, si nasconde, fa pasticci, confonde, non risolve, non appronta nulla, non ci difende, non ci protegge!

Dove il potere abdica, regna il tampone.

Con enormi difficoltà, però! Difficilissimo avere il dono di un tampone. L’oracolo di Delfi era di gran lunga più accessibile, meno affollato: forse più oscuro, ma sicuramente più disponibile. L’immagine più dolorosa, drammatica, devastante di questi giorni, quella che non mi tolgo dagli occhi, è la gente in coda nella notte, in auto o a piedi, dalle quattro di mattina. Gente che accompagna i suoi bambini, i suoi anziani, magari febbricitanti. Scene intollerabili che non dimenticheremo.

L’aspetto per me più stupefacente è la pazienza. L’infinita sopportazione, venata di rassegnazione. La gente intervistata nella notte, chiusa nella propria auto, non si lamenta, non protesta. Non lancia sassi, non divelle alberi, non incendia palazzi, dice soltanto: Eh sì, sono qui da 7 ore, dormo un po’, mi sono portato da leggere, aspetto, e spero di arrivare a farmelo, il tampone, che mi prendano ancora, che non chiudano, altrimenti dovrò tornare domani.

Come hanno potuto i nostri governanti assistere impassibili a questo supplizio senza vergognarsi? E come abbiamo potuto noi essere così pazienti, e indulgenti?

Ma il tampone è soprattutto ciò che “tampona” la ferita più grande, che sostituisce il Grande Assente, colui che ora più che mai ci manca: il nostro medico curante. La corsa ai tamponi è la risposta, patetica, alla latitanza dei nostri medici. Latitanza non colpevole, intendiamoci, non voluta, anch’essa in qualche modo imposta: il medico di base non può visitarci e non può curarci. Noi lo chiamiamo, gli elenchiamo i sintomi al telefono, e lui ci dice che né potremo noi andare da lui in ambulatorio, né potrà lui venire a visitare noi. Logico, correrebbe il rischio di infettarsi e di infettare tutti i pazienti successivi; si dovrebbe proteggere, ma non gli è stato fornito nessun mezzo di protezione. Quindi ci dice gentilmente di prendere una tachipirina e di aspettare; oppure, se ritiene che i sintomi siano chiari, trasmette una segnalazione alla ASL.

Cioè, ci abbandona! Il nostro medico amato, il medico che ci cura da trent’anni, che conosce ogni nostro minimo acciacco, che è corso al nostro capezzale a ogni nostra febbre o mal di pancia, ora non può che negarsi e abbandonarci: trasmette la segnalazione all’Asl! Aiuto, nulla potrebbe farci più orrore, nulla gettarci di più nello sconforto totale! Di colpo, al suono ASL, abbiamo la percezione netta del tritacarne burocratico in cui finiremo, noi e i nostri poveri sintomi, semplici nomi buttati nella rete, dispersi, maciullati… Di colpo ci sentiamo soli. Forse malati, e irrimediabilmente soli. Perduti nel vuoto.

Mi viene in mente Major Tom. La splendida e tragica canzone di David Bowie dove l’astronauta si perde nello spazio, vi ricordate? Ground Control to Major Tom… Can you hear me, Major Tom…? No, nessuno ci ascolta. La nostra astronave è rotta e non sa da che parte andare. Questa insensata corsa al tampone è il segno della confusione e solitudine in cui ci hanno lasciati. Noi andiamo dal tampone perché è l’unica entità esistente da cui andare! È “lui” il nostro nuovo medico. Un medico impalpabile e impotente, un medico che non ci cura e non si cura di noi. Ma almeno ci solleva l’anima per un po’, ci placa l’ansia.

C’è qualcosa di sinistramente assurdo in tutto ciò, qualcosa di (inconsapevolmente?) perverso e anche un po’ sadico. Possibile che, proprio in epoca di pandemia, la gente perda i suoi medici?

Per questo adesso siamo tutti idealmente dentro quelle auto in coda. Uniti, partecipi, addolorati, sconcertati: siamo lì in piena notte, pieni di freddo e ansia, preoccupati e confusi. In fila al buio per ore.

È l’abbandono, che più ci tormenta. L’essere lasciati in un mare immenso carico di nubi tempestose, senza nemmeno il miraggio di una barchetta, le luci di un elicottero che si avvicina, una corda che ci viene lanciata, una torcia, una coperta di lana…

La legge del mare impone di salvare i naufraghi. Quale legge salverà noi, naufraghi nel mare dell’inefficienza e della cieca, impietosa disorganizzazione?

Pubblicato su La Stampa del 27 ottobre 2020




COVID-19: prevenire e vigilare in famiglia

La pandemia ha mostrato che il diritto alla tutela della salute dipende dal rispetto di ciascuno per la salute di tutti e in concreto dai comportamenti individuali i cui effetti vengono amplificati dalla interazione con quelli degli altri. Forse mai come in tempi di pandemia diventa evidente che il benessere di ciascuno è al tempo stesso reso possibile e condizionato dalla cura di quello altrui.

Ci siamo così persuasi che l’obbligo della mascherina e del distanziamento fisico sono restrizioni delle libertà individuali necessarie, tanto più efficaci quando rappresentano autolimitazioni volontarie di responsabilità civile a tutela della salute di tutti.

La paura, l’angoscia ed il sospetto, d’altro canto, hanno mostrato quanto possa essere messa a dura prova la solidarietà familiare e intergenerazionale nel momento in cui la famiglia è indicata come il luogo a più alta densità di relazioni e dove maggiori sono i rischi di trasmissione del contagio.

Di fatto ciascun membro porta in famiglia tutti i rischi delle sue relazioni ed è inevitabile che questi vengano amplificati dalle maggiori vicinanza e condivisione della vita familiare. Si sta insieme, si usano le stesse stoviglie e gli stessi sanitari, si respira la stessa aria.

Soprattutto nella famiglia, mentre ciascun membro è un potenziale portatore e diffusore, interdipendenza e reciprocità possono divenire moltiplicatori e detonatori imprevedibili dei rischi e della malattia. Soprattutto nella famiglia, d’altro canto, è difficile osservare le precauzioni che si possono applicare all’esterno, come la mascherina, il distanziamento (come rispettarlo se si è in più di tre in una casa di 60 mq?) o lavarsi le mani (quante volte?).

Ma è proprio ineluttabile guardare alla famiglia come ad un potenziale focolaio, piuttosto che ritrovare in essa il focolare di accoglienza, attenzione e cura reciproca che si è sempre desiderato?

In realtà credo che la famiglia potrebbe e dovrebbe svolgere un ruolo centrale in qualsiasi strategia di prevenzione e controllo dei disagi da COVID-19.

La famiglia (quella ristretta), infatti, potrebbe rappresentare un presidio di protezione e di vigilanza se i suoi membri venissero aiutati ad avere una percezione corretta del rischio e a contrastare con maggiore efficacia il contagio.

Per questo mi parrebbe opportuno che ciascun membro, periodicamente e in alternanza con gli altri membri del suo stesso nucleo famigliare, si sottoponesse ad un test/tampone in grado di escluderne la positività. Se ne ho capito le proprietà credo che sarebbe sufficiente un test antigenico. Se in una famiglia di quattro membri ciascun membro si sottoponesse al test una volta al mese, cosi che venisse fatto un tampone a settimana per nucleo famigliare, la famiglia potrebbe disporre di un sistema-sentinella di vigilanza non del tutto sicuro, ma comunque tale da assicurare un tempestivo intervento nel caso di esito al test positivo. Non disporremmo di una diagnosi ottimale, ma moltiplicata per il numero dei membri della famiglia, sufficientemente buona per estendere il test e alzare la guardia.

Il quadro che prospetto, evidentemente, è del tutto ipotetico e sarebbe raccomandabile se fossimo in grado di stimare:

a) in quale grado la diagnosi di positività a livello individuale è un indicatore della vulnerabilità del nucleo familiare e quindi della probabilità di estensione del contagio agli altri membri;

b) i tempi e la rapidità della trasmissione familiare e quindi i periodi di maggior rischio di contagio e gli intervalli ottimali per l’esecuzione dei test.

