I paesi che hanno evitato la seconda ondata

Ci siamo abituati un po’ tutti, in questi lunghi mesi dell’epidemia, a usare la parola “ondata”. L’ondata del Covid, la prima ondata, la seconda ondata. L’ho fatto anch’io, e lo farò ancora, perché non so trovare una parola diversa e più adatta.

Però dovremmo smetterla, o almeno renderci conto che è una parola molto fuorviante.

Quando diciamo che è arrivata un’ondata, e che ha sommerso tutto il mondo, ogni paese e ogni continente, descriviamo l’epidemia come un evento ineluttabile, che arriva da fuori, e cui nessuno si può sottrarre.

Questo, in un certo (assurdo) senso, ci rassicura. Rassicura i cittadini, perché in fondo “mal comune mezzo gaudio”. Ed è addirittura una manna per i politici perché permette loro di pensare, e soprattutto di dire: vedete? è successo dappertutto, dunque se è successo anche da noi non è colpa nostra.

Il medesimo fatalismo investe da tempo i discorsi sulla “seconda ondata”. Anche la seconda ondata l’abbiamo percepita come una minaccia incombente, che tutto sommato ci aspettavamo, e che ora puntualmente è arrivata, in tutto il mondo. E quindi anche da noi. I sondaggi confermano che, anche durante i momenti più sereni dell’estate, quando cercavano di convincerci che tutto andava per il meglio, che eravamo un modello per gli altri, e che comunque eravamo preparati, anche allora la maggioranza dei cittadini una seconda ondata se l’aspettava, quasi fosse un evento ineluttabile.

Eppure non è vero. Ci sono porzioni del mondo – anche del mondo a noi più simile, quello delle società avanzate, dotate di istituzioni democratiche – in cui la seconda ondata non è affatto arrivata (e talora nemmeno la prima). Quel che è arrivato non è un’ondata che tutto e tutti travolge, ma un modesto numero incremento dei decessi (unico indicatore affidabile nei confronti internazionali), più o meno rapidamente riportato sotto controllo.

Insomma ci sono paesi che ce l’hanno fatta, o ce la stanno facendo, a tenere sotto controllo l’epidemia. Quali sono? E quanti sono?

Se consideriamo il 27 paesi a noi più comparabili (società avanzate, democratiche, con istituzioni di tipo occidentale), sono ben 10 – più di 1 su 3, dunque – quelli che non hanno subito una seconda ondata. Quattro sono nel sud-est asiatico: Giappone, Corea del Sud, Taiwan, Hong Kong. Due sono nell’emisfero boreale: Australia e Nuova Zelanda. Ma quattro sono in Europa: Norvegia, Finlandia, Danimarca, Irlanda.

Nei primi i numeri dell’epidemia sono infimi, negli ultimi (quelli europei) sono molto modesti (meno di un decimo di quelli della nostra prima ondata).

Dunque non è obbligatorio subire la seconda ondata. Anzi, si potrebbe dire che – quando arriva – l’ondata è il frutto di decisioni, scelte, comportamenti che un dato paese adotta e che producono, come conseguenza, un’impennata dei contagi. L’onda non vien da fuori, ma è prodotta da dentro.

Ma come si fa a non produrla?

Il fatto interessante è che, storicamente (ormai esiste una storia del Covid), non è esistito un modo solo, unico, di evitare la seconda ondata. I paesi che ce l’hanno fatta non hanno messo in atto tutti le medesime contromisure, salvo forse una: forti limitazioni agli ingressi, che purtroppo in Italia sono state quasi sempre snobbate, ora per ragioni economiche (se no danneggiamo l’industria turistica), ora per ragioni organizzative (come facciamo a fare migliaia di tamponi al giorno negli aeroporti?), ora per ragioni ideologiche (sbarchi e accoglienza, volontà di non “discriminare”).

Per il resto ognuno dei 10 paesi che ce l’hanno fatta hanno trovato ciascuno la sua strada, che è sempre consistita nell’adozione di un mix di misure, non in una misura soltanto.  Non solo lockdown più o meno prolungati e severi, ma tamponi di massa, app per il tracciamento, Covid-hotel e quarantena assistita, rispetto rigoroso del distanziamento negli ambienti chiusi, uso generalizzato delle mascherine e degli occhiali, disinfezione delle superfici, sanificazione e aerazione degli ambienti.

