Indice DQP: per l’immunità di gregge dobbiamo aspettare dicembre 2023

Le autorità politiche e sanitarie, in particolare il ministro Roberto Speranza e la sottosegretaria Sandra Zampa, hanno ripetutamente dichiarato che la campagna di vaccinazione serve a raggiungere la cosiddetta immunità di gregge:

5 dicembre: “Il nostro obiettivo è l’immunità di gregge grazie al vaccino” (Roberto Speranza).

17 dicembre: “Immunità di gregge a settembre-ottobre prossimi (Sandra Zampa).

28 dicembre: “Oggi il ministro Speranza ha precisato che entro marzo raggiungeremo la quota di 13 milioni di italiani vaccinati contro Covid-19, e quindi in estate potremo già essere molto avanti nel perseguimento dell’obiettivo immunità di gregge data dal 70%” (Sandra Zampa).

9 gennaio 2021: “Per arrivare all’immunità di gregge dobbiamo vaccinare l’80% di 60 milioni di italiani” (Sandra Zampa).

Per “immunità di gregge” si intende una situazione nella quale ci sono abbastanza persone vaccinate (e non in grado di trasmettere il virus) da portare la velocità di trasmissione del virus (Rt) al di sotto di 1, con conseguente progressiva estinzione dell’epidemia.

Ma quante settimane occorreranno per vaccinare un numero di italiani sufficiente a raggiungere l’immunità di gregge?

A rispondere a questa domanda provvede l’indice DQP (acronimo di: Di Questo Passo), che stima il numero di settimane che sarebbero ancora necessarie se – in futuro– le vaccinazioni dovessero procedere “di questo passo”.

All’inizio dell’ottava settimana del 2021 (lunedì mattina, 22 febbraio) il valore di DQP è pari a 148 settimane, il che corrisponde al raggiungimento dell’immunità di gregge non prima del mese di dicembre del 2023.

Il valore del DQP è migliorato rispetto a quello della settimana scorsa (immunità di gregge a maggio 2024).

Per raggiungere gli obiettivi enunciati dalle autorità sanitarie (immunità di gregge entro settembre-ottobre 2021), il numero di vaccinazioni settimanale dovrebbe essere circa il quadruplo di quello attuale (2 milioni la settimana, anziché 500 mila).


Nota tecnica

Le stime fornite ogni lunedì si riferiscono alla settimana appena terminata e si basano sui dati ufficiali disponibili il lunedì mattina (quindi possono subire degli aggiornamenti).

Va precisato che la nostra stima è basata sulle ipotesi più ottimistiche che si possono formulare, e quindi va interpretata come il numero minimo di settimane necessarie.

Più esattamente l’interpretazione dell’indice è la seguente:

DQP = numero di settimane necessario per raggiungere almeno il 70% degli italiani con almeno 1 vaccinazione.

A partire dalla prima settimana completa dell’anno (da lunedì 4 a domenica 10 gennaio) la Fondazione Hume calcola settimanalmente il valore dell’indice DQP (acronimo per: Di Questo Passo).

L’indice si propone di fornire, ogni lunedì, un’idea vivida della velocità con cui procede la vaccinazione, indicando l’anno e il mese in cui si potrà raggiungere l’immunità di gregge procedendo “di questo passo”.

Il calcolo dell’indice si basa su 4 parametri:

  1. una stima del numero di italiani vaccinati necessario per garantire l’immunità di gregge;
  2. quante vaccinazioni sono state effettuate nell’ultima settimana (da lunedì a domenica);
  3. quante vaccinazioni erano state effettuate dall’inizio della campagna (1° gennaio 2021) fino alla settimana anteriore a quella su cui si effettua il calcolo;
  4. che tipo di vaccini verranno presumibilmente usati (a 2 dosi o a dose singola).

Nella versione attuale l’indice si basa sulle ipotesi più ottimistiche possibili sul funzionamento del vaccino e sull’andamento della campagna vaccinale. Più precisamente:

  • i vaccini somministrati non solo proteggono i vaccinati dall’insorgenza della malattia, ma impediscono la trasmissione dell’infezione ad altri (immunità sterile);
  • l’obiettivo è vaccinare il 70% della popolazione (anziché l’80 o il 90%, come potrebbe risultare necessario);
  • sul mercato vengono introdotti vaccini per tutte le fasce d’età, compresi gli under 16 (i vaccini attuali sono testati solo su specifiche fasce d’età);
  • ci si accontenta di vaccinare ogni italiano una sola volta, trascurando il fatto che, ove la campagna di vaccinazione dovesse prolungarsi per oltre un anno, bisognerebbe procedere a un numero crescente di rivaccinazioni.



Un governo Draghi dal gusto agrodolcissimo. Intervista a Luca Ricolfi

Professor Ricolfi, il neo premier Draghi in questi due giorni ha scoperto le carte e nel suo discorso ha tratteggiato il programma di governo. Qual è il suo sentimento prevalente dopo il passaggio a Senato e Camera? Nota qualche affinità con l’ultimo governo guidato da un tecnico ovvero quello di Mario Monti?
Il mio sentimento verso il nuovo governo? Agro-dolce, direi. Anzi, agro e dolcissimo. Dolcissimo perché, rispetto a quel che abbiamo avuto nell’ultimo anno e mezzo, il governo Draghi è un progresso enorme. Con il Conte bis abbiamo avuto il peggior governo dell’Italia repubblicana, un governo che ha sulla coscienza decine di migliaia di morti, e che non ha mai chiesto scusa per i propri errori. Un governo che, al solo scopo di tutelare gli equilibri fra Pd e Cinque Stelle, ha rimandato tutte le scelte cruciali e non è stato in grado di scrivere un Recovery Plan decente. Con Draghi, se Dio vuole, abbiamo invece tre garanzie fondamentali: l’Europa non ci boccerà il Recovery Plan; i mercati finanziari saranno meno aggressivi nel concederci credito; le scelte più demagogiche hanno buone probabilità di essere stoppate.

E il lato agro?
Il lato agro è la composizione del governo, più politico che tecnico, e la genericità/ovvietà degli impegni programmatici. Quando un presidente di consiglio si insedia, per capire le sue intenzioni, io non guardo mai alla lista dei problemi che intende risolvere, o alla giaculatoria dei temi su cui mostra sensibilità: le solite donne, i soliti giovani, il solito ambiente, la solita digitalizzazione, la solita cultura, la solita pubblica amministrazione da modernizzare, la solita giustizia da velocizzare, la solita crescita da rilanciare, la solita immigrazione da governare, i soliti investimenti nel Mezzogiorno, la solita mafia da sconfiggere, la solita evasione fiscale da combattere. Io guardo a una cosa soltanto: i mezzi con cui quei problemi si proverà a risolvere. E su questo la delusione è cocente: Draghi ha detto pochissimo, e le poche cose incisive che, sia pure cripticamente, ha osato dire – rimpatri dei non aventi diritto e tutela dei lavoratori, ma senza salvataggio dei posti di lavoro – di fatto è stato costretto a rimangiarsele nella replica al Senato.

Uno dei campi di battaglia su cui questo governo si gioca la reputazione è ovviamente quello della lotta al virus. La politica sanitaria si poggia su due pilastri: la campagna vaccinale e il contenimento del Covid. Esaminiamoli entrambi. Partiamo dai vaccini. Che discontinuità nota?
Di discontinuità ne vedo solo due, tutto sommato abbastanza marginali. Primo: Draghi ha mandato a monte la buffonata delle “primule” (padiglioni per le vaccinazioni), e chiesto l’aiuto del settore privato e dell’esercito. Secondo: Draghi ha promesso solennemente che il suo governo abbandonerà la folle politica delle restrizioni last minute, come nel disgraziato caso della stagione sciistica (ma anche delle vacanze natalizie).
Quanto ai vaccini, ormai è chiaro a tutti che l’obiettivo dichiarato dal ministro Speranza e dalla sottosegretaria Zampa (vaccinare il 70-80% degli italiani entro settembre) non sarà raggiunto, né poteva esserlo. Chiunque abbia in casa una calcolatrice avrebbe potuto capirlo da solo, ma è comunque un fatto positivo che si smetta di illudere gli italiani.

Basta l’addio alle primule e una logistica più razionale per raggiungere l’immunità di gregge entro l’autunno?
Tutti ce lo auguriamo, ma una valutazione realistica suggerisce una risposta netta: no, non basta. Per raggiungere quell’obiettivo, infatti, devono verificarsi contemporaneamente almeno 5 condizioni:

  1. arrivo di un numero di dosi sufficiente;
  2. capacità logistico-organizzativa del sistema sanitario nazionale di vaccinare almeno l’80% della popolazione (le varianti più trasmissibili elevano la soglia dell’immunità di gregge);
  3. soluzione del problema degli under-18 per cui non esiste ancora un vaccino sicuro ed efficace;
  4. riduzione del numero di no-vax e di ostili alla vaccinazione al di sotto del 20%;
  5. utilizzo di vaccini che non solo bloccano la malattia ma anche la trasmissione,

Le sembra probabile che queste 5 condizioni si realizzino tutte entro pochi mesi?

Per quanto riguarda invece la strategia di contenimento del Covid, e soprattutto delle sue varianti, nel discorso si trova poco o nulla. Come interpreta questo “buco”?
E’ questa la mia principale delusione, ed è la conferma che il governo Draghi è nato solo per gestire il Recovery Plan, non certo per fronteggiare  diversamente la pandemia. Draghi non solo non ha sostituito Speranza, ma nulla ha detto che faccia presagire un sostanziale cambio di linea. Io temo che la ragione sia abbastanza semplice: Draghi sa che, non avendo il governo precedente fatto quasi nulla di quel che avrebbe potuto evitare il lockdown, ora l’unica alternativa rimasta sarebbe un lockdown più severo; ma sa anche che, se lo attuasse, la Lega uscirebbe dal governo; quindi anche lui, come il suo predecessore, giochicchierà con il meccanismo dei semafori finché le terapie intensive piene convinceranno anche Salvini (spero ovviamente di sbagliarmi, e che Draghi cambi rotta subito).

