Equivoci sullo “stato forte”

Nei suoi numerosi articoli e saggi Danilo Breschi, ha esplorato in lungo e in largo le complesse vicende dell’Italia contemporanea nell’ottica della storia delle dottrine politiche, insegnamento tenuto all’Università degli Studi Internazionali di Roma. Quale democrazia per la Repubblica? Culture politiche nell’Italia della transizione 1943-1946 (Ed. Luni) è il frutto maturo di lunghi anni di ricerca e del confronto con gli studiosi che più si sono occupati della nostra political culture e del suo impatto sulla società civile, da Roberto Pertici a Roberto Chiarini, da Paolo Pombeni a Ernesto Galli della Loggia. Perché in Italia non abbiamo avuto una democrazia liberale “a norma”? Perché da noi partiti, governi, istituzioni non sono stati l’alveo sicuro entro il quale il corso della modernizzazione è potuto fluire senza troppi sconvolgimenti sociali e politici? Breschi ne attribuisce la causa alla posizione di minoranza nella quale si trovarono uomini come Benedetto Croce, Luigi Einaudi, Alcide De Gasperi, dinanzi alle tre grandi famiglie ideologiche – azionismo, social-comunismo, cattolicesimo sociale – che, sconfitte alle urne nel 1948, furono decisive nella redazione della Costituzione repubblicana e nell’interpretazione del passato come praefatio ad ducem. Ad accomunare quelle famiglie, nel triennio preso in considerazione da libro, è l’idea della “sostanziale marginalità del liberalismo di ascendenza risorgimentale e primonovecentesca. “Si tratta della convinzione che la democrazia liberale sia priva di contenuti etici e ideologici” che “non possieda un’idea direttrice, una dotazione di sen­so generale e collettivo” che sia incapace di “prendersi cura della formazione della coscienza individuale |…|. Sono il mercato, ossia gli interessi materiali, e la coscienza individuale, mantenuta tale, rigorosamente autonoma nelle proprie scel­te a determinare il suo corso, che resta costantemente instabile e al tempo stesso perennemente riequilibrantesi grazie all’omeostasi garantita dal primato della legge (rule of law), ovvero dalla solidità di istituzioni di governo fondate sul principio della separazione dei pubblici poteri che mutuamente si controllano”. L’individualismo, la democrazia liberale rappresentativa, il mercato vengono percepiti come agenti patogeni o comunque come istituzioni incapaci di mantenere unite le società. La borghesia, classe in declino, in quella che Renzo De Felice chiamava la vulgata antifascista, diventa il maggiore responsabile della conquista dello Stato da parte delle camicie nere. “La democrazia – ci si chiede – va intesa come mezzo, strumento per altri fini, oppure come fine in se stesso?”. La repubblica è un mezzo e non un fine” aveva detto Pietro Nenni al Teatro Brancaccio il 5 maggio del 1946.
Sono molte le ragioni che spiegano la persistente tendenza dell’”ideologia italiana” a considerare la democrazia liberale una forma vuota, da riempire con ardite riforme politiche o sociali ma, all’origine di tutte si trova “la rimozione del senso dello Stato e della cosa pubblica, la Repubblica appunto”. Per le nostre familles spirituelles – l’importante sono le squadre in campo e le strategie che hanno in mente: il campo da gioco, la comunità politica in quanto tale, non occupa le menti e non riscalda i cuori e le forme che essa può assumere interessano soltanto nella misura in cui consentono o meno l’entrata nella stanza dei bottoni. Regioni e corte costituzionale, per fare un esempio significativo, in un certo periodo vengono avversate, mentre in un altro, sono fortemente volute: tutto dipende dagli utili che se ne possono ricavare mentre nessuna considerazione viene riservata alla salus Rei publicae, alla forza ordinatrice dello Stato. E’ sempre vivo l’equivoco – condiviso dai panglossiani dell’ultraliberismo mercatista – che fa dello “Stato forte” l’incubatore del fascismo e del comunismo: un equivoco che distorce la realtà giacché fu proprio lo “Stato debole”, con la sua incapacità a mantenere l’ordine, a far rispettare le leggi, a punirne i trasgressori – fossero estremisti di destra o di sinistra – a spianare la strada ai regimi totalitari. Perdura, a ben vedere, la pericolosa illusione che le istituzioni sono in definitiva “sovrastrutture”, macchine ad uso dei guidatori più diversi, sicché non si concepisce neppure il dovere di battersi per una manutenzione della ‘casa comune’ che avvantaggerà non solo noi ma anche i nostri concorrenti politici. Da noi lo “spazio pubblico” non importa a nessuno perché è di tutti.