Tomas Pueyo, a mio avviso di gran lunga l’analista della pandemia più lucido, ha battezzato questo approccio “strategia del formaggio svizzero” (swiss cheese strategy), il celebre formaggio a buchi, simile alla nostra groviera tanto amata da Topo Gigio. L’idea è che, per impedire la formazione dell’onda, non basti un unico strato di formaggio (leggi: una particolare misura di contrasto), perché ogni strato ha dei buchi in cui l’epidemia può trovare un varco, ma occorra giustapporne più d’uno, in modo che dove uno strato non funziona, possa interviene uno degli strati successivi, ciascuno con i suoi buchi sparpagliati in modo irregolare e casuale. Detto in altre parole: giudicata in sé ogni misura è insufficiente e lacunosa, ma è il pacchetto complessivo, una sorta di filtro multi-strato, che deve essere efficace.

Che il nostro “italian cheese” non abbia funzionato è fuori di dubbio, e la seconda ondata – con la sua lunga scia di morti – è lì a dimostrarlo. C’è solo da sperare che fra tutti, Governo, Regioni, cittadini, si diventi capaci di mettere insieme gli strati del nostro formaggio anti-Covid. Altrimenti, dopo aver prodotto la seconda ondata, ci appresteremo a procurarci la terza.

Pubblicato su Il Messaggero del 28 novembre 2020




Il ritorno della talpa: il diritto di ricevere risposte

Essendo di nuovo rinchiusa, passo molto tempo davanti alla tivù. Voglio sapere, essere informata, ascoltare opinioni. La sera, al buio della mia galleria, mi metto in poltrona e guardo: telegiornali, inchieste speciali, talkshow. Giro per canali e ne pesco uno qua uno là, non importa dove sia e chi parli. Sono avida di gente che parla. Mi aspetto ogni volta che qualcuno m’illumini, che mi dica la verità. Sono affetta da masochismo e vacue speranze, destinata quindi a perenni delusioni e frustrazioni, lo so.

Ma c’è una cosa che sommamente m’indigna: che nessun politico mai risponda alla domanda!

Ho analizzato molto la questione, è da non credere. Il giornalista chiede una cosa specifica (ad esempio: “Perché non avete fatto più tamponi quando i contagi erano bassi ed era utile farli per contenere l’epidemia?”) e il politico, senza la minima difficoltà o vergogna, parla d’altro. Riempie il vuoto con parole non importa quali e, cosa ancor peggiore, secondo uno schema retorico fisso e orribilmente ripetitivo:

1) Intanto mi lasci dire che…

2) Abbiamo passato l’estate a lavorare…

3) Anche gli altri Paesi però…

4) Stiamo facendo molti sforzi per…

Scusate, ma fare sforzi assicura di per sé dei risultati? Non so, sarà che nella vita precedente ho fatto l’insegnante, ma mi viene in mente il solito allievo impreparato, che fa scena muta all’interrogazione e quando l’insegnante gli dà 4 dice: Ma io ho studiato!

La cosa grave è che l’intervistatore tace, non reagisce, non incalza il politico, non gli fa notare che non ha risposto e non pretende che risponda. Nulla. Silenzio. Si passa ad altro. Ad altre domande che innescheranno altre non-risposte. Mistero! Perché il giornalista tollera che il politico non risponda? Qual è il suo lavoro? Per chi lavora?

Nel mondo delle talpe è tutto molto più nitido. Forse siamo delle sempliciotte, ma quel che pensiamo è questo: se ti faccio una domanda, tu per piacere rispondi a quella domanda, non è che te ne puoi partire in tutt’altro discorso. Oppure se non vuoi rispondere lo dici, dici: Mi dispiace, mi scusi, a questo non rispondo, passiamo a un’altra domanda. Onestà. E chiarezza. Non trovate che ci vorrebbero?

Lo dico in un altro modo, con un esempio. Ci troviamo sulla panchina, io e la talpa Cristina mia vicina di casa, chiacchieriamo prendendo un po’ d’aria e godendoci la campagna, e a un certo punto io le chiedo:

Senti, Cristina, tuo figlio ha poi trovato lavoro?

E Cristina mi risponde:

Ma guarda, le patate al forno le puoi fare in vari modi, io le faccio col rosmarino.