Ci sarà un cambio di passo rispetto al governo Conte? O semplicemente si consolideranno il sistema dei colori e dei lockdown locali?
Penso che nelle prime settimane assisteremo a qualche modesto ritocco al sistema dei colori, mentre più avanti – se l’epidemia continuasse a risultare fuori controllo – potrebbe esserci un tardivo appello alla responsabilità individuale, magari accompagnato da qualche promessa di fare finalmente qualcosa sui versanti cruciali: trasporti, tamponi, tracciamento, sequenziamento, medicina territoriale, controllo delle frontiere.
Certo, il fatto di non aver sostituito Speranza fa supporre che, finché la realtà non lo costringerà a cambiare rotta, manterrà la direzione di marcia del governo precedente, con effetti drammatici sull’economia (il che, alla lunga, potrebbe rivelarsi il peccato originale del governo Draghi).

Sulla politica economica invece abbiamo qualche elemento in più. A partire dalla riscrittura del Recovery. Si sente più tranquillo rispetto al precedente governo?
Infinitamente più tranquillo. Penso che con Draghi non vedremo troppe misure di natura clientelare, ed eviteremo pure qualche “boiata pazzesca”, che con il governo precedente nessuno ci avrebbe risparmiato.

Invece sulla visione di Draghi sui sussidi a imprese e lavoratori e su come far ricrescere l’Italia che opinione ha?
Penso che Draghi creda nella “distruzione creatrice” alla Schumpeter, ma che dovrà pure lui concedere qualcosa all’assistenzialismo, andando in soccorso di imprese decotte e salvando posti di lavoro fittizi, magari mediante l’ingresso dello Stato (o meglio della Cassa depositi e Prestiti) nel capitale di alcune imprese.
Il problema è che Draghi non ci ha detto se, per far ripartire la crescita, punterà su politiche care alla destra (meno tasse sui produttori) o su politiche care alla sinistra (redistribuzione del reddito verso i ceti bassi).

Anche sulla politica migratoria mi sembra ci sia ancora un po’ di confusione. Secondo lei nel governo vincerà la spinta leghista o quella di sinistra?
Secondo me vincerà la spinta della sinistra, ma per una buona ragione: la sinistra una soluzione (paradossale) del problema migratorio ce l’ha, mentre la destra ha già dimostrato di non averla.

In che senso?
La soluzione della sinistra è demandare la soluzione all’Europa. In pratica: in attesa che l’Europa batta un colpo, ci teniamo tutti i migranti che sbarcano, e gli facciamo pure il test anti-Covid. Lamorgese è perfetta per questa politica.
La destra invece non ha una soluzione, anche se finge di averla. Tenere i migranti in mare 1-2 settimane e pietire micro-distribuzioni in Europa, senza essere in grado di rimpatriare i non aventi diritto alla protezione internazionale non è una soluzione. Riduce il flusso, ma non risolve il problema.
L’unica che una soluzione sembra averla è la Meloni. Ma la sua soluzione (il blocco navale) non è gradita all’Europa, e probabilmente viola il diritto internazionale, o perlomeno la interpretazione prevalente di esso.

In generale, quanto Draghi può restare ingabbiato dalle spinte contrapposte di partiti molto distanti fra loro? Stupito dalla composizione tecnico-politica dell’esecutivo, con 2/3 dei ministeri riservati ad esponenti politici?
Sì, sono rimasto un po’ stupito, perché mi aspettavo il contrario (2/3 di tecnici e 1/3 di politici), e soprattutto non mi aspettavo una suddivisione così politica dei posti disponibili: manuale Cencelli per i ministeri affidati ad esponenti dei partiti, donne del Pd completamente escluse. Molto significativo che Carlo Calenda, uno dei pochissimi politici con capacità gestionali (e uno dei più convinti sostenitori del governo Draghi), sia stato escluso dall’esecutivo.
L’impressione è che Draghi abbia già concesso molto ai partiti che lo sostengono, mentre non è chiaro se – quando sarà il momento delle scelte che contano – saprà far valere l’interesse nazionale oppure no. Io temo che ci riuscirà per pochi mesi, e che nel semestre bianco – quando i parlamentari non dovranno più temere lo scioglimento delle camere – diventerà ostaggio dei partiti. Ma mi auguro con tutto il cuore che questo non succeda.

Un ultimo passaggio sulla polemica sulla ridotta quota di donne nella squadra. Prima vera “stecca” di Draghi?
Più che stecca di Draghi, benvenuta rivelazione della vera natura del Pd: un partito che non perde occasione per agitare la questione femminile, i diritti delle donne, la parità di genere, e alla prima occasione di passare dalle parole ai fatti rivela la sua cultura quasi-islamica. Zingaretti che afferma che i ministri maschi del Pd li avrebbe scelti Draghi, è la migliore rappresentazione della natura di quel partito, o quantomeno della qualità del segretario che si è scelto.
Nel suo libro (La notte delle ninfee. Come si malgoverna un’epidemia) fa notare come i paesi guidati da donne (Norvegia, Finlandia, Islanda, Danimarca, Nuova Zelanda, Germania) siano stati più efficienti nel combattere la pandemia. Solo un caso o pensa ci sia un nesso causale?
Anche se nel libro lascio in forse la questione, tendo a pensare che un nesso ci sia. Tendenzialmente, le donne sono più concrete, meno narcisiste, meno inclini all’autoinganno (l’autoinganno ritarda le decisioni impopolari, con effetti catastrofici nel governo di un’epidemia). Ma non è solo questo. Probabilmente il fattore chiave, il fattore che spiega perché le donne governano meglio, è la discriminazione a danno delle donne.

Come sarebbe a dire? La discriminazione ha effetti virtuosi?
No, la discriminazione non è una buona cosa, ma produce un effetto statistico interessante. Se c’è discriminazione, ma non ce n’è abbastanza da impedire l’elezione di un premier donna, allora accade che – per farcela – una donna deve essere più brava, più in gamba, più preparata di quanto sia richiesto a un uomo. E se il paese in cui vive è abbastanza civile da concedersi di eleggere un premier donna, allora quel medesimo premier – tendenzialmente – sarà più in gamba. Perché per essere eletto avrà dovuto superare ostacoli più alti di quelli che, mediamente, deve superare un maschio. E’ questo che è successo nella galassia scandinava, e anche in Germania, con il lungo cancellierato di Angela Merkel.

E in Italia, come siamo messi?
Siamo messi male, perché quasi nessuno vuole davvero vedere e affrontare il problema. Che non è (solo) quello della discriminazione delle donne in generale, ma quello della sua matrice politica. Non so se l’ha notato anche lei, ma nel sistema dei partiti la presenza delle donne nei ruoli di comando è strettamente connessa all’asse sinistra-destra. E’ minima nella sinistra comunista e nei Cinque Stelle, è bassa nel Pd, cresce un po’ nel partito di Renzi, è alta nel centro-destra (soprattutto in Forza Italia), è massima in Fratelli d’Italia, il partito più a destra e l’unico – fra i partiti importanti – ad essere guidato da una donna. In nessun altro paese al mondo, che io sappia, la sinistra è così maschilista, e la destra così (a suo modo) femminista.

Intervista rilasciata all’Huffington Post il 19 febbraio 2020




Fake news e distorsione delle percezioni

Le distorsioni della realtà dovute a percezioni parziali e deformate degli accadimenti e dei più rilevanti fenomeni non sono certo una novità, dall’avvento della società di massa. Già all’inizio del secolo scorso molti psicologi e sociologi si interrogavano sulla formazione delle opinioni, sottolineando come nel giudicare un fenomeno contasse a volte più l’opinione che si aveva della realtà che la realtà stessa. L’opinione, come argomentava un secolo fa il politologo Walter Lippmann, non è altro che il frutto della percezione della realtà filtrata da un ambiente cognitivo formato da stereotipi, da visioni semplificate e parziali della realtà. Con l’avvento dei social media, come noto, questo processo è divenuto talmente pervasivo che ha finito per influenzare in maniera decisiva la costruzione sia della personalità individuale che di quella collettiva.

E le fake news, sempre più presenti sul Web per screditare la parte avversa e rinforzare le proprie credenze, sono divenute nel tempo una sorta di informazione alternativa cui si ricorre aprioristicamente e acriticamente per convincersi di essere “nel giusto”, andando solo raramente a identificare la bontà e la correttezza delle fonti. Il motivo pare evidente: le notizie che confermano il proprio pregiudizio, vere o false che siano, vengono credute, condivise e propagate in rete, all’interno della “bolla” delle amicizie sui social; il contrario accade per quelle che smentiscono la propria opinione, che vengono considerate non veritiere, messe in discussione sebbene ci siano evidenti prove a loro sostegno. Non si mette in discussione la propria percezione dei fatti, ma i dati reali: è la percezione che vince sui fatti.

Una logica talmente evidente che anche la “scelta” di quale virologo fidarsi (e affidarsi) trae origine dalla propria percezione della pandemia: se non vogliamo più lockdown, scegliamo quello che afferma che il virus è ormai sotto controllo; se siamo dell’avviso che non sono prudenti le riaperture incontrollate, optiamo con chi ci dice che il peggio deve ancora venire.

