Emergenza sanitaria o emergenza democratica?

Dunque, il governo sta per prorogare lo “stato di emergenza”. Per altri 5 o 6 mesi potrà ricorrere ai famigerati Dpcm (Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri), senza passare attraverso il vaglio del Parlamento. In sostanza il governo sta per riattribuirsi i “pieni poteri” che già si era preso nel semestre scorso.

Si potrebbe osservare che, più o meno lentamente, stiamo cessando di essere una democrazia, e che il modo in cui stiamo passando a un regime dispotico è paradossale: questo governo è nato (o meglio dice di essere nato) per impedire che libere elezioni conferissero a Salvini i “pieni poteri” che aveva invocato, ma il risultato è che i pieni poteri – quelli veri – se li sta prendendo precisamente questo governo, senza chiedere il permesso a nessuno, e meno che mai a noi cittadini.

Qui però non voglio fermarmi su questo. La domanda cui vorrei provare a rispondere è un’altra: la situazione è così grave da giustificare la richiesta di pieni poteri?

Per certi versi sì. Dopo essermi preso un mese di insulti per aver detto (a metà giugno) che l’epidemia stava rialzando la testa, devo constatare che il fronte dei minimizzatori è oggi meno saldo nelle sue convinzioni. Ormai è l’Organizzazione mondiale della sanità stessa ad avvertire che la pandemia è in espansione, e solo i più ostinati fra i negazionisti continuano ad additare a modello “gli altri paesi europei” che hanno riaperto scuole, fabbriche e viaggi prima di noi.

Aggiungo solo che un’analisi dettagliata delle province italiane, pubblicata nei giorni scorsi sul sito della Fondazione David Hume, ha mostrato che il numero di province in cui i contagi stanno aumentando è in continua crescita. Erano una ventina tre settimane fa, sono quasi il doppio oggi. Il fatto che i dati nazionali mostrino solo una leggera tendenza all’aggravamento della situazione è in realtà il frutto di una polarizzazione fra i territori in cui l’epidemia si sta lentamente spegnendo, e quelli – sempre più numerosi – in cui sta invece ripartendo, non sempre e non solo a causa di specifici, circoscritti e quindi controllabili “focolai”. In breve, per chi è disposto a vedere, la situazione è abbastanza chiara: nonostante il favore della stagione, l’epidemia non si sta spegnendo.

Meno chiaro è perché ciò accada. La mia opinione è che, fondamentalmente, ciò dipenda da una scelta di fondo che le autorità politiche e sanitarie hanno compiuto all’inizio di giugno: traghettarci in un regime di anarchia cognitiva, una sorta di “libero arbitrio” nella lettura della situazione epidemica.

Lo avete notato, parlando con i vostri amici e conoscenti? Ognuno interpreta la situazione a modo suo. Ci sono gli iper-prudenti, che rispettano le regole, e sono spesso considerati “fobici”. E ci sono gli ipo-prudenti che se ne infischiano allegramente, e sono spesso guardati come “untori”: si assembrano, non rispettano le distanze sui mezzi pubblici e nei supermercati, entrano nei negozi senza la mascherina, o con la mascherina abbassata (il che equivale a senza).

Gli uni e gli altri hanno buone ragioni per comportarsi come si comportano. Agli iper-prudenti è sufficiente richiamarsi alle ancora severe regole vigenti, agli ipo-prudenti è sufficiente appellarsi alle sciagurate esternazioni dei virologi ottimisti, e più o meno sottilmente negazionisti (eufemismo). Ma su tutti pesano due mosse cruciali delle autorità politiche, nazionali e locali: ridurre il numero di tamponi e chiudere sistematicamente un occhio sulle numerosissime violazioni delle regole. Due mosse aggravate dall’ostinazione con cui fin qui non si è voluto distinguere fra le regioni (innanzitutto la Lombardia) in cui la gravità dell’epidemia avrebbe richiesto un prolungamento del lockdown, e le regioni (molte del Sud) in cui la tenuità dell’epidemia avrebbe consentito di accorciare la durata della clausura.

Naturalmente non è difficile capire la logica di queste scelte: non allarmare la popolazione, favorire la ripartenza dell’economia, salvare la stagione turistica. Come se una pandemia potesse essere domata lasciando le briglie sciolte sul turismo internazionale, allentando le regole di distanziamento sugli aerei, e più in generale incentivando la circolazione delle persone.

Ed eccoci allora al punto. La situazione è grave, e forse richiede davvero la ri-proclamazione dello “stato di emergenza”, ma la situazione stessa è diventata grave perché il governo, coscientemente, ha permesso che lo diventasse. Il regime di libero arbitrio sanitario, in cui uno vale uno e l’analisi della situazione si fa nei salotti televisivi, è il risultato della schizofrenia governativa: lasciare in piedi regole molto severe, e al tempo stesso permettere che siano sistematicamente violate.

Ecco perché rispondere alla domanda sulla sensatezza o meno di una proroga dello stato di emergenza è difficile. Sì, verrebbe da dire, perché occorre – ma soprattutto potrebbe occorrere in autunno – una nuova stretta (ma allora perché il governo continua a tollerare le violazioni?). No, perché questo governo ha già dimostrato di non saper governare l’epidemia: l’aggravamento della situazione sanitaria non è dovuto a un meteorite piovuto dal cielo, ma è stato favorito dall’inerzia dell’esecutivo, che proprio così si è costruito le pre-condizioni e il pretesto per invocare un ulteriore aumento dei propri poteri.

C’è poi un’ultima osservazione, che lascio lì sotto forma di dubbio. Siamo sicuri che lo stato di emergenza di cui ora si parla durerà solo altri 6 mesi? La maggior parte degli scienziati ritiene che, da oggi a dicembre, la situazione sia destinata a peggiorare drasticamente già solo per ragioni climatico-ambientali, e che a fine anno, quando lo stato di emergenza dovrebbe finire, la situazione non potrà che essere peggiore di quella odierna. Dunque, facendo 2 + 2: fanno finta di chiedere altri 6 mesi di pieni poteri, ma la richiesta verrà rinnovata in inverno, così quello che di fatto stanno chiedendo è un altro anno di pieni poteri, che si aggiungono ai 6 mesi già consumati.

Ma diciotto mesi di pieni poteri non sono un po’ troppi per un governo che si è lasciato sfuggire di mano la situazione e, per quanto formalmente legale, non ha alcuna legittimazione democratica?

