Maturità, sarà un esame farsa. Intervista a Paola Mastrocola

Un esame farsa, «saranno tutti promossi. Questa maturità diciamo che è un modo per rivedersi e salutarsi tra insegnanti e allievi. Una pacchia per chi ha studiato poco in tutto il triennio, una sciagura per chi si è impegnato seriamente». Così Paola Mastrocola, editorialista e scrittrice, in merito agli esami di maturità che iniziano oggi per quasi mezzo milione di ragazzi. Nel 2004, con «La scuola spiegata al mio cane» (divenuto poi un classico), accese il dibattito sullo stato della scuola italiana, le sue riforme e un declino che pareva inarrestabile. Per la scuola che servirebbe nel dopo coronavirus dice: «Dovremmo buttare tutto all’aria e ricominciare da zero. Il Covid ci ha fatto capire definitivamente che cosa le famiglie chiedono alla scuola: essenzialmente un luogo dove lasciare i figli mentre si lavora, dove possano «socializzare», e dove qualcuno si prenda in carico la loro educazione in senso lato. Ebbene, prendiamone atto e facciamola». Il governo ha eliminato i voti alle elementari? «Andrebbero subito ripristinati, senza si fa un danno ai bambini».

Sono iniziati gli esami di stato: una sola prova orale, ha deciso il governo per evitare rischi di contagio. Basta a valutare la maturità di un ragazzo?
L’esame di quest’anno ovviamente non verificherà nulla: l’allievo esporrà oralmente un «elaborato» che ha scritto (da solo?) su temi concordati un mese prima. Diciamo che è un modo di rivedersi e salutarsi, tra insegnanti e allievi; un modo di chiudere comunque il corso di studi e segnare una fine. Meglio che niente, meglio che sparire tutti nel nulla.

Non ci sarà nessuna prova scritta.
Mi dispiace per gli scritti, la sfida del foglio bianco è tutto. Ad esempio il tema è l’unica prova che misura la maturità espressiva (quella sì!) di una persona, la capacità di mettere in parole la complessità di un ragionamento. Sarà per il mestiere che faccio, ma nulla mi sembra meglio che scrivere, per dimostrare chi siamo.

Quest’anno, causa emergenza Covid, tutti sono stati ammessi agli esami. Saranno anche tutti promossi?
Certo! Una pacchia per chi ha studiato poco in tutto il triennio, e una sciagura per chi si è impegnato seriamente e, mi dispiace, rimarrà deluso e avvilito da un esame farsa.

Che anno scolastico è stato questo contrassegnato dalla didattica a distanza per chi è riuscito a farla?
Credo siano stati mesi molto faticosi per tutti. La scuola non si poteva fermare, e non si è fermata. È stata scuola? Direi di no. La scuola è soprattutto relazione, all’interno di quel meraviglioso microcosmo che si chiama classe. L’alternativa era fermarsi, prendere atto del cataclisma che si è abbattuto e accettare la sospensione.

Potevamo permettercelo?
Una nave, di fronte a una tempesta, resta in porto, non s’incaponisce a salpare ugualmente, sfidando le onde. E nemmeno gira in tondo all’interno delle calme acque del porto fingendo una crociera, né simula online la navigazione! Sta buona e ancorata, e aspetta che passi. Lei mi chiede se potevamo permetterci di stare fermi. A quanto pare no. Siamo un mondo in cui chi si ferma è perduto. Dunque abbiamo accettato un surrogato di scuola.

Alla ex insegnante chiedo: la didattica a distanza quanto spazio e senso può avere nel rapporto educativo tra docente e alunno?
Spero che non avrà nessuno spazio, se non per tragiche necessità, dovute al virus. La lezione a distanza può essere utile solo a trasmettere nozioni, mandare avanti il programma e assicurare comunque un barlume di valutazione. La lezione vera non può che essere dal vivo. È avvenimento, e avventura. È una creazione continua, che dipende dagli umori, dai sentimenti, dalle interruzioni, dalle domande, dalla noia e dall’entusiasmo, da tutto ciò che in un’ora avviene tra insegnante e allievi. Imprevedibile. Irrinunciabile.

Tornando all’esame di maturità, è ormai un rito stanco, da abolire, o pensa invece che sia ancora importante nella crescita di un giovane? E se sì, come andrebbe strutturato?
Non abolirei gli esami. È bene che, almeno una volta ogni tanto, il giovane sia messo davanti a qualcuno a cui rispondere di sé. Li farei solo un po’ più veri, questi esami di maturità, cioè più difficili: una vera montagna da scalare, non pareti fittizie e addomesticate. Solo se la prova è reale si può provare soddisfazione e felicità nel superarla. Per esempio la smetterei con i quiz, i test, gli schemini da riempire. Prendiamoli sul serio, i nostri ragazzi!

I docenti che affrontano la nuova scuola, sarà diversa anche da settembre, sono pronti?
Come possono, i docenti, essere pronti per una scuola che non si sa come sarà? Immagino che saranno pronti a fare quel che diranno loro di fare. E temo che diranno loro di continuare a barcamenarsi. Cosa che, peraltro, gli insegnanti hanno continuato a fare, negli ultimi vent’anni di riforme ridicole: se la scuola italiana tutto sommato ha tenuto, è proprio perché la barca, senza capitano, motore né timone, è stata portata a remi da ogni singolo insegnante, che ha fatto quel che poteva, nei modi che ha ritenuto meglio. Certo, causando anche notevoli disparità e una discreta confusione… Meglio sarebbe avere, un giorno o l’altro, qualche dritta sulla rotta!

In piena emergenza il governo ha deciso di potenziare gli organici con 30mila nuovi insegnanti ex precari che saranno assunti il prossimo anno.
Se abbiamo bisogno di nuovi insegnanti dobbiamo rivoluzionare la scuola, pensare a un tempo pieno. Se invece si assume senza avere una logica di quale mondo stiamo progettando, di quali sono le esigenze delle famiglie e dei ragazzi, riduciamo l’istruzione a un pretesto per fare occupazione. Continuiamo a mantenere in piedi un modello di una scuola fatta per gli insegnanti, come purtroppo succede da decenni, piuttosto che per i ragazzi.

Il governo, su pressione della sinistra, ha abolito i voti per le elementari. Hanno ancora senso?
I voti hanno un senso enorme! E andrebbero subito ripristinati. Cos’è questa paura del voto? Che un voto possa offendere, scalfire la serenità dei bambini? È vero il contrario, è proprio dicendo che va bene tutto quel che fanno, che produciamo danni. Un bambino ha bisogno di sapere se fa una cosa bene o male, e un voto è un sistema chiaro e veloce: se fai benissimo ti do 10, se fai male ti do 5, ma quando farai meglio ti darò 7, 8, 10. Vuol dire stimolare a progredire, insegnare ad autovalutarsi e accettare il giudizio esterno. Nella vita non abbiamo problemi a «dare voti»: chi corre più veloce arriva primo e sale sul podio, chi fa un bel film vince l’Oscar. Giudichiamo e valutiamo continuamente, nello sport, nell’arte, ovunque. Perché proprio a scuola non dovremmo farlo?

Cosa sarà la scuola passata l’emergenza? Tornerà quella di prima o invece siamo davanti a un cambiamento radicale?
Dovremmo buttare tutto all’aria e ricominciare da zero. Il Covid ci ha fatto capire definitivamente che cosa le famiglie chiedono alla scuola: essenzialmente un luogo dove lasciare i figli mentre si lavora, dove possano «socializzare», e dove qualcuno si prenda in carico la loro educazione in senso lato, direi totale (educazione civica, alimentare, ambientale, stradale, sentimentale…). Ebbene, prendiamone atto. E facciamola, una scuola così! E spostiamola anche il più possibile all’aperto, per difenderci da altre eventuali epidemie (non sul web, tutti chiusi in casa davanti a un video!). Pensiamo a un «tempo pieno educativo», una scuola «disseminata» e on demand, spaziosa in tutti i sensi, dove l’allievo abbia davvero «spazio» e, a seconda dell’attività che sceglie, vada nel luogo più idoneo: ancora la classe con tanto di banchi e lavagna, se vuol fare studi astratti (filosofia, algebra, letteratura…), e luoghi meno canonici se sceglie corsi di musica, giardinaggio, cucina, falegnameria: prati, giardini, parchi, cortili, piazze, ristoranti, cinema, teatri.
Bisogna diventare visionari. Osare cambiamenti drastici, anche edilizi… Ma temo che ci limiteremo a fare i turni: un po’ a casa a far lezione online, e un po’ a scuola come prima. Abituandoci a poco a poco a una vita sempre più virtuale.

Intervista a cura di Alessandra Ricciardi pubblicata su ItaliaOggi il 17 giugno 2020




Quel che si sapeva ai tempi di Nembro e Alzano. Testi di Andrea Crisanti e Luca Ricolfi

Le famiglie delle vittime del Coronavirus chiedono giustamente come mai, nella prima settimana di marzo, dopo aver predisposto tutto per la chiusura, la politica decise di non istituire una “zona rossa” a Nembro e Alzano.
Erano i giorni in cui la pressione per la “ripartenza” era molto forte, sia da parte delle forze economiche sia da parte delle forze politiche (il 27 febbraio Zingaretti celebrava la riapertura con il famoso “aperitivo” a Milano).
In quei giorni, tuttavia, alcuni quotidiani e il sito della Fondazione Hume non esitarono a dare voce a quanti avevano capito la gravità della situazione.
Riteniamo di fare cosa utile ripubblicando, senza commento, alcune analisi e interviste di Andrea Crisanti e Luca Ricolfi apparse fra la fine di febbraio e i primissimi giorni di marzo.