A corollario, in una recente indagine Ipsos, è stato chiesto agli italiani se a loro parere i nostri concittadini siano in grado di distinguere le notizie false da quelle vere: secondo quasi il 65% degli intervistati “gli altri” non sono capaci di differenziarle correttamente. Ma alla domanda successiva: “Lei personalmente è in grado di farlo?”, in questo caso la stragrande maggioranza è convinto di riuscire ad identificare la presenza di una fake news, mentre soltanto il 30% dichiara la propria difficoltà a farlo.

E il tema delle falsità che circolano in Rete non è certo marginale, capace com’è di influenzare i cittadini in scelte a volte cruciali, come quella elettorale. Nel corso dell’ultima campagna presidenziale Usa, si è stimato che siano circolate sul Web circa otto milioni di notizie false, contro i sette milioni di notizie corrette e verificabili. Una sproporzione quasi agghiacciante, ma che non desta particolari reazioni nei gestori delle diverse piattaforme social.

Ma qual è il motivo per cui il dato percettivo, emozionale è così rilevante? Perché oggi, nella costruzione della propria personalità, la piramide di un tempo si è quasi capovolta. Fino a qualche decennio fa, le credenze individuali e collettive si basavano in primo luogo sui tratti valoriali che venivano introiettati attraverso la socializzazione primaria e secondaria, difficilmente modificabili; su questi si costruivano i solidi atteggiamenti di base nei confronti delle strutture sociali esistenti, da cui derivavano le più aleatorie opinioni, suscettibili di possibili cambiamenti più rapidi, a seconda dei diversi accadimenti, e infine le emozioni, reazioni a volte effimere di fronte a notizie o dichiarazioni di diversi attori sociali.

Oggi, come si diceva, questa sorta di piramide appare sempre più rovesciata: avendo perso rilevanza la struttura valoriale, l’ideologia di fondo, in una società sempre più atomizzata, sono le emozioni, le percezioni, quelle che presiedono alla costruzione della propria personalità; su queste nascono le opinioni prevalenti, gli atteggiamenti e infine i valori di riferimento. Ma se le emozioni si basano su fake news, su dati inattendibili, ne consegue che si sedimentano e divengono prevalenti opinioni e atteggiamenti totalmente scollegati dalla realtà vera, che però vengono alimentate nel tempo da ulteriori fake news; queste ultime non “possono” venir smentite, pena la perdita dei propri ancoraggi e la conseguente confusione della propria soggettività.

Una volta costruita una echo chamber di riferimento, le false notizie vengono accettate supinamente per consolidare quella appartenenza, almeno fino al momento in cui nuove emozioni creeranno una nuova piramide. Se le opinioni sono volatili, tra i comuni cittadini così come tra gli stessi politici, non così la percezione di sé, che subisce una sorta di auto-inganno per conservare una ipotetica coerenza della propria personalità.

In un interessante esperimento effettuato qualche anno fa, si chiedeva agli intervistati la propria opinione su un tema che sarebbe stato discusso in un talk show televisivo. Una volta terminata la trasmissione, si riponeva agli stessi intervistati l’identica domanda, per verificare se la discussione televisiva avesse fatto mutare la loro opinione. A volte si registrava un cambiamento del 30-40% rispetto alla prima intervista ma, invitati a dichiarare se avessero cambiato opinione, soltanto il 3-4% affermava di averlo fatto.

La estrema volatilità elettorale, i repentini mutamenti nella fiducia per i diversi leader, il rapido cambiamento delle opinioni sui temi sociali e politici sono la evidente conseguenza della fragilità delle personalità individuali e collettive.

Le percezioni diffuse dunque sono le leve che permettono alle fake news di venir accettate come vere. Percezioni della realtà che, come si diceva, sono spesso scollegate dalla realtà stessa ma, nondimeno, tratteggiano una sorta di mondo parallelo su cui costruire le proprie opinioni, atteggiamenti e valori. E conseguenti comportamenti.

Qualche anno fa è stata effettuata da Ipsos un’indagine in contemporanea in 14 paesi, chiedendo a campioni rappresentativi delle rispettive popolazioni una serie di domande sulla situazione del proprio paese in merito a diversi temi. Infine, è stata calcolato un “indice di ignoranza”, derivato dalla distanza tra i dati reali e i dati percepiti dagli intervistati. L’Italia è risultata in prima posizione assoluta, seguita da Stati Uniti, Corea del sud e Polonia, mentre nelle ultime posizioni (cioè i cittadini più informati) si situavano Svezia, Germania, Giappone e Spagna.

Nella tabella seguente sono presentati i dati riguardanti il nostro paese, per i principali temi affrontati, che ci dipingono una cittadinanza con percezioni della realtà gravemente distorte, conseguenza evidente del combinato di fake news, credenze falsate e storytelling del mondo politico.




Modello orientale?

La politica sanitaria del governo Conte bis “ha causato decine di migliaia di morti e affossato l’economia”.

Potrebbe essere un riassunto, rozzo e semplicistico, del mio ultimo libro (La notte delle ninfee. Come si malgoverna un’epidemia). E invece no. Ora a riconoscere questi due tristissimi fatti – le vite umane perdute, i punti di Pil bruciati – è nientemeno che Walter Ricciardi, il consulente principe del ministro Speranza, che ci spiega che “nel precedente governo” il ministro stesso “trovava un muro”, perché a prevalere era “la linea di chi voleva convivere con il virus”.

Nella sostanza, un atto di accusa gravissimo verso il ministro della salute. Se è vero che, fin da ottobre, il consulente lo avvertiva della pericolosità della linea sanitaria adottata, e se è vero che il ministro ne condivideva analisi e suggerimenti, allora come ha fatto, il ministro stesso, ad avallare una linea che avrebbe “causato decine di migliaia di morti e affossato l’economia” ?

Volendo lasciar da parte il passato (peraltro greve di responsabilità, di cui mi auguro che a un certo punto qualcuno si faccia carico), ora che Draghi sta per enunciare il suo programma ci piacerebbe che venisse finalmente detta una parola chiara sulla politica sanitaria svolta finora e su quella futura. Perché, arrivati a questo punto, noi italiani siamo davanti a un paradosso davvero singolare. Da una parte, un ministro della sanità che viene confermato non si sa se per proseguire o per capovolgere la disastrosa politica sanitaria adottata fin qui. Dall’altra, un coro di critiche diametralmente opposte: per buona parte della destra il disastro è stato chiudere troppo, per Ricciardi e per la maggior parte degli studiosi indipendenti il disastro – se mai – è stato chiudere troppo tardi e troppo poco.

Ciò detto, il j’accuse retrospettivo di Ricciardi è comunque più che mai opportuno e saggio. Aspettavamo da mesi un discorso del genere, chiaro e coraggioso, che mettesse finalmente i cittadini di fronte alla grave situazione che abbiamo davanti: il piano di vaccinazione che ritarda, e l’incubo delle varianti emergenti.

Ma è sui modi che abbiamo per uscirne, che dobbiamo interrogarci. Ricciardi propone l’abbandono del protocollo occidentale (che persegue la mitigazione dell’epidemia) a favore del protocollo orientale e dell’emisfero Sud (che persegue la soppressione del virus). Un cambio di passo davvero decisivo, una clamorosa inversione di rotta, cui personalmente non posso che plaudire, come non possono che plaudire quanti, come  gli studiosi di Lettera 150, lo hanno invocato fin dalla primavera scorsa.

I cardini del passaggio, secondo Ricciardi, dovrebbero essere tre: “lockdown breve e mirato, tornare a testare e tracciare, vaccinare a tutto spiano”. Ed è qui la domanda nevralgica: è questa la sostanza del protocollo dei paesi lontani, dal Giappone alla Corea del Sud, dall’Australia alla Nuova Zelanda, che ce l’hanno fatta a ridurre quasi a zero la circolazione del virus? (lascio volutamente fuori dalla lista la Cina, che Ricciardi evoca ma, in quanto dittatura, è un modello improponibile in un paese democratico).

A me sembra che il modello dei paesi lontani sia molto più complesso. Intanto, ovviamente, i vaccini non potevano far parte delle loro armi di difesa; e poi, non esiste una ricetta unica di quei paesi; infine, il lockdown assai raramente costituisce l’ingrediente fondamentale.

Il lockdown può anche diventare assolutamente necessario (come lo è oggi in Italia), ma non è la via maestra per la soppressione del virus. È il primo e doveroso passo, a cui però vanno affiancate altre misure, senza le quali si rischia un ulteriore fallimento.

Le ricette dei paesi lontani hanno due ingredienti basilari comuni: il controllo rigoroso delle frontiere da parte del governo, e il rispetto scrupoloso delle regole di distanziamento e autoprotezione da parte dei cittadini, entrambe condizioni che in Italia non si sono mai verificate.

E hanno poi ingredienti specifici, altrettanto basilari: il tracciamento elettronico (anche a scapito della privacy), l’uso sistematico e generalizzato delle mascherine, la stretta sorveglianza sul rispetto della quarantena, i tamponi di massa, e infine, sì, i lockdown duri e circoscritti. Ogni paese ha scelto un mix diverso dei vari ingredienti, ma il punto è che tutti hanno messo in campo più di un tipo di misura, perché una o due misure soltanto non bastano.

E noi? Facciamoci qualche domanda. Noi saremmo disposti a rinunciare alla privacy e lasciarci tracciare, rispettare rigorosamente le regole, indossare sempre le mascherine FFP2, sugli autobus, nei negozi, per strada? Saremmo disposti a controllare le frontiere (e chiuderle addirittura, in alcuni casi), nei modi in cui avviene per esempio in Giappone, dove i viaggiatori che arrivano in aeroporto vengono sottoposti a test in entrata e in uscita, e il governo pretende di sorvegliare la quarantena con il Gps?