Il costo del test “rapido” in laboratori privati sarebbe oggi di 88 euro (22 x 4). Non poco per tutti e inaccessibile per molti. Se si impegnasse un maggior numero di laboratori di analisi privati i costi potrebbero essere molto più economici e la platea di fruitori molto più ampia.

I vantaggi potrebbero essere notevoli in termini di: prevenzione, educazione della cittadinanza alla tutela della salute, tempestività della diagnosi, alleggerimento della pressione diagnostica sulle strutture ospedaliere.

L’efficacia della diagnostica familiare potrebbe avere un valore aggiunto sul piano preventivo ed epidemiologico se i casi accertati di positività col test antigenico venissero tempestivamente sottoposti a convalida con tampone molecolare. Permetterebbe inoltre di approfondire le nostre conoscenze sulla trasmissione del virus a livello familiare da e tra soggetti sintomatici e asintomatici, più o meno vulnerabili e tra generazioni.

Non si dovrebbero tuttavia sottovalutare i rischi di esiti imprevisti ed indesiderabili.

È verosimile che la diagnostica familiare porterebbe alla luce prima e in misura maggiore casi (asintomatici) che resterebbero altrimenti sconosciuti. Sarebbe perciò necessario assicurare che, dove venisse diagnosticato un caso positivo, anche tutti gli altri membri dello stesso nucleo familiare venissero tempestivamente sottoposti a tampone e quindi messi nella condizione di evitare di contagiare altri senza saperlo.

Verosimilmente ne risulterebbe un sostanziale incremento della richiesta di tamponi molecolari che potrebbe rappresentare un ulteriore stress per sistemi sanitari non preparati e già gravemente provati.

Poiché sarebbe disastroso se le attese delle famiglie non venissero prontamente corrisposte, nuovamente si riproporrebbe il dilemma se dire e fare o piuttosto non dire e non fare sperando in bene.

Fatti i debiti calcoli (vedi sopra a, b) ritengo che sia sempre meglio affrontare i rischi che la conoscenza dei fatti comporta.

Sono infine convinto che un cambiamento di prospettiva sia necessario per quanto concerne i destinatari della comunicazione e gli attori delle strategie di prevenzione e intervento. La famiglia, come e al di là dei singoli individui, potrebbe e dovrebbe assumere un ruolo centrale.




Non ci resta che Draghi. Intervista a Luca Ricolfi

Lei ha preso l’iniziativa di lanciare un Manifesto di idee per affrontare la crisi. Quali gli errori principali del governo?
Nella nostra petizione (promossa dalla Fondazione Hume e da Lettera 150), di errori – ma sarebbe meglio chiamarli “omissioni catastrofiche” – ne indichiamo ben 10. A mio parere le omissioni più gravide di conseguenze sono tre: non avere messo i medici di base in condizione di visitare i malati Covid e di curare i paucisintomatici (è per questo che ora gli ospedali scoppiano); aver ignorato tutte le richieste di portare il numero di tamponi per abitante a livelli europei, e cestinato il piano del prof. Crisanti per arrivare a 3-400 mila al giorno; avere respinto le proposte del Comitato Tecnico-Scientifico sui mezzi pubblici (capienza al 50%).

Quali le soluzioni? 
Le soluzioni semplicemente non esistono, perché l’infarto subito dall’Italia è irrecuperabile. Tutto quel che si può fare è provare a limitare i danni, ma questo richiederebbe una completa inversione di rotta, e quindi un’altra linea di comando.

Come sta andando la raccolta delle firme alla petizione?
Sorprendentemente bene. Pare che il tam-tam sta funzionando in modo eccellente: hanno aderito già più di 10 mila persone. A me ha fatto particolarmente piacere la firma di Carlo Calenda, che è uno dei pochissimi politici italiani con capacità gestionali.

Perché questa attenzione alle capacità gestionali?
Perché è questa la cosa che più è mancata in questi tragici 9 mesi: siamo governati da una casta di goffi affabulatori, privi di qualsiasi concretezza, e sostanzialmente ignari di come funziona la macchina della Pubblica Amministrazione. Alla mentalità giuridica sfugge il punto cruciale: un provvedimento è come una epistola, non basta imbucarla se poi il postino non la consegna.

Un governo che lei giudica inadeguato, poco attento ai dati?
Più che poco attento a dati, del tutto incapace di leggerli. Non ci vuole una mente superiore per capire i meccanismi di un’epidemia, ma un po’ di umiltà e di formazione scientifica è sicuramente necessaria, perché le leggi fondamentali di un’epidemia sono contro-intuitive. Se usi il senso comune, vai a sbattere.

Mi fa un esempio?
Quando l’epidemia rialza la testa, cosa di cui 3 settimane fa si sono accorti persino i politici, l’idea di stare a vedere come evolve la curva epidemica, prima di passare a un lockdown severo, pare a tutti di buon senso. In realtà è catastrofica per l’economia (oltreché per la salute), perché ogni settimana perduta comporta un allungamento della durata del futuro lockdown, che prima o poi si finirà per adottare. E’ un’ovvietà per matematici, fisici, ingegneri, statistici, ma i politici non riescono né a comprenderla né ad accettarla, perché il loro orizzonte è la settimana, e la loro bussola è il consenso a breve.
La cosa incredibile è che l’errore di ritardare il lockdown, già compiuto fra febbraio e marzo (quando Sala, Zingaretti e pure Salvini si battevano per la riapertura), è stato ripetuto tale e quale in queste settimane.
A ben pensarci è drammatico, ma non illogico. Conte ha sempre dichiarato “rifarei tutto”, ed è stato di parola: oggi ripete l’errore di ieri. Tale e quale.
Peccato che il risultato netto sarà: migliaia di morti in più, decine di miliardi di Pil in meno.

Lei accusa chi governa di [dare] scarso peso ai tecnici del Cts, troppo spesso inascoltato?
In realtà io penso che il Cts abbia due limiti per così dire costitutivi: i suoi membri sono manager e burocrati dell’establishment sanitario, non certo i migliori scienziati presenti nel campo della ricerca; non è un organismo indipendente, ma è una sorta di circolo di consiglieri del Principe, naturalmente inclini ad assecondare il Principe stesso.
Nonostante questi limiti strutturali, il Cts su alcune materie e su alcune decisioni ha avuto il coraggio di formulare proposte molto giuste: ad esempio, chiudere tempestivamente Nembro e Alzano, o dimezzare la capacità di carico dei mezzi pubblici. Il problema è che, arrivati al dunque, i suoi membri hanno assecondato e legittimato le scelte del Governo, con le drammatiche conseguenze che poi si sono viste: l’altezza della prima ondata, ma soprattutto della seconda, è dipesa anche dalla sordità del governo alle raccomandazioni del Comitato Tecnico-Scientifico.

Tra i vulnus più gravi, la commistione tra mondo sanitario e politica?
Sì, quella commistione non aiuta. Ma secondo me c’è anche tantissima incompetenza, superficialità e imprudenza in entrambi. Detto brutalmente: la commistione sanità-politica è sempre dannosa, ma lo diventa ancora di più se i tecnici sono timidi, e i politici non hanno né capacità gestionali, né competenze scientifiche.

Quali scenari prevede per il dopo crisi?
Scenario A (molto probabile). Conte continua a governare a colpi di dpcm, verso metà dicembre ci riapre un po’ per farci “trascorrere un Natale sereno”, nelle feste natalizie bagordiamo in famiglia e ci reinfettiamo, a gennaio-febbraio arriva la terza ondata. E via così: stop and go fino a che il generale estate (o il vaccino?) ci ridà un po’ di pace.
Scenario B (molto improbabile). Il presidente della Repubblica si rende conto che le dimensioni della catastrofe economico-sanitaria che sta travolgendo il Paese dipendono in misura non trascurabile dalle omissioni e dai ritardi del governo, telefona a Mario Draghi, e promuove la formazione di un esecutivo di salvezza nazionale. L’Italia, lentamente ma meno divisa, si incammina su un impervio sentiero di ricostruzione.

Stiamo derogando alla Costituzione, cedendo libertà personali. La crisi ci cambierà per sempre? 
Vuole una risposta sincera? Non lo so. Tendo a pensare che, più che senza le nostre libertà, da tempo compromesse da un apparato burocratico soffocante, ci ritroveremo senza il nostro benessere. La “società signorile di massa”, che ho descritto nel mio ultimo libro, dopo il Covid non ci sarà più.