Ringraziamo l’avversario intelligente

Un texano bianco di una grassezza oscena che ostenta una sgargiante t-shirt raffigurante il volto di Donald Trump e un berretto da baseball con i colori della bandiera americana e che attribuisce la vittoria di Biden ad una colossale manipolazione delle macchine per la registrazione dei voti ad opera di George Soros; un salviniano dall’accento greve che esprime con frasi truci e sgrammaticate il suo rifiuto ad accogliere nuovi migranti; una giovane donna proletaria del nord dell’Inghilterra, scollacciata e sbracciata a mostrare un panorama ininterrotto di tatuaggi, che, sigaretta in una mano e hamburger nell’altra, dichiara di aver votato per la Brexit perché stufa di sentir parlare polacco nelle strade del suo quartiere.

Queste sono fra le tante immagini caricaturali che numerosi articoli di stampa, programmi televisivi, siti web, nonché un numero consistente di politici, si ostina a proporre al pubblico, con il sottinteso messaggio “ecco, sono gli imbecilli come questi ad opporsi al radioso avvenire che noi, i buoni, gli istruiti, vi promettiamo”. Il personaggio ignorante e volgare che viene mostrato come tipico di una certa tendenza non rappresenta solo l’avversario politico da combattere sul piano delle idee: è il Nemico, l’incarnazione stessa del male, e come tale dev’essere esposto al pubblico ludibrio. Intervistare trumpiani vestiti sobriamente e in grado di giustificare razionalmente la propria scelta elettorale, salviniani dai toni sommessi e portatori di almeno alcune istanze convincenti, Brexiteers che presentano discorsi lucidi e ben formulati … tutto ciò significherebbe venir meno al proprio dovere di crociati ed insinuare nel lettore/spettatore il dubbio che tutto sommato queste persone abbiano qualcosa di non del tutto inaccettabile da dire.

Certo i canali di informazione di proprietà privata e pertanto non soggetti agli stessi obblighi di imparzialità imposti alle emittenti pubbliche (va detto comunque che tali obblighi vengono assai spesso aggirati con metodi più o meno sottili) sono liberissimi, se vogliono,  di presentare macchiette anziché esseri umani  – anche se, così facendo, non dimostrano certo né una grande professionalità né il rispetto dovuto al pubblico, che deve essere informato e non manipolato. E fa comunque sorridere che non di rado il ricorso alle macchiette sia opera proprio di quei politici e giornalisti che normalmente si sgolano a cantare le lodi della diversità e a condannare senza quartiere ogni forma di odio, pregiudizio, stereotipo, e chi più ne ha più ne metta.

I problemi però non finiscono qui. Presentando l’avversario politico in forma deformata e parziale, politici e giornalisti fanno torto non solo al pubblico, ma anche, alla lunga, a se stessi, mettendo a forte rischio la propria credibilità. La gente non è così stupida: alla maggior parte di coloro che vivono nel mondo reale capita prima o poi di incontrare persone che risultano non conformi al cliché presentato, e a forza di vederle, di parlare con loro, si comincia a mettere in dubbio la caricatura. Senza contare che i tempi cambiano: con l’emergere di nuove problematiche sociali e politiche l’eccentrico, l’estremista, il paria di ieri possono facilmente diventare i protagonisti accettati, e talvolta riveriti, del presente. Pensiamo per esempio agli anni Sessanta e a come l’immagine di certi gruppi è radicalmente cambiata nella sua rappresentazione pubblica. Le femministe erano bollate da gran parte della stampa borghese come lesbiche isteriche; oggi molti degli stessi giornali ospitano regolarmente rubriche di denuncia del sessismo in tutte le sue forme. Gli omosessuali erano dipinti come, al meglio, malati, e al peggio, pervertiti i cui ambienti venivano regolarmente qualificati di “squallidi”; oggi chi non approva il matrimonio gay è considerato un cavernicolo di estrema destra. I giovani, e in particolare gli studenti, erano capelloni scansafatiche che acchiappavano al volo ogni scusa per non studiare; oggi gli stessi organi si distinguono per un acritico, patetico giovanilismo mirato chiaramente a non perdere lettori tra le nuove generazioni. Gli ecologisti erano derisi per le loro rivendicazioni, per il loro stile di vita e financo per le loro usanze alimentari; oggi si parla in continuazione di lotta ai cambiamenti climatici, di buoni-bicicletta, di città verdi, e vengono portati alle stelle i locali che offrono cucina vegana.

Forse a molti responsabili dei media questa perdita di credibilità importa ben poco: quel che conta (molto più della coerenza) sono le tirature, sono gli indici d’ascolto attuali, e ciò che è stato detto in passato per superficialità, ignoranza, conformismo può essere comodamente ribaltato senza patemi d’animo. Diverso è però il discorso per i politici: ingannarsi sul merito di certe argomentazioni dell’avversario (anzi, come si è detto, del Nemico) può costare molto in termini di consensi e talvolta portare ad un declino difficilmente recuperabile. E’ insomma pericoloso credere alla propria propaganda: eppure è tangibile, un po’ ovunque nel mondo occidentale, questa ostinazione a sottovalutare le ragioni chi non la pensa come noi, a crederlo nulla più che un cretino o una canaglia e ad illudersi che basti martellare il proprio messaggio perché ad un certo punto esca dalla scena con la coda tra le gambe.