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“Sarà un’altra Spagnola”

24 febbraio 2020 – intervista di Francesca Angeli a Andrea Crisanti

Il professor Andrea Crisanti è furioso. È appena arrivato a Melbourne in Australia per seguire un congresso dopo ore e ore di volo che si sta preparando ad affrontare di nuovo per essere in Italia domani mattina in laboratorio.
Crisanti è professore ordinario di Microbiologia e virologia all’Università di Padova ma soprattutto è responsabile del laboratorio dell’Ospedale di Padova, centro di riferimento regionale per i test di individuazione del coronavirus. È proprio nel suo laboratorio che è stato messo a punto all’inizio di febbraio il test europeo per la diagnosi del 2019-nCoV. Un test che permette di individuare il coronavirus in meno di tre ore. Il professor Crisanti è furioso perché quello che sta accadendo si poteva evitare se, come da lui richiesto, si fosse partiti subito con i test per tutte le persone in arrivo dalla Cina. «La politica ha preso decisioni sbagliate legate a motivazioni che non hanno nulla a che fare con la scienza».

Quali decisioni?
«Ritenevo necessario eseguire da subito i test per chi arrivava dalle zone a rischio, cinesi e no. Ma il direttore generale della sanità del Veneto, Domenico Mantoan, mi ha bloccato. Mi ha intimato in una lettera di spiegare sulla base di quali indicazioni ministeriali, o internazionali, si sia ipotizzata tale scelta di sanità pubblica minacciando di denunciarmi per danno erariale».

In Veneto è caccia al paziente che per primo ha portato il virus in quell’area.
«Inutile. Oramai l’opportunità di fermare l’ingresso del coronavirus in Italia è stata persa e a questo punto non ha senso cercare il paziente zero: sono troppi i contagiati. Ora si deve contenere la propagazione con misure draconiane».

Ma perché tanta preoccupazione rispetto al Covid-19? Alcuni medici parlano di allarme esagerato. Il coronavirus in questione ha una bassa letalità simile all’influenza stagionale.
«Questo coronavirus è altamente infettivo. Una sola persona ne contagia almeno altre 4, forse pure 5. Per altri virus è inferiore: uno al massimo due. La rassicurazione rispetto alla mortalità bassa è un’altra di quelle osservazioni che mi fanno infuriare. La mortalità è la stessa dell’influenza spagnola del 1918 che ha fatto milioni di vittime. Se si ammalano tante persone quel 2,5 per cento corrisponderà a un numero altissimo di morti».

Quali misure prenderebbe immediatamente?
«La politica deve tacere ed ascoltare quello che dicono gli scienziati. Prima di tutto occorre tutelare i medici che sono in prima linea per combattere il virus. Non dobbiamo permettere che accada qui quello che è successo in Cina. Se cade la prima linea poi chi interviene? Per tutelare i medici occorre fornire loro tutti i presidi necessari all’isolamento in modo che non si contagino. Tutti i sanitari impegnati nel contrastare il coronavirus, medici e infermieri, devono essere sottoposti a test ogni 2 al massimo 3 giorni per verificare che non siano stati contagiati. Dobbiamo impedire che si ammalino. Se cade la prima linea sanitaria siamo nei guai».

Sono sufficienti le misure di contenimento prese dalle regioni?
«Per contenere certo chiudere, isolare, va bene. Ma occorre pure tutelare chi è dentro la quarantena. Altrimenti si creano soltanto incubatori di coronavirus come ha dimostrato il caso della Diamond Princess. Non possiamo isolare le persone e lasciarle lì, come hanno fatto in Cina. Che facciamo, i lazzaretti come nel ‘300? Una volta circoscritta l’area a rischio si devono eseguire visite periodiche da parte di medici attrezzati che casa per casa devono verificare lo stato di salute delle persone. Mi chiedo però se abbiamo risorse per farlo. Il sistema di emergenza si satura rapidamente. Un conto è curare due persone in terapia intensiva come hanno fatto allo Spallanzani. Se il numero sale il sistema rischia il collasso. In rianimazione i posti letto non sono infiniti».

Intervista a cura di Francesca Angeli pubblicata su Il Giornale del 24 febbraio 2020

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Coronavirus, fermare la catastrofe

2 Marzo 2020 – di Luca Ricolfi

Posso sbagliarmi, lo voglio dire subito. Anzi, spero di sbagliarmi, e che domani – retrospettivamente – tutto quel che sto per dire possa apparirmi esagerato, o fuori bersaglio.
Però non me la sento di non raccontare la situazione come si presenta ai miei occhi di osservatore e di studioso di Analisi dei dati.

1. Il pericolo che l’Italia sta affrontando è molto più grave di come ci viene raccontato. L’epidemia di coronavirus somiglia alla classica influenza stagionale per quanto riguarda la capacità di diffondersi (il che è una pessima notizia: l’influenza raggiunge ogni anno circa 8 milioni di persone), ma è enormemente più letale (3 morti ogni 100 contagiati). Anche considerando come morte per influenza tutte le persone che ogni anno muoiono per complicanze ad essa connesse, il rischio di morte è di 1 caso su 1000, mentre nel caso del coronavirus è di 30 casi su 1000, ossia 30 volte superiore.
In concreto significa questo: se non riusciamo a fermare l’epidemia di coronavirus, e i pazienti contagiati diventano quanti quelli della comune influenza, i morti potrebbero essere dell’ordine di 2-300 mila. Non voglio nemmeno immaginare quel che succederebbe se, come alcuni esperti considerano possibile, l’epidemia di coronavirus raggiungesse una % di contagiati vicina al 100% della popolazione.

2. I dati finora disponibili non sono sufficienti per prevedere la traiettoria del contagio, tuttavia si possono fare alcuni esercizi di simulazione. I risultati dicono che, se la velocità di diffusione dovesse restare analoga a quella attuale, o dovesse ridursi in modo marginale, già a Pasqua (12 aprile) i contagiati potrebbero essere parecchi milioni.
E’ comprensibile che le autorità si ingegnino a sostenere che questa velocità si deve al trauma eccezionale di Codogno-Vo’ (18-20 febbraio), e al fatto che le misure restrittive adottate negli ultimi 10 giorni non hanno ancora avuto il tempo di esercitare i loro effetti. Ma si devono fare tre osservazioni:
a) la velocità del contagio nelle zone del centro-sud è analoga, se non superiore, a quella del nord;
b) il tasso di crescita del numero di contagiati non solo non sta dando segni di rallentamento, ma nella giornata di domenica 1° marzo ha subito una violentissima accelerazione (645 nuovi casi in un solo giorno, contro una media giornaliera di 139 casi nei 7 giorni precedenti, e di 161 il giorno prima);
c) anche il numero dei morti è in costante ascesa: erano 1 al giorno una settimana fa, sono saliti a 12 nella giornata di domenica.

3. A fronte di questi processi, la maggior parte delle autorità si sta muovendo su una triplice direttrice.
Primo, favorire la ripresa delle attività produttive quanto prima, non solo con (doverosi) sussidi a chi ha subito gravi perdite in termini di posti di lavoro e di redditi, ma anche e soprattutto accelerando la riapertura di uffici, fabbriche, negozi, alberghi, musei, scuole, chiese, luoghi pubblici in genere.
Secondo, scaricare sulla popolazione la responsabilità di contenere il contagio. A giudicare dai messaggi ossessivamente ripetuti dagli schermi televisivi, sembra che –fin da oggi fuori della “zona rossa”, e da domani anche in essa – l’unico presidio contro il coronavirus sia la prudenza dei cittadini: lavarsi le mani, disinfettare le superfici, minimizzare i contatti sociali non necessari, non stringersi la mano, non abbracciarsi.
Terzo, contenere l’allarme sociale limitando i tamponi. Molti politici (e molti giornalisti) paiono convinti che se ci sono tanti casi accertati di coronavirus in Italia è perché abbiamo fatto troppi tamponi, e che occorre fare marcia indietro per evitare la catastrofe dell’industria turistica.
Curioso. Prima le autorità fanno di tutto per convincerci che non c’è alcun pericolo di contagio, dalla visita di Mattarella alla scuola con tanti bimbi cinesi alle foto dei politici nei ristoranti cinesi; poi si dichiara lo stato di emergenza, si chiudono massicciamente i luoghi pubblici, si invita a minimizzare i contatti sociali, si segrega la gente in casa; infine, si stigmatizza l’“isteria collettiva” che conduce la medesima gente a fare provviste nei super-mercati…