L’arroganza dei politici di sinistra è sempre stata nel suo mirino. Questo governo è arrogante, o è solo, come si dice, arrivato impreparato? 
Non è “arrivato” impreparato. E’ strutturalmente impreparato perché (con le dovute eccezioni) i suoi membri non sono selezionati in base alla competenza ma in base alla fedeltà di partito. Una pratica che era già dannosa ieri, ma è divenuta dannosissima oggi che il livello culturale del ceto politico si è notevolmente abbassato, come del resto quello del resto della popolazione. Se combinate insieme, incompetenza e arroganza formano un cocktail esplosivo.

Arroganza e ignoranza dietro ai Dpcm che regolano le nostre vite. Qual è il profilo del premier Conte? 
Conte non è arrogante. E’ solo un po’ vanesio, e tremendamente privo di senso della realtà. Se fosse una persona psicologicamente normale, non dico che sarebbe arrivato al punto di chiedere scusa, ma almeno avrebbe ammesso qualche errore. E noi avremmo guadagnato un minimo di serenità: se il capitano ammette che ha sbagliato la virata, abbiamo qualche speranza che alla prossima raffica di vento non faccia scuffiare l’imbarcazione.

In “Perché siamo antipatici” descriveva il senso di superiorità del centrosinistra. E’ ancora così? 
Un po’ sì, come si vede dalla totale incapacità di gestire il problema dei migranti in modo non ideologico. Però tra la gente il sentimento verso l’establishment progressista mi pare cambiato: conosco poche persone orgogliose di votare per questa sinistra.

Ma questo governo, pur impreparato e inadeguato come dice, si tiene in piedi grazie alle posizioni estreme di Salvini e Meloni, che sono l’autentica assicurazione sulla vita dei giallorossi. 
Distinguerei. Le posizioni di Salvini più che estreme sono rozze, schematiche, semplicistiche. Quelle di Giorgia Meloni sono molto più articolate, e non di rado tutt’altro che irragionevoli: è lei il centro del centro-destra. Però è vero, entrambi finiscono per tenere in piedi il governo.

Perché?
Per due motivi, a mio parere. Il primo è che il loro obiettivo primario non è salvare l’Italia ora e subito, ma è andare al voto, per salvarla dopo, quando comanderanno loro (una follia: quando ci lasceranno votare l’Italia sarà un campo di macerie, fatto di povertà e nuove diseguaglianze).
Il secondo motivo è che, sulla gestione dell’epidemia, la destra, pur facendo alcune proposte sensate, complessivamente ha dato un’immagine ancora più imprudente e “aperturista” di quella del governo. Oggi, fra le forze politiche, nessuna ha le carte pienamente in regola per criticare il governo. Meno che mai un centro-destra che, con il suo lider maximo, ha avuto sbandate “riduzioniste” indifendibili e imperdonabili. La verità è che, durante questi 9 mesi, in Italia un “partito della prudenza” non è mai esistito, e dunque non esiste oggi una forza politica che abbia tutte le carte in regola per criticare l’esecutivo.

La crisi economica e le incertezze spingono verso un consenso elettorale più conservatore, più reazionario?
Non userei queste categorie, perché l’Italia dei prossimi anni sarà completamente diversa. Saremo quasi tutti “reazionari”, perché tutti – ciascuno a modo proprio – finiremo per rimpiangere la “società signorile di massa” che il Covid ha sgretolato.

Lei teorizza l’affermazione della società parassita di massa, fondata sull’erogazione di sussidi. Non è che si possono moltiplicare i sussidi sine die… 
Sì, i soldi finiranno. Anzi sono già finiti, con un extra-deficit che supera i 100 miliardi. Ma a un certo punto, più che l’Europa, saranno i mercati finanziari a presentare il conto.

So che lei se ne occupa con la Fondazione David Hume.
Sì, studiamo la vulnerabilità dei conti pubblici delle economie avanzate. E i nostri calcoli suggeriscono che, finito lo stato di eccezione del Covid, i tassi di interesse sui titoli pubblici potrebbero salire pericolosamente, con rischio di un default o di commissariamento dell’Italia.

L’Europa prima o poi si sveglierà e ci chiederà conto del debito, a fronte dell’insussistenza di riforme strutturali?
L’Europa non avrà bisogno di chiederci nulla, perché prima lo faranno i mercati.

Nello scenario nazionale si fatica a individuare una guida carismatica. C’è un problema di leadership politica?
Guardi, se io avessi il potere di scegliere un esecutivo non saprei indicarle un solo leader politico all’altezza, ossia competente & carismatico.
Insomma: non ci resta che Draghi. E glielo dice, a malincuore, uno che non ha mai amato i governi tecnici.

 

Intervista rilasciata il 6 novembre a “Il Riformista”, versione integrale




I partiti italiani: cenni costituzionali e breve storia dal dopoguerra alla seconda Repubblica

Nell’era dell’antipolitica mi sono chiesto in che misura i movimenti presenti in parlamento possano ancora essere definiti partiti, nel senso in cui lo erano i partiti tradizionali della prima Repubblica. Mi sono poi anche chiesto quali siano di destra e quali di sinistra, sempre che le categorie in questione abbiano conservato un proprio significato, ossia se ai termini “destra” e “sinistra” corrisponde ancora un minimo comune denominatore in termini o di uniformità ideologica o quanto meno di interessi e categorie sociali di riferimento. Per rispondere alla prima domanda è occorre definire il quadro costituzionale dell’attività dei partiti, dal momento che è proprio dalla definizione che la carta fondamentale dà di queste organizzazioni che consente di verificare se anche i movimenti politici di oggi rientrano della nozione giuridica di partito.

L’art. 49 della Costituzione, contenuto nel titolo relativo ai rapporti politici, dispone che “tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Si tratta di una norma che, nella carta fondamentale, si trova collocata dopo quella sul suffragio universale e sul il diritto/dovere di voto dei cittadini.

Il fatto che l’articolo 49 Cost. parli di partiti come “libere associazioni” di cittadini ci dice intanto che un partito, per essere tale, deve essere espressione di autonomia e, dunque, della libertà di chi sceglie di aderirvi. In Italia non può esistere alcun “partito di stato”. Questo significa che il nostro ordinamento prevede una distinzione tra l’attività politica in seno alle istituzioni (anche rappresentative), che resta soggetta a regole e vincoli di garanzia, e la dinamica politica sociale in cui invece vale il principio di piena libertà.

La preoccupazione dei costituenti era duplice: da un canto volevano evitare che i partiti politici potessero restare soggetti a qualunque forma di controllo da parte dei poteri pubblici e, per altro verso, intendevano scongiurare il rischio della costituzione di partiti-organo come il vecchio PNF (ma anche ai comitati direttivi dei partiti comunisti sovietico e cinese): partiti-organo in cui – di fatto – viene decisa la linea politica dello stato del tutto al di fuori delle procedure e garanzie previste per l’attività politica istituzionale, di guisa che le istituzioni finiscono per assumere un ruolo di mera ratifica formale. Si badi bene, tuttavia: anche ora in via di fatto avviene così (è noto che le segreterie di partito si accordano prima sulla linea di governo e di opposizione e anche sui singoli provvedimenti), ma la differenza essenziale rispetto al sistema dei partiti-organo è che comunque si tratta di attività che resta confinata nella sfera della libertà dei singoli partiti, mentre le decisioni con valore vincolante sono esclusivamente quelle che traducono gli accordi politici in atti formali delle istituzioni politiche adottati con le previste procedure.