Non è tutto. Anche chi comprende che l’opposizione non è da sottovalutare si riterrebbe comunque fortunato se, al posto dell’avversario agguerrito e capace, a fronteggiarlo ci fosse sempre un imbecille incapace di argomentazioni serie. Errore! In un confronto politico democratico, l’ultima cosa da augurarsi sono proprio i rivali di questo genere. Certo, all’inizio questi ultimi verrebbero sbaragliati senza grossi sforzi, si canterebbe vittoria… ma poi? A poco a poco, a forza di ricevere consensi si finirebbe per adagiarsi sugli allori, si perderebbe la capacità di valutare seriamente e spassionatamente il proprio operato, si rinuncerebbe a prendere atto delle nuove realtà sociali. E a questo punto, prima o poi, si perderebbe e ci si vedrebbe costretti a ricominciare da capo, con in più lo svantaggio di essere ormai disabituati a fare autocritica.

Si diventerebbe cioè come gli scolari ai quali il maestro dà sempre dieci anche quando meritano l’insufficienza, che in tal modo non riusciranno mai ad imparare seriamente. In politica, come nella vita, come a scuola, occorre trovarsi di fronte a sfide abbastanza impegnative da costringere a fare uso della propria intelligenza, evitare di impigrirsi, attrezzarsi per il confronto. Qui è forse utile un paragone con gli sport di squadra. Capita ogni tanto che per vari e imprevisti motivi una formazione calcistica trovi il campo sgombro da ogni rivale minimamente credibile e che continui così a vincere una partita dopo l’altra, conquistare coppe e scudetti a ripetizione. Tifosi contenti, finanziatori pure … senonché ad un certo punto, a forza di vittorie facili, la motivazione si fa sempre più fiacca, la concentrazione pure, l’allenamento viene preso un po’ sottogamba, la grinta si attenua, e così fino a quando i rivali rientrano in scena abbastanza ringalluzziti da dover essere presi veramente sul serio. Da questo momento è facile che comincino le sconfitte, e la stagione d’oro sarà ormai soltanto un bel ricordo.

Conclusione: un’opposizione che dà filo da torcere, un campo seminato di ostacoli, una serie di sfide impegnative e vissute come tali, sono non una sfortuna, bensì una benedizione. Solo in situazioni che impediscono l’autocompiacimento e la pigrizia mentale è possibile realizzare i progetti che ci stanno a cuore. Ringraziamo l’avversario intelligente. Per favore.




Fake Journalism. Sul lockdown, la libertà e il tradimento dell’informazione italiana

Credo che dalla fine delle dittature del ‘900 mai, in Occidente, si sia visto un giornalismo sleale, fazioso e asservito alla linea governativa, come si vede oggi in Italia. Punto; e a capo.

In termini scientifici, la questione richiede una ricerca più seria, che sta partendo in questi giorni grazie alla collaborazione tra l’Università IULM e l’Osservatorio di Pavia [anche se la posizione che esprimo qui è del tutto personale, e non riguarda in alcun modo il mio Ateneo]. In questa sede, vorrei soffermarmi più discorsivamente su tre strategie messe in campo dai media: l’esercizio sistematico di disinformazione, orientato a generare smarrimento ed allarme; l’imbarazzante difesa del Governo; infine, e specularmente, la continua  ed inaccettabile criminalizzazione dei cittadini.

Quanto al primo argomento, parte del problema è senza dubbio la cattiva informazione scientifica, dovuta ad una perversa combinazione di fattori: l’incapacità dei giornalisti di leggere un paper di ricerca; il personalismo, ottuso e vanesio, dei medici chiamati ad intervenire in TV; la sciatteria di chi lavora nell’informazione; la rincorsa al titolo più rumoroso. Lascio la questione a chi si occupa di public understanding of science, una materia su cui ho poche competenze, per sollevare l’altra metà del problema: non la cattiva informazione, gestita in modo approssimativo e dilettantesco, ma la palese intenzione di seminare allarme e smarrimento nel pubblico. Un’intenzione evidente nella scelta di sottolineare sempre gli aspetti negativi – il dato in peggioramento anziché quelli in miglioramento, nel folle bollettino quotidiano del Sars-Cov-2 – e nella serie infinita di menzogne belle e buone che la stampa ha raccontato, sull’Italia e sullo stato generale dell’epidemia. In particolare è il paragone con le altre nazioni, su cui il pubblico medio ha maggiore difficoltà ad orientarsi, ad essere gestito in modo terroristico, mentendo senza ritegno sulle virtù di un “modello italiano” che non è mai esistito, e insistendo ogni giorno sull’aspetto peggiore del paese che vive il periodo peggiore, senza alcun rispetto per le proporzioni generali e senza nessuna visione di insieme. E perfino con buone ragioni, se la vediamo dal lato dei manipolatori: perché quello che appare evidente, se allarghiamo le linee dell’analisi, è che la correlazione tra la durezza del lockdown e la riduzione dell’epidemia è tutt’altro che scontata e assai difficile da dimostrare, senza contare gli spaventosi costi umani che ne derivano. L’analisi comparata di John Ioannidis[1], recentemente, mostra come le misure aggiuntive rispetto a quelle di precauzione generale – e segnatamente lo “stay-at-home” obbligatorio – non producano vantaggi misurabili. Cosa di fatto prevista dalla Dichiarazione di Great Barrington, il manifesto contro il contenimento scritto nello scorso ottobre da altri tre epidemiologi di fama mondiale [Martin Kulldorff, di Harvard; Sunetra Gupta, di Oxford; Jay Bhattarchaya, di Stanford], e firmato da 53.000 – cinquantatremila – tra medici e scienziati in cinque continenti[2]. Provate a verificare lo spazio concesso a questa posizione scientifica, nel dibattito italiano – ma vedrete che non servirà molto tempo.