4. Spero di sbagliarmi ma, studiando i meccanismi di propagazione del coronavirus, mi sono convinto che questa strategia sia perdente, anzi catastrofica. Per tre motivi fondamentali.
Primo motivo. Gli sforzi per far ripartire le attività produttive e commerciali, se concentrati in questo momento, avranno solo l’effetto di accelerare il contagio, rendendo enormemente più difficile e più remota nel tempo la ripresa dell’economia. Meglio perdere un mese di Pil oggi, che subire una catastrofe di dimensioni molto superiori domani.
Secondo motivo. In questo momento la priorità economica fondamentale è evitare il collasso degli ospedali, che già fra pochissimo tempo non saranno in grado di far fronte alla domanda di posti letto, specie nei reparti di terapia intensiva.
E’ triste dirlo, ma è possibile che la Cina, grazie ai poteri speciali di cui godono le dittature, ne esca prima e meglio di noi. Il minimo che possiamo fare è nominare un commissario per l’emergenza coronavirus, con un budget e dei poteri che gli consentano di fare – senza interferenze della magistratura e della politica – quel che la situazione potrà richiedere, ossia assistenza per centinaia di migliaia di persone, molte delle quali in condizioni gravissime.
Terzo motivo. Le simulazioni mostrano chiaramente che, con un contagio così veloce, l’unica strategia di contenimento che ha qualche possibilità di arginare l’epidemia è la ricerca a tappeto dei contagiati e la loro messa in quarantena. Lo ha detto chiaramente una settimana fa Roberto Burioni, suggerendo un tampone anche a chi ha solo 37 gradi e mezzo di febbre: mi chiedo se basterebbe, o non occorrerebbe fare ancora di più, organizzando lo screening più ampio possibile, usando tutte le risorse diagnostiche disponibili.
La velocità del contagio, infatti, ha due fonti fondamentali: la contagiosità intrinseca del virus, che con comportamenti appropriati si può solo attenuare, e il tasso di ritiro dallo spazio pubblico (quarantena) dei già contagiati. E’ solo individuando e mettendo in quarantena coloro che, a propria insaputa, stanno veicolando il virus, che possiamo sperare di vincere la battaglia.
Ecco perché considero enormemente grave, e segno di totale irresponsabilità, il fatto che il premier, anziché accogliere e cercare di rendere attuabile la proposta di Burioni di moltiplicare i tamponi, abbia imboccato la strada opposta. Come se l’immagine dell’Italia all’estero fosse più importante dalla nostra salute, per non dire della nostra sopravvivenza.

Pubblicato su www.fondazionehume.it il 2 marzo 2020

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Ricolfi: l’Italia deve fermarsi un paio di mesi

Se ci intestardiamo a far ripartire l’economia potrebbe essere la catastrofe. Solo congelando il più possibile il contagio potremmo uscire con una semplice recessione

4 Marzo – Intervista di Alessandra Ricciardi a Luca Ricolfi

Se ci fermiamo per un paio di mesi e ci occupiamo solo di salvare la pelle, forse potremmo uscirne con una semplice recessione, più o meno come nel 2008. Se invece ci intestardiamo a far ripartire l’economia subito, e questo aiuterebbe la circolazione del virus, potrebbe essere la catastrofe». Luca Ricolfi, sociologo, ordinario di Analisi dei dati all’Università di Torino, ha letto le informazioni disponibili sul Coronavirus – contagio, ammalati, morti – utilizzando le sue competenze statistiche. I risultati delle simulazioni fatte per la Fondazione David Hume (www.fondazionehume.it), di cui è presidente, sono choccanti: con gli attuali tassi di propagazione, se il virus non verrà rallentato drasticamente, potrebbero esserci centinaia di migliaia di decessi in pochi mesi. Decisiva una politica rigorosa di contenimento, in tal senso «le attività dovrebbero essere poste sistematicamente in folle, o meglio al regime di giri minimo necessario per la sopravvivenza fisica della popolazione». I 3,6 miliardi di sforamento del deficit che la Ue potrebbe autorizzarci? «Andrebbero utilizzati non per dare aiuti a pioggia alle imprese ma a rafforzare il Servizio sanitario nazionale con un’iniezione straordinaria di personale, attrezzature, posti letto. Altrimenti si rischia il collasso».

Professore, lei stima che, con gli attuali trend di contagio e di morte, si possa arrivare anche ad avere 2-300 mila decessi. Una cifra terribile. Come arriva a questa conclusione? Qual è il metodo di calcolo?
Il calcolo si basa su due parametri, uno (relativamente) noto e l’altro ipotetico. Il parametro noto è che, su 100 infetti, ne muoiono 2 o 3. Questo dato, da solo, ci dice che, ove avessimo 8 milioni di infetti (come in una comune influenza), il numero di morti sarebbe compreso fra 160 e 240 mila. Il parametro ipotetico è invece il tasso di propagazione del virus, che dipende da tanti fattori e al momento non è noto, ma a mio parere è nettamente superiore a 2 o a 2.5 contagiati per ogni infettato. È qui che subentrano i modelli matematici di simulazione, che partono da ipotesi sul tasso di propagazione e controllano se le traiettorie che ne risultano sono compatibili con i dati noti, ossia con le serie storiche dei contagi accertati e, soprattutto, delle morti connesse al coronavirus. Queste ultime sono le più affidabili, perché dipendono solo dalla diffusione effettiva del contagio, e non dalle politiche sanitarie e diagnostiche messe in atto, come accade invece con le statistiche sul numero di positivi al test.

E cosa dicono le sue simulazioni?
Ebbene, le simulazioni mostrano che, se si vogliono generare serie storiche compatibili con la dinamica di quelle osservate, si è costretti a ipotizzare un tasso di propagazione più alto di 2.5. Qualche esperto, come il prof. Andrea Crisanti, virologo dell’Università di Padova, è arrivato a ipotizzare un tasso di 4 o 5 contagiati per infettato, che nelle simulazioni risulta più compatibile con i dati storici di un tasso di 2 o di 2.5. Ma il dramma è che, se il tasso di propagazione è davvero 4 o 5, e non si interviene con politiche di contenimento drastiche, il numero degli infettati non ci metterà molto ad arrivare a qualche milione, come accade con l’influenza stagionale.

Il calcolo statistico non sconta variabili, nella fattispecie potrebbero essere il caldo della primavera, l’indebolimento del virus stesso o l’efficacia delle misure prese dal governo. Che margini di errore hanno di solito analisi di questo tipo?
Le analisi basate su modelli matematici possono solo formulare ipotesi su eventuali meccanismi di attenuazione (o di amplificazione), perché la capacità di propagazione del virus non è un dato assoluto, o intrinseco, ma dipende da numerose condizioni al contorno, perlopiù sconosciute nelle loro dimensioni e nel loro impatto. Cionondimeno, la mera osservazione della dinamica attuale basta a suggerire che, per frenare il virus, occorrerebbero fattori di grandissimo impatto, come una elevata sensibilità al caldo, o una tendenza all’indebolimento nel ciclo delle mutazioni. Fra i fattori potenzialmente frenanti, però, ve n’è uno fondamentale, che nei miei modelli ho chiamato qt.

Cosa indica qt?
È la quota di malati «ritirati» dalla scena pubblica al tempo t e collocati in quarantena, in quanto precocemente diagnosticati come positivi al coronavirus. Ebbene, poiché (assieme alle norme comportamentali) l’incremento di q mediante una campagna massiccia di tamponi è l’unica arma che abbiamo, considero irresponsabile (per non dire altro) il comportamento del premier Giuseppe Conte, che qualche giorno fa ha esortato a fare meno tamponi.
Se anziché straparlare di numero eccessivo di tamponi il governo avesse seguito il saggio consiglio del virologo Roberto Burioni di moltiplicarli, prevedendoli per chiunque abbia anche solo 37 gradi e mezzo di febbre, oggi la progressione del contagio sarebbe sensibilmente più lenta, e avremmo qualche speranza di fermarlo.

Tra Nord e Sud c’è qualche differenza? Ad oggi ci sono meno contagi.
Penso che l’esplosione dei contagi al Nord sia dovuta a due fattori distinti. Il primo è il caso, ossia che il Nord abbia avuto un paziente super-spreader (ultra-capace di infettare), che da solo ha dato luogo a una catena di contagi molto vasta, favorita dai protocolli seguiti nell’ospedale di Codogno, che per quel che ne so erano quelli vigenti, anche se inadeguati.
Il secondo, decisivo, fattore è che sono tutte del Nord le regioni più produttive e internazionalizzate del Paese, ossia Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna. Io ho fatto calcoli separati per la propagazione al Nord e al Sud e, allo stato attuale dell’informazione disponibile mi risulta che la velocità di propagazione sia analoga.

L’Italia da zona franca è diventato focolaio europeo. Ma c’è chi sostiene che la differenza sia proprio nel numero (in eccesso) di tamponi fatti in Italia.
La considero una sciocchezza. In Italia il processo è partito un po’ prima, per ragioni casuali, ma temo che gli altri paesi vedranno il medesimo film, a meno che qualche paese si decida a percorrere la strada-Burioni anziché il precipizio-Conte. Lì si vedrà quali paesi hanno una classe dirigente all’altezza.

A fronte di questa situazione, le autorità stanno via via riavviando le attività. Che segnali arrivano alla popolazione?
Errati. Le attività dovrebbero essere poste sistematicamente in folle, o meglio al regime di giri minimo necessario per la sopravvivenza fisica della popolazione.
Io però distinguo nettamente fra l’intervento assistenziale e riparativo dello Stato (che è opportuno) e il tentativo di riaprire le attività, tornando alla vita normale (che produrrebbe effetti catastrofici). Quest’ultima cosa, il ritorno alla normalità, non possiamo ancora assolutamente permettercela.