Pubblicato su Il Messaggero dell’11 luglio 2020




La gazzella e l’ornitorinco. Intervista a Luca Ricolfi

Professor Ricolfi, nella nostra ultima intervista del 21 giugno scorso lei ha mostrato come in una quindicina di province l’epidemia non poteva considerarsi sconfitta, anzi. Ora, a distanza di venti giorni, gli ultimi dati pubblicati sul sito della Fondazione Hume confermano che purtroppo il trend dei nuovi contagi in diverse province è in aumento. A che punto è la notte?
Direi che siamo nel momento più buio della notte, non nel senso che le cose vadano malissimo, ma nel senso che massima è l’incertezza interpretativa sui pochissimi dati che “Lor Signori” (mi permetto di evocare l’indimenticabile Fortebraccio) hanno la benevolenza di comunicare a noi umili sudditi di questa sfortunata Repubblica. Quello che è certo è che nella prima metà di giugno, ossia in coincidenza della liberalizzazione degli spostamenti fra comuni, è successo qualcosa di grave e di nuovo. Fino ad allora, di settimana in settimana, il numero di province critiche diminuiva, da allora ha smesso di diminuire e, nelle ultime due settimane, ha cominciato a salire in modo sistematico e preoccupante. Nella scorsa intervista i calcoli della Fondazione Hume segnalavano 15-20 province critiche, ora ne segnalano quasi il doppio. E in queste province non vi sono solo le “solite” province della Lombardia e del resto del Nord ma anche molte province del Centro Italia (fra cui Firenze e Roma) e del Mezzogiorno, ad esempio Avellino, Sassari, Chieti, Pescara, Salerno.

Mi sembra più che chiaro, perché allora parla di incertezza interpretativa?
Perché noi vorremmo sapere come le cose stanno andando in questo momento, mentre i dati dei nuovi contagi ci possono dire soltanto che, per la piccola porzione di realtà che le autorità sanitarie sono in grado di monitorare, le cose stavano nettamente peggiorando una decina di giorni fa, ovvero il tempo che occorre ad un evento di contagio per essere rilevato da un tampone. Oggi le cose potrebbero essere migliorate, ma potrebbero anche essere nettamente peggiorate.

Lei che cosa pensa?
Io penso che, verosimilmente, siano ancora un po’ peggiorate.

E’ il suo consueto pessimismo?
No, purtroppo: è l’andamento del numero di persone sottoposte a tampone che mi rende poco incline all’ottimismo. Nonostante le autorità nazionali abbiano finalmente compreso che è stato un grave errore fare pochi tamponi, e che occorrerebbe farne molti di più, la maggior parte delle Regioni sta riducendo il numero di tamponi. Se ne facessero di più, anziché di meno, i dati del numero di contagiati sarebbero ancora più inquietanti. E io non mi ritroverei ad essere fra i pochi che, da tre settimane, segnalano il pericolo.

La Fondazione Hume utilizza anche un altro strumento, un termometro giornaliero, che “misura” la temperatura dell’epidemia. Cosa ci dicono le ultime misurazioni? Confermano un incremento della pericolosità del virus?
Il termometro della Fondazione Hume si basa su tre indicatori: il numero di decessi, il numero di nuovi contagiati (corretto per il numero di tamponi) e una stima degli ingressi in ospedale. Queste tre informazioni vengono sintetizzate in una temperatura assoluta, in gradi pseudo-Kelvin, variabile fra 0 e 100, dove 0 significa che non ci sono nuovi contagi, mentre 100 significa che ce ne sono tanti quanti nella settimana di picco (ossia nei giorni a cavallo fra marzo e aprile). Negli ultimi 3 mesi la temperatura dell’epidemia è sempre diminuita, fino a portarsi al di sotto di 2 gradi pseudo-Kelvin (il 28 giugno toccava il minimo di 1.8), ma da una quindicina di giorni oscilla intorno a 2 e manifesta una leggera tendenza all’aumento. Poiché il termometro può solo rilevare quel che succedeva 2-3 settimane fa, anche questo strumento ci dice che nella prima metà di giugno il vento è cambiato, ma non sappiamo esattamente a che punto siamo oggi.

Siamo sopra o sotto la soglia di sicurezza?
Dipende da cosa consideriamo soglia di sicurezza. Io ritengo che, sfortunatamente, siamo ancora ampiamente sopra, e spiego perché. Per me la soglia di sicurezza è 6000 persone in grado di contagiare il prossimo, il che – in un paese di 60 milioni di abitanti – significa avere un contagiato ogni 10000 abitanti. La considero una soglia di sicurezza per vari motivi, ad esempio perché, nel breve periodo, anche i più “relazionati” fra noi difficilmente hanno contatti con più di 1000 persone, e comunque solo una parte di tali contatti è abbastanza stretta da comportare un serio rischio di contagio.
Ma la mia stima, basata sul termometro della Hume, è che attualmente il numero di contagiati ancora contagiosi sia dell’ordine di 60 mila persone, ovvero 10 volte al di sopra della mia personale soglia di sicurezza. Per farci stare abbastanza tranquilli il termometro dovrebbe segnare 2 decimi di grado o meno.

Ma come si passa da 2 gradi pseudo-Kelvin a una stima di 60 mila persone contagiose?
Non è un calcolo semplicissimo, diciamo che un grado pseudo-Kelvin corrisponde a circa 2000 nuovi contagiati al giorno, e che considerando che la contagiosità dura una quindicina di giorni, 2 gradi pseudo-Kelvin segnalano un numero di persone potenzialmente in grado di infettare altri non lontano da 60 mila (2000 x 2 x 15 = 60 mila).

Però le cifre ufficiali sono molto più basse…
Certo, le cifre ufficiali indicano che negli ultimi 15 giorni i nuovi contagi sono stati circa 3000 (non 60 mila), ma è noto che il numero di contagiati effettivo è un multiplo di quello ufficiale. Non arrivo a pensare, come Ilaria Capua, che il multiplo sia 100, mi limito a dire che potrebbe essere circa 20.

Lei si è lamentato per la poca trasparenza e profondità dei dati messi a disposizione dalle autorità pubbliche. La situazione è migliorata negli ultimi giorni o, se possibile, peggiorata?
Sì, è peggiorata. Oltre ai continui ricalcoli dei decessi e dei contagiati, ultimamente si è aggiunto un improvviso cambiamento nei criteri di assegnazione dei casi alle province. Fino al 23 giugno l’assegnazione era in base alla provincia di ospedalizzazione, dal 24 è in base a quella di residenza. Può immaginare a quali salti mortali tecnico-statistici siamo stati costretti per ricostruire le serie storiche provinciali. Aggiungo che permane il segreto sui dati comunali (che sarebbero essenziali per individuare tempestivamente i nuovi focolai) e che nessuno ha spiegato che cosa è effettivamente successo il 24 maggio in Lombardia (il dato di zero decessi è sicuramente falso, se non altro per la smentita della Ats di Brescia, ma nessuno si è ancora degnato di comunicare il dato vero).