Non è un caso che noi europei, noi occidentali, abbiamo perseguito il modello del mitigare e non quello del sopprimere, ovvero, per dirla con una formula che ormai ci è familiare: noi europei abbiamo scelto la filosofia del “convivere col virus”. Filosofia che ora, di fronte alle varianti pericolose che ci invadono, ci rendiamo conto che non può più funzionare.

Se ora volessimo davvero cambiare modello, dovremmo smettere i panni europei, la mentalità occidentale e, non dico diventare orientali, ma almeno provarci.

Quel che voglio dire è che un lockdown duro ora non basta. Ben venga, anche se – non mi stancherò mai di dirlo – il lockdown non è la soluzione, bensì semplicemente il certificato di fallimento della politica sanitaria. Ben venga, perché arrivati a questo punto, non ha alternative: ma deve più che mai, ora, accompagnarsi all’attuazione di molte, se non tutte, le altre misure di contenimento e prevenzione. Soprattutto perché la campagna vaccinale non potrà avere effetti apprezzabili prima dell’estate, e più che mai ove tale campagna dovesse subire ulteriori ritardi; e perché intanto le varianti ad alta trasmissibilità accelerano la circolazione del virus. In questa situazione, un inasprimento delle misure attuali non accompagnato da tutto il resto non basterà certo a sradicare il virus.

Questo ci aspettiamo che il nuovo governo ci sappia indicare, con chiarezza e coraggio. Perché la delusione più grande sarebbe ascoltare l’ennesima ripetizione della promessa di “fare tutti gli sforzi per accelerare la campagna vaccinale”, magari accompagnata da qualche concessione alla linea della prudenza, ma senza un chiaro e dettagliato cronoprogramma su tutto quel che ancora non si è fatto, o si è appena iniziato a fare.

Pubblicato su Il Messaggero del 16 febbraio 2021




Il Covid come otto settembre del liberalismo italiano

Non serve il comitato tecnico scientifico per capire che il tasso di mortalità causato dal virus tra i liberali è prossimo al 100%.

Quello che mi ha più colpito nel “fenomeno covid”, considerato nel suo complesso (vale a dire come fenomeno sociale), è la pressoché totale assenza, in Italia, di intellettuali o commentatori capaci di mettere in dubbio l’opportunità delle limitazioni di libertà personale imposte dal Governo per rimediare all’emergenza sanitaria per il solo fatto che, appunto, i poteri pubblici abbiano imposto dei forti limiti ad alcune libertà fondamentali dei cittadini. E se dico in Italia è perché ad esempio in Svizzera è stato addirittura lo stesso Consiglio Federale (il massimo potere esecutivo a livello nazionale) a chiarire all’inizio della pandemia – verosimilmente per evitare che i Cantoni procedessero con lockdown locali in ordine sparso – che si potevano sì limitare le attività economiche entro certi limiti e con certi criteri, ma che non era possibile ad esempio limitare la libertà di circolazione dei cittadini, in quanto si trattava di un diritto garantito dalla Costituzione svizzera (che, è bene ricordarlo, è una delle ultime costituzioni autenticamente liberali esistenti nel vecchio continente).

Nell’UE, in compenso, nello stesso momento in cui volavano gli stracci sullo stato di diritto che sarebbe stato violato da Polonia e Ungheria, era (ed è) tutta una gara a chi chiude di più (sia saracinesche che gente in casa). Una gara in cui l’Italia, secondo quel che ci raccontano in numeri, sta riuscendo a guadagnarsi un poco ambito podio sia per la mortalità che per il calo di PIL, essenzialmente per il fatto di aver preteso di affrontare il problema senza potenziare in estate i presidi di cura e le strutture sanitarie, obbligando le imprese a dotarsi di misure di sicurezza per poi spargere lockdown estemporanei – a singhiozzo e di varia intensità – con preavvisi di un paio di giorni. A settembre il Presidente del Consiglio annunciava solennemente che escludeva ogni lockdown, per poi invece disporlo a ottobre. A ottobre raccontava che chiudevano in autunno per lasciarci liberi a Natale e capodanno, per poi chiudere tutto da Natale all’epifania. A Natale ci hanno raccontato la nuova favola che chiudevano per poter ripartire a Gennaio ed invece le restrizioni “a colori” stanno proseguendo, anzi mettendo dei criteri più restrittivi di prima. Pochi giorni fa il ministro Speranza ha parlato addirittura di “alcuni mesi” di misure restrittive e qualche esperto televisivo (spero in vena di battute) prevedeva “anni” di mascherina obbligatoria.

Il tutto sulla base di criteri definiti come “scientifici” ma assai poco chiari e ancor meno chiaramente illustrati, con decisioni prese a distanza di qualche giorno in un crescendo rossiniano, dunque forse più sull’onda delle continue gufate televisive o sulla carta stampata dei soliti tre o quattro virologi da passerella che non sulla base di una oggettiva e fredda valutazione dei risultati delle misure precedenti. E come non menzionare i verbali secretati e il clima generale di opacità che fa a pugni con l’obbligo di motivazione degli atti amministrativi e con l’esigenza di trasparenza dell’azione di governo. Se c’è insomma un modo per riuscire – in sol colpo – a maltrattare la costituzione, a stendere l’economia del paese e a far venire l’esaurimento nervoso ad un popolo, senza in compenso ottenere risultati apprezzabili sotto il profilo sanitario, credo che il governo Conte secondo lo abbia trovato. Anzi, a Caporetto in corso era tutto un vantare il “modello Italia” (che in realtà è un modello sì, ma forse di cosa non fare), aggiungendo dunque anche la beffa ai danni recati al paese.

La Germania invece – stato che, anche quando si imbarca in scelte opinabili, è noto che si impegna a perseguirle con grande zelo – ha pensato bene addirittura di mettere in cantiere in parlamento una legge in forza della quale – per “proteggere il popolo” contro i rischi sanitari – il Governo può legittimamente derogare alle libertà fondamentali, di guisa che – per esempio – la polizia potrebbe violare il domicilio personale al fine di verificare il rispetto delle norme di reazione al Covid. In Francia, paese il cui popolo da sempre reagisce con forza e in piazza contro le leggi che considera ingiuste, il governo si accinge a emanare una legge (“sulla sicurezza globale”, titolo da brivido) che consentirebbe alle forze di polizia di agire travisate nell’espletamento di compiti di ordine pubblico e che vieterebbe di filmarne l’azione in luoghi pubblici. Insomma, in un’Europa che si dichiara a parole la paladina dei diritti umani e del già citato stato di diritto (per lo più però quando si tratta di dar fastidio a governi considerati “sovranisti” o “populisti”), i fatti sembrano indicare che stiamo attraversando una deriva decisamente poco liberale, che appare più accentuata proprio negli stati in cui governano le grandi coalizioni identificabili come di centrosinistra europeista.

La ragione ultima di questo fenomeno potrebbe consistere nel fatto che tanti stati europei sono condotti da governi che – a causa delle loro politiche sbilanciate sulla tutela di interessi cari all’UE e che dunque non hanno tenuto in conto le specifiche esigenze dei rispettivi elettorati nazionali – non godono più un radicato consenso popolare e dunque difettano dell’autorevolezza politica sufficiente per adottare soluzioni autenticamente liberali (che ovviamente implicano dei costi sociali e sanitari), trovandosi costretti a ricorrere ai metodi autoritari per nascondere – dopo decenni di austerità e tagli al servizio sanitario pubblico spacciati come la sola ricetta per renderlo efficiente – la conclamata incapacità di tutti questi sistemi sanitari “efficientati” di fornire assistenza adeguata alla popolazione di fronte all’epidemia di una malattia neppure particolarmente grave, ma assai contagiosa e che soprattutto – nei soggetti a rischio – richiede trattamenti sanitari rapidi e capillari sul territorio per non degenerare in quadri clinici gravi. Le socialdemocrazie europee, in altre parole, dopo aver tagliato a man bassa la sanità pubblica in nome dei sacri verbi rigoristi (dunque creando la situazione per cui basta una influenza particolarmente cattiva per mandare in tilt i pronto soccorso di tutta Europa), si sono trovate costrette a imporre serrate di stato a interi settori economici e a mandare variamente agli arresti domiciliari (o al confino o in consegna notturna) i cittadini che non erano più in grado di curare. E così gli europei, dopo il danno causato dalla devastazione della sanità pubblica, stanno subendo pure la beffa dell’autoritarismo di stato “per il loro bene” come rimedio a quel danno.

Se dunque i politici europei – anche quelli liberal-liberisti – hanno le loro valide (quanto meno dal loro punto di vista) ragioni per ricorrere all’autoritarismo sanitario nell’affrontare l’epidemia, più difficile da decifrare è l’atteggiamento conformista assunto da pressoché tutti quanti gli intellettuali di casa nostra (salva qualche lodevole ma isolatissima eccezione). Qui da noi, ben più che all’estero dove il dibattito è più acceso, è infatti stato un coro unanime di “la salute prima di tutto” e “le regole vanno rispettate” e “occorrono sacrifici per il bene comune” e via luogocomuneggiando. Che a sinistra si sostenga che lo stato, in nome di esigenze collettive, ha il potere di limitare anche i diritti fondamentali di cittadini che devono solo tacere e ubbidire (e che anche chi si rifà alle idee di una certa destra dica questo) invero non mi stupisce più di tanto, considerando le culture politiche e le ideologie storiche di cui simili intellettuali hanno raccolto in vario modo l’eredità. Il silenzio che sconcerta è infatti quello di chi – pure in diverso modo e a vario titolo – in passato si è dichiarato (e magari ha anche ora il coraggio di dichiararsi) di area o di idee “liberali”.