Ammetto che la questione è tremendamente complessa, perché di fronte a processi così ampi è impossibile filtrare le variabili,  e ridurre il tutto ad una chiara relazione di causalità: così che ognuno tende a selezionare i segmenti statistici in linea con la propria tesi di fondo, e io non faccio eccezione. Ma il punto critico è un altro, e nasce esattamente da questa incertezza epistemologica: misure di restrizioni tanto gravi ed illiberali possono essere giustificate soltanto dalla ragionevole certezza della loro utilità. E quindi sta a chi sostiene il confinamento dimostrarne la ragione scientifica, e non a chi lo contesta dimostrare il contrario – esattamente come tocca all’accusa l’onere della prova, e mai alla difesa. Affermare la sospensione dei diritti come azione preventiva – che “tanto male non fa”, come hanno il coraggio di dire certi anchor-men – non è altro che un esperimento di controllo sociale su vastissima scala, a cui dovremmo dedicare tutte le nostre energie critiche, tanto devastante è il suo effetto sui principi ultimi della convivenza civile e delle democrazie liberali.

Quello che ha così preso corpo, in un clima di incredibile conformismo, è il ribaltamento delle categorie valoriali su cui si fondano le democrazie: è la libertà che deve essere giustificata, e non la sua limitazione; le misure restrittive diventano uno scopo in sé, anziché una misura da applicare con cautela, in base a motivazioni scientifiche verificabili e solide legittimazioni giuridiche; e i dati – gestiti in modo opaco e arbitrario, con cambi continui delle variabili in gioco – contano meno del pretesto a cui possono essere piegati. E trovo singolare che quasi nessuno, tra chi si occupa di lavoro intellettuale, abbia la forza di vedere come la messa in disciplina del corpo sociale stia diventando – e certamente non solo in Italia – un problema ben più ampio di quello epidemiologico.

Il secondo peccato capitale, per quanto sta invece alla nostra contingenza politica, è la costante adulazione della maggioranza “giallorossa”, come piace dire ai giornalisti. Di un governo che ha portato il Paese agli ultimi posti in ogni categoria di valutazione, e che allo stato attuale è semplicemente il peggiore del mondo, se combiniamo tra loro i diversi indicatori: tasso di mortalità; letalità del virus; durezza delle misure di contenimento; mesi di chiusura delle scuole; impatto della crisi economica in termini di occupazione e di PIL; ritardo di programmazione per il piano Next Generation. Eppure, sommersa da risultati catastrofici da ogni immaginabile punto di vista, la stampa ha pensato bene di reggere il gioco al Governo, con tanto di celebrazione totalitaria di Giuseppe Conte, paragonato senza senso del ridicolo – in ordine sparso – ad Aldo Moro, Camillo Benso di Cavour, Winston Churchill, François Mitterrand, Giovanni Giolitti, Luigi Sturzo, Angela Merkel [e dal Fatto Quotidiano, pace all’anima nostra, perfino al leggendario Muhammad Alì di Kinshasa]. Osservate ad esempio le fotografie di Conte pubblicate dai quotidiani, o i video di un qualsiasi TG: l’inquadratura dal basso a costruire un’aura napoleonica; gli occhi che guardano lontano, come quelli di chi fissa l’orizzonte con intraprendenza; le immagini apparentemente rubate durante una giornata di lavoro, con l’obiettivo che mette in campo l’angolo della porta socchiusa; la camminata fiera e veloce, palesemente messa in scena per l’occasione. Intendiamoci, si tratta di soluzioni tecnicamente banali, perfino grette, da ufficio stampa di quarta categoria – ma tanto sembra bastare per i giornalisti italiani, che ritengono tutto questo normale.