Che tutto non stia andando per il verso giusto è dimostrato da un doppio fallimento: l’indagine sierologica e l’app Immuni sono state finora un flop. Come se lo spiega?
Sinceramente ho solo spiegazioni inquietanti, anche se per motivi diversi. Nel caso della app Immuni tendo a pensare (ma spero di sbagliarmi) che sia stata concepita solo per far credere che il governo stesse facendo qualcosa. Non mi spiego altrimenti perché non siano state utilizzate tecnologie già collaudate da molti paesi, e soprattutto perché non si siano formate ed assunte molte migliaia di persone per il tracciamento dei contatti, come se la app da sola fosse in grado di ricostruire a ritroso il percorso del contagio.
Nel caso della indagine sierologica, pianificata dall’Istat, sono semplicemente sbalordito. A giudicare da quel che riportano i quotidiani, sembra che l’indagine stia facendo flop perché molti dei soggetti inclusi nel campione Istat rifiutano il test. In base alla mia esperienza con i sondaggi mi chiedo: ma non lo sapeva l’Istat che per fare 1 intervista ci vuole una lista di riserva di almeno 5 nominativi, e spesso di 10? E non ha pensato che se così tanti rifiutano una tranquilla chiacchierata telefonica, sarebbero potuti essere ancora più frequenti i rifiuti verso un’indagine così invasiva, che avrebbe comportato un appuntamento per un prelievo del sangue?
Insomma, qui qualcosa mi sfugge. Leggo che il fallimento sarebbe colpa degli italiani, ma come sociologo e statistico sono invece stupefatto che il tasso di adesione (se è vero quello che riportano i mezzi di informazione) sia stato molto superiore a quello di un normale sondaggio politico o di una survey. D’altronde mi risulta difficile pensare che un ente come l’Istat, sicuramente iper-burocratico ma anche dotato di un’enorme esperienza, sia stato così ingenuo da non pensare a una lista di riserva adeguata, e abbia scelto la strategia notoriamente meno efficace: tempestare di decine di telefonate chi non ha voglia di partecipare all’indagine.

E i tamponi?
Anche qui alzo bandiera bianca, perché non capisco. Il governo avrebbe tutto l’interesse a farne a tappeto, per portare i contagi vicino a zero prima dell’autunno, ma non fa nulla, lasciando che le Regioni ne facciano pochi, pur di evitare di scoprire troppi nuovi casi. Eppure basterebbe dire chiaramente: care Regioni, non sarete giudicate (negativamente) sul numero di infetti che scoprirete, ma sarete giudicate (positivamente) sul numero di tamponi che farete per scoprirne il più possibile.
Ma forse la realtà è più semplice: in questa fase nessun governante, nazionale o locale, può permettersi di dire la verità sul contagio, perché ogni segnale di allarme danneggia l’economia.

Uno dei problemi che il governo sta faticando ad affrontare efficacemente è il cosiddetto Covid d’importazione. L’esecutivo finora si sta limitando a sospendere per alcuni giorni i voli diretti dai paesi più a rischio, come il caso del Bangladesh. Però la misura non sembra risolvere il problema: viene aggirata tranquillamente con la triangolazione dei voli, come la cronaca ci ha mostrato mercoledì, quando a Fiumicino sono arrivati 120 bengalesi tramite scalo a Doha. Quanto rischiamo per il virus che torna dall’estero?
Secondo me, e secondo una parte dei virologi, rischiamo molto. Ma qui, a mio parere, la responsabilità maggiore non ce l’ha il nostro governo (per una volta solidarizzo con Conte) ma ce l’hanno gli organismi internazionali, in primis l’Organizzazione mondiale della sanità e l’Unione Europea. Nessun paese può chiudere o limitare drasticamente i collegamenti internazionali se non lo fanno anche la maggior parte degli altri paesi. Posso sbagliare, naturalmente, ma per me è semplicemente incredibile che chi ci governa non abbia ancora voluto accettare una cosa di puro buonsenso: il turismo internazionale è incompatibile con una pandemia.
Posso anche capire che, in un mondo altamente interconnesso, i movimenti internazionali legati al lavoro non siano limitabili, o lo siano solo in misura molto contenuta, ma i flussi turistici? Si parla e straparla continuamente di nuovo tipo di sviluppo, di green deal, di cambiamenti nello stile di vita, e non siamo in grado di accettare una limitazione temporanea di uno dei fattori fondamentali di diffusione e amplificazione dell’epidemia?
Possibile che non capiamo che questa è una pandemia, e il turismo internazionale è un cerino buttato in una polveriera?

Quanto rischiamo poi una seconda ondata in autunno?
Se non lo sanno i virologi, meno che mai può saperlo un sociologo. Quel che posso dire è che, a mio modestissimo avviso, la vera domanda è: quanto il forte rallentamento dell’epidemia osservato nel trimestre aprile-maggio è stato dovuto anche all’evoluzione del clima e alle sue conseguenze, prime fra tutte diminuzione dell’umidità, aumento del soleggiamento, frazione di tempo trascorsa all’aperto?
Se, come alcuni ritengono (vedi ad esempio l’articolo dell’ing. Mastropietro pubblicato sul sito della Fondazione Hume), questi fattori hanno avuto e continuano ad avere un ruolo cruciale, non si può escludere che con l’arrivo della stagione fredda l’osservanza delle regole comportamentali non basti più, e l’epidemia riparta.
Detto in modo più crudo: forse in questo momento la vera ragione per cui l’epidemia sembra ancora sotto controllo non è né l’autodisciplina della popolazione adulta (quella giovanile è già fuori controllo), né la tempestività delle autorità sanitarie nello spegnere i nuovi focolai, ma è semplicemente il fatto che i fattori climatici stanno contrastando e bilanciando quelli comportamentali.

L’eventuale seconda ondata sarebbe il colpo di grazia per la nostra economia? Gli stessi imprenditori, del turismo e non, dovrebbero essere più cauti in questo periodo?
Io non sono sicuro che il compito della politica, oggi, sia scegliere fra la salute e l’economia. Può darsi che sia così, ma si dovrebbe preliminarmente provare a rispondere a questa domanda: e se limitare (almeno) il turismo internazionale, misura sicuramente dannosa per l’economia nel breve periodo, non fosse invece una misura che tutela l’economia nel periodo medio-lungo?
Se la risposta fosse affermativa, il conflitto salute-economia sarebbe meno insanabile di quel che appare. Io sono piuttosto sicuro che aver ritardato di circa un mese il lockdown (il vero lockdown inizia solo il 22 marzo, ossia più di un mese dopo Codogno) non ha solo aumentato drasticamente il numero dei decessi, ma ha anche danneggiato l’economia (se si fosse chiuso subito, la chiusura sarebbe durata di meno). Sul domani sono assai meno sicuro, ma la domanda me la faccio: oltre a far ripartire l’economia, non dovremmo preoccuparci – proprio per il bene dell’economia – di evitare l’arrivo di una seconda ondata?
Perché se una tale seconda ondata dovesse abbattersi sulle nostre teste, quello cui assisteremmo non è una recessione drammatica, peggiore di quella del ’29, ma una catastrofe, l’inabissamento di un’intera civiltà.