Che cosa è infatti il liberalismo se non l’idea secondo cui certe libertà individuali del cittadino (libertà personale, di assemblea, di circolazione, di manifestazione del pensiero etc.) devono essere messe davanti a qualunque pretesa dello stato di conculcarle, per qualunque ragione? E si badi che il comodo espediente di sostituire le libertà coi “diritti” è – appunto – un comodo espediente di chi liberale non è più, giacché il liberalismo predica che certi diritti di libertà non possono mai e per nessuna ragione essere limitati dallo stato, perché lo stato è tenuto semmai a “riconoscerli” e non ha dunque il potere di decidere a sua discrezione se “concederli” o meno. Basta del resto passare in rassegna la storia del novecento per capire che gli stati autoritari di ogni colore e genere trovavano sempre almeno un “diritto” (e primo fra tutti quello alla “sicurezza” del popolo) per giustificare norme liberticide. Che non ci si possa nascondere dietro al diritto positivo per comprimere le libertà fondamentali è insomma cosa che chi vuole definirsi liberale dovrebbe sapere come le tabelline.

La mia impressione è peraltro che la mutazione del liberalismo di ieri nel “dirittismo” sia un aspetto del complessivo mutamento culturale che ha segnato – a livello di Zeitgeist – il passaggio da una narrazione incentrata sul potere veritativo della ragione dialettica (che rappresenta la vera anima ideologica – di ascendenza illuminista – del liberalismo classico) verso l’agnosticismo postmoderno nichilista del pensiero debole (che rappresenta il vero tratto dominante trasversale della cultura odierna, oltre che la perfetta scusa che consente agli ignoranti di apparire colti). In altre parole: il sedicente liberale di oggi, non trovando più a sua disposizione i vecchi diritti naturali e una razionalità “forte” cui riferirsi per costruire la propria gerarchia dei valori, si trova costretto a rifugiarsi nel giuspositivismo, cercando nel diritto positivo la fonte dei diritti naturali. Inutile dire che – in questo modo – ha però già smesso di essere liberale: i diritti naturali sono stati a loro tempo creati infatti al preciso scopo di limitare il potere dello stato, di guisa che una volta che sia ammetta che lo stato stesso può ridefinirli liberamente (dunque in sostanza una volta ammesso che lo stato “concede” i diritti fondamentali ai cittadini), si è ammesso anche che quei diritti non limitano più un bel nulla e che lo stato fa quel che vuole delle libertà dei cittadini. E con questo, ovviamente, si esce dal perimetro del liberalismo.

Il sedicente liberale di oggi pensa allora di risolvere il problema sostenendo che la “giustizia in sé” dei diritti deriverebbe in re ipsa dalla procedura democratica di adozione delle leggi che quei diritti tutelano. Che la democrazia non sia garanzia di giustizia, però, non ce lo raccontano solo la storia e l’attualità, ma lo conferma soprattutto il fatto che, se così davvero fosse, non esisterebbero le costituzioni, la cui funzione è appunto quella di porre dei limiti al legislatore anche nei sistemi democratici. Ecco allora che il nostro liberale – un po’ in spiazzato – ripiega ulteriormente, individuando il surrogato del diritto naturale, appunto, nella costituzione, dimenticando che quasi tutte le costituzioni – anche la nostra – possono comunque essere modificate, seppure con maggioranze qualificate, dallo stesso parlamento che, se davvero si trattasse di costituzioni che “riconoscono” diritti naturali, dovrebbe invece esserne vincolato in modo assoluto. Morale della favola: il liberale di oggi si è trasformato in un giuspositivista, senza accorgersi che il prezzo del cambiamento di pelle è stata la perdita della sua identità.

Risultato ultimo di questo processo metamorfico è che in Italia non si trova più un liberale (salvo un paio di casi isolati e comunque nessuno tra i sedicenti liberali che vanno per la maggiore nel circuito informativo mainstream) che abbia il coraggio (non dico di sostenere, ma anche solo) di riconoscere agibilità nel discorso pubblico delle opinioni per cui la tutela di vita e salute potrebbe anche non venire “sempre” prima di alcune libertà fondamentali dell’individuo. Anzi: quei pochi che si azzardano a sostenere una simile (liberalissima) tesi in pubblico vengono apostrofati – anche da alcuni di quelli che amano definire sé stessi come liberali – come negazionisti, se non peggio.

In sostanza nessun “liberale” ha sinora avuto nulla da eccepire in pubblico circa il fatto che è da diversi mesi che il nostro paese si trova nella situazione per cui i cittadini non sanno oggi se il governo nella notte ha deciso che li lascerà uscire di casa domani, o se dovranno restare agli arresti domiciliari o al confino coatto, ed in cui gli imprenditori non sanno oggi se il governo nella notte ha deciso di lasciargli aprire l’azienda domani (e in quali ore e con quali modalità) o se deve tenerla chiusa. Lo stesso governo, si badi, che a questi imprenditori impedisce di licenziare nonostante la crisi e attribuisce ristori ridicoli in rapporto al danno che stanno subendo per le serrate di stato: tutte misure che sono quanto di meno liberale si possa immaginare. Per non parlare della questione dell’obbligo vaccinale, in cui sembra che – anche per certi liberali – la vaccinazione sia divenuta una specie di nuovo battesimo laico per la salvezza universale. In un panorama – che per un liberale dovrebbe essere urticante – accade insomma che quasi tutti quelli che, prima dell’avvento del Covid, strombazzavano a destra e a manca fede e proclami liberali, se ne stanno ben zitti e coperti.

E a me, sinceramente parlando, è proprio quest’ultima cosa a spaventare di più. Ben più dell’epidemia stessa e pure dei balzani rimedi inventati sinora dai nostri governanti per (non) risolverla. E mi spaventa, si badi, perché invece noto che parecchi liberali – su temi come aborto e fine vita – stanno continuando a dire proprio l’opposto di quel che dicono sul Covid, ossia che, in nome della libertà di scelta di una persona o dei costi delle cure per la società, un’altra persona ben può essere mandata a stendere (e non per dormire), con tanto di autorizzazione e timbri dei pubblici uffici. Occorre allora chiedersi – o ancora meglio chiedere loro – perché mai vita e salute del potenziale contagiato di Covid valgono di più di quelle di un “normale” malato terminale o della futura vita e salute di un figlio non desiderato. A voler essere malevoli, viene da pensare che la differenza stia nel fatto che tra i potenziali malati di covid ve ne sono tanti (specie persone in là con gli anni, dato che siamo un paese anagraficamente anziano) che ancora compreranno il giornale, guarderanno la TV e/o voteranno alle prossime elezioni, mentre feti e moribondi sono dei senza letture né suffragio (e – anzi – a votare e leggere sono semmai proprio quelli che potrebbero avere un qualche interesse a disfarsene). Ma noi non siamo malevoli, dunque non crediamo possibile che degli intellettuali liberi – anzi, liberali – siano disposti a piegarsi certe logiche piccine. Dunque stiano tranquilli i veri liberali: le nostre insinuazioni sono dirette solo ai liberali finti, e – in genere – agli intellettuali asserviti alle logiche del potere o, peggio, dello stipendio a fine mese.

Che gli intellettuali possano avere delle ragioni di convenienza a seguire le narrazioni dominanti è cosa nota. Che lo facciano tutti quanti è in compenso cosa grave. Come dicevo c’è infatti da aver paura quando il tema delle libertà personali non viene più sollevato pubblicamente, neppure dai liberali, di fronte alla pretesa dello stato di “proteggere il popolo” (tanto per citare la già citata legge tedesca sulle emergenze sanitarie, che dice esattamente questo, riprendendo sul punto la ben più celebre legge fatta emanare tra le due guerre mondiali da Hitler, al tempo legittimo cancelliere a capo di una maggioranza eletta, in seguito all’incendio del Reichstag e con cui ebbe inizio la “vera” dittatura nazista). La storia del vecchio continente ci insegna infatti che le fasi di emergenza sono state quasi sempre l’anticamera di una qualche forma di deriva autoritaria. Questo perché quella stessa limitazione delle libertà fondamentali che viene affermata come “giustificata” oggi (ad esempio, nel caso del covid, in presenza di un’emergenza sanitaria) diventa un precedente che renderà più facile invocare domani limitazioni analoghe per vere o supposte emergenze di diverso genere. Si chiama “legge del piano inclinato” e, purtroppo, fa scorrere le cose sempre verso il basso.

Tanto per fare qualche esempio io ho sempre contestato tutti quelli che liquidavano con un semplice “ma cosa sarà mai!” le famose “domeniche a piedi” causa inquinamento. E non certo perché usassi la macchina nel fine settimana, ma proprio perché avevo il sentore che si trattasse di un precedente che avrebbe abituato il popolo a subire limitazioni della libertà di spostamento “per il suo bene”, e che dunque – secondo la legge del piano inclinato – avrebbe potuto portare altrove. Per queste stesse ragioni non mi sono mai piaciute le crociate contro il fumo anche nei luoghi aperti o pubblici (e non sono neppure un fumatore). Ma non diversamente pensavo (e penso) male del fatto che – in nome della sacra lotta all’evasione fiscale – lo stato ormai si arroga il diritto, senza alcun controllo della magistratura, di andare a ficcare il naso in ogni rapporto economico dei cittadini, declassandoli al rango di presunti evasori sotto perenne indagine patrimoniale. Ma anche la questione della moneta elettronica e della lotta al contante – sempre portata avanti in nome della mistica della lotta all’evasione per il bene di tutti – mi paiono altrettanti attentati alle libertà (in questo caso economiche) dei cittadini. E che dire della tematica dei vaccini obbligatori, che non è affatto una questione di “vax” contro “no vax” (e tanto meno è una questione che riguarda solo l’emergenza covid), ma il terreno che consente di capire davvero se la salute si può ancora considerare un diritto che lo stato deve riconoscere e garantire ai cittadini o se è diventato una specie di dovere dei cittadini verso lo stato. In sintesi: in questi ultimi anni mi pare di assistere, specie in Europa, al tentativo dei pubblici poteri di mitridatizzare i popoli, assuefacendoli progressivamente – con piccole ma crescenti dosi di restrizioni alle loro libertà – all’autoritarismo di stato.