Sempre secondo l’art. 49 Cost., la funzione costituzionale del partito – dunque la funzione che consente di definirlo come tale nel nostro ordinamento – è di concorrere a determinare la politica nazionale. Il partito ha insomma funzione di mediatore politico tra cittadini e istituzioni di rappresentanza politica, nel senso che il suo compito costituzionale è di raccogliere e organizzare il consenso popolare consentendo che si traduca in una rappresentanza parlamentare articolata in gruppi omogenei sotto il profilo ideologico e/o programmatico. Questa funzione deve però, secondo la carta fondamentale, essere esercitata dai partiti “con metodo democratico”, dunque appunto tramite la rappresentanza elettorale a suffragio universale. Il che significa che può essere considerata “partito” qualunque associazione privata tra cittadini costituita con lo scopo di presentare candidati ad elezioni sulla base di un programma politico. In sintesi, dunque, partiti per la costituzione sono organi non istituzionali di rappresentanza politica. E’ proprio il fatto di organizzare – al di fuori delle istituzioni – il consenso dei cittadini a fini politici per presentarsi alle elezioni che consente dunque di distinguere i partiti da altri movimenti – ad esempio di opinione, culturali o sindacali – che pure hanno struttura collettiva e volontaria nonché, almeno in parte, oggetto o scopo politico.

Questo significa che un qualunque ente che riunisce una pluralità di persone, che è regolato dall’autonomia privata degli aderenti e che si prefigge di presentare delle candidature ad una qualunque elezione sulla base di un programma o di una serie di principi di azione politica può “giuridicamente” essere ritenuto partito. In questo senso, si deve allora concludere che tutti i movimenti attualmente presenti in parlamento, così come quelli esclusi che avevano partecipato (o si prefiggono di partecipare) ad elezioni politiche o amministrative, possono essere considerati altrettanti partiti politici.

Il primo novecento

Smarcata la questione giuridica, resta da capire ancora in che misura – politicamente parlando – i partiti di oggi sono assimilabili a quelli della prima repubblica e se ha ancora senso parlare di destra e sinistra. Per rispondere a simili interrogativi è tuttavia necessario fare un po’ di storia – seppure soltanto a spanne – della politica nazionale degli ultimi decenni. A questa breve ricostruzione storica sarà dunque dedicata la prima parte di questo scritto per la fondazione Hume, laddove la seconda parte (che verrà pubblicata nei prossimi mesi sempre sul sito della fondazione) cercherà – proprio sulla base dei risultati della prima – di tirare le fila del ragionamento stodico in modo da fotografare il presente dei movimenti che animano la politica nazionale contemporanea, tentando una sintesi sui rispettivi orientamenti politici di fondo.

Partiamo dalla storia, dunque, e anche da piuttosto lontano, per segnalare che in epoca pre-novecentesca i partiti esercitavano più o meno tutti quanti una funzione politica che potremmo definire “discendente”, nel senso che si presentavano come interpreti e attuatori di differenti ideologie contrapposte (o, come va di moda dire oggi, di “grandi narrazioni”) che esistevano prima e al di fuori dei partiti stessi. I partiti dunque traducevano in prassi i fondamenti dei sistemi ideologici cui si ispiravano: i socialismi intendevano tradurre in prassi i principi del marxismo, mentre le destre storiche facevano la stessa cosa col liberalismo. L’ideologia cui si ispiravano i diversi partiti consentiva anche di individuare piuttosto facilmente gli interessi e le categorie che intendevano rispettivamente promuovere (o, secondo i marxisti, per converso erano gli interessi di classe che i partiti tutelavano a consentire di definirne l’ideologia): fatto sta che i partiti della sinistra storica esprimevano e tutelavano in via di principio gli interessi dei proletari (identificati grosso modo con i lavoratori dipendenti di basso reddito, che erano la grande maggioranza) mentre quelli della destra storica si occupava degli interessi della borghesia (identificata con i proprietari terrieri e con la grande borghesia proprietaria mezzi produttivi e finanziari, ma anche con la piccola borghesia di commercianti e artigiani). Si trattava di un mondo politico vagamente manicheo e, dunque, tutto sommato facile da decifrare.

La prima vera crisi del modello avviene col fascismo, che – tentando, con Gentile, di tradurre in prassi politica alcune teorie di Hegel – mirava a superare tanto la tradizionale dialettica parlamentare quanto quella classista dei marxisti, proponendosi di cercare, a livello di partito unico, la sintesi degli interessi di tutte le categorie sociali. Nell’era del fascismo maturo (parliamo dunque della fase post-squadrista, ossia di quella del partito-stato e del sistema corporativo) il PNF (ovviamente partito unico) si trasforma in una sorta di meta-istituzione dello stato, rendendo superflua la dialettica politica parlamentare fondata sul voto a maggioranza, per cercare la sintesi politica (dialettica, appunto) sul terreno del confronto “puro” di interessi delle varie categorie economiche e sociali all’interno del partito stesso, alla luce del comune e superiore interesse dello stato italiano, inteso come collettività e tradizione nazionale, di cui il PNF intendeva farsi garante.

Questo spiega la singolare situazione di un partito unico che, alla stregua di una istituzione pubblica, tutto governa, ma che è tutt’altro che ideologicamente unitario: il partito nazionale fascista, ancora in pieno ventennio, era infatti notoriamente diviso in correnti – che facevano capo a gerarchi spesso in aspro conflitto tra loro – che si ponevano come espressione di interessi e gruppi sociali differenti e a volte confliggenti (dei lavoratori, delle grandi imprese, dei diseredati del primo conflitto mondiale, dei monarchici, di una parte del mondo cattolico etc. etc..) con il capo partito, Mussolini, che per quanto dinanzi al popolo il ruolo assumesse il ruolo di decisore ultimo, all’interno del partito-stato sostanzialmente esercitava una funzione di mediazione e garanzia delle varie “anime” del partito. Solo in questo modo si spiega il fatto, piuttosto inusuale in un regime totalitario, che il dittatore sia stato destituito dal ruolo di capo del governo niente meno da una votazione a maggioranza del gran consiglio del fascismo, dunque – in sostanza – dai vertici dello stesso partito fascista di avrebbe dovuto essere il capo indiscusso.

Il dopoguerra e la prima repubblica

Finita l’era fascista, con la costituzione del ’48 si ritorna al tradizionale modello di confronto in sede parlamentare tra una pluralità di partiti “ideologicamente” ispirati a diverse visioni di mondo. La peculiarità dello scenario politico postbellico è tuttavia rappresentato dall’affermazione di un “nuovo” soggetto politico tanto inafferrabile secondo le categorie tradizionali (ossia quelle di destra e sinistra) da venire riassunta in un toponimo che non dice nulla se non, appunto, che non si tratta né di sinistra né di destra: il “centro”. La nascita di un forte “centro” nell’Italia del dopoguerra, in realtà, potrebbe stupire solo chi non ha capito cosa intendeva essere il fascismo maturo di Gentile e non è disposto a riconoscere quanto importante sia stata, per la politica italiana del primo novecento, l’incapacità di destre e sinistre storiche (divise su quasi tutto tranne che sull’anticlericalismo) di trattare adeguatamente la questione romana, invece risolta dal concordato fascista.

Il centro politico del primo dopoguerra sostituisce infatti il fascismo come forza di opposizione al socialismo massimalista e al comunismo, ma declinando questa opposizione in chiave geopolitica (dunque atlantica ed antisovietica) assai più che per vera e propria pregiudiziale ideologica, come invece aveva fatto il fascismo. Ma non solo: il concetto di “centro” nasce infatti anche come ipostasi politica del ritorno nell’agone parlamentare del cattolicesimo romano, che – non essendo all’epoca né liberale né socialista, ma essendo stato pochi anni prima contrario tanto ai liberali quanto ai socialisti – appariva tuttavia in linea, a livello di prassi, con alcuni aspetti di entrambe le parti politiche. Il centro dell’era della DC di De Gasperi, per quanto nasca come centro cattolico (quindi non fascista, non socialista e non liberale), ha insomma ben poco a che vedere con il partito popolare di Sturzo, svolgendo piuttosto una funzione di sintesi politica analoga a quella tentata dal fascismo, ma declinandola in un contesto democratico, in sostanza assorbendo (e traducendo in altrettante correnti del partito, come faceva appunto il fascismo) le idee e gli interessi che, per quanto fondate su ideologie differenti, non apparivano a livello di prassi radicalmente incompatibili con il suo baricentro ideologico, che restava cattolico. Così facendo la DC iniziava ad attrarre progressivamente nei propri programmi politici diverse idee di liberali e socialisti, ma moderandone gli aspetti più estremi. Non è infatti un caso che uno degli aggettivi che si usano più di frequente per definire le forze centriste sia quello di “moderate”: la moderazione deriva infatti proprio da un processo di sintesi per attrazione tra le idee cattoliche della DC e quelle dei partititi esistenti nell’epoca precedente al fascismo. E così, dal dopoguerra in poi, si è andati avanti per diversi decenni – anche grazie a leggi elettorali proporzionali – con un centro anticomunista a parole ma che mostrava all’occorrenza di sapere essere “moderatamente socialista” (in senso keynesiano). Un centro che ruotava intorno al pivot rappresentato dal partito – formalmente cattolico ma politicamente ecumenico – della Democrazia Cristiana, che governava il paese insieme ad alcune forze politiche minori (eredi dei vecchi partiti storici) riunite nel pentapartito, cambiando maggioranze e governi di frequente, ma a fronte di una sostanziale continuità di linea politica.