Ormai esperti dell’analisi dei dati, virologi e medici si dividono fra pessimisti e ottimisti. Dove l’hanno collocata? E soprattutto: da che parte si sente di stare?
Quella dei pessimisti e degli ottimisti è una commedia, volutamente mandata in scena per permettere alla politica, complice la secretazione dei dati essenziali, di tenersi le mani libere. Se fra gli scienziati vi fosse una posizione dominante o egemonica, se i dati fossero pubblici e di qualità, lo spettro delle scelte della politica si restringerebbe drasticamente, perché alcune scelte apparirebbero chiaramente dannose, o strumentali, o palesemente inappropriate.
Invece così, grazie al chiacchiericcio di tutti (compreso il nostro in questa intervista), grazie alla opinabilità di ogni presa di posizione, i governanti possono tutelare il bene per essi più prezioso: la facoltà di decidere solo in vista del consenso, al di fuori di ogni controllo dell’opinione pubblica.
Quanto a me, so che molti mi classificano fra i pessimisti, o fra i nemici dell’economia. Ma sbagliano. Il pessimismo è un’altra cosa, pessimismo è vedere sempre il bicchiere mezzo vuoto, anche quando non lo è. A me capita un’altra cosa, ossia di non essere dotato di quella che molti studiosi considerano una delle caratteristiche distintive, e uniche, degli esseri umani: la capacità di ridurre la “dissonanza cognitiva” mediante costruzioni mentali che servono ad attenuare l’angoscia, a mitigare la paura, a nascondere rischi e pericoli, a dispetto della cruda realtà.
Insomma, come sociologo penso di appartenere al mondo animale: se una gazzella vede un leone, non pensa che sia un ornitorinco solo per controllare l’ansia che sente dentro di sé. Incredibile: pensa che sia un leone.

Intervista di Gianni Del Vecchio a Luca Ricolfi, Huffington Post, 10 luglio




L’andamento dell’epidemia nelle province

di Rossana Cima e Luca Ricolfi

I dati comunicati della Protezione Civile non ci consentono, purtroppo, di fare analisi puntuali sulla diffusione dell’epidemia nel nostro Paese sia perché spesso sono oggetto di consistenti ricalcoli, sia perché il 24 giugno si è verificata un’interruzione di serie: a livello provinciale, i nuovi casi di positività non vengono più classificati in base alle ospedalizzazioni, ma in base alla residenza.

Si può però tentare comunque di delineare un quadro generale della diffusione dell’epidemia con i pochi dati a nostra disposizione.

I grafici che seguono rappresentano l’andamento dei nuovi casi settimanali in 97 province (vedi nota tecnica).

In base alle ultime informazioni disponibili (6 luglio, ore 18.00), sono 24 (su 97) le province che presentano, nell’ultima settimana (29 giugno – 6 luglio), un incremento di nuovi casi uguale o superiore a 5 rispetto alla settimana precedente. Tra queste ve ne sono una decina (Mantova, Cremona, Ravenna, Roma, Lodi, Modena, Treviso, Imperia, Torino e Firenze) con aumenti apprezzabili superiori alle 10 unità.
Seguono in graduatoria le province di Parma, Avellino, Cuneo, Sassari, Chieti, Reggio Emilia, Trieste, Lecco e Padova con incrementi fra le 7 e le 9 unità.
Le province di Pescara, Alessandria, Asti, Vercelli e Terni presentano aumenti relativamente più modesti (+5 unità); si tratterà di vedere nei prossimi giorni se questi incrementi sono indicativi di un’inversione di tendenza o se si tratti di una semplice fluttuazione.

Da segnalare sono anche Frosinone, Biella, Vicenza, Grosseto, Pordenone, Salerno, Forlì e Udine. Sono tutte province con incrementi settimanali (29 giugno – 6 luglio rispetto alla settimana precedente) inferiori alle 5 unità, ma con una curva epidemica che tende all’aumento da almeno una settimana. Anche in questo caso, è presto per capire se si tratta di mere oscillazioni.
In tutto vi sono 24+8 province a rischio o relativamente problematiche.

Accanto a queste 24+8 province ve ne sono invece 6 che, seppur registrando ancora un numero di nuovi contagi significativo, presentano una curva epidemica tendente verso il basso. Si tratta di Como, Sondrio, Novara, Varese, Brescia e Bergamo. Nell’ultima settimana migliorano anche le province di Reggio Calabria, Verbano-Cusio, Ferrara, Bologna, Caserta, Macerata, Savona e Belluno.

Segnali positivi arrivano, invece, da 33 province con un profilo di convergenza a zero-contagi o comunque molto vicino allo zero. Si tratta prevalentemente di province del Sud, ma ve ne sono anche del Centro e del Nord (Aosta, Livorno, Lucca, Massa-Carrara, Siena e Perugia).

Segnali meno nitidi arrivano da altre province. Da segnalare Milano, Bolzano, Verona, Genova, Pavia, Monza e Arezzo. In queste province la curva epidemica non da segni di avvicinamento a zero anche se da almeno sette giorni si registra una sostanziale stabilità degli incrementi settimanali.

Difficile valutare l’andamento del contagio nelle altre province. In alcuni casi (ad es. Rimini) le curve mostrano oscillazioni, in altri casi (ad es. Nuoro) i dati sono stati oggetto di ricalcolo e per questo gli incrementi settimanali risultano spesso negativi.

Per avere un quadro ancora più generale sulla diffusione dell’epidemia possiamo ora cercare di capire quante sono le province con un incremento di nuovi casi (per 100 mila abitanti) settimanali superiore alla media nazionale.
Il risultato è il seguente. In base all’ultimo dato disponibile sono ben 26 (su 97) le province con una densità di nuovi casi ogni 100 mila abitanti superiore alla media italiana. Quello che è forse più importante osservare è che il trend, dopo una fase di progressivo calo, è tornato a crescere da metà giugno.

Nota tecnica

I dati utilizzati nell’analisi sono quelli diffusi quotidianamente dalla Protezione Civile aggiornati al 6 luglio (ore 18).

La serie storica dei dati provinciali è stata ricalcolata per tenere conto dell’interruzione di serie che si è verificata il 24 giugno in seguito alla nuova classificazione dei casi positivi (non più in base alla provincia in cui è avvenuta l’ospedalizzazione, ma in base alla residenza della persona risultata positiva al COVID-19).
Data l’impossibilità di stabilire, provincia per provincia, che cosa è effettivamente avvenuto tra il 23 e il 24 giugno, i dati sono stati ricalcolati assumendo che, fra le due date, gli incrementi giornalieri dei nuovi casi fossero pari a 0.

Dall’analisi sono state escluse le province della Sicilia e la provincia di Trento perché oggetto di consistenti ricalcoli.




La “censura privata” dei contenuti politici sui social network tra mito sociale e realtà giuridica

La cronaca si occupa sempre più spesso di casi di cosiddetta “censura privata” di contenuti caricati da utenti sui social network (in particolare la piattaforma YouTube parrebbe essere divenuta parecchio “attiva” in questo senso negli ultimi tempi). Sebbene gli episodi che salgono alla ribalta della cronaca siano essenzialmente solo quelli che riguardano contenuti lato sensu politici e/o quelli caricati da utenti che gravitano a vario titolo intorno al mondo dell’informazione o del dibattuto politico e culturale, in realtà il fenomeno della censura di massa di contenuti che – per varie ragioni – non risultano graditi alle piattaforme social ha dimensioni ben più ampie, coinvolgendo diverse migliaia di utenti e contenuti su base giornaliera e a livello planetario. Le polemiche riguardano peraltro quasi sempre i casi – piuttosto frequenti – in cui vengono oscurati dai social network contenuti che esprimono visioni e concetti considerati “non allineati” all’opinione dominante, ma sarebbe forse meglio dire a quella dei gruppi “più rumorosi” della community, dando luogo in tal modo ad una singolare forma di “democrazia contestativa” in cui i gruppi che protestano di più – per questa sola ragione – finiscono in via di fatto per negare, con l’avallo di policy compiacenti predisposte dalle piattaforme, il diritto di tribuna alla massa silenziosa di chi si limita a manifestare opinioni differenti mettendo in rete dei contenuti, ma senza pretendere che vengano oscurati quelli di tenore differente. Si tratta – come si diceva – di una tendenza che appare assai consolidata oltre oceano, ma che – non si sa se per una modifica delle policy delle piattaforme o per un maggiore attivismo dei “leoni da tastiera” del vecchio continente – sta iniziando a prendere piede anche in Europa.