E il risultato iniziamo a vederlo proprio col covid: proprio grazie alla paziente e costante mitridatizzazione delle maggioranze all’autoritarismo legalitario “per il bene di tutti”, l’intera popolazione dei maggiori paesi europei sta sperimentando un anno di arresti domiciliari a singhiozzo e di serrate di stato di interi settori produttivi per causa di un’epidemia influenzale non particolarmente grave, ma resa pericolosa piuttosto dal fatto che è assai contagiosa e che – quanto meno in Italia, ma non diversamente accade altrove nell’UE – la sanità pubblica è stata resa così economicamente efficiente da non essere in grado di curare adeguatamente gli ammalati, né sul territorio coi medici di base né negli ospedali (che sono stati ridotti di numero). Ma la domanda che mi pongo io è un’altra: visto che col covid gli stati hanno verificato che quasi nessuno protesta, quale sarà il prossimo “diritto” in nome del quale – nel silenzio degli intellettuali liberali – i poteri pubblici provvederanno a toglierci un’altra fetta delle nostre libertà individuali? Magari domani ci diranno che – per ridurre i costi per la sanità – dovremmo sottoporci obbligatoriamente a screening genetici o di altri esami di vario genere? E dopodomani che cosa potrebbero inventarsi, sempre a fin di bene, si intende! La domanda, ovviamente, la giro soprattutto ai liberali, così magari ci pensano e iniziano a dire qualcosa di liberale.

 

I giuristi liberali e lo strano caso dei diritti “diversamente fondamentali” nella gerarchia costituzionale.

Per poter parlare davvero male dei (finti) liberali di casa nostra, non mi limiterò a denunciarne la scomparsa: scenderò sul loro stesso terreno, quello del diritto positivo. Il che significa entrare nel merito della questione costituzionale relativa alla domanda: il diritto alla salute/vita viene realmente sempre prima di qualunque libertà civile? Molti – anche giuristi liberali – liquidano la questione sostenendo che la risposta è certamente sì, perché la vita è il presupposto dell’esercizio di qualunque libertà dell’individuo. Tutto vero e tutto giusto. Ma come si spiega allora l’aborto legale e le disposizioni sul fine vita che ammettono la soppressione di persone (o di future tali) senza il loro espresso e contestuale consenso? La questione è insomma più ben complessa di così e merita approfondimento, partendo magari proprio dal testo quella costituzione che – a giudicare da certe prese si posizione – viene più invocata che letta.

Si deve osservare infatti che il diritto alla salute (ossia il fatto che lo stato deve occuparsi delle malattie, consentendo ai cittadini di curarsi o agendo per prevenirle) è soggetto – ai sensi dell’art. 32 Cost. – a (sola) riserva di legge, laddove il diritto alla libertà personale e all’inviolabilità del domicilio è soggetto, oltre che a riserva di legge, anche a riserva di giurisdizione. Questo significa che, mentre una legge dello stato è sufficiente per prescrivere ad esempio un vaccino obbligatorio, se per inoculare il vaccino occorresse usare la forza (dunque occorresse fare un vero e proprio TSO) o se servisse entrare nel domicilio di un cittadino senza il suo consenso (sfondando la porta o entrando dalla finestra del balcone come Batman), allora la legge che volesse autorizzare simili procedure dovrebbe prevedere anche l’autorizzazione di un Magistrato che emani un provvedimento ad hoc per ogni singolo caso. Analogamente: se per prevenire il contagio epidemico si mettono agli arresti domiciliari i cittadini di intere regioni del paese, occorre (anzi, vista la situazione, occorrerebbe) prevedere l’autorizzazione di un giudice. Ma se alcuni diritti (libertà personale e inviolabilità del domicilio) godono di tutele costituzionali maggiori contro l’intervento dei pubblici poteri rispetto ad un altro diritto (salute), logica giuridica – e buon senso – inducono a supporre che quei diritti siano stati a suo tempo considerati dai costituenti più importanti di questo. Ed invece un sacco di giuristi – anche liberali – dicono cose diverse.

Ma fingiamo per un momento che nella costituzione non ci sia scritto quel che invece sta scritto (o, più semplicemente, riconosciamo candidamente che nel dibattito culturale odierno la logica non sia più di moda). Dunque, ipotizziamo pure che si tratti di diritti di pari rango costituzionale. In una simile situazione – per capire entro che limiti è legittima la compressione di un diritto in nome della tutela di un altro diritto di analogo rango – soccorre il principio di proporzione e ragionevolezza nel contemperamento degli interessi sottostanti ai diritti tutelati. Dunque la domanda che un liberale – che abbia letto un po’ distrattamente la costituzione – potrebbe e dovrebbe farsi è se sia proporzionato e ragionevole limitare ad intermittenza la libertà personale di tutti i cittadini per un anno intero al fine di ridurre la mortalità causata da una malattia epidemica in determinate fasce minoritarie della popolazione che si trovano ad essere particolarmente esposte alla malattia. La risposta, ovviamente, dipende dal complesso delle conseguenze sociali provocate dalle limitazioni di libertà individuale adottare per tutelare il diritto alla salute.

Ma se questa è la prospettiva, purtroppo, ad un giurista liberale che osservi la situazione oggettivamente dovrebbero rizzarsi i capelli in testa: a fronte di una mortalità tra le più alte al mondo, ci sta cascando in testa un disastro economico immane, che provocherà, stando alle stime della Cerved, quasi una mezza milionata di attività imprenditoriali che non riapriranno mai più e quasi due milioni di disoccupati (non appena verrà meno il divieto di licenziamento). Il tutto come antipasto di una stagnazione economica che andrà avanti verosimilmente per qualche decennio prima di recuperare i numeri precedenti al Covid. E questo senza contare la possibilità che – grazie al fatto che abbiamo accettato un regolamento sul recovery fund che include espressamente la restaurazione del patto di stabilità nella versione più antica (e dunque rigorosa) – dovremo dichiarare default (o ammazzare definitivamente l’economia del paese con una bordata di nuove tasse e tagli che andranno a colpire il risparmio di un popolo di senza lavoro e dunque senza reddito) quando, tra un paio di anni, l’Unione Europea sancirà la fine della crisi sanitaria e tornerà al rigore di bilancio e noi ci troveremo con un debito colossale ed in più con le rate del recovery fund da rimborsare a colpi di austerità (quella che ai liberali piace tanto).

Ma è proprio in relazione a questo secondo aspetto della questione che entra in campo un altro “peso massimo” della gerarchia costituzionale, rappresentato dal diritto al lavoro, che l’art. 1 della Costituzione identifica niente meno che come uno dei fondamenti, insieme al principio democratico, della stessa repubblica. Se c’è infatti un diritto che può essere catalogato senza tema di smentita come diritto “fondamentale” nel nostro quadro costituzionale è proprio quello al lavoro. Il che consente di sostenere che abbiamo a che fare con un diritto che “pesa” in termini costituzionali almeno quanto il diritto alla salute e alla vita. E dunque: se per tutelare un solo diritto fondamentale (salute) ne comprimiamo in modo significativo altri due (libertà personale e lavoro) che “pesano” almeno uguale al primo, qualcosa parrebbe non funzionare nell’artimetica (costituzionale) del modo in cui il nostro Governo ha scelto di affrontare l’emergenza.

Dunque, davvero non se ne esce: o si è disposti ad ammettere – ma questo un liberale vero non può farlo – che la salute pubblica da sola vale di più della libertà personale e del diritto al lavoro dei cittadini messi insieme (ma la Costituzione questo non consente di farlo con troppa sicurezza, anzi fornendo indicazioni in senso differente) oppure un liberale avrebbe degli ottimi argomenti a sua disposizione per obiettare che qualcosa non va nel modo in cui si è impostata la reazione al Covid in Italia.

 

Per il disastro del “modello Italia” dobbiamo ringraziare anche l’assenza – a livelli di dibattito politico – di voci autenticamente e radicalmente liberali.

La mancanza di ragionevolezza e proporzionalità nelle misure di reazione al covid di cui si è detto poc’anzi (al di là dei possibili risvolti giuridici) assume rilievo anche a livello politico. Per capire i termini della questione occorre tuttavia riassumere per sommi capi in cosa consiste il “modello Italia” (che a questo punto, vista la piega della crisi, potremmo definire “modello Conte bis” o “modello giallorosso”). E non mi riferisco tanto alle forme giuridiche con cui le istituzioni hanno scelto di agire (su cui pure ci sarebbe molto da dire, come ho avuto modo di segnalare in alcuni articoli pubblicati in passato su questo sito e relativi ai profili di possibile incostituzionalità di alcune misure restrittive disposte dal Governo), ma soprattutto alla sostanza delle cose.