A questa continuità politica delle forze di governo, faceva da contraltare una sinistra comunista, che – nonostante godesse di ampio consenso nel paese – restava all’opposizione in parlamento (solo perché parte dell’internazionale socialista a trazione sovietica laddove l’Italia era invece membro del patto atlantico). A questa forte sinistra comunista – come compensazione per la mancata partecipazione al governo nonostante i vasti consensi elettorali – veniva tuttavia consentito di partecipare alla dinamica politica e sociale del paese – e dunque al suo governo di fatto – per mezzo di strumenti non istituzionali (o, per usare il lessico comunista, gramsciani); i movimenti cooperativi, il sindacalismo organizzato nella CIGL, l’egemonia negli ambienti culturali e del giornalismo e – infine ma molto importante – una forte influenza su una parte della magistratura e della pubblica amministrazione, specie in settori come la pubblica istruzione, l’università e gli enti locali.

Il quadro politico era completato dall’MSI, movimento che – al di là dei numeri parlamentari – non aveva reale influenza sulla politica nazionale, essendo a priori escluso, in quanto erede ideale del fascismo, da ogni possibilità di alleanza politica con altri movimenti sulla base della dottrina del cosiddetto “arco costituzionale”.

Si noti che in questo lungo periodo – a fronte di una sinistra rappresentata da un partito ideologico ancora rigorosamente “discendente”, essendo ispirato al marxismo-leninismo e di un partito ideologico di destra, analogamente “discendente” in quanto ispirato invece al fascismo repubblichino – i partiti della coalizione, a furia di assorbire, mescolare e moderare idee cristiane, socialiste e liberali, perdevano progressivamente i rispettivi riferimenti ideologici tradizionali. Addirittura il più ideologico di essi – vale a dire il partito cattolico, rappresentato dalla DC – col tempo aveva fortemente attenuato la propria linea politica confessionale (si pensi al divorzio e all’aborto, in cui la DC aveva assunto una posizione di fatto “morbida” nonostante la dura opposizione della chiesa), per diventare un partito in cui le diverse correnti esprimevano ormai solo altrettante sfumature di centrismo. Questo processo merita di essere sottolineato in quanto è molto importante per la nostra storia politica, segnando il passaggio – nel mondo politico italiano (quanto meno in quello non comunista) – dalla vecchia dinamica politica “discendente”, in cui cioè è il partito a proporre all’elettore un’idea di mondo e società, a una dinamica che potremmo definire “ascendente”, in cui il partito diventa sostanzialmente agnostico sul piano ideologico, assumendo il compito di “raccogliere” le istanze delle diverse categorie di elettori di cui intende captare il voto, per poi tradurle in provvedimenti di legge o in un indirizzo politico di governo che mirino a soddisfare quegli interessi. La fase del pentapartito segna dunque in Italia il definitivo tramonto delle ideologie non socialiste.

La repubblica keynesiana italiana e la nascita del ceto medio allargato

Questa lunghissima fase di stabilità politica (inaugurata da De Gasperi, proseguita da Andreotti per concludersi infine con la caduta di Craxi) si traduceva – con il consenso tacito anche dei comunisti che pure formalmente erano all’opposizione – in una politica economica connotata da un significativo intervento pubblico nell’economia (sia in chiave di capitalismo di stato che di tutela del lavoro dipendente, con un numero significativo di assunzioni di impiegati pubblici e con cospicui investimenti pubblici infrastrutturali e in servizi sociali di welfare). La politica del grande centro della prima repubblica era insomma chiaramente di stampo keynesiano, dunque con scopo (ed effetto) espansivo in termini di stimolo di domanda interna. L’inflazione generata dalle politiche in questione veniva compensata da un meccanismo di adeguamento automatico per legge dei salari al costo della vita (la cosiddetta “scala mobile”) e dalla debolezza della moneta nazionale (gestita dal tesoro con periodiche svalutazioni) che consentiva di finanziare l’inflazione con un export in continua espansione. Anche il sistema bancario, controllato dallo stato, contribuiva a sua volta alle politiche espansive incentivando e tutelando adeguatamente il risparmio privato e finanziando le piccole e medie imprese.

Questo esteso sostegno alla domanda interna favoriva la creazione e il consolidamento negli anni di un ampio ceto medio benestante con caratteristiche peculiari rispetto al resto dei paesi europei: si trattava di un ceto benestante “allargato”, nel senso che si estendeva dall’operaio e impiegato del settore privato, al dipendente pubblico, all’artigiano e al commerciante, al libero professionista e al piccolo imprenditore manifatturiero. A partire dagli anni sessanta e almeno fino al termine degli anni ottanta, in altre parole, l’Italia è stato un paese che ha goduto di prosperità non solo crescente in misura almeno pari al resto dell’Europa (diventando quinta potenza mondiale in termini economico), ma anche – e soprattutto – di un benessere distribuito e diffuso in misura superiore rispetto ad altri paesi europei. Questo accadeva perché proprio il “centro” politico riusciva bene ad esprimere e tutelare i differenti interessi di questa vasta “borghesia allargata”, laddove la sinistra comunista – per quanto all’opposizione – riusciva a rappresentare un contrappeso al potere economico della grande borghesia industriale, mantenendo una consistente pressione politica e sociale sul governo per il mantenimento di quelle politiche keynesiane che stavano alla base di un modello economico espansivo che, alla fine dei conti, conveniva a tutti, anche se non sempre per ragioni economiche.

L’esistenza di una ampia classe media benestante in Italia conveniva infatti al grande capitale finanziario e industriale (sia nazionale che straniero) per ragioni strategiche: il benessere della classe media allargata evitava infatti che il partito comunista – in un tempo in cui una guerra di invasione sovietica rappresentata ancora un rischio reale per l’Europa occidentale – portasse avanti in Italia una linea politica aggressiva, in chiave anti-occidentale e anti-capitalsita, come aveva fatto negli anni cinquanta. Nel primo dopoguerra i comunisti italiani era infatti non solo forti a livello parlamentare sia anche molto attivi (per non dire minacciosi) a livello sociale e, di conseguenza, era nell’interesse dei grandi capitalisti fare in modo che l’economia di mercato, grazie ai correttivi keynesiani, fosse percepita da più italiani possibile – specie nella classe medio-bassa di impegnati e lavoratori – come un sistema tale da assicurare (almeno in prospettiva futura) un adeguato benessere. Una piccola dote di “cose da perdere” anche per l’operaio e l’impiegato era insomma la migliore polizza a favore dei grandi capitalisti per scongiurare il rischio di innescare derive politiche nazionali troppo sbilanciate verso il socialismo reale. Per questo erano disposti a pagare il premio.

Ecco spiegato perché che il “sistema italiano” – in cui in sostanza il debito pubblico veniva usato in funzione espansiva, ossia per creare una diffusa ricchezza privata – fino alla caduta del muro di Berlino era stato accettato di buon grado non solo da chi ne beneficiava (il ceto medio allargato) ma anche da chi ne veniva in certa misura danneggiato in termini di ripartizione del plusvalore (dunque dai grandi capitalisti sia stranieri che di casa nostra). Questo significa però anche che il “modello Italia” (e dunque il benessere diffuso che aveva consentito) è stato in sostanza per alcuni decenni solamente “tollerato” dal capitalismo nazionale e internazionale per precise ragioni geo-politiche. E questo spiega anche perché – una volta caduta l’URSS – l’Italia, che ancora si ostinava a praticare ricette economiche espansive volte a garantire anzitutto il benessere della maggioranza degli italiani, sarebbe ben presto finita nel mirino di chi faceva girare i soldi sua nel nostro paese che a livello planetario.