Quel che in compenso è certo è che i social network e la loro censura privata rappresentano oggi una delle più potenti armi a supporto del discorso politicamente corretto e contro la diffusione di qualunque idea alternativa a quelle che quel discorso ammette. Può dunque essere il caso di interrogarsi sulle cause di questa situazione, per capire se e in che modo tale fenomeno merita attenzione e – se del caso – correzione.

Quanto alle ragioni dell’impennata della censura social, alcuni sostengono apertamente la teoria del complotto (che a essere sinceri come complotto sarebbe stato organizzato piuttosto maldestramente, visto che i presunti destinatari se ne sono accorti in fretta): secondo questa linea di pensiero, i grandi social network avrebbero stretto un patto con il mondo liberal americano e progressista europeo (a sua volta sostenuto dalla finanza speculativa internazionale) teso ad ostacolare la diffusione di notizie e opinioni non gradite a quegli ambienti. Si tratta di un discorso analogo a quello che viene svolto nei confronti dei mass media tradizionali, da sempre accusati di portare avanti una agenda coerente con gli interessi di controlla i pacchetti di maggioranza dei rispettivi editori e del discorso politico che questi soggetti appoggiano. Invero non saprei dire se un patto ci sia, ma – alla luce dei fatti – un certo allineamento è difficile da negare. Per usare una terminologia antitrust ci si potrebbe limitare a ipotizzare che tra certi ambienti politici ed economici e le grandi piattaforme social esiste qualcosa che potrebbe collocarsi in qualche punto intermedio tra una pratica concordata e il parallelismo consapevole. Sennonché qui non stiamo parlando di antitrust e dunque i patti non contano. Qui parliamo di pubblica opinione e di informazione.

Proprio per questa ragione occorre sottolineare prima di tutto la natura ambigua – o, forse meglio, anfibia – delle piattaforma social, che non sono veri e propri prodotti editoriali o informativi, ma gli somigliano da vicino. L’editore, così come chi fa informazione, pubblica infatti contenuti propri e se ne assume di conseguenza la piena responsabilità, la piattaforma social pubblica invece contenuti altrui (che possono essere sia notizie che opinioni) e dunque – a rigore – non dovrebbe assumersene la responsabilità. Ma è esattamente qui che occorre andare subito al nocciolo della questione, evitando comodi nominalismi.

Nella misura in cui la piattaforma social non si limita a mettere a disposizione uno spazio vuoto da riempire con notizie e opinioni, ma rivendica il diritto di selezionare alcuni contenuti degli utenti per escluderli dalla pubblicazione e lo fa non basandosi sul semplice criterio della contrarietà alla legge del contenuto, di fatto esprime una sua “linea editoriale e/o informativa”, appunto basata sui criteri che sceglie di adottare per selezionare i contenuti degli utenti che devono essere “oscurati” e quelli che invece possono essere diffusi. Dunque è vero che la piattaforma social non è un editore in senso stretto, ma altrettanto vero è che – se adotta sistemi di censura privata sui contenuti che ospita che le consentono di censurare ultra vires rispetto ai divieti di legge (il che accade anche quando attua quei divieti prima che lo facciano le istituzioni pubbliche competenti) – si comporta in via di fatto come fa un editore, selezionando le opinioni e i fatti che vuol far giungere al pubblico. Il che solleva inevitabilmente il problema dell’eventuale estensione anche a questi soggetti di alcuni principi – per dirne solo due: pluralità e trasparenza – che valgono per l’editoria e l’informazione. Il fatto poi che i social network concorrano alla formazione della pubblica opinione (anzi, abbiamo ormai un ruolo assai rilevante in tal senso) pone l’ulteriore questione della possibile applicazione dei principi costituzionali in tema di pluralismo e libertà di manifestazione del pensiero a questo genere di soggetti.

Questo spiega quanto superficiale sia la replica comunemente sollevata dai “tifosi” della censura privata praticata dai social, i quali giustificano il fenomeno limitandosi a sostenere che un’impresa privata può far quel che vuole coi contenuti che ospita gratuitamente. Se tuttavia fosse così, probabilmente, sarebbe incostituzionale la legge sulla responsabilità del direttore di un giornale, quella che impone alle testate di registrarsi al Tribunale e qualche perplessità desterebbe pure tutto l’imponente complesso di norme a presidio della pluralità e dell’indipendenza dell’informazione. Liquidare insomma la questione della censura privata come semplice questione contrattuale è solo un comodo espediente per lasciare le cose come sono (espediente che non a caso viene largamente utilizzato da quelli che di questo genere di censura beneficiano).

D’altro canto non si può ignorare che i social network hanno una buona ed evidente ragione per “censurare”, considerando che – quanto meno in Italia – potrebbero essere considerati responsabili insieme all’utente per i contenuti illeciti che, nonostante siano stati segnalati come tali, non sono stati rimossi tempestivamente dalla piattaforma. Questa forma di responsabilità “in vigilando” suggerisce infatti ai gestori di social network di adottare un metro assai rigoroso nel selezionare i contenuti da rimuovere. Un rigore che dipende tuttavia da altri tre fattori: il primo è il proliferare di leggi che – sotto la bandiera della lotta alle fake news e/o all’hate speech e/o alla discriminazione ovvero ad altre variamente nobili cause – pongono divieti tanto vaghi e ampi da poter essere interpretati in modo tale da restringere gravemente sia la libertà di manifestazione del pensiero sia, se non soprattutto, la pluralità delle opinioni. Il secondo fattore è rappresentato da una certa tendenza dei tribunali o dalle autorità di vigilanza pubbliche a interpretare in modo assai ampio i divieti di cui sopra. Il terzo – che invero a mio avviso rappresenta anche una delle cause del secondo – è il ben noto attivismo (condito da una altrettanto ben nota cieca intolleranza) dei cosiddetti social justice warrior che pullulano sulla rete, i quali finiscono per monopolizzare l’opinione pubblica, sostenuti quasi sempre in questa azione dalla propaganda di forze politiche sedicenti liberal o progressiste e dai mezzi di informazione tradizionali. Questi quattro fattori – responsabilità in vigilando del social, legislazione ampia e vaga potenzialmente tale da restringere la libertà di manifestazione del pensiero in nome di nobili ideali applicata da magistrature assai zelanti e, per finire, conclamata intolleranza di una certa parte dell’opinione pubblica e dell’informazione mainstream – crea il cocktail che porta al risultato di una massiccia e ripetuta cancellazione di contenuti sui social network che quasi sempre va a colpire contenuti e soggetti che non sono allineati alle posizioni definite solitamente come politicamente corrette.