Senza risorse massicce, il Servizio sanitario nazionale rischia di non farcela.
Rischia il collasso. A mio parere è praticamente certo che, nel giro di poche settimane, si comincerà a morire perché non ci sono abbastanza posti nei reparti di terapia intensiva. È il guaio delle democrazie, che non possono costruire un ospedale in dieci giorni, né rinchiudere qualche milione di abitanti in una zona rossa, né proclamare il coprifuoco.

Lei sta seguendo il flusso di informazioni dei media? Come lo giudica?
Ne sono disgustato. Tutto continua con i consueti teatrini, in cui i soliti personaggi si scambiano opinioni (e qualche volta insulti) su cose più grandi di loro. È come la scena finale del Titanic, con la gente che balla mentre la nave affonda.

Che stima è possibile fare per quanto riguarda gli effetti sul pil?
Stime vere e proprie sono impossibili. Se proprio devo azzardare, però, di stime ne farei non una ma due. Se ci fermiamo per un paio di mesi e ci occupiamo solo di salvare la pelle, forse potremmo uscirne con una semplice recessione, più o meno come nel 2008. Se invece ci intestardiamo a far ripartire l’economia subito, e questo – come è elementare prevedere – anziché frenare il virus aiuta la sua circolazione, potrebbe essere la catastrofe. Che a quel punto non si misura sui punti di pil perduti ma, come in guerra, sul numero di morti.

Il governo italiano si accinge a incassare uno sforamento dei vincoli Ue pari a 3,6 miliardi di euro di maggiori risorse. Che effetto avrà?
Sono sempre stato ostile agli sforamenti del deficit, ma questo è uno dei pochi casi in cui lo troverei sacrosanto. Il problema, però, è come usarli i 3.6 milioni di euro. Io prevedo che il grosso sarà usato per soddisfare le innumerevoli richieste di risarcimento danni che pioveranno sul tavolo del governo, e ben poco resterà per l’unica vera emergenza: rafforzare il servizio sanitario nazionale con un’iniezione straordinaria di personale, attrezzature, posti letto.

Intervista a cura di Alessandra Ricciardi pubblicata su ItaliaOggi del 4 marzo 2020

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Coronavirus, calcoli sbagliati: le gravi responsabilità del governo

5 Marzo 2020- di Luca Ricolfi

Non ho molti dubbi sul fatto che gli storici del futuro avranno molto da dire sulle responsabilità del governo Conte.

Su ciò che è accaduto in questo cruciale mese di febbraio. È molto verosimile che, quando la distanza temporale degli eventi avrà reso gli animi più distaccati e le menti più lucide, alla mediocre classe dirigente che ha gestito questa crisi verranno imputati tre errori fatali, dislocati più o meno a una settimana di distanza l’uno dall’altro.

Errore 1: avere sottovalutato, nonostante le avvertenze degli esperti (il primo allarme di Roberto Burioni è dell’8 gennaio, ben due mesi fa), la gravità della minaccia dell’epidemia di coronavirus, non solo respingendo la linea rigorista dei governatori del Nord, ma tentando di approfittare politicamente delle circostanze: un’emergenza sanitaria è stata trattata come un’emergenza democratica, come se la posta in gioco fosse l’antirazzismo e non la salute degli italiani (il medesimo Burioni, per le sue proposte di quarantena, è stato accusato di fascio-leghismo).

Errore 2: aver rinunciato, quando la misura sarebbe stata ancora efficace, a una campagna massiccia di tamponi, per la paura di danneggiare l’immagine dell’Italia all’estero.

Errore 3: aver insistito per giorni sulla necessità di far ripartire l’economia, come se questo obiettivo – se perseguito nel momento di massima espansione dell’epidemia – non avesse l’effetto di facilitare il contagio. Non so se, in queste ore, il governo correggerà la rotta, e in che misura eventualmente lo farà. Ma penso di poter dire, sulla base dell’evidenza statistica disponibile, che non essere intervenuti drasticamente e subito avrà un costo enorme in termini di vite umane, prima ancora che in termini di ricchezza.

Il numero di persone già contagiate è molto più ampio del numero di positivi, e il numero di morti raddoppia ogni 48 ore senza, per ora, mostrare alcun segno di rallentamento. Il tasso di propagazione dell’epidemia, il famigerato R0, è tuttora largamente superiore a 2, probabilmente prossimo a 5 contagiati per infetto. Se, come molti esperti considerano possibile, il virus dovesse raggiungere anche solo il 20% della popolazione (12 milioni di persone), i morti non sarebbero il 3% (circa 360 mila) ma almeno il triplo o il quadruplo, ovvero 1 milione o più. In quel caso, infatti, i posti di terapia intensiva necessari per salvare i pazienti gravi non sarebbero sufficienti, nemmeno ove – tardivamente – il governo varasse oggi stesso un piano per raddoppiare o triplicare la capacità attuale (oggi i posti disponibili sono 5000, con 12 milioni di contagiati ce ne vorrebbero più di 50 mila, ossia 10 volte la capacità attuale).

Questa eventualità, ossia che il coronavirus raggiunga un cittadino su 5, è così poco inverosimile che il Regno Unito la sta considerando seriamente come uno scenario possibile. E non voglio neppure pensare che cosa potrebbe accadere se, come alcuni esperti ritengono possibile, l’epidemia dovesse raggiungere quasi l’intera popolazione italiana. In questa situazione ci vorrebbe ben altro governo e ben altra classe dirigente, ma non è questo il tempo di fare considerazioni politiche. Oggi è il tempo di salvare l’Italia da una catastrofe potenzialmente peggiore di una guerra, e di farlo con i mezzi che abbiamo e il tempo ristrettissimo che ci sta davanti.

So di star per dire una cosa non provabile in modo inoppugnabile (i dati sono ancora parziali) ma solo plausibile, e tuttavia voglio dirla lo stesso, perché proteggere la mia reputazione di studioso è meno importante che avvertire di un pericolo che è largamente preferibile sopravvalutare che ignorare. Ebbene, nelle prossime 72 ore, se nulla cambia, è verosimile che l’Italia attraversi la barriera dei 60.000 contagiati, un limite oltrepassato il quale il rischio di interagire con persone contagiate diventa non trascurabile, ed enormemente più grande di quello che avevamo anche solo fino a un paio di settimane fa.

Non spetta a me, né ne avrei gli strumenti, per redigere un piano che limiti i danni. In proposito ci sono idee e proposte di grande spessore degli esperti che in queste settimane sono stati più vigili, e meno disponibili ad accodarsi alle oscillazioni delle autorità di governo: penso al prof. Roberto Burioni (Università Vita-Salute San Raffaele di Milano), al prof. Andrea Crisanti (Università di Padova), al prof. Massimo Galli (ospedale Sacco di Milano).

Due cose, però, mi sento di dirle. La prima è che la priorità non può essere far ripartire l’economia subito, perché questo non farebbe che accelerare la circolazione del virus. Le risorse economiche dovrebbero essere indirizzate prima di tutto a moltiplicare le unità di terapia intensiva e sub-intensiva, perché quasi certamente fra 2 o 3 settimane i malati gravi saranno molto più numerosi dei posti disponibili. La seconda è che, se vogliamo limitare il numero dei morti, dovremo rinunciare, per almeno qualche settimana, a una parte delle nostre libertà e, probabilmente, anche a una frazione di ciò che siamo abituati a pensare come parte integrante della democrazia. Quando dico rinunciare alle nostre libertà, penso soprattutto alla libertà di circolazione e di spostamento. E quando dico rinunciare a una frazione della democrazia intendo dire che, se vogliamo salvare il servizio sanitario nazionale, dobbiamo avere il coraggio di nominare un commissario per l’emergenza, che sia competente, dotato di pieni poteri, di un budget adeguato, e completamente immune alle interferenze della magistratura e della politica.

L’alternativa esiste, naturalmente, ed è di continuare con la rancida minestra che ci sta somministrando questo governo. Ma bisogna sapere, allora, che il costo non si misurerà in termini di consenso, o di punti di Pil perduti, bensì in termini di vite umane che si è rinunciato a salvare.

Pubblicato su Il Messaggero del 5 marzo 2020

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Misure drastiche o collassiamo

5 Marzo 2020 – Intervista di Alessandra Ricciardi a Andrea Crisanti

Cinturare le regioni libere dal Coronovirus, limitare la libertà di circolazione per tutti. Investire subito Misure drastiche o collassiamo due miliardi in sanità pubblica e ricerca. Se l’epidemia da Coronavirus non sarà contenuta con misure drastiche, si collassa. «Il sistema sanitario in questo momento regge perché non abbiamo ancora raggiunto il picco dell’epidemia», sostiene Andrea Crisanti direttore del laboratorio di Microbiologia e virologia dell’Università di Padova, dove è stato messo a punto all’inizio di febbraio il test europeo per la diagnosi del covid-2019. Crisanti, componente del comitato scientifico chiamato da pochi giorni a supportare la regione Veneto nella lotta all’epidemia, è tranchant: «Serve una politica nazionale coraggiosa, decisa da chi sa come si contiene un’epidemia». Le percentuali diffuse finora su numero di contagi e di morti? «Sono falsate, rilevano solo la punta dell’iceberg».