Il muro di Berlino, il Britannia, tangentopoli e la nascita della seconda repubblica

Negli anni novanta del ventesimo secolo, con un effetto domino di una rapidità che ha stupito tutti quanti, cadono uno a uno i regimi dei paesi del Patto di Varsavia e, poi, l’URSS. La caduta del socialismo reale sovietico ed europeo provoca dunque sul piano geopolitico sia il venir meno della pregiudiziale atlantica contro i partiti socialisti occidentali sia l’utilità  – per la grande finanza e impresa (internazionale e nazionale) – delle tradizionali politiche economiche keynesiane volte a mantenere nel benessere il ceto medio allargato del nostro paese. Siamo all’epoca dell’ormai celebre incontro riservato tenutosi nel 1992 sul panfilo Britannia tra esponenti del modo politico e istituzionale nazionale e grandi nomi dell’impresa e finanza internazionali: incontro in cui – verosimilmente – si è proprio discusso del “futuro” del modello Italia.

Il terremoto geopolitico della caduta del socialismo reale europeo, in Italia porta come conseguenza tangentopoli, fenomeno che verosimilmente può essere attribuito al fatto che – caduta l’Unione Sovietica – le potenze atlantiche, e gli interessi a queste potenze tradizionalmente vicini, non avevano più un forte interesse strategico ad opporsi a che gli ex comunisti potessero partecipare al governo del paese. La contropartita per il disco verde all’ex PCI al governo in Italia era che la grande finanza internazionale – insieme alle grande famiglie capitaliste nazionali – avrebbe acquisito il controllo delle migliori imprese e banche italiane (specie tra le partecipate pubbliche, che non erano certo poche e per di più erano attive in settori di importanza strategica ed economica). La magistratura venne dunque lasciata libera – per usare un eufemismo – di azzerare il vecchio pentapartito (cosa facilitata dal già ricordato tradizionale allineamento a sinistra di una parte consistente della magistratura inquirente) per spianare dunque la strada del governo agli ex comunisti. Il tutto allo scopo ultimo di liquidare il modello keynesiano italiano per sostituirlo, come vedremo più avanti, con un modello economico più favorevole alle grandi imprese e al capitalismo finanziario.

Nonostante questo, la sinistra post-comunista – così come i centri di interesse che avevano voluto (o almeno appoggiato) la distruzione del vecchio sistema del pentapartito, essenzialmente onde favorire il passaggio in mani private del capitalismo di stato nazionale e la dismissione delle tradizionali politiche di welfare keynesiano care al nostro sistema – non aveva tenuto conto del fatto che la morte politica dei vecchi partiti di centro, non aveva fatto venir meno né l’esigenza di una sintesi tra gli interessi delle varie categorie che componevano la “borghesia allargata” del nostro paese né la predilezione del popolo italiano per il metodo – inaugurato e perfezionato per decenni dalla DC – della politica “ascendente”. In sostanza, tangentopoli era riuscita ad eliminare i partiti di riferimento di una parte del ceto medio allargato, ma non aveva eliminato il ceto medio, che (a differenza della grande impresa e della finanza) non era ancora disposto ad affidare il proprio voto a una sinistra che, dopo svariati decenni di allineamento sovietico, si era all’improvviso dichiarata post-comunista.

Per questo – e specie appunto perché, in quella fase, gli ex comunisti non avevano fatto sforzi eccessivi per apparire diversi dalla “vera sinistra” da cui discendevano – il testimone politico lasciato cadere dal pentapartito veniva agevolmente raccolto da Forza Italia, che – sbandierando il vessillo dell’anticomunismo – poteva assumere il ruolo di una parte della vecchia DC, vale a dire di collettore degli interessi di quella parte di “borghesia allargata” che ancora diffidava di un partito comunista che – a quell’epoca – aveva cambiato nome ma non faccia (e facce). Quello che mancava a questa “nuova DC” era però la capacità (ma forse la sensibilità politica) per capire che, se voleva tutelare davvero gli interessi dei propri elettori, doveva opporsi alla massiccia dismissione del sistema del capitalismo di stato e alla riduzione delle politiche keynesiane che era stato portato avanti in passato dalla “vera” DC. Dichiarandosi invece apertamente come movimento di ispirazione liberale, in sostanza per fornire di un credibile substrato ideologico la sua esigenza di porsi come movimento contrapposto alla sinistra, il partito di Berlusconi finiva invece per fare l’opposto, dunque non opporsi all’agenda di privatizzazioni e dismissioni pubbliche che interessava alla finanza internazionale e avviando tagli del welfare pubblico, non accorgendosi che – in quel modo – avrebbe aperto la via che avrebbe consentito qualche anno più tardi ai suoi avversari del PD di prendere il potere per iniziare a demolire scientificamente il benessere proprio di quello stesso ceto medio che invece Berlusconi affermava di voler tutelare. Berlusconi, politicamente parlando, è stato dunque un eccellente tattico ma un pessimo stratega. O forse è stato anche un eccellente stratega, a voler dar conto alle opinioni che leggono la sua discesa in campo come la conseguenza della necessità di tutelare soprattutto gli interessi delle imprese di famiglia, che la caduta della prima repubblica aveva messo in pericolo.

La convergenza al centro come conseguenza della discesa in campo di Berlusconi e di un sistema elettorale maggioritario

Al di là degli interessi che hanno mosso il Cavaliere ad entrare nell’agone politico, è un dato di fatto che l’entrata in scena della nuova “DC di destra” targata Forza Italia, movimento che sbaragliava alle elezioni la gioiosa macchina da guerra apparecchiata dai postcomunisti (macchina su cui, come si è detto, avevano puntato la finanza internazionale e i salotti buoni nazionali), sortiva l’effetto che gli ex comunisti – ormai orfani di Marx e del Cremlino e restati ancora all’opposizione – mandava definitivamente in soffitta la sua tradizionale dinamica politica discendente per adottare quella ascendente, trasformandosi da partito socialista a movimento liberal (nell’accezione che di questo termini viene data nei sistemi politici anglosassoni). Una simile mutazione a sinistra veniva causata soprattutto dalle leggi elettorali maggioritarie che – in seguito alla stagione referendaria seguita agli scandali di tangentopoli – avevano sostituito i vecchi sistemi proporzionali.

L’esigenza di creare due vaste coalizioni contrapposte per competere in modo efficace in sistemi elettorali maggioritari, aveva infatti indotto il centro destra di Berlusconi ad assorbire in Forza Italia gli ex democristiani di destra, i liberali, i socialisti craxiani e parte dei repubblicani, laddove il partito che era stato PCI assorbiva la maggioranza degli ex comunisti, i socialisti non craxiani e una consistente fetta del mondo cattolico facente capo alle vecchie correnti di sinistra – specie quella dossettiana, di cui Prodi era il rappresentante – della democrazia cristiana e tutto l’insieme di interessi e voti orbitanti attorno al sistema delle ACLI. Sempre per effetto del sistema elettorale maggioritario, i maggiori partiti dei due poli di centrodestra e centrosinistra, stringevano altrettante alleanze elettorali con le (poche) forze che all’epoca erano ancora polarizzate ideologicamente: a destra con il partito di Alleanza Nazionale (che aveva raccolto l’eredità politica conservatrice del vecchio MSI, sfrondando i cascami ancora troppo legati al fascismo) e a sinistra con Rifondazione Comunista.

Una menzione a parte merita la Lega Nord, nata e cresciuta negli anni novanta come movimento territoriale di protesta autonomista (dunque con una sua linea ideologica, ma svincolata dalla tradizionale contrapposizione tra liberalismo e socialismo) e poi finita nell’aggregazione di centro-destra, in cui tuttavia manteneva una posizione di relativa autonomia di linea politica, laddove l’altro alleato – Alleanza Nazionale – si sarebbe invece sempre più allineato sulle posizioni di centro moderato di Forza Italia, in sostanza puntando ai voti della borghesia allargata meno liberale e più conservatrice.