Il terzo tema è fatalmente correlato al secondo, e riguarda la colpevolizzazione dei cittadini, di cui mi è capitato di scrivere già nella primavera del 2020[3]. Senza mezze misure, e senza eccezioni significative, i media di opinione hanno scelto da subito la loro battaglia: servire il Governo, e scaricare sui singoli la colpa dell’epidemia. Di qui, l’ossessiva ricerca del capro sacrificale: il vicino che porta a spasso il cane; i runner; la movida;  le discoteche; le [presunte] feste clandestine; gli assembramenti di turno. A poco serve, far notare che l’Italia è il paese occidentale che ha imposto le misure più dure; che i dati del Ministero dell’Interno svelano un notevole rispetto delle regole, almeno per i nostri parametri, con una quota di multati mai superiore all’1% dei controllati; che incontrarsi all’aperto comporta rischi risibili; che ben altri sono i luoghi in cui il Covid-19 ha colpito duramente; o che, diciamolo una volta buona, vivere senza socialità e senza contatti fisici è semplicemente impossibile, ed è bene che così sia. Niente da fare: pensate a quante volte avete visto le immagini dello shopping o della cosiddetta “movida” – di norma schiacciate da un uso criminale del tele-obiettivo, per eliminare la profondità di campo – e quante poche volte avete sentito parlare dell’affollamento sugli autobus, delle infezioni contratte in ospedale, delle barbarie ripetute negli ospizi, dell’assenza di un piano epidemiologico, di un’assistenza sanitaria che non migliora mai [quando la cura dei malati, nella bufera di una crisi epidemiologica, è l’unica cosa che conta]. Chiedetevi quante volte avete sentito associare la colpa ai cittadini, e quante volte alla classe dirigente che ha la responsabilità di proteggerli; e anche qui, darvi una risposta non dovrebbe essere troppo complicato.

Assecondando in anticipo un’obiezione possibile, per quanto di scarso mordente: sì, certo, non tutti i giornalisti sono uguali; qualcuno ha mantenuto una linea di decenza; qualcuno ha fatto inchieste interessanti; qualcuno ha tirato fuori i dati reali e i reali problemi, e per questo ha subito la punizione squadrista degli opinionisti di apparato. Ma si tratta appunto di giornalisti, di singoli dotati di buone intenzioni, per lo più di area liberale; nulla che intacchi la linea editoriale delle testate più note, né tanto meno la collusione tra informazione e Governo [qui semmai l’unica eccezione, assai limitata, è data dai quotidiani della destra sociale]. E questo è un problema di drammatica urgenza, perché in nessun paese democratico la stampa prende di petto l’opposizione, anziché il governo; o perseguita sadicamente i cittadini, anziché tenere sotto controllo il potere. Il primo è un vizio tipico dei sistemi illiberali, e il secondo di quelli totalitari: e noi, è tempo di aprire gli occhi sulla realtà, subiamo da mesi sia l’uno che l’altro. E nessuno parla.

E’ infatti vero, bisogna essere onesti, che in questo disastro i giornalisti si trovano in ottima compagnia: ancora più avvilente è anzi il silenzio della classe intellettuale; e il suo tradimento, ben più doloroso. A fronte di una gestione cialtronesca e approssimativa; a fronte di risultati che sarebbero comici, se non contenessero in sé la tragedia della malattia e della morte; a fronte dell’abuso di potere più sistematico; davanti all’ignobile arroganza mostrata dagli uomini dello Stato, che bullizzano la popolazione anziché mettersi al suo servizio – di fronte a tutto questo, praticamente nessuno ha parlato, nel mondo della cultura, dell’arte, dell’opinione progressista, dell’accademia. Nulla di sorprendente, forse, trattandosi di un mondo largamente finanziato dallo Stato, e con vincoli tutt’altro che puerili con l’apparato di potere del Partito Democratico. Donne e uomini sempre pronti alla battaglia, quando si tratta di affrontare un nemico astratto, o localizzato qualche migliaia di chilometri più in là; tutti compiacenti e passivi, da quando gli arresti domiciliari, il coprifuoco e lo Stato di Polizia sono diventati storia di casa nostra.

Tutti in silenzio, ho detto; quasi tutti, è corretto dire, rendendo merito alle eccezioni, a partire dalla più luminosa: Giorgio Agamben[4], un pensatore studiato in tutto il pianeta, e messo serenamente ai margini qui da noi [e che anzi, anche nella Tv di Stato, è stato deriso da opinionisti che in un mondo normale non avrebbero diritto di spolverargli la scrivania]. Prima i giornalisti; poi l’intero campo della cultura; e da buon ultimo – per onestà – parliamo anche dell’ambiente di cui sono parte, la sociologia e la sociologia dei media. Perché a fronte di un tale stato dell’informazione, combattere soltanto le fake news in rete – e, guarda un po’ il caso, sempre quelle che conducono a Trump o a Salvini – smette di essere un atto di conformismo accademico, e rischia di diventare una forma di complicità. Mentre per le donne e gli uomini liberi, se ce ne sono ancora là fuori, è venuto il tempo di alzare la voce.