Come affrontare dunque il problema? Anzitutto non negando che esiste. Dire in modo pacato cose anche molto sgradevoli per qualcuno o poco gradite ai poteri politici o economici è infatti un diritto costituzionalmente garantito. E questo è bene ricordarlo in particolare a tutti i benpensanti che vorrebbero rendere migliore il mondo (ovviamente secondo il loro metro di “meglio”) mettendo zitto chi la pensa diversamente da loro, solo perché è brutto e cattivo, anzi – siccome dire brutto e cattivo è poco politicamente corretto – perché le sue idee sono “impresentabili”. E’ in particolare bene ricordare alle anime belle che nessuna rivoluzione o progresso culturale (e in particolare proprio quelle che hanno creato la società che consente oggi ai benpensanti di benpensare) sarebbero mai stati possibili se qualcuno non avesse iniziato a diffondere idee eterodosse e che, al tempo, apparivano sgradevoli se non addirittura scandalose. Ferma dunque la continenza della forma e delle modalità espressive (e fermo il diritto di satira), occorre ribadire con forza che qualunque opinione – per quanto sgradevole o poco condivisibile sia il suo contenuto – deve poter trovare posto nel dibattito pubblico, a patto che sia esposta in forme civili. Del resto, se si ritiene ammissibile che uno scienziato sostenga pubblicamente che dovrebbe essere reso lecito l’infanticidio nei primi momenti di vita (ribattezzato per l’occasione come “aborto post parto”) in quanto il bambino appena nato non ha ancora maturato una coscienza di sé, dunque non soffrirebbe per l’evento della sua morte; se si ammette questo – dicevo – credo si possa ammettere anche parecchio di quel che scatena i pruriti censori dei benpensanti. Tanto premesso, veniamo alle questioni pratiche.

Un primo passo per risolvere il problema potrebbe essere quello di imporre ai social network degli obblighi di trasparenza relativamente agli specifici criteri adottati per operare le selezioni dei contenuti da oscurare. Siccome peraltro si tratta quasi sempre di criteri automatizzati (ossia di algoritmi che lavorano in automatico sui dati), occorre che la pubblica opinione sappia come gli algoritmi trattano le informazioni e, soprattutto, quali sono i “trigger” che fanno scattare l’oscuramento. Va detto che imporre simili obblighi espone i social all’attività dei cosiddetti troll (ossia di soggetti che, sfruttando gli algoritmi, organizzano campagne di segnalazione volte a far sì che il sistema cancelli determinati contenuti). Però è anche vero che i colossi del social online hanno certamente le risorse per elaborare algoritmi a prova di troll e, forse anche meglio, per lasciare a un essere umano la verifica ultima e diretta del contenuto oggetto di accusa da parte della community, sulla base di criteri scritti chiari nero su bianco e che il verificatore in carne ed ossa deve applicare. Si badi infatti che qui nessuno vuole negare a Facebook il diritto di scegliere criteri di censura liberal o a YouTube il diritto di censurare sulla base di principi di matrice conservatrice: l’importante è che i social dicano chiaro quali sono i criteri – anche biased nei confronti di una certa opinione politica o culturale – che vogliono adottare nella loro opera di censura privata.

Ma tutto questo probabilmente non risolverebbe a mio avviso il problema, nella misura in cui non impedirebbe ai social di sottrarsi al rischio di subire – per effetto dell’irrefrenabile attivismo dei troll ideologicamente orientati (specie di associazioni e comitati vari per la promozione dei diritti di questo o di quello) – azioni giudiziarie o procedure amministrative in applicazione delle leggi censorie di cui si è detto prima. D’altro canto è irrealistico pensare – visti i tempi che corrono e il dilagare senza freni dell’isteria politicamente corretta – che a breve i governi e i legislatori possano abrogare o attenuate le leggi censorie che creano i presupposti del problema della censura privata praticata dalle piattaforme social. La soluzione va per forza cercata altrove, ossia – ad avviso di chi scrive – in una differente ripartizione della responsabilità tra social network e utente in relazione ai contenuti postati da quest’ultimo che – segnalati ma non rimossi dal social network – siano poi effettivamente riconosciuti come illeciti dagli enti preposti alla verifica della loro illiceità.

L’unica soluzione del problema attualmente praticabile passa infatti a mio parere per una eliminazione della responsabilità in vigilando dei social network per mancata immediata rimozione dalla rete di un contenuto segnalato al provider anche quando quel contenuto, in seguito, viene dichiarato illecito da un giudice o da un ente amministrativo. Questa responsabilità andrebbe espressamente esclusa per legge, a fronte della possibilità di una identificazione ragionevolmente sicura dell’identità reale degli utenti. Per iscriversi a facebook – tanto per fare un esempio – si dovrebbe insomma inviare una copia di documento di identità e fare una breve intervista online (in videoconferenza) per verificare che l’utente collegato corrisponde al documento. Si noti che per certi particolari servizi online la cosa viene già fatta da diverse imprese e non presenta particolari problemi tecnici. Per funzionare davvero, però, la cosa dovrebbe funzionare su entrambi i lati del rapporto tra utente e social network: da un lato, le piattaforma social avrebbe il diritto di chiedere in sede di iscrizione una identificazione sicura all’utente, beneficiando – se identifica l’utente – dell’esclusione della sua corresponsabilità per i contenuti postati da quell’utente, oppure non chiedere nulla (dunque di fatto accettando utenti “non verificati”), assumendo però in quel caso la responsabilità in vigilando. D’altro canto lo stesso utente dovrebbe a sua volta avere un vero e proprio diritto soggettivo a farsi identificare con sicurezza dal social network, al fine di sottrarsi alla censura preventiva da quest’ultimo in caso di segnalazione.

In questo modo, quando si tratta di contenuto proveniente da un utente “identificato”, di fronte alla segnalazione di un contenuto ritenuto illecito proveniente dalla community e che fa scattare i “trigger” previsti dal sistema, la piattaforma social non potrebbe rimuovere il contenuto, ma avrebbe l’obbligo di comunicare direttamente a tutti i soggetti segnalanti che l’utente che ha postato il contenuto è un utente identificato e che dunque – in caso di successiva azione penale o di procedura amministrativa – la stessa piattaforma comunicherà all’autorità procedente l’identità reale dell’utente. Per le azioni civili contro l’utente (che richiedono una conoscenza previa della sua identità) si potrebbe invece prevedere un obbligo per la piattaforma di approntare una procedura grazie alla quale il legale incaricato dell’azione civile contro chi ha messo online un contenuto segnalato – dichiarando che intende agire contro l’utente e indicando sia il contenuto che considera illecito, sia la precedente segnalazione, sia infine il soggetto per conto del quale il legale agisce – può farsi comunicare da parte del social network l’identità reale dell’utente.