Professore, alcune domande tecniche, per fare chiarezza. Quanto tempo passa, mediamente, fra il momento in cui si contrae il virus e quello in cui si diventa contagiosi?
In genere tra i cinque e i dieci giorni. Diciamo che 14 giorni sono un termine prudenziale utile.

Fra coloro che non muoiono né sono sottoposti a terapia intensiva, quanti giorni intercorrono, mediamente, fra il momento del contagio e quello della guarigione?
Sono variabili, non esistono al momento dati sufficienti per poterlo stabilire. Molto dipende dalle condizioni anche di salute personale.

Fra coloro che muoiono, quanto tempo passa, mediamente, fra il momento del contagio e quello della morte?
Almeno 10, in media 20, anche 30 giorni.

Glielo chiedo per capire a che periodo si riferiscono i decessi di cui parliamo oggi.
Lo avevo capito. Guardi che i dati comunicati su contagi accertati e decessi sono solo la punta dell’iceberg. Tutte le percentuali diffuse fotografano una minima parte della realtà. Sono percentuali falsate, non affidabili.

Quale potrebbe essere la percentuale di infetti che non può essere diagnosticata e guarisce pensando di avere avuto una semplice influenza?
Questo lo sapremo solo quando saranno disponibili i dati di Vo’ Euganeo, dove abbiamo i test di tutti e quindi potremo definire in modo più scientifico l’andamento. Vo’ è diventato, suo malgrado, il più grande terreno di studio epidemiologico a disposizione, un bacino che non ha eguali nemmeno in Cina.

Secondo una sua prima stima?
È una percentuale non trascurabile, superiore al 20-30%, io ritengo. La malattia sta correndo sottotraccia in Italia da tempo, almeno da metà gennaio. Il virus si è mosso grazie a una comunità di 30-40enni che viaggiano e che sono stati asintomatici, diffondendo il contagio in modo inconsapevole.

Quando si dice che R0, ossia il numero di persone che un infetto può contagiare, ha un certo valore (spesso si sente citare 2 o 3), a quale intervallo di tempo si fa mediamente riferimento?
Il tasso indicato di replicazione del virus è ininfluente rispetto all’intervallo temporale.

Ma lei ritiene che un ammalato possa fare 2 o 3 contagi?
No, almeno 4-5.

Da cosa dipende la capacità di contagio del virus?
Non ci sono modelli sperimentali utilizzabili sul Coronavirus e sapremo qualcosa di più quando finiremo tutte le analisi su Vo’ Euganeo.

La letteratura scientifica indica tassi di contagio anche più alti di cinque.
Vede, nella lettera scientifica non ci sono valori di R0 esportabili geograficamente, perché il tasso di replicabilità non dipende solo dalla virulenza del virus, ma molto dalla densità della popolazione di un’area, dalle condizioni di igiene, dalle abitudini di vita, dalla mobilità. Faccio un esempio: la poliomelite nel 1930 aveva un R0 di 12 in Italia. Negli Usa era di 4. Lì avevano le fogne, noi no.

In un’intervista a ItaliaOggi, Luca Ricolfi stima che alla fine potrebbero esserci 200/300 mila morti se i tassi di contagio fossero quelli comunicati di 2.5 e se la diffusione dovesse essere simile a quella della influenza stagionale e dunque colpire 8 milioni di persone. Una stima pessimistica?
È probabile abbia ragione.

Se il governo dovesse decidere di massimizzare il numero di tamponi trovando i fondi necessari, quanti tamponi si possono fare in un mese?
Ma ormai per i tamponi di massa è tardi. Questa operazione andava fatta su larga scala all’inizio, per fare uno screening di quanti entravano in Italia dalle aree a rischio. Ora i tamponi servono solo per verificare i contagi potenziali di un ammalato e per proteggere il servizio sanitario.

In che senso tutelare il sistema sanitario?
I medici e il personale infermieristico devono essere protetti. Quello che si deve fare ora è controllare a fine turno ogni operatore, chi è negativo torna al turno successivo, chi è positivo va a casa. Io rischio di vedermi decimato il reparto di pediatria…

Potrebbe esserci l’emergenza per i posti di terapia intensiva. Avendo fondi, c’è un limite fisico e temporale per mettere in piedi un reparto?
Noi siamo uno dei paesi al mondo con il più alto numero di posti di terapia intensiva. Si possono accrescere del 20 /30% riconvertendo posti letto ordinari. Ad oggi bastano. Il problema di fondo però è un altro. Qui servono misure straordinarie, non stiamo alle prese con un’alluvione o un terremoto. Siamo alle prese con un’epidemia.

Quanto servirebbe per mettere in sicurezza il Paese?
Servono 2 miliardi per la sanità pubblica e la ricerca, il problema non si risolve dando 500 euro alle partite Iva.

Se le dicessero ecco, ci sono i due miliardi, lei cosa ci farebbe?
Creerei strutture ad hoc per ricoverare i semplici contagiati, potenzierei l’assistenza a casa degli anziani. E se non vogliamo chiudere tutte le città, se non vogliamo fare come in Cina sospendendo i diritti individuali alla libera circolazione a livello nazionale, perché lo riteniamo un prezzo troppo alto da pagare in termini sociali ed economici, allora dobbiamo investire in modo massiccio in sanità e ricerca. Per assistere un numero crescente di malati e per trovare in fretta un vaccino.

Come giudica le misure di contenimento finora adottate?
Inadeguate e confuse. Io farei un’operazione molto più drastica, cinturando le regioni, come le isole, dove il virus non è ancora arrivato o dove sono pochi i casi, così da salvare le aree free e concentrarsi sulle zone ad alto rischio. Invece vedo indicazioni e comportamenti discordanti da parte della autorità, c’è molta confusione. Vorrei però fare un chiarimento di fondo.

Prego.
Questa è un’epidemia di cui vediamo una minima parte, se non conteniamo il virus e non arriviamo all’estate possiamo aspettarci il peggio. In Italia purtroppo manca una cultura della sanità pubblica e del controllo e del contrasto delle epidemie. In Inghilterra, dove ho lavorato per 25 anni, hanno una lunga tradizione. Noi non abbiamo esperti, non abbiamo investito, gli unici, e sono pochi, che sanno qualcosa di controllo delle epidemie e di controllo integrato sono gli studiosi di malaria. Se non si cambia atteggiamento, se non capiamo che questa crisi non si gestisce come se fosse una normale emergenza non ce la facciamo.

Quanto serve per avere un vaccino?
Almeno 14 mesi, poi va commercializzato. Servono due o tre anni se non quattro per mettere in sicurezza la popolazione. Occorre fare un investimento enorme per cercare di fare prima.

L’arrivo della bella stagione ci può dare una mano?
Di solito con il caldo le malattie respiratorie diminuiscono. Dobbiamo attendere fine maggio.

E il prossimo inverno?
Garantito che il virus si ripresenterà. Guardi, tutti noi dovremo pagare un prezzo al Coronavirus, o accettiamo che un numero x, ancora non stimabile, di vite umane venga sacrificato oppure cerchiamo di combattere il virus con misure drastiche di contenimento. Lo ripeto, più sanità pubblica, più ricerca e limitazione delle libertà individuali, come quella di circolazione. Dipende da come decidiamo di pagare. Se non entriamo in questa logica, collasseremo. E saranno gli altri stati a isolarci.

Il sistema sanitario regge?
Il sistema in questo momento regge perché non abbiamo ancora raggiunto il picco dell’epidemia. Se il virus continua a galoppare, nel giro di un mese siamo alla saturazione.

Intervista a cura di Alessandra Ricciardi pubblicata su ItaliaOggi del 5 marzo 2020

 




Effetti collaterali della pandemia: Conte su, Lega giù

Certamente gli interessi attuali degli italiani vanno in altre direzioni, verso l’uscita dall’emergenza sanitaria del Coronavirus e la possibile sperata ripresa economica e occupazionale. Resta però indubbio che gli orientamenti di voto dall’inizio del “lockdown” fino ai giorni nostri hanno in parte rivoluzionato la geografia politica nostrana, come testimoniano la quasi totalità dei sondaggi effettuati ultimamente. Avevamo lasciato la Lega di Salvini solidamente solitaria nelle dichiarazioni degli elettori, a inizio marzo, ed ora ce la ritroviamo soltanto di pochi punti percentuali sopra le due forze politiche che sorreggono il governo giallorosso.

La Lega perde qualcosa come sette punti (dal 33% al 26%) nel giro di soltanto due o tre mesi, a testimonianza della ormai cronica alta volatilità delle scelte elettorali e, visto il parallelo declino della popolarità dello stesso leader leghista, di instabili fiducie nei diversi protagonisti politici. Mentre Lega e Salvini retrocedono, il premier Conte sale, evidenziando un dato pre-politico ormai divenuto un elemento politico a tutti gli effetti: ciò che conta è soprattutto la capacità immediata di suscitare emozioni favorevoli nella pancia degli elettori. Non sono più i valori (o le ideologie) a veicolare la propria vicinanza politica, e nemmeno forse gli atteggiamenti o le opinioni, che non possono mutare così repentinamente, in brevi lassi di tempo, nel giro di due-tre mesi. Ciò che cambia sono le emozioni, e le emozioni portano con sé discese ardite e risalite (per dirla con Lucio Battisti) di questo o quell’uomo politico, e dei loro partiti di riferimento, nel caso ne abbiano uno.