[1] J. Ioannidis, E. Bendavid, C. Oh, J. Bhattharcaya, Assessing Mandatory Stay-at-home and Business Closure Eeffects on the Spread of Covid-19, 2021, disponibile al sito https://onlinelibrary.wiley.com/doi/abs/10.1111/eci.13484.

[2] La dichiarazione di Great Barrington è disponibile al sito https://gbdeclaration.org/.

[3] A. Miconi, Epidemie e controllo sociale, Roma, manifestolibri, 2020.

[4] G. Agamben, A che punto siamo? L’epidemia come politica, Macerata, Quodlibet, 2020. Per lo schema teorico su cui si fonda la sua analisi, inopportunamente banalizzata nel discorso pubblico italiano, Stato di eccezione, Torino, Bollati Boringhieri, 2003.




Da cosa si riconosce la crisi della democrazia liberale

La Democrazia liberale esige il rispetto degli altri: il rispetto dei loro valori, la comprensione dei loro interessi. Sembra l’enunciazione di una banalità ma, a ben riflettere, non è così. Per molti, infatti, il rispetto degli altri rinvia alla vecchia idea della tolleranza: le idee dei nostri avversari politici possono essere sbagliate ma dietro le idee ci sono gli uomini, la cui persona è sacra; quanti sono nell’errore, pertanto, non  possono venire criminalizzati ed esclusi dall’arena politica oltretutto per non rischiare la dittatura dei saggi sugli stolti.

La tesi che vado sostenendo da anni nei miei articoli e saggi è che su questa base non si costruisce nessuna democrazia liberale. L’equivoco di fondo risale alla stagione dei lumi. Questi ultimi hanno liberato il mondo da tanti pregiudizi, tradizioni, superstizioni che sono stati di ostacolo al pieno sviluppo della libertà individuale e dei diritti dei cittadini ma, con la loro luce abbagliante, delegittimando tutto il passato e preannunciando l’Uomo Nuovo – emancipato da ogni tipo di catena – hanno laicizzato e secolarizzato l’assunto su cui si reggono le Chiese – e le religioni universali – ovvero la coincidenza tra Verum e Bonum tra Conoscenza e Morale.

E’ la riaffermazione, in chiave moderna, dell’etica cognitivista: le verità – quelle della teologia o quelle delle scienze – debbono essere le determinanti dell’agire. Non è casuale che in quella parte d’Occidente in cui il cattolicesimo e l’illuminismo francese hanno esercitato una grande influenza sull’educazione e sulla cultura politica siano così poche le trattazioni dedicate alla morale, ritenendosi quest’ultima un capitolo del più ampio trattato sull’uomo, sul mondo, sulla storia. Per sapere come debbo comportarmi, debbo prima sapere chi sono, qual è il compito che mi è stato affidato dalla società in cui vivo – dalla comunità politica, dal partito, dalla classe, dalla razza – quali sono i doveri cui debbo adempiere affinché possa dare il mio contributo al benessere e alla felicità dei miei simili (che nella retorica universalista diventano l’intera umanità).

Che cosa c’è di sbagliato in tutto questo? E’ semplice: è il rifiuto di riconoscere, per riprendere il titolo di un saggio di filosofia del diritto di molti anni fa, che ‘”l’etica è senza verità” nel senso che i valori non si lasciano dedurre dai fatti ma appartengono a una dimensione in cui il criterio del vero/falso è improponibile. E’ la coscienza che mi prescrive ciò che debbo fare, non un’Autorità esterna – neppure quella di chi ha creato il mondo, come scrisse in una bellissima pagina Guido Calogero – non i saperi accumulati dai cultori delle “scienze naturali” e delle “scienze dello spirito”. L’economia politica può dirmi che agendo in un certo modo esco dal mercato; i miei amici possono mettermi in guardia dal non contravvenire alle leggi della politica se voglio avere i voti dei miei concittadini: si tratta di giudizi tecnici – se intendi raggiungere un certo risultato devi servirti dei mezzi più idonei – ma i dettami dell’economia e della politica non comportano alcun obbligo morale.

I valori stanno tutti sullo stesso piano e a ordinarli in una scala gerarchica non è la scienza, patrimonio collettivo, ma la coscienza, patrimonio individuale. La libertà e l’autorità, la tradizione e il progresso, la comunità e la società, la solidarietà e l’individualismo, l’illuminismo e il romanticismo, la poltrona e la palestra, l’eguaglianza e la differenza, il borgo natio e il vasto mondo, lo spirito aristocratico e la democrazia, lo Stato sopra gli individui e la società negli individui, la religiosità e l’ateismo, l’eroismo e la prudenza, la vita innanzitutto e la sfida della morte e del pericolo, con le loro infinite varianti e combinazioni, con i loro inesauribili simboli, fanno riferimento a idealità, che sono fortemente sentite da certi tipi umani e sono del tutto indifferenti ad altri.