Questo “modello” consiste nel disporre una raffica di lockdown domiciliari e di coprifuoco a intermittenza e senza alcun preavviso, conditi da chiusure di attività a casaccio (dopo averle obbligate a spender soldi per mettersi in sicurezza) senza alcuna programmazione né possibilità di previsione e senza in compenso investire a tempo debito – ossia questa estate – risorse per potenziare cure domiciliari e strutture sanitarie. Il tutto nascondendosi dietro alle valutazioni di comitati tecnici di cui non è dato conoscere gli atti né i dati utilizzati per decidere. Quanto ai “ristori”, al di là del fatto che si tratta di briciole in confronto al danno economico subito da certe categorie costrette ad una serrata totale per mesi, è evidente che un’economia ferma o rallentata non può essere sanata con il trasferimento continuo di risorse pubbliche: se fosse così tutti gli stati pagherebbero i cittadini solo per esistere e lo stesso problema economico (ossia della gestione delle risorse di un paese) non esisterebbe neppure come oggetto di dibattito politico.

Le risorse straordinarie vanno usate per riavviare l’economia azzoppata, non per evitare che una ferita ancora sanguinante sporchi troppo in giro. L’idea dei ristori è insomma solo lo specchietto per le allodole (o l’esca per gli allocchi) con cui si tenta di illudere la gente che lo stato stia aiutando anche le persone che invece sta distruggendo a colpi di lockdown. La brutta verità è che l’Italia – ma lo stesso vale per quasi tutti gli altri paesi dell’UE – ha semplicemente scelto la soluzione più facile e meno responsabilizzante per chi governa (la più comoda ma anche la meno liberale), evitando di investire subito ingenti risorse sulla sanità (sia mai che la “liberalissima” UE avvii qualche procedura di infrazione per aiuti di stato) e dunque scaricando la gran parte del costo sociale ed economico dell’epidemia sui cittadini che lavorano, curandosi – qui da noi – di mantenere caldi e al sicuro (i voti del)le categorie già più protette (dunque anziani pensionati, dipendenti pubblici, lavoratori dipendenti delle grandi imprese sindacalizzate), mandano invece più o meno allo sbaraglio gli altri, specie il ceto medio produttivo (quello degli evasori/kulaki che, anzi, ben gli sta!).

Del resto, va pure riconosciuto che il recovery fund (dipinto come una specie di “vaccino economico” capace di sanare tutti i mali del mondo) deve essere usato – dato che così sta scritto nelle regole europee – per finanziare anzitutto transizione green, digitalizzazione e parità di genere, mentre solo circa un 10% può essere usato per la sanità. Per quella al massimo c’è il MES sanitario (ossia un diverso genere di prestiti, ma sempre condizionati, tanto convenienti che in UE nessuno stato se li è filati). Siccome è l’UE che detta l’agenda ai governi su come usare questi fondi, non si può neppure dire che la mancanza di investimenti sanitari sia tutta colpa di Conte e di tutta la maggioranza che lo sostiene. Semmai la colpa del Governo italiano è stata quella di non avere finanziato la spesa sanitaria come hanno fatto altri stati, ossia emettendo una montagna di titoli pubblici (ora che vengono acquistati dalla BCE senza limiti e che il patto di stabilità è sospeso) per finanziare aiuti di stato diretti.

La ragione di questa resistenza sarebbe che non si voleva far crescere troppo il debito. Ma il fatto è che il debito pubblico comprato dalla BCE è rinnovabile a scadenza con nuove emissioni di titoli, mentre quello del recovery fund (e del MES, se verrà attivato) deve essere rimborsato tutto quanto alla sua scadenza (si badi bene: anche per la parte definita “a fondo perduto”, che comunque viene ripagata o con tasse unioniste quali IVA e plastic e sugar tax oppure restituito mediante i contributi nazionali al bilancio UE). Dunque – al netto delle valutazioni di convenienza politica – sarebbe stato in ogni caso meglio per noi fare tanta spesa sanitaria contraendo debito nazionale rinnovabile (e pure ridenominabile in valuta nazionale in caso di italexit dalla moneta unica) e non farne poca vincolandoci con debito europeo da rimborsare a scadenza (e che non può essere neppure convertito in moneta nazionale in caso di uscita dell’Italia dall’euro). Non è dunque certo un caso che altri stati – specie la Francia, che pure a debito pubblico sta messa assai male – abbiano invece finanziato la spesa pubblica di reazione al covid emettendo quantità immense di titoli pubblici. Ma non diversamente sta facendo la Germania che – sfruttando la sospensione del patto di stabilità – ha accumulato in questi mesi emissioni di titoli pubblici che hanno finanziato aiuti di stato alle imprese per migliaia di miliardi di euro.

Se dunque a crisi finita accadrà – come alcuni (tra i quali anche il sottoscritto) sospettano – che gli stati che più hanno fatto spesa pubblica troveranno alla fine il modo di far monetizzare quel debito alla BCE (in sostanza facendo in modo che la BCE accetti che siano resi perpetui i titoli pubblici nazionali acquistati durante l’emergenza covid), noi italiani faremmo l’ennesima figura dei fessi che dovranno restituire con gli interessi (e senza poter emettere nuovo debito) quello che altri paesi non dovranno invece mai restituire a nessuno. Ma non ditelo ai liberali, per favore, altrimenti non possono scrivere sui giornali e dire in televisione che mamma Europa vuole sempre e solo aiutarci.

Ma torniamo al punto politico: un governo che riesce a mettere in piedi un simile disastro – senza riuscire a risolvere il problema sanitario, dando aiuti che non innescano la ripresa e scegliendo di finanziarli in modo assai meno conveniente rispetto ad altri stati europei, facendo cose diverse da quelle che stanno facendo Francia e Germania, dunque creando il concreto rischio di dover dichiarare default o ammazzare il paese di tasse e tagli tra un paio di anni – deve essere chiamato a risponderne (o a chiarire le ragioni delle sue scelte) di fronte all’opinione pubblica. Ed è esattamente qui che sta la colpa dei liberali: proprio loro dovrebbero essere infatti la voce principale del controcanto alla narrazione governativa. E invece questa voce è mancata del tutto. Ed è mancata perché in Italia non c’è più una vera cultura liberale.

Gran parte dei liberali di oggi sono infatti i comunisti moderati di ieri, quando non addirittura dei sessantottini invecchiati male. Questo spiega perché questi liberali sui generis si sono ridotti a predicare solo i “nuovi” diritti civili che vanno di moda a sinistra (inclusività, parità di genere, non discriminazione et similia), dimenticando invece del tutto i “vecchi” diritti fondamentali su cui si fondano le società occidentali: libertà personale, libertà di assemblea e di riunione, libertà di circolazione, libertà di manifestazione del pensiero. La gran massa dei liberali di casa nostra sono insomma solo una sbiadita copia dei liberal americani: pasdaran allevati alla scuola del politicamente corretto e – dunque – in realtà mossi da convinzioni profondamente illiberali, in quanto sotterraneamente convinti che lo stato sia lo strumento demiurgico con cui imporre il progressismo (socialdemocratico) come panacea di tutti i mali. In altre parole: tanti sedicenti liberali di oggi, essendo (a sinistra) degli ex sessantottini in pantofole o (a destra) dei teorici della sicurezza sociale come primo compito dello stato, non sono in grado di interiorizzare il tratto essenziale del vero liberalismo, rappresentato dalla naturale diffidenza nei confronti di qualunque forma di stato paternalista e in particolare verso qualunque tentativo del potere esecutivo di limitare le libertà individuale.

Per questo oggi assistiamo allo spettacolo surreale di sedicenti liberali che osannano il sistema cinese di reazione all’epidemia, forse scordando che – quando la mortalità provocata da un virus è allo 0.3% – per uno stato (con una popolazione mediamente molto giovane) che controlla totalmente sia l’informazione che i social media non è poi tanto difficile sostenere dinanzi al proprio popolo e al mondo la narrazione secondo cui l’epidemia sarebbe stata risolta, quando forse non è del tutto così. Qualcuno potrebbe invece sospettare che le autorità Cinesi abbiano ritenuto che un altro lockdown – di quelli “duri”, specie se esteso a tutto il paese e non ad una sola provincia, come era stato il primo – non sarebbe comunque servito a fermare la seconda ondata ed avrebbe soprattutto provocato eccessivi danni economici, decidendo dunque – assai pragmaticamente – di affrontare la seconda ondata facendo in modo che il popolo ne ignorasse le conseguenze (tutt’al più mettendo in campo, con poco clamore mediatico, una serie di mini-lockdown mirati nelle zone dei nuovi focolai). I cittadini cinesi non possono scegliere i loro governanti e dunque anche se lo stato non riesce a curare tutti per bene, il partito può permettersi di far spallucce, enfatizzando il fatto che l’economia cinese è l’unica economia mondiale che è riuscita a crescere in epoca covid (altro dato che dovrebbe far riflettere).

Qui da noi, invece, i governi sono troppo impegnati a chiudere in casa le persone e a terrorizzarle e confonderle allo scopo di nascondere l’inefficienza dei rispettivi sistemi sanitari (causata, non mi stancherò mai di dirlo, anche dalle politiche di rigore imposte dall’UE a tutti gli stati e sostenute dai nostri liberali). E ora che anche Germania e Francia iniziano a pagare un conto davvero salato in termini di morti, state pur certi che faranno pressioni per indurre tutti quanti gli altri stati dell’UE a chiudere tutto, sia mai che qualche stato membro possa avvantaggiarsi e riprendere a vivere e fare affari liberamente prima che possano farlo tedeschi e francesi. Ecco dunque apparire – dopo Natale e capodanno aperti al di là delle alpi – lo spettro delle zone “rosso scuro” individuate dall’UE per limitare la circolazione in Europa. E invece – quando eravamo stati noi a dover chiudere tutto a marzo 2020 – gli altri stati (e l’UE) sono andati avanti tranquilli per mesi senza imporre lockdown o altre misure rigide. Ma forse è solo un caso.