Il sistema in questione si fonda insomma sul principio secondo cui entrambi i soggetti – utente e gestore della piattaforma social – che, in via di fatto, concorrono alla diffusione di un contenuto online hanno, ciascuno, il diritto – a prescindere dalla volontà dell’altro – di scegliere se assumersi o meno la responsabilità (o, nel caso del social network la corresponsabilità) dei contenti pubblicati. Questa opzione consente alle piattaforme di social network di diventare finalmente – vuoi per loro scelta o vuoi per decisione degli utenti – quel che sono nate per essere, ossia altrettanti semplici “spazi virtuali” dove altri soggetti comunicano pubblicamente, assumendosi in prima persona la responsabilità di quel che dicono. L’opzione per una totale neutralità della piattaforma rispetto al contenuto – che in un simile modello resta esclusivamente un contenuto imputabile all’utente identificabile, che ne è esclusivamente e pienamente responsabile – fa in modo che la stessa piattaforma non possa né violare la pluralità dell’informazione né la libertà di manifestazione del pensiero: tutti quanti gli utenti, se desiderano, possono infatti optare per un sistema che gli consente di postare pubblicamente quel che preferiscono senza rischi di censura preventiva privata, ma con la conseguenza di assumersene la esclusiva responsabilità di fronte alla legge. Anche la piattaforma, se desidera, può peraltro a sua volta evitare la corresponsabilità per eventuali contenuti illeciti postati dall’utente, obbligando quest’ultimo ad una procedura di identificazione previa in sede di iscrizione al social. Se invece sia la piattaforma che l’utente non optano per il regime di identificazione certa, a quel punto entrambi i soggetti in questione accettano il regime di responsabilità potenzialmente condivisa che legittima la censura privata: a quel punto – per un verso – gli utenti non potranno lamentarsi di come questo regime viene applicato dai social network e – per altro verso – la piattaforma deve ritenersi del tutto libera di censurare quel che preferisce senza dover rendere conto a nessuno dei criteri che decide di adottare .

Un simile sistema presenta una serie di evidenti vantaggi: i troll – per oscurare un contenuto che non condividono accusandolo di essere illecito – dovrebbero darsi la pena di fare un esposto per iniziare una azione legale o amministrativa contro il soggetto che ha postato il contenuto. Dunque avrebbero la necessità di “metterci la faccia” invece di agire comodamente dall’ombra e nell’ombra come accade ora. Siccome poi l’ordinamento del nostro paese – ma lo stesso vale altrove – prevede procedure urgenti sia amministrative sia giudiziarie che possono portare alla rimozione di contenuti online, l’adozione di un simile modello non dovrebbe portare a ritardi eccessivi per ottenere la cessazione della diffusione di contenuti gravemente illeciti. Ma – soprattutto – in un simile sistema la questione della liceità di un contenuto viene trattata solo dagli enti preposti e non risolta – come invece avviene ora – sulla base del criterio “facile” (ed altrettanto facilmente abusato) secondo cui, per non rischiare grane di alcun genere, è meglio censurare tutto quel che disturba qualcuno. Questo sistema eliminerebbe peraltro anche il sospetto (o – per chi pensa che così sia – il rischio) che i social network si prestino, agendo in modo opaco e non trasparente, a operazioni “politiche” di qualche genere. Infine, sgravando la responsabilità della piattaforma social, si tratta di un sistema che dovrebbe risultare gradito anche alle piattaforme. E quest’ultima condizione è invero assai importante per il successo di eventuali iniziative politiche in tal senso.

Il regime di identificazione dell’utente (e il corrispondente regime di ripartizione della responsabilità) – per quanto sulla carta presenti una pluralità di vantaggi – ha infatti il grave difetto pratico di dover per forza essere attuato dai singoli stati nei limiti delle proprie giurisdizioni nazionali. Non trattandosi di un modello universalmente applicabile, la sua efficacia dipende dunque anche dal fatto che sia adottato e proposto come principio da enti sovranazionali capaci di produrre convenzioni multilaterali estese ad una pluralità di stati (come l’Unione Europea, l’OCSE o le agenzie ONU ad esempio), ma soprattutto occorre che gli stessi social network (e una larga parte degli di utenti) ne favoriscano l’adozione su scala multinazionale. Ovviamente non è possibile prevedere se questo accadrà, però – considerando quante storture sta indirettamente generando il modello attuale fondato sulla colpa in vigilando delle piattaforme – potrebbe valere la pena di iniziare a studiare la fattibilità del modello alternativo, attivandosi presso sia presso le piattaforme social sia presso le istituzioni internazionali, per capire se si tratta di un modello che incontra più favori che sfavori.

Del resto la soluzione che qui viene ipotizzata è certamente più soft rispetto alla prospettiva – ventilata di recente – di obbligare semplicemente i gestori delle piattaforme social a rispettare i diritti fondamentali di manifestazione del pensiero degli utenti. Quest’ultima soluzione “legalista” (invero piuttosto comoda per i pubblici poteri oltre che facilmente spendibile in termini elettorali) esporrebbe infatti i social network al dilemma di dover di volta in volta decidere da sé – di fronte a una segnalazione di contenuto illecito – se far prevalere il diritto ad evitare la propria responsabilità mediante la rimozione immediata contenuti segnalati (col rischio di essere accusati di non rispettare i diritti fondamentali di manifestazione del pensiero degli utenti, se alla fine il contenuto viene ritenuto lecito) o se far prevalere la libertà di manifestazione del pensiero (col rischio però – in questo caso – di essere considerati corresponsabili dell’utente in caso di accertamento dell’illiceità del contenuto). Insomma il costo in termini di incertezza per le piattaforme del modello legalista pare a chi scrive assai peggiore rispetto al costo che implicherebbe un sistema di verifica dell’identità reale degli utenti in sede di iscrizione. Dunque gli stessi social network dovrebbero riconoscere di avere un interesse a spingere per l’adozione del modello qui proposto (ossia quello fondato sulla rinuncia all’ampio potere “censorio” discrezionale che hanno ora in cambio della possibilità di ottenere una esenzione dalla responsabilità per contenuti “sensibili” postati dagli utenti) prima che si formi un ampio consenso sociale e politico attorno all’idea che i social network devono restare assoggettati a regole pubblicistiche che impongano loro di gestire la loro piattaforma in modo da tutelare la pluralità di opinione o la libertà di manifestazione del pensiero. In sintesi: forse meglio per le piattaforme social rinunciare oggi alla censura privata che dover esercitare domani funzioni di controllo delegate che – non essendo enti pubblici – potrebbero creare loro responsabilità e problemi sia quando censurano che quando non censurano.




Il Covid e il clima L’Italia è veramente fra gli ultimi della classe?