Chiarito questo, a mio avviso avrebbe titolo a definirsi liberale solo una democrazia che riconoscendo tutti i valori in campo, ritenuti tutti “buoni” – in quanto radicati nei cuori e tali da indurre a sacrificare i beni e la vita per vederli fiorire – iscrivesse nella sua costituzione solo quelli volti a presiedere le regole del gioco e a mantenere la competizione sempre aperta, nel quadro, ovviamente, dei diritti civili e politici indisponibili.

Dal punto di vista razionale, ciò per cui si è disposti a morire può apparire assurdo, come la decisione del giovane saraceno Medoro, nell’Orlando furioso, di dar pietosa sepoltura all’amato re Dardinello d’Almonte a costo di rimetterci la vita – “ché sarebbe pensiero non troppo accorto perder due vivi per salvare un morto”, gli dice l’amico Cloridano. Ma a seconda del criterio di razionalità adottato tutti i valori possono apparire irrazionali, a cominciare da quelli che spingono ad incrementare ulteriormente i beni di famiglia quando si vive già in una condizione agiata. Una società aperta è aperta a tutti i bisogni, a tutti gli interessi, a tutte le aspirazioni etiche e politiche degli individui: sarà il conflitto regolato a stabilire di quali si debba tener più conto nel momento di scrivere leggi imperative erga omnes; sarà il compromesso equo (il bargaining degli americani) a neutralizzare, con la “tutela delle minoranze”, il legittimo desiderio di revanche dei perdenti, fino alle nuove elezioni.

Quando si dice che ogni valore è buono non si intende negare che un valore assolutizzato – e senza altri valori che ne limitino le pretese – non possa portare ad esiti aberranti ma solo ribadire che questi esiti sono tali non per la  natura intrinseca del valore al quale si richiamano (e che, in corso d’opera,  viene stravolto, pervertendo, ad esempio, l’amore per la comunità in  tribalismo) ma alla luce di un sentire etico sempre più diffuso a livello planetario che condanna decisamente ogni forma di genocidio al quale può portare la legittima preoccupazione pro aris et focis. (Le vittime dei Lager e dei Gulag per il “Cielo, dall’alto dei mondi sereni, infinito, immortale” sono una delle tante manifestazioni “naturali” di “quest’atomo opaco del male” che è la Terra: tra i forni crematori e l’eruzione del Krakatoa non c’è differenza). L’eguaglianza – valore illuministico par excellence – può condurre alla soppressione violenta di quanti sono legati a una società aristocratica o borghese-aristocratica; l’amore per le radici, può portare al genocidio razziale: dall’universalismo al Gulag, si potrebbe dire, dal comunitarismo ai Lager.

Ma se il vino dei valori degenera in aceto totalitario, a destra come a sinistra – e ciò avviene in virtù di fattori istituzionali interni ed esterni agli stati e di mentalità sopravvissute ai secoli, che richiederebbero un discorso a parte – ciò non autorizza i portatori dei valori vincenti a trattare i loro avversari come un pericoloso gregge eterodiretto, un’orda di barbari mossi da impulsi omicidi. Con un esempio facile, non si ha il diritto di escludere i post-fascisti o i post-comunisti dall’”arco costituzionale” se gli uni e gli altri riconoscono che i regimi che si sono legittimati richiamandosi alle “nobili cause” – l’eguaglianza, la nazione – hanno finito per comprometterle, giacché senza la democrazia liberale tutto finisce per degenerare, convalidando l’antico adagio che la strada dell’inferno è lastricata dalle buone intenzioni. Eppure è così che una certa stampa dipinge i seguaci di Matteo Salvini in Italia e quelli di Donald Trump in America. Basta essere etichettato come sovranista, nazionalista o populista per essere espulso dal genere umano in nome della lotta a quello che Umberto Eco chiamava l’Ur-Faschismus. Nessuno spazio oggi è concesso alla dimensione comunitaria giacché esistono solo gli individui i cui bisogni materiali vanno soddisfatti indipendentemente da ogni “appartenenza”.

Si prepara la guerra civile tra le due anime di un paese – quella conservatrice, quella progressista – quando i valori di una delle due vengono fatti a pezzi, i suoi simboli e monumenti abbattuti, quando le ruspe dell’universalismo fanno terra bruciata dei ricordi storici più cari. Sta qui la crisi profonda della democrazia liberale. L’incendio nazista delle Case del popolo equivale, sul piano simbolico, alla rimozione a Boston della statua di Lincoln: la pericolosità delle camicie brune – grazie alle istituzioni democratiche statunitensi – è imparagonabile alla furia devastatrice dei Blacklivesmatter ma l’impatto simbolico è lo stesso. E’ la fine di quell’equilibrio tra l’antico e il nuovo che aveva fatto grande l’Occidente: è l’inizio di un’epoca che vede il primato dell’emancipazione umana sulla volontà (“reazionaria”) di mettere in salvo quei momenti del “mondo di ieri” che, nel bene e nel male, ci hanno reso quel che siamo.