Per Salvini, in discesa, e per Meloni, in salita nei consensi, è accaduto proprio questo anche per i loro partiti che, senza una ragione precisa (o con motivazioni poco significative) hanno ridisegnato lo spazio di consenso all’interno del centro-destra, ora divenuto quasi bicefalo, con Forza Italia ormai relegata ai margini. Dal punto di vista territoriale, la Lega perde soprattutto nelle regioni e nelle aree dove la sua crescita durante lo scorso anno rinforzava il tentativo di diventare un partito nazionale, in particolare nel sud e nelle ex-zone rosse, dove ora si incrementano invece i consensi rispettivamente per Fratelli d’Italia e Partito Democratico. È possibile che un centro-destra a due teste riproponga l’idea di una coalizione con il settentrione predominio di Salvini (e di Zaia) ed il meridione predominio di Meloni, dove peraltro resta forte anche il Movimento 5 stelle.

Per Giuseppe Conte, che non ha in realtà alcun partito di riferimento specifico, il livello dei consensi appare elevato in tutte le zone del paese, soprattutto ovviamente dove è meno forte l’elettorato di centro-destra, ma la sua crescita è evidente anche in quelle aree, benchè non raggiunga le quote delle altre aree. Se cioè la fiducia nel presidente del consiglio è più alta, in termini assoluti, nel centro-nord e nel sud (grazie ai giudizi positivi di elettori Pd e M5s), la crescita dei suoi consensi, di quasi 15 punti dal periodo pre-pandemia ad oggi, appare generalizzata in tutte le regioni italiane. Anche in questo caso, molto probabilmente, una parte rilevante è giocata dalle emozioni che Conte è riuscito a suscitare nell’elettorato italiano, senza ulteriori distinzioni partitiche o territoriali.




Germania e Italia di fronte al sovranismo giuridico

Nel dibattito culturale più recente si parla assai spesso di “sovranismo”; termine che viene inteso pressoché invariabilmente in senso politico, ossia come una rivendicazione della prevalenza degli interessi economici e strategici del singolo Stato rispetto a quelli di altri stati ovvero all’attività e all’agenda di enti e istituzioni sovranazionali. In Italia (e in Europa) il tema si concentra peraltro sulla possibilità di rivendicare maggiori spazi di autonomia a favore degli Stati membri, di fronte al crescere dei vincoli imposti dall’Unione Europea all’azione politica nazionale, sia mediante il ricorso sempre più frequente a direttive e regolamenti nei più disparati settori, sia – più di recente – mediante l’imposizione di condizioni di politica economica e fiscale (le famose “condizionalità”) in seguito alla concessione di aiuti finanziari agli stati membri da parte degli enti che fanno capo all’UE.

Il tema del sovranismo può in realtà essere trattato in termini ben più generali (e meno conflittuali) declinandolo in senso giuridico, ossia come uno dei possibili modelli di gerarchia costituzionale delle fonti del diritto, identificandosi in particolare con quello che vede prevalere le fonti di diritto nazionale – e, in particolare, le norme della costituzione nazionale – rispetto alle norme primarie e secondarie di diritto internazionale (e dunque anche comunitarie).

Sul punto occorre tuttavia svolgere un chiarimento preliminare: l’Unione Europea – in particolar modo la Corte di Giustizie UE – rivendica da sempre e con forza il primato del proprio diritto rispetto a quello degli Stati Membri. Sennonché, pare a chi scrive che proprio il fatto che gli organi UE trovino necessario ribadire diverse volte una certa cosa (nella specie, appunto, il primato del diritto UE), conferma che quella cosa tanto certa poi non è. E non lo è nel senso – evidente a chiunque, anche se non giurista – che, al di là degli argomenti che può indicare la Corte di Giustizia per sostenere le sue tesi, l’UE in ultima analisi è solo un insieme di burocrazie e organi che producono norme giuridiche, ma non ha né un popolo né un territorio “propri”. Dunque l’UE – che esiste, opera (e ha la tendenza a concepire sé stessa) come se fosse un super-stato – in realtà uno stato non è, sia perché non fonda la propria sovranità su un suo popolo sia perché non è in grado di amministrare da sé quella sovranità su un proprio territorio, non avendo né un esercito né una polizia né un insieme di tribunali e altri organi che gli consentano di far rispettare coercitivamente le norme che promulga, dovendosi viceversa valere, per ottenere quel risultato, del “braccio secolare” degli Stati membri. Se dunque l’UE – in via di fatto – esiste solo perché “può comandare in casa d’altri” è evidente che la sua stessa esistenza – ossia la vigenza del diritto che produce – dipende dal consenso che questi “altri” prestano al suo comandare a casa loro. Questo spiega perché il tema del sovranismo non può essere affrontato (e tanto meno risolto) muovendo da quel che sostiene l’UE stessa, per voce della sua Corte di Giustizia, laddove la sua soluzione dipende invece dai limiti in cui gli Stati Membri si ritengono vincolati (o, quanto meno, acconsentono) a rendere vigente il diritto UE nei rispettivi territori: limiti che – ovviamente – sono definiti solo dalle costituzioni nazionali e dall’interpretazione che di esse danno le rispettive Corti costituzionali.

Si badi infatti che tutte le costituzioni non possono che essere sovraniste: qualunque riconoscimento costituzionale della prevalenza del diritto UE, per quanto ampio e incondizionato, resterebbe infatti pur sempre reversibile dallo stato nazionale, vuoi con una modifica costituzionale o vuoi con una uscita dai trattati (in tal senso la brexit ha insegnato quanto poco ci voglia per togliere ogni potere all’UE). In altre parole: se è proprio (e solo) la sovranità dello Stato che consente a quello stesso Stato di prestare il proprio consenso a divenire parte di una convenzione internazionale, non esiste alcuna valida ed efficace convenzione internazionale senza la sovranità degli stati aderenti, i quali tuttavia – proprio in ragione di quella stessa sovranità che consente loro di rendere effettivi i trattati – possono anche sottrarsi unilateralmente alla vigenza di quei trattati, restando esposti solo alle eventuali ritorsioni di diritto internazionale eventualmente decise delle altre parti secondo le regole del diritto internazionale consuetudinario o pattizio.

Questa elementare considerazione sul fondamento ultimo della effettiva vigenza di un qualunque trattato internazionale (che, come si diceva, è proprio la sovranità degli stati che vi aderiscono) ispira con tutta probabilità la giurisprudenza costituzionale tedesca più recente che – quando si è trovata a dover valutare sia norme di matrice UE (i famigerati programmi di acquisto di titoli di stato da parte della BCE nel contesto del cosiddetto quantitative easing) sia trattati multilaterali di grande importanza economico-strategica (come il trattato sulla Corte Unificata dei Brevetti) – ha affermato con una certa decisione il principio secondo cui le norme di qualunque trattato internazionale restano soggette al consenso degli Stati aderenti nei limiti in cui era stato manifestato in sede di adesione al trattato, di guisa che gli organi internazionali eventualmente creati dai trattati (incluse, per quel che concerne l’unione europea, la BCE e la Corte di Giustizia UE) non possono modificare i principi ed i limiti su cui si fondavano “i patti” originariamente sottoscritti dagli Stati in sede di stipulazione del trattato. Questo principio è stato riassunto nel lemma, assai icastico e per certi versi tagliente, secondo cui gli stati aderenti restano i soli veri “padroni” dei trattati (e dunque anche dell’UE). Ma non basta: la Corte ha anche ribadito il suo costante orientamento nel senso che le norme in cui si manifesta la sovranità dello stato nazionale (e dunque le norme fondamentali costituzionali) prevalgono sulle norme di fonte internazionale.

Questo significa, per i giudici costituzionali tedeschi, non solo che i patti internazionali vanno attuati e sono vigenti solo nei limiti in cui sono stati stipulati (o successivamente modificati) dagli stati aderenti (senza che dunque gli organi che amministrano o attuano i trattati possano in via autonoma spingersi ultra vires), ma anche che i principi fondamentali della costituzione nazionale rappresentano un limite implicito del diritto dello stato di aderire ai trattati e dunque prevalgono – nei singoli stati – sulle norme di qualunque trattato internazionale (così come nei confronti della normativa secondaria prodotta dagli organi costituiti in forza dei trattati), che deve essere disapplicato o denunciato nelle parti in cui non rispetti quegli stessi principi. E questo vale anche per il diritto UE.

La Corte a tale riguardo ha infatti precisato che il controllo di costituzionalità del diritto Ue (anche con riferimento ai provvedimenti emanati dagli organi europei nel contesto del processo di integrazione europea) si articola in due diverse valutazioni: quella di conformità dei poteri esercitati dall’Unione rispetto alle funzioni che i Trattati le conferiscono secondo il principio generale di attribuzione (c.d. ultra vires review) e quella di non interferenza degli atti dell’Unione con i “principi fondamentali” ricavabili dalla Legge fondamentale tedesca che siano tali da caratterizzarne l’identità (c.d. identity review). Si noti dunque come la selezione dei principi costituzionali “fondamentali” viene operata in Germania sulla base di un criterio che si può senza dubbio definire nazionalistico, dal momento che considera prevalenti rispetto al diritto UE i principi che consentono di conferire all’assetto costituzionale tedesco la sua “identità” (applicando una dottrina che viene definita in Germania della “identità costituzionale”).