Diciamoci la verità: la nostra gestione della pandemia da coronavirus non è stata impeccabile. D’accordo, il virus non è nato da noi – almeno su questo punto non ci sono obiezioni – ma che dire del fatto che, nonostante ci fossero una trentina di paesi tra noi e la Cina, come un politico sottolineò prima dello scoppio della pandemia, questa in occidente è iniziata proprio da noi? Come noi abbiamo sottovalutato l’abilità dei paesi orientali nella loro guerra al virus – ti pare che il nostro sistema sanitario, così osannato, non sappia far di meglio dei paesi orientali fino a pochi anni fa sottosviluppati? – i nostri “alleati”, a cominciare dai paesi UE hanno forse fatto lo stesso ragionamento nei nostri confronti: i soliti italiani pasticcioni. E invece, uno dopo l’altro, chi più chi meno, si sono ritrovati con gli stessi nostri problemi.
Ormai sono trascorsi ben quattro mesi dal cosiddetto caso uno di Codogno e una lettura dei dati ufficiali pubblicati dai vari paesi evidenzia delle graduatorie che andrebbero quanto meno “pesate” tenendo conto della popolazione di ciascuno. Ma è solo questa la variabile da tener presente per confrontare correttamente la bontà della risposta di ciascun paese. Anticipo la risposta: no!
Per non disperdere troppo l’analisi, concentrerò l’attenzione su due paesi che hanno un minimo di analogie con noi: il Regno Unito e la Grecia. Il primo, per dimensioni fisiche (superficie e lunghezza delle coste) e demografiche (numerosità della popolazione) è paragonabile all’Italia. Il secondo ha un clima e uno sviluppo industriale non troppo diverso dal nostro meridione, che non a caso era un tempo definito come la Magna Grecia. Inoltre, almeno in apparenza, la Grecia avrebbe avuto risultati molto migliori dei nostri e cercherò di indagarne il motivo.
Prima di passare ai numeri dei contagi e dei morti da (o con?) covid, è d’obbligo premettere, come sempre fa il prof. Ricolfi, che essi hanno un basso grado di affidabilità. Molti concordano sul fatto che i contagi effettivi siano di almeno un ordine di grandezza superiori a quelli ufficiali. In quanto ai morti, quanti sono quelli che sono deceduti senza che venisse loro mai fatto alcun tampone e, quindi, esclusi dal conteggio?
Prendo quindi per buoni i dati pubblicati dalla Johns Hopkins University e assumo che l’errore sia paragonabile per i paesi presi in esame. Trascuro anche l’influenza di altre variabili sicuramente molto importanti. Una fra tutte: il grado di socialità delle persone, specie se anziane, in quanto soggette a mortalità notevolmente più elevata.
Ecco i dati aggiornati al 25 giugno:Se ne deduce, in prima battuta, che i britannici siano stati meno abili di noi nella lotta al virus e che, al contrario, i greci siano stati dei fuoriclasse. Per questi ultimi è difficile dimostrare il contrario, ma il divario è veramente così ampio?
Proviamo a scomporre i dati dell’Italia sulla base della sua geografia e – perché no? – della sua storia. In prima approssimazione distinguiamo tra ex Regno delle due Sicilie + la Sardegna da una parte e il centro-nord dall’altra. I puristi obietteranno che parte del Lazio sud-orientale e la provincia di Rieti facevano parte del Regno delle due Sicilie: perdonatemi questa approssimazione.
La suddetta tabella, grazie ai dati della Protezione civile da me ricavati dal sito del Sole 24ore, diventa la seguente:La situazione del centro-nord Italia appare ora ribaltata rispetto al Regno Unito (la risposta al virus è stata meno efficace), mentre il sud dell’Italia mostra ora valori senz’altro molto più elevati ma dello stesso ordine di grandezza dei dati greci. Nel precedente confronto con l’Italia intera, invece, i contagi in Grecia risultavano circa 13 volte inferiori e i morti oltre 30 volte inferiori!
Come si può spiegare tutto ciò?
Consideriamo variabili nuove: quelle ambientali (clima, inquinamento e ventilazione).
Tali variabili non sono indipendenti fra loro: direi che si esaltano a vicenda, come cercherò di chiarire. Innanzitutto preciso che il clima si può ragionevolmente scomporre nelle seguenti variabili: temperatura, umidità relativa, ventilazione e soleggiamento.
È intuitivo che:
– minore è la ventilazione, maggiori sono il ristagno delle sostanze inquinanti e l’umidità relativa,
– maggiore è il soleggiamento e, quindi, l’energia presente nell’aria, maggiore è la capacità dell’ecosistema di ridurre l’umidità relativa e di degradare le sostanze inquinanti,
– maggiore è l’inquinamento, maggiori sono l’umidità relativa e la presenza di microparticelle che, a loro volta, favoriscono l’aggregazione del vapore acqueo in piccole goccioline.
Veniamo alla facilità del contagio, cioè al nocciolo del problema. Se è vero che esso avviene tramite le goccioline di alito emesse dalle persone infette, si tratta di determinare la persistenza di tali goccioline nell’aria: più a lungo tali goccioline si librano nell’aria, maggiore risulterà la probabilità che esse possano essere inalate da qualcuno. La conoscenza del diagramma di stato aria acqua (v. figura in calce) aiuta notevolmente a capire la chimica e la fisica del fenomeno. Senza scendere troppo in tecnicismi, è evidente che:
– tanto maggiore è l’umidità relativa, tanto maggiore risulta la persistenza delle goccioline nell’aria,
– la ventilazione favorisce l’evaporazione dell’acqua e tanto più la favorisce quanto più la temperatura è elevata e l’umidità relativa è bassa.

Infatti, dal diagramma di stato aria acqua si può vedere come la capacità di far evaporare acqua nell’aria cresce in modo molto più che proporzionale con la temperatura. Si immagini di essere ad Abu Simbel (cito tale località perché ci sono stato): ammesso e non concesso che con quel clima si possa starnutire, quanto potrà sopravvivere una gocciolina nell’aria torrida? Una frazione di secondo! Viceversa, a Milano, d’inverno, quando la strada è bagnata come se piovesse ma non sta realmente piovendo . . . non c’è speranza!

Si è spesso dibattuto se il caldo favorisca oppure no la sopravvivenza del virus: dovrebbe essere chiaro, a questo punto, che il virus non muore per cottura o si indebolisce ma, semplicemente, non ha più il mezzo di trasporto e precipita a terra come una zanzara avvelenata da un insetticida.

Ritorniamo al confronto da cui siamo partiti.

La situazione della pianura padana, parte preponderante del centro-nord Italia, è senz’altro peggiore di quella inglese per mancanza di ventilazione e, anche in conseguenza di ciò, umidità relativa e inquinamento, per cui non si può certo escludere che ciò giustifichi i dati peggiori nel contrasto alla pandemia. Non è un caso che i dati della Lombardia e del Piemonte (senza accesso al mare) siano tra i peggiori anche nell’ambito delle regioni del nord Italia.

Per quanto attiene alla Grecia, possiamo spiegare i suoi dati, migliori del nostro sud, per la sua conformazione (coste più frastagliate e maggiore insularità, quindi, maggiore ventilazione) e per la inferiore latitudine media a cui si trova e, quindi, per il maggior soleggiamento.

Per concludere: non siamo stati certo un esempio da imitare ma nemmeno così sprovveduti come apparentemente si sarebbe potuto asserire sulla base di un’analisi più superficiale.