Pubblicato su Huffington Post il 16 gennaio 2021




Indice DQP: per l’immunità di gregge dobbiamo aspettare novembre 2027

Le autorità politiche e sanitarie, in particolare il ministro Roberto Speranza e la sottosegretaria Sandra Zampa, hanno ripetutamente dichiarato che la campagna di vaccinazione serve a raggiungere la cosiddetta immunità di gregge:

5 dicembre: “Il nostro obiettivo è l’immunità di gregge grazie al vaccino” (Roberto Speranza).

17 dicembre: “Immunità di gregge a settembre-ottobre prossimi (Sandra Zampa).

28 dicembre: “Oggi il ministro Speranza ha precisato che entro marzo raggiungeremo la quota di 13 milioni di italiani vaccinati contro Covid-19, e quindi in estate potremo già essere molto avanti nel perseguimento dell’obiettivo immunità di gregge data dal 70%” (Sandra Zampa).

9 gennaio 2021: “Per arrivare all’immunità di gregge dobbiamo vaccinare l’80% di 60 milioni di italiani” (Sandra Zampa).

Per “immunità di gregge” si intende una situazione nella quale ci sono abbastanza persone vaccinate (e non in grado di trasmettere il virus) da portare la velocità di trasmissione del virus (Rt) al di sotto di 1, con conseguente progressiva estinzione dell’epidemia.

Ma quante settimane occorreranno per vaccinare un numero di italiani sufficiente a raggiungere l’immunità di gregge?

A rispondere a questa domanda provvede l’indice DQP (acronimo di: Di Questo Passo), che stima il numero di settimane che sarebbero ancora necessarie se – in futuro– le vaccinazioni dovessero procedere “di questo passo”.

All’inizio della terza settimana del 2021 (lunedì mattina, 18 gennaio) il valore di DQP era pari a 147 settimane, il che corrispondeva al raggiungimento dell’immunità di gregge non prima del mese di novembre del 2023.

All’inizio della quarta settimana del 2021 (lunedì mattina, 25 gennaio) il valore di DQP è pari a 355 settimane, il che corrisponde al raggiungimento dell’immunità di gregge non prima del mese di novembre del 2027.

Il valore del DQP, essenzialmente a causa del rallentamento delle consegne da parte di Pfizer, è drammaticamente peggiorato rispetto a quello della settimana scorsa (da 147 a 355 settimane, dal 2023 al 2027).

Per raggiungere gli obiettivi enunciati dalle autorità sanitarie (immunità di gregge entro settembre-ottobre 2021), il numero di vaccinazioni settimanale dovrebbe essere circa 10 volte quello attuale (2 milioni la settimana, anziché 210 mila).

Nota tecnica

Va precisato, comunque, che la nostra stima è basata sulle ipotesi più ottimistiche che si possono formulare, e quindi va interpretata come il numero minimo di settimane necessarie.

Più esattamente l’interpretazione dell’indice è la seguente:

DQP = numero di settimane necessario per raggiungere almeno il 70% degli italiani con almeno 1 vaccinazione.

A partire dalla prima settimana completa dell’anno (da lunedì 4 a domenica 10 gennaio) la Fondazione Hume calcola settimanalmente il valore dell’indice DQP (acronimo per: Di Questo Passo).

L’indice si propone di fornire, ogni lunedì, un’idea vivida della velocità con cui procede la vaccinazione, indicando l’anno e il mese in cui si potrà raggiungere l’immunità di gregge procedendo “di questo passo”.

Il calcolo dell’indice si basa su 4 parametri:

  1. una stima del numero di italiani vaccinati necessario per garantire l’immunità di gregge;
  2. quante vaccinazioni sono state effettuate nell’ultima settimana (da lunedì a domenica);
  3. quante vaccinazioni erano state effettuate dall’inizio della campagna (1° gennaio 2021) fino alla settimana anteriore a quella su cui si effettua il calcolo;
  4. che tipo di vaccini verranno presumibilmente usati (a 2 dosi o a dose singola).

Nella versione attuale l’indice si basa sulle ipotesi più ottimistiche possibili sul funzionamento del vaccino e sull’andamento della campagna vaccinale. Più precisamente:

  • i vaccini somministrati non solo proteggono i vaccinati dall’insorgenza della malattia, ma impediscono la trasmissione dell’infezione ad altri (immunità sterile);
  • l’obiettivo è vaccinare il 70% della popolazione (anziché l’80 o il 90%, come potrebbe risultare necessario);
  • sul mercato vengono introdotti vaccini per tutte le fasce d’età, compresi gli under 16 (i vaccini attuali sono testati solo su specifiche fasce d’età);
  • ci si accontenta di vaccinare ogni italiano una sola volta, trascurando il fatto che, ove la campagna di vaccinazione dovesse prolungarsi per oltre un anno, bisognerebbe procedere a un numero crescente di rivaccinazioni.