Questo spiega perché i principali partiti di riferimento dei poli di centrodestra e centrosinistra, ormai costituiti da altrettanti conglomerati di residui di forze politiche precedenti non molto omogenee ideologicamente, adottavano sempre più decisamente modelli di dinamica politica ascendente, in cui entrambi i poli, per conseguire il successo alle elezioni, tentavano in sostanza di recepire le istanze di alcune categorie e gruppi sociali senza in compenso elaborare o proporre ai rispettivi elettorati ideologie e narrazioni di sintesi strutturate secondo un determinata visione di mondo e di società. Dalla politica delle idee e dei dibattiti si è così passati – per effetto della crisi della prima repubblica e del conseguente passaggio a un sistema elettorale maggioritario – alla politica delle grandi aggregazioni elettorali, degli interessi delle singole categorie e dello strapotere dei sondaggi. Conseguenza ultima di questo stato di cose era che entrambi i poli politici – potendo già contare sulla fedeltà di voto degli elettori che erano ancora restati ideologicamente schierati a destra e a sinistra – si confrontavano soprattutto per ottenere il consenso dell’elettorato di centro, dunque dell’ampio ceto medio (per il momento ancora benestante), i cui interessi continuavano dunque ad essere ben rappresentati in parlamento.

Questa situazione – insieme alla tradizionale foga che da sempre contraddistingue il dibattito politico italiano – induceva le forze politiche ad adottare modelli di propaganda conflittuale tesa alla costante polarizzazione dell’elettorato moderato, in cui i partiti – per occultare il fatto che in sostanza proponevano agli elettori analoghe ricette – si sforzavano di convincere l’elettore (specie quello cosiddetto “moderato”) a non votare l’avversario. Mentre tuttavia nelle precedenti fasi politiche questo avveniva mediante un tentativo di discreditare l’idea avversaria, ora – dovendo combattere per il consenso di soggetti che guardavano ai propri interessi concreti e dunque ben difficilmente sarebbero stati convinti da discorsi ideologici – era necessario screditare l’avversario con argomenti “morali”. E così, dall’avversario politico (che meritava comunque rispetto, anche se professava idee ritenute sbagliate) si arriva al politico avversario eticamente “impresentabile”. Questo spiega perché, nella fase politica di battaglia per il centro combattuta negli anni novanta del secolo scorso che prende il nome di seconda repubblica, aveva assunto un ruolo politicamente sempre più importante l’intervento del potere giudiziario, specie inquirente.

Da tangentopoli in poi – per effetto delle riduzioni delle tradizionali guarentigie parlamentari costituzionali incautamente votate da tutti i partiti politici sull’onda emotiva suscitata dagli scandali politici – la lotta per la conquista del centro da parte della sinistra è stata infatti accompagnata da un florilegio di inchieste penali sui politici di centrodestra, tanto da portare alla situazione in cui sono state le procure – dunque funzionari pubblici non eletti – a decidere, con un arresto o con un avviso di garanzia (dunque prima di qualunque condanna definitiva) le sorti di governi e maggioranze parlamentari. Questo fenomeno era facilitato dall’ampia cassa di risonanza mediatica che – a differenza di un tempo – veniva fornita dai mass media (alle inchieste giudiziarie sui politici. Una simile pressione giudiziaria (ma soprattutto mediatica) nei confronti del polo di centrodestra, con ogni probabilità si piega con il fatto che Berlusconi – oltre a non piacere alle correnti della magistratura ideologicamente schierate a sinistra – aveva guastato i piani della sinistra (non solo politica) – e soprattutto di certi ambienti finanziari e della grande impresa – che avrebbero voluto consegnare il paese all’ex PCI, per ragioni che spiegheremo tra poco.

La fine delle grandi privatizzazioni come punto di crisi della seconda repubblica

Il sistema del bipolarismo aggregativo convergente verso il centro (che alcuni, per sottolinearne la discontinuità rispetto al passato consociativo, hanno chiamato “seconda repubblica”) era dunque nato dalle ceneri della guerra fredda per impulso della grande impresa e finanza nazionale e internazionale, ma – per effetto dell’imprevista discesa in campo di Berlusconi – il progetto originario (che – come vedremo più avanti – era quello di normalizzare l’Italia al contesto di una “nuova” Unione Europea governata da un centro-sinistra che, in luogo delle tradizionali ricette keynesiane, avrebbe dovuto attuare dottrine neo-mercantiliste) era però andato a monte, trasformandosi in due decenni di alternanza al governo dei poli di centro-sinistra e di centro-destra, che però – essendo accomunati da una dinamica politica ascendente e dovendo contendersi soprattutto il voto dell’elettorato di centro – portavano avanti agende politiche centriste ben poco diverse tra loro e – soprattutto – non erano in grado di distaccarsi del tutto (o quanto meno nella misura in cui avrebbero desiderato la finanza internazionale e la grande borghesia italiana) dalle politiche keynesiane del passato.

La seconda repubblica restava tuttavia ancora conveniente per i centri di interesse che avevano promosso la caduta del vecchio sistema della prima, in quanto entrambi gli schieramenti politici – da Berlusconi a D’Alema a Prodi – si erano mostrati tutti quanti assai disponibili tanto alla progressiva dismissione del capitalismo di stato nazionale quanto all’indebolimento – mediante tagli di alcuni comparti del welfare pubblico e le prime timide riforme del mercato del lavoro – della tradizionale politica economica di stimolo espansivo e supporto alla domanda interna. Se guardiamo infatti ai conti pubblici nazionali di quegli anni vediamo abbastanza chiaramente che l’avanzo primario italiano dal 1990 ad oggi è quasi sempre stato, salvo rarissime eccezioni, in terreno ampiamente positivo (questo significa che la spesa pubblica corrente e per investimenti si è mantenuta al di sotto alle entrate pubbliche da tassazione). Il debito pubblico è dunque aumentato in questi stessi anni per effetto – non della spesa pubblica, che invece veniva ridotta – bensì a causa dell’onere degli interessi sul debito pregresso che doveva ancora essere pagato a tassi altissimi per effetto delle errate previsioni da parte del tesoro negli anni precedenti. In particolare il tesoro si era indebitato a lunghissimo termine a tassi alti (oltretutto adottando strumenti finanziari rischiosi per l’emittente e assai favorevoli per i grandi operatori finanziari privati che acquistavano gli strumenti), non prevedendo l’abbassamento ulteriore dei tassi sui titoli pubblici, con la conseguenza di trovarsi negli anni successivi a dover finanziare il rinnovo di titoli pubblici con titoli che rendevano assai meno rispetto a quelli che dovevano essere rinnovati.

Questo consente intanto di confutare la narrazione, assai comune a livello di informazione mainstream, secondo cui gli italiani, ancora verso la fine del secondo millennio, avrebbero vissuto al di sopra delle proprie possibilità per effetto della spesa pubblica, giacché – da tangentopoli in poi, dunque già all’epoca di Berlusconi e Prodi e ben prima dell’inizio del rigore montiano – gli italiani avevano in realtà già affrontato riduzioni di spesa pubblica tali da consentire una serie quasi ininterrotta di significativi avanzi primari di bilancio, non riuscendo a ridurre il deficit e il debito per ragioni essenzialmente legate alla dinamica internazionale dei tassi di interesse sui titoli del debito sovrano (che in quell’epoca stavano scendendo sempre di più sia per effetto dell’adesione all’euro sia di una politica monetaria che – a livello globale – appariva sempre più imperniata sul controllo dell’inflazione piuttosto che non sull’espansione economica).