La frecciatina ai nostri fratelli europei (o, per meglio dire, a chi li rappresenta politicamente) non è una cattiveria fine a sé stessa, né il frutto di personale malevolenza, ma solo un espediente narrativo per mostrare al lettore un’altra strana coincidenza: gli pseudo-liberali di casa nostra sono infatti quasi tutti europeisti di stretta osservanza (tra l’altro l’UE è un pachiderma burocratico e dirigista che predica un singolare liberalismo fatto di mille regole e controlli, ma passiamo oltre) e dunque farebbero una certa fatica a spiegare ai loro lettori ed elettori – ai quali hanno raccontato per venti anni le res gestae dell’UE liberale impegnata a combattere gli sprechi anche sanitari degli italiani spendaccioni e statalisti che vivevano al di sopra delle proprie possibilità – perché mai proprio le politiche di taglio alla spesa pubblica sanitaria hanno finito per creare una situazione in cui esercitare le libertà fondamentali dei cittadini sarebbe stato vietato dal governo in quanto rischioso per la salute pubblica.

Ma non è che un intellettuale smette di essere liberale se trova il coraggio di ammettere serenamente che un certo livello di spesa pubblica sanitaria forse è necessaria – anche in uno stato liberale – perché solo se uno stato ha un sistema sanitario in grado di affrontare adeguatamente anche situazioni di grave emergenza, le libertà fondamentali civili ed economiche (dunque quelle che un liberale dovrebbe voler tutelare) possono essere garantite senza chiedere in cambio troppi sacrifici in termini di salute e di vite. L’epidemia di covid dovrebbe insomma aver fatto capire (ai liberali) che un robusto welfare sanitario anche pubblico è, paradossalmente, una delle condizioni che consente agli stati di essere liberali nei fatti e non solo a chiacchiera.

Ma spesso i dogmi valgono più del buon senso, specie per chi si trova ad avere una situazione economica e uno status sociale che gli consente di andare avanti a predicare dogmi che stanno facendo (e faranno) del male solamente ad altri. Il liberalismo all’italiana di tanti intellettuali – di recente – emana insomma sempre più spesso la fragranza radical chic dei croissant di Maria Antonietta. Croissant che, come sappiamo, possono però finire malamente di traverso a chi ne abusa, quando, alla fine, la maggioranza di un popolo viene messa davvero alle strette.

 

Il covid come otto settembre del pensiero autenticamente liberale.

Non resta a questo punto che trattare della posizione “etica” dei nostri liberali. Mi rendo conto di quanto sia demodé parlare di etica oggi. Eppure secondo me qui una riflessione etica è legittima proprio perché la distinzione tra “giusto” e “lecito”, di nuovo, è qualcosa che i liberali (quelli che non si sono mutati in “dirittisti”, che identificano la legge di uno stato democratico nella giustizia universale) dovrebbero riconoscere, comprendere e – magari – anche condividere. In questa sede, visti gli spazi, ci limiteremo solo a pennellate impressionistiche, intorno alla domanda fatidica: davvero la vita biologica viene prima di tutto nella gerarchia dei valori?

A ripercorrere la storia dell’occidente, dunque adottando una prospettiva empirica e storicistica, parrebbe proprio di no. Per secoli gli europei – ma anche gli americani, dopo la colonizzazione, dunque tutti i popoli che possono definirsi “occidentali” – hanno sacrificato la vita per conquistare prima, e per mantenere poi, le libertà individuali contro l’oppressione dei poteri pubblici assoluti (stranieri o domestici che fossero). Anzi, viene da dire che sia proprio la volontà di mettere la libertà civili davanti alla sicurezza e alla stessa vita fisica – dalle Termopili a Popper – a rappresentare uno dei tratti distintivi peculiari della stessa cultura occidentale. Passando dalla storia alla ragione dialettica, va detto che, a voler ragionare come fanno certi ayatollah salutisti dell’ultima ora, se dovessimo subire una dichiarazione di guerra sarebbe inevitabile arrendersi all’istante, sia mai che – quando la guerra davvero comincia ad imperversare – poi muore qualcuno. E che dire della circolazione stradale? Tali e tanti sono i morti, gli invalidi e i feriti gravi (per non parlare della pressione sul sistema sanitario) che provoca ogni anno l’andare in macchina, che un bel lockdown stradale su tutto il territorio nazionale ogni fine settimana (o magari anche durante la settimana, a giorni alterni, con incentivi statali all’acquisto di un triciclo a pedali, ma con cambio Shimano a millemila rapporti) mi pare il minimo sindacale. Ma mentre scrivo quest’ultima frase mi assale la spiacevole sensazione che quello che per me è una battuta per qualcuno potrebbe anche essere una ipotesi sensata.

Tornando all’etica, va rilevato che la nuda vita materiale come primo interesse rilevante appartiene anche alla cifra di quel mondo degli “ultimi uomini” di cui Nietzsche – che pure liberale non era affatto – parlava con disgusto misto a paura. E come non citare le preoccupazioni di un gigante della filosofia del secolo scorso come Heidegger (altro pensatore per nulla liberale) per il dilagare della tecnoscienza – di cui il paradigma che pone la vita fisica come sommo bene e a sua volta certamente manifestazione – come unico criterio ordinatore di una società occidentale ormai preda del nichilismo. Su come la pensino Popper e Habermas della questione credo non vi sia nulla da dire, se non che si tratta di altrettante icone liberali. Tutto questo per dire che nella nostra tradizione culturale e filosofica (anche in quella non liberale) non mancano certo i moniti a non cadere preda del primo leviatano che passa di lì offrendo ai cittadini sicurezza in cambio di sottomissione.

Pare però che i moniti siano stati tutti ignorati. E lo sono stati perché il covid è stato un po’ l’otto settembre della cultura liberale in Europa (escluse Svizzera, Svezia e poche altri nazioni, che hanno resistito alla tentazione di rispondere alla crisi con la soluzione del dispotismo salutista in salsa pechinese): come racconta l’omonimo romanzo di Curzio Malaparte – quando saltano tutti i riferimenti ideali e culturali che tengono unite le persone in un popolo dotata di una propria identità – alla prima vera crisi ognuno pensa per sé e dunque solo la “pelle” conta davvero. A quel punto tutto diventa lecito e legittimo alla sola condizione che io salvi la mia pelle (e magari, già che ci sono, anche il mio conto in banca e stipendio), non importando nulla quanto dovrà o potrebbe soffrire il mio prossimo. Questa reazione “di pancia” – che tutto sommato ci si poteva anche aspettare dalle masse postmoderne private di ideali forti e di identità culturali definite – invece che essere stigmatizzata è stata condivisa, legittimata (e dunque ideologicamente coperta) anche da tanti intellettuali che si definiscono liberali. L’otto settembre non è dunque tanto quello delle masse, bensì quello del liberalismo.

Gli intellettuali italiani ed europei, quegli stessi che sino a ieri tessevano le lodi di Popper e Habermas, di fatto oggi si trovano a sostenere (spesso senza rendersene neppure conto) tesi che appaiono ispirate piuttosto agli insegnamenti di due illustri discepoli eterodossi di Hegel: il nostro Gentile, che vedeva nello stato (totale e totalitario) la sola possibile fonte del vero e del giusto in un dato momento storico e contesto sociale e Marx, che leggeva il mondo solo come materia, economia e interessi collettivi che prevalgono in ogni caso sui diritti individuali. Entrambi in compenso bollavano le vecchie libertà liberali come inutili e dannose sovrastrutture borghesi. Suona dunque strano che proprio ora che i liberali hanno l’occasione perfetta di prendersi una rivincita, innalzando il vessillo delle libertà individuali contro il dispotismo in camice bianco del novello regime medical-paternalista, preferiscano tacere. Ma forse queste cose agli intellettuali liberal(i) di oggi non interessano un granché: loro adesso hanno il gender, la discriminazione razziale, l’antifascismo, il populismo e i tagli alla spesa pubblica e agli sprechi di cui occuparsi (e con cui ovviamente indignarsi). Ogni epoca ha in definitiva i liberali che si merita. E la nostra epoca parrebbe essere quella dei piccoli conformisti che – nello stesso momento in cui dicono cose vagamente fasciste o maoiste – per qualche strana ragione amano farsi chiamare liberali.

A voler trovare il lato positivo di questa paradossale situazione, si può dire che il covid ha quanto meno fatto cadere la maschera (anzi, la mascherina) di parecchia gente, consentendo alla fine di capire chi – pur dichiarandosi (o magari anche credendosi) liberale – è invece portatore di gravi forme di totalitarismo asintomatico ovvero della classica variante italica del servilismo acuto verso i potenti di turno. Sta di fatto che dopo il Covid i liberali – quelli veri – almeno potranno contarsi tra loro (e, si spera, non sulle dita in una mano). Io non mi considero un liberale, quanto meno non tour court (visto che non sono un liberista in economia e su alcuni temi etici potrei essere bollato comodamente come veteroreazionario), però so bene che i liberali duri e puri (anche se liberisti e pure se mangiapreti) sono una componente imprescindibile della dialettica culturale e politica europea. Se dunque un giorno i liberali veri scomparissero davvero dal discorso pubblico– e col Covid mi è venuto il sospetto che il processo, quanto meno qui da noi, sia in corso – quel giorno resteremmo tutti quanti più esposti al neo-dispotismo del leviatano securitario, situazione che non occorre certo essere liberali o liberisti per voler evitare.