Ebbene: la volontà di subordinare la vigenza del diritto UE in uno stato membro all’“identità costituzionale nazionale” – dunque la dottrina tedesca dell’identità costituzionale – rappresenta a mio avviso un modello di interpretazione dei rapporti tra diritto dell’UE e diritto nazionale che può tranquillamente essere definito come “sovranismo giuridico”, ossia come manifestazione della volontà dello stato nazionale di subordinare – nella gerarchia delle fonti – il diritto UE ai principi fondamentali del suo ordinamento costituzionale.

Il sovranismo giuridico della Corte di Karlsruhe appare peraltro in linea con le norme costituzionali che la corte stessa ha l’obbligo di applicare. L’art. 20 della legge fondamentale tedesca dispone infatti che “La Repubblica Federale di Germania è uno Stato federale democratico e sociale” e che “Tutto il potere statale emana dal popolo. Esso è esercitato dal popolo per mezzo di elezioni e di votazioni e attraverso organi speciali investiti dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario”, mentre l’art. 23 (intitolato “l’Unione europea”) prevede specificamente che “Per la realizzazione di un’Europa unita la Repubblica federale di Germania collabora allo sviluppo dell’Unione Europea che è fedele ai principi federativi, sociali, dello Stato di diritto e democratico nonché al principio di sussidiarietà e che garantisce una tutela dei diritti fondamentali sostanzialmente paragonabile a quella della presente Legge fondamentale. La Federazione può a questo scopo, mediante legge approvata dal Bundesrat, trasferire diritti di sovranità. Per l’istituzione dell’Unione Europea, per le modifiche delle norme dei trattati e per le regolazioni analoghe, mediante le quali la presente Legge fondamentale viene modificata o integrata nel suo contenuto oppure mediante le quali tali modifiche e integrazioni vengono rese possibili, si applica l’articolo 79, secondo e terzo comma”. La costituzione tedesca, in altre parole, ammette sì ampie deleghe di sovranità a beneficio dell’Unione Europea, ma solo nei limiti in cui l’azione dell’Unione resta nei limiti dei principi fondamentali tracciati dalla carta fondamentale tedesca. Dunque la Corte, nell’ispirare la sue giurisprudenza al principio del sovranismo giuridico, non si spinge ultra vires, ma rispetta il dettato della sua carta fondamentale.

In Italia le cose stanno, a prima vista, in modo analogo, anche se poi – approfondendo il discorso – si scoprono differenze tanto interessanti quanto significative rispetto all’esperienza tedesca. La nostra Corte costituzionale ammette infatti che il diritto UE prevalga rispetto al diritto nazionale in applicazione dell’art. 11 Cost.., secondo cui l’Italia “consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni”. Proprio l’applicabilità dell’art. 11 al diritto UE consente alla Corte Costituzionale di creare a favore delle fonti di diritto unionista uno spazio di vigenza da cui l’ordinamento nazionale (analogamente a quando prevede l’art. 23 della costituzione tedesca) si ritrae, per lasciare competenza esclusiva al legislatore unionista: spazio in cui – dunque – la norma unionista si va ad inserire, risultando per l’effetto direttamente vincolante in Italia, senza per questo divenire una norma nazionale (come avviene invece per altre fonti internazionali, secondo la dottrina della cosiddetta “recezione”).

Conseguenza di questo particolare regime di vigenza è che il diritto UE non resta soggetto al “normale” sindacato di legittimità costituzionale che vale per le leggi interne, bensì a un controllo teso a verificare la compatibilità della norma con i “principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale” (così la sentenza n. 183/1973 e – più recentemente – l’ordinanza 454/2006). Anche in Italia, come accade in Germania, per le norme UE la Corte costituzionale applica un regime di verifica di costituzionalità “attenuata”. Simili norme infatti – a differenza di quelle nazionali – possono essere dichiarate incostituzionali (mediante l’impugnazione della legge nazionale di ratifica dei trattati che le hanno approvate o che hanno approvato le norme in forza della quali sono state adottate le norme comunitarie della cui legittimità costituzionale si discute) solo se sono contrarie ai “principi fondamentali” della nostra carta fondamentale.

E’ tuttavia nei criteri da adottare per l’individuazione dei principi costituzionali da considerarsi “fondamentali” che Italia e Germania adottano prospettive piuttosto differenti. In Italia, infatti, i principi fondamentali vengono per lo più identificati nei diritti umani inalienabili cui fa riferimento la prima parte della costituzione ma che sono riconosciuti anche nelle convenzioni multilaterali sui diritti umani. Questo consente di sostenere che – rispetto all’impostazione tedesca – il primato dell’ordinamento costituzionale sul diritto UE viene declinato in modo meno identitario e più universalista (quasi, verrebbe da dire, secondo criteri pseudo-giusnaturalistici). In sintesi: mentre la Germania adotta – nei confronti del diritto UE – un metro di verifica costituzionale colorato in senso nazionalista (adottando un sistema che potremmo pertanto definire “sovranismo giuridico forte”), l’Italia applica criteri di prevalenza costituzionale meno identitari e più universalisti (e dunque esercita quello che potremmo definire un “sovranismo giuridico debole”). Questo consente di spiegare piuttosto bene perché la Corte di Karlsruhe è assai più propensa – rispetto alla nostra Consulta – a valutare la legittimità costituzionale delle norme unioniste sindacando il merito delle scelte politiche che stanno dietro all’adozione delle norme europee: propensione che emerge proprio nella sentenza in tema di quantitative easing in cui la Corte giunge alla conclusione di incostituzionalità del programma di acquisti della BCE dopo aver spese decine di pagine nell’illustrazione di argomenti e principi di politica economica e monetaria.

Il fatto di poter contare su una corte costituzionale che esprime un “sovranismo forte” nel sindacare il contenuto del diritto unionista consente peraltro agli altri poteri dello stato tedesco di ritagliarsi, nelle diverse sedi istituzionali dell’UE, un maggiore spazio di manovra a tutela dei propri interessi nazionali rispetto a stati che (come l’Italia) – nella verifica costituzionale del diritto UE – si limitano ad esercitare un sovranismo debole. Il fatto insomma che la corte costituzionale di un stato dell’UE scelga di interpretare “alla tedesca” (ossia in senso più identitario e nazionalista) piuttosto che non “all’italiana” (ossia in senso più universalista) i criteri da usare per individuare i principi inviolabili dell’ordinamento costituzionale nazionale che devono sempre prevalere nei confronti del diritto UE; tale fatto – dicevamo – si riflette anche sul maggiore o minore potere contrattuale che quello stesso stato ha all’interno delle istituzioni europee.

Stando così le cose, e risultando piuttosto evidente che l’Italia ben di rado riesce a far valere i propri interessi in sede UE, è dunque lecito interrogarsi sui limiti in cui il riferimento all’art. 11 Cost. (dalla cui applicazione deriva il fatto che l’Italia sia un paese in grado di esercitare solo un sovranismo giuridico “debole” in sede di verifica costituazionale del diritto UE) sia correttamente utilizzato dalla nostra Consulta quando si tratta di valutare la tenuta costituzionale di norme di fonte unionista. Il tema è ovviamente molto complesso e dunque non può essere esaurito in questa sede, in cui mi limiterò a indicare un paio di spunti, fondati entrambi sulla considerazione che il regime di sindacato “attenuato” – sostanziandosi in una eccezionale limitazione di sovranità dello stato – pare giustificato solo nella misura in cui si può sostenere che i trattati UE beneficiano di una sicura copertura da parte dell’art. 11 Cost., dunque solo nella misura in cui è possibile considerare quei trattati come altrettanti strumenti “necessari” (non dunque semplicemente “utili”) per assicurare la pace e la giustizia tra le nazioni.

La prima considerazione che mi sento di svolgere a riguardo è che vi sono alcuni principi del diritto primario UE (come ad esempio il principio di conferimento, così come quello che subordina ogni aiuto dell’UE a rigide condizioni così come quelli che vincolano gli organi UE a modellare la propria azione di politica economica intorno alla dottrina della cosiddetta “austerity”) che – escludendo a priori ogni possibile aspetto solidaristico o mutualistico dei rapporti tra gli stati membri – potrebbero non esprimere un concetto di “giustizia” compatibile con quello che ispira – per un verso – la nostra carta costituzionale e – per altro verso, ma direi soprattutto – il complesso delle grandi convenzioni multilaterali come la CEDU e le convenzioni ONU. Se così fosse, infatti, si potrebbe mettere in dubbio che quelle parti dei trattati dell’unione siano davvero “necessarie” per assicurare (oltre alla pace, anche) la giustizia tra le nazioni. Il tema, certamente molto stimolante, è altrettanto certamente delicato (e scivoloso), dal momento che su simili questioni gli argomenti giuridici confinano con (fino a sfumarsi inevitabilmente in) valutazioni politiche. Per questa ragione non mi spingo oltre, limitandomi a segnalare la questione a chi vorrà esplorarla, tanto sotto il profilo giuridico quanto sotto quello politico.