La riduzione delle politiche espansive e la stagione delle privatizzazioni non si erano peraltro tradotte in un immediato e sensibile calo della domanda interna nazionale (e dunque del benessere complessivo), essenzialmente per due ragioni: per un verso gli italiani avevano accumulato negli anni precedenti un grande risparmio privato e laute pensioni cui potevano attingere per compensare la riduzione del welfare pubblico e, per altro verso, la già ricordata discesa progressiva dei tassi di interesse a livello globale – che aveva interessato non solo il debito pubblico ma anche l’attività creditizia – aveva favorito, in un primo tempo dopo l’adesione all’Euro, un più facile ricorso al credito per le imprese e per i consumatori, specie per acquistare beni importati dall’estero (che avevano prezzi inferiori a quelli nazionali). Il ceto medio allargato, nella seconda repubblica, non percepiva dunque ancora le conseguenze del cambio di paradigma avviato con la seconda repubblica – di guisa che la domanda interna si manteneva a livelli ancora capaci di sostenere bene il tessuto delle piccole e medie imprese – solo perché gli italiani, per compensare la riduzione del welfare, avevano iniziato a utilizzare i propri risparmi e le rendite pensionistiche nonché a indebitarsi (a basso costo) per acquistare beni di importazione (a basso costo).

La cosiddetta seconda repubblica va dunque avanti secondo questo schema per un paio di decenni fino a quando gli stessi ambienti e interessi che avevano decretato il crollo della prima (e che, da tangentopoli in poi, avevano ampiamente stimolato la dismissione del capitalismo di stato nazionale e l’indebolimento delle politiche keynesiane tanto care alla vecchia DC) decidevano che – essendoci ancora poco da privatizzare e da acquistare – era arrivato infine il momento di “normalizzare” anche l’Italia al modello economico e sociale (che vedremo essere quello tedesco) che più si conformava ai loro specifici interessi. Le ragioni di un simile attentato al tenore di vita della maggioranza dei cittadini del nostro paese (perché di questo, come vedremo, si è trattato e ancor oggi si tratta) meritano tuttavia un apposito approfondimento, che per esigenze di spazio dobbiamo rinviare alla seconda parte di questo scritto, che dovrebbe essere pubblicata nelle prossime settimane sul sito della fondazione Hume e sarà dedicata, appunto, ad una approfondita analisi delle ragioni della crisi del modello del bipolarismo convergente al centro che rappresenta la quidditas della seconda repubblica.




Usa, “atomi sociali” in libera uscita

Da tempo ormai le stelle degli Stati Uniti sono diventate sempre più opache e lontane: la terra promessa della democrazia liberale è solcata da lacerazioni di ogni tipo – ingovernabilità dei degradati quartieri afro-americani, violenze della polizia, contestazione della Civic culture che aveva fatto grande il Nuovo Mondo, abbattimento dei suoi simboli antichi, declino delle classi medie, allargamento della forbice tra gli have e gli have not, catastrofi ecologiche fuori controllo – tali che inducono a parlare di crisi epocale del mondo anglosassone, se non di tramonto di quell’Occidente che oltre Atlantico celebrava i suoi trionfi.

Agli States è rimasta la potenza industriale e quella finanziaria, una pesante armatura, dentro la quale, come nel Cavaliere inesistente di Italo Calvino, c’è il vuoto. In questo Sunset Boulevard vien voglia di rileggere quanto avevano scritto sul nuovo continente i grandi viaggiatori e sociologi dell’Ottocento e del Novecento, da Alexis de Tocqueville a James Bryce, da Michel Chevalier a Gunnar Myrdal ovvero gli scrittori politici che avevano più contribuito a consolidare nell’immaginario collettivo una certa idea dell’America.

Un importante momento di questa fabbrica del mito americano può essere costituito dalla Society in America di Harriet Martineau (1837) di cui la storica delle dottrine politiche e appassionata studiosa della “questione femminile”, Ginevra Conti Odorisio, ha curato un’edizione ridotta per la collana da lei diretta, Donne e politica, pubblicata dall’editore Aracne. La Martineau, infatti, si presta ad essere un significativo case study per comprendere che cosa del mondo americano affascinò gli europei colti e “progressisti”(in senso lato) e che cosa sfuggì ad essi e di cui oggi ci rendiamo drammaticamente conto.

La poligrafa scrittrice inglese – è sterminato l’elenco delle sue opere, dall’economia politica ai romanzi letterari – ha un duplice merito: il primo, scientifico, di aver svolto un’inchiesta a tappeto sulla società e sui costumi americani, consultando gente di ogni ceto sociale, razza, regione, religione, sì da venir considerata a mio avviso con qualche esagerazione – anche da studiosi come Robert Nisbet e Seymour M. Lipset, la fondatrice della sociologia; il secondo, etico-politico, di aver denunciato sia la soggezione delle donne americane, prive del diritto di voto, sia la vergogna della schiavitù. In anni in cui la questione razziale non aveva ancora toccato il punto più drammatico, la Martineau spiegò agli europei «cosa significasse la segregazione negli atti più elementari della vita quotidiana, come mangiare, pregare lavorare. Esclusa dall’istruzione, dalle cariche pubbliche, dalle professioni e dalle associazioni scientifiche e letterarie, la gente di colore vive in un clima umiliante, ammessa soltanto ai lavori più duri e ingrati». E ancora con parole roventi: «Nella fisionomia di ogni animale vi è vita e una certa forma di intelligenza anche in quella della stupida pecora; mentre non vi è nulla di così spento e vago come nello sguardo dello schiavo.|…| Visitammo il quartiere dei negri e dovunque mi recassi in questa piantagione provai un profondo disgusto. Era una via di mezzo tra un covo di scimmie e un’abitazione di esseri umani». Tralascio citazioni di pagine sulla questione femminile e mi limito a ricordare che il principio fatto valere della Martineau – e al centro del femminismo liberale dell’800 e del 900 – che “nessuno è tenuto a obbedire a leggi alle quali non ha dato il suo consenso”, fa della lettura di Società in America un testo che avrebbe potuto essere scritto cento e più anni dopo.

Vorrei invece richiamare l’attenzione sul coté illuministico dell’opera, ovvero sull’idea che i principi egualitari su cui si fondava la Dichiarazione di indipendenza – e che facevano sì che in ogni agglomerato urbano si trovasse «un cittadino indipendente» e «nelle campagne un proprietario terriero» – sarebbero stati il lievito spirituale di una civiltà superiore più libera, più generosa, più colta di quelle europee. E in ogni caso avrebbero portato a un melting pot disgregatore dell’idea di Nazione.

Per l’America, «la varietà dei suoi abitanti costituisce un’inesauribile risorsa. Per una Nazione può essere motivo d’orgoglio discendere da un unico ceppo, ma in definitiva è molto meglio che diverse Nazioni abbiano concorso alla sua formazione. Ne risulta un miscuglio di qualità fisiche e intellettuali, l’assimilazione di pregiudizi nazionali, l’incremento delle risorse mentali che finiscono per elevare il carattere della Nazione».

Erano entusiasmi ingenui di una fervente “radical” vittoriana, giacché come ha dimostrato Samuel P. Huntington in un grande libro, La nuova America ( 2005): «E’ difficile che la gente trovi nei principi politici – libertà, uguaglianza, democrazia, rispetto dei diritti civili, non-discriminazione, rispetto della legge – il profondo contenuto emozionale e il profondo significato che vengono assicurati dai vincoli sociali e familiari, dai legami di sangue e dal senso di appartenenza, dalla cultura e dalla nazionalità». Molti americani fino alla Seconda guerra mondiale e ancora diversi anni dopo, erano arrivati «a convincersi che il loro Paese poteva essere multinazionale, multietnico e privo di un’essenza culturale specifica, pur rimanendo una Nazione coerente, la cui identità veniva definita unicamente dal credo. Ma è proprio così? Una Nazione può essere definita solo da un’ideologia politica?». L’abbattimento delle statue dei Founding Fathers, esaltati nella Società in America, sono una risposta eloquente. Molti studiosi della Martineau – penso soprattutto a Michael Hill – vorrebbero che venisse riconosciuta la sua superiorità scientifica (!) rispetto a Tocqueville, condizionato – nei suoi appunti di viaggio e poi nella Democrazia in America – dal suo essere un bianco, maschio, aristocratico, portato a selezionare i fatti e a ritenere solo le opinioni da lui condivise.

Sennonché il nobile normanno per tutta la sua vita fu assillato da un problema cruciale: in una società di eguali – e gli Stati Uniti ne costituivano il modello politico per antonomasia – che cosa tiene insieme gli “atomi sociali” liberi ormai da ogni obbligo e da ogni autorità spirituale e temporale del passato?

Pubblicato su Il Dubbio del 31 ottobre 2020