Ma anche ammettendo che l’art. 11 Cost. si applichi ai trattati costitutivi dell’UE e a quelli generali sul suo funzionamento, siamo sicuri che lo stesso valga per le fonti europee secondarie, ossia per qualunque norma emanata dagli organi UE costituiti sulla base di quei trattati? Pare infatti azzardato sostenere che una qualunque norma contenuta in un regolamento UE (o in altro provvedimento normativo di secondo grado direttamente efficace in Italia) sia, automaticamente e dunque del tutto a prescindere dal suo oggetto e contenuto, sempre necessaria per assicurare la pace e la prosperità tra le nazioni, dunque meritando una possibilità di verifica di tenuta costituzionale attenuata. Il che impone di chiedersi se abbia davvero molto senso attribuire a qualunque norma derivata di fonte europea un potere di limitare la sovranità nazionale del tutto analogo alle fonti primarie, per il solo fatto che si tratti di norma che deriva da queste ultime fonti. Per dirla ancora più chiaramente: siamo così sicuri che la norma costituzionale su cui la corte costituzionale italiana fonda tradizionalmente la sua scelta di esercitare un sovranismo debole nei confronti dell’UE valga anche per le fonti UE secondarie? O magari anche in Italia esiste uno spazio per esprimere una posizione più articolata, nel senso che – anche qualora restasse ferma la posizione della Consulta nel senso di esercitare solo un sovranismo debole nei confronti del diritto primario dell’UE – almeno le norme secondarie restino soggette (non ad una semplice verifica di conformità ai principi fondamentali della nostra costituzione, ma) al medesimo rigoroso sindacato di costituzionalità cui sono soggette le leggi nazionali?




Regioni: la grande retromarcia sui tamponi

La settimana che ora si è conclusa è certamente, da tre mesi, quella in cui abbiamo subito meno restrizioni. Caduto l’obbligo di restare in casa, caduto il divieto di spostarsi fra regioni, concessa la riapertura di quasi tutte le attività, restano solo le ben note regole minime: mascherine, distanziamento, lavaggio frequente delle mani, disinfezioni e sanificazioni, il tutto affiancato qua e là dai primi esperimenti di tracciamento.

Quel che è molto difficile capire, però, è a che punto è l’epidemia. Non dico capire quel che ci aspetta in autunno (questo nessuno può saperlo), ma quel che sta succedendo ora. I messaggi che ci arrivano, infatti, sono estremamente contrastanti. Più che informazioni, quel che riceviamo dalle autorità e dai media è un frastuono di segnali ambigui, confusi, incoerenti.

Questo fa sì che ognuno sia autorizzato a leggere la situazione come meglio gli aggrada. Chi è sufficientemente giovane da non temere il virus, o sufficientemente ottimista da scommettere sul ritorno alla normalità, può appoggiarsi sulle dichiarazioni del dott. Zangrillo, secondo cui “clinicamente” il virus è morto. Del resto questo modo di vedere le cose è supportato da una larga parte della stampa e delle tv, la cui linea editoriale è amplificare i segnali positivi e non calcare troppo la mano su quelli negativi. Linea che, più che essere suggerita dalle dichiarazioni delle autorità (preoccupate che la gente abbassi la guardia), è suggerita dagli atti del governo e dell’Istituto Superiore di Sanità, quando si affannano a dipingere l’Italia come un paese sicuro, o diffondono report secondo cui in nessuna regione – nemmeno in Lombardia – Rt è salito sopra 1.

Chi invece è sufficientemente vecchio da temere il virus, o sufficientemente scettico da non credere che sia tutto finito, e tanto meno che “andrà tutto bene”, può trovare (s)conforto alle sue credenze nelle interviste di tanti esperti (dal prof Galli al prof. Crisanti), che paiono suggerire che la riapertura sia stata un azzardo non in sé, ma stante il nostro scarsissimo attuale livello di preparazione sui 4 fronti fondamentali: tamponi, tracciamento, mascherine, indagine Istat. E anche qui non mancano i media la cui linea editoriale è sottolineare i pericoli che stiamo correndo.

Ma come stanno effettivamente le cose per un osservatore che voglia basarsi solo sui dati di fatto?

La mia risposta è che ci sono due tipi di osservatori e nessuno dei due è in condizione di dirci come stanno le cose. Le autorità sanno più cose di noi, ma non ce le dicono tutte perché vogliono tenersi le mani libere: se ci lasciassero accedere ai dati di cui dispongono, alcune loro decisioni potrebbero apparire più discutibili di quanto già appaiono. Gli studiosi indipendenti (non legati al potere politico) sono perfettamente liberi di dire come stanno le cose, ma non hanno accesso ai dati cruciali, perché le autorità – spesso con la inconsistente scusa della privacy – preferiscono impedire l’accesso ai database.

In questa situazione, tutto quel che possiamo fare è di raccontare, sulla base dei dati (scarsi e di pessima qualità) cui abbiamo accesso, quel che riusciamo a intravedere.
Comincio con l’unico indizio positivo: finora la temperatura media dell’epidemia, misurata con il termometro della Fondazione Hume, continua a scendere, sia pure ad una velocità sempre più bassa (in concreto questo significa che il numero di nuovi infetti era decrescente almeno fino a un paio di settimane fa). Il vantaggio di questo strumento di misura è che non si fonda solo sul numero di nuovi casi positivi, che è drogato dal numero di tamponi, ma su altre informazioni come le ospedalizzazioni, i decessi e, appunto, il numero di tamponi effettuato.

Le buone notizie, tuttavia, si fermano qui. Se dal livello dell’Italia nel suo insieme ci spostiamo a quello delle singole regioni, da qualche settimana i segnali non appaiono rassicuranti. Sono circa una decina le regioni, infatti, in cui la curva dei decessi ha ormai cessato di piegare verso il basso, e in alcune ha persino cominciato a rialzare la testa. Del resto, anche sul piano nazionale l’andamento dei morti è piuttosto preoccupante: 500 morti alla settimana non sono pochi, se non altro perché sono di più di quanti (400) se ne registravano quando Conte annunciava il lockdown.

Ma il segnale più preoccupante viene dalla politica dei tamponi. Ci eravamo illusi, all’inizio di maggio, che il nostro appello a fare tamponi di massa (come in Veneto) fosse stato raccolto dalle autorità sanitarie e dai governatori delle Regioni. E in effetti, per una quindicina di giorni, le cose erano sensibilmente migliorate: improvvisamente la curva del numero di tamponi, ma soprattutto quella del numero di persone testate, aveva invertito la sua discesa e aveva cominciato a puntare risolutamente verso l’alto.

Ma poi…

Poi, a partire dal 25 maggio entrambe le curve, e segnatamente quella delle persone testate, hanno cominciato a puntare verso il basso: oggi il numero settimanale di persone testate è al minimo storico (da quando la Protezione Civile fornisce il dato), e  circa il 27% sotto il livello di domenica 24 maggio. L’obiettivo di “fare come il Veneto” si allontana sempre di più. E, fatto forse ancora più preoccupante, questa tendenza a fare meno tamponi è generalizzata, perché riguarda quasi tutte le 21 Regioni/Province autonome.

Se consideriamo l’intervallo fra la settimana che si è appena conclusa (primi 7 giorni di giugno) e l’ultima settimana prima della riapertura completa (la settimana del 17-24 maggio), c’è una sola regione – il Molise – che ha aumentato sia i tamponi sia le persone testate.

Tutte le altre hanno diminuito o il numero di tamponi, o il numero di persone testate o entrambi.

E nella maggior parte delle regioni le riduzioni sono state drastiche, dell’ordine del 20-30%, ma in alcuni casi addirittura superiori al 50%, fino al caso limite della Valle d’Aosta, che ha ridotto i tamponi del 63.2%, e le persone testate del 73.9%.

Ma che cosa è successo lunedì 25 maggio per far sì che le migliori intenzioni delle autorità politiche e sanitarie si sciogliessero come neve al sole?

Credo sia successo quel che, pochi giorni prima che accadesse, avevamo previsto e temuto dalle colonne del Messaggero. E cioè che, se il governo non avesse solennemente sganciato la “pagella” delle Regioni dal conteggio dei nuovi infetti, con l’avvio della Fase 2 l’incentivo a ridurre il numero di tamponi (per evitare di scoprire troppi infetti) sarebbe divenuto irresistibile.

Così è stato. Dal 25 maggio, giorno in cui a quasi tutte le attività è stato permesso di riaprire, la maggior parte delle Regioni, per paura di subire limitazioni all’attività economica e al turismo, hanno pensato bene di frenare i tamponi.

Ed eccoci al punto di partenza. Chi sa come stanno andando le cose non parla, né ha il coraggio di rendere accessibili i dati in suo possesso. Chi vorrebbe sapere, e potrebbe parlare, è costretto a lavorare con dati parziali, scadenti, e inquinati dalla paura di scoprire nuovi casi.

Cosi, alla fine, ci resta solo la pietrosa realtà dei morti, la cui contabilità è meno soggetta ai capricci della politica, o all’alea delle procedure amministrative. E quella realtà non ci dà ancora, purtroppo, il segnale di speranza che cerchiamo.

[questo testo riprende in parte i contenuti di un articolo apparso sul Il Messaggero l’8 giugno 2020]