Vi par possibile? No, che non vi par possibile. Eppure è quel che succede ogni giorno, più volte al giorno, in ogni rete tivù, a ogni programma, con qualsiasi conduttrice o conduttore, con qualsiasi politico, ministro, sottosegretario o tirapiedi: l’uno pone una domanda precisa e l’altro risponde a tutt’altro. Cioè, non risponde.

E qui, di nuovo, il mio vecchio mestiere mi sovviene: se io durante un’interrogazione chiedevo cos’ha scritto Petrarca, e l’allievo mi rispondeva che Cagliari è una ridente città della Sardegna, io non solo lo mandavo a posto con 2, ma chiamavo anche l’ambulanza, molto preoccupata per la sua salute mentale.

Ora, perché non diamo 2 ai politici? Perché non chiamiamo l’ambulanza?

Perché tolleriamo che non rispondano?

Mi piacerebbe che la smettessimo di tollerare. Che non gliela lasciassimo passar liscia. Mi piacerebbe che, se tu politico non rispondi, io giornalista lo rimarcassi con grande energia: Non hai risposto, Non hai risposto, Non hai risposto! Un po’ à la Sgarbi (può non piacere, ma funziona): Capra! Capra! Capra! E se continui a non rispondere, io chiudo il collegamento dicendo che tu, politico tal dei tali, non hai risposto alle domande. Sancisco la tua non-risposta, ti inchiodo a quel che sei.

Mi piacerebbe che i politici avessero paura di andare in tivù, non che ci andassero allegramente ogni giorno come a un picnic tra amici. Non so se l’avete notato, ma non esiste, qui in Italia, alcun programma tivù in cui i politici temano di andare: non è la prova che il conduttore non sta facendo il suo dovere?

Credo che abbiamo, noi cittadini, il diritto di ricevere risposte. Oggi più che mai, visto il disastro in cui siamo precipitati, credo sia un diritto sacrosanto.

Ebbene, questo diritto io lo vedo continuamente violato, calpestato.

Non capisco perché permettiamo questo, non capisco perché si facciano tante interviste e tanti talkshow se poi si accetta di non avere risposte e si sopportano queste continue elusioni e fughe. È, anche, un’offesa all’intelligenza dei telespettatori, cioè di noi cittadini. Va bene, l’epidemia ci ha resi confusi e inermi, tristi e a tratti disperati. Ma non ci ha ancora instupiditi.

Non capisco che gioco perverso sia, a chi giovi, e chi abbia paura di chi.

Dobbiamo smettere di giocare. E anche di aver paura. Siamo gente libera o no?

Okay, sono risbucata dalla galleria. Siamo di nuovo rinchiusi, quindi le talpe ritornano, e a tratti risbucano.

Non è come l’altra volta, però: adesso dipende da dove abiti. In certi posti sei chiuso, in altri meno, in altri ancora quasi per niente. Questo rende tutto meno semplice, e anche meno chiaro. A marzo c’era una chiarezza adamantina che ci rendeva un pochino più sereni: eravamo tutti chiusi uguale. Ora ce lo chiediamo ogni giorno, se e quanto siamo chiusi, o aperti ma poco, o semichiusi, o chiusi con vista mare, o aperti senza via d’uscita…

Comunque siamo tornati talpe, chi più chi meno. E adesso abbiamo capito che forse la talpitudine non ci abbandonerà mai del tutto, d’ora in poi: sarà uno stato intermittente. Come le lucine di Natale. Avremo una pelliccia marroniccia da indossare in certi periodi, e in certi altri rimettere nell’armadio, con le tasche piene di naftalina. Il mondo è cambiato. Prima, nell’armadio, avevamo solo cappottini di lana o morbidi piumini di penne d’anatra. Ora quella pellicciotta da talpa esiste, e ci squadra con aria minacciosa: Ricordati che sei talpa, e (ogni tanto) talpa ritornerai.

Ogni tanto però usciamo a parlarci, tra talpe. Almeno questo. Parliamoci! Le parole non mi sono mai parse così teneramente inutili… Mi fa tenerezza, la loro abbagliante inutilità. Ma sono convinta che ora meno che mai si debba tacere. Inutili di tutto il mondo, unitevi e parlatevi!

La parola è quel che ci resta, l’unica libertà che nessuno ci può togliere. Meglio se scritta. Scripta manent ancora, tutto sommato: i libri per esempio resisteranno sempre e oggi più che mai devono far sentire la loro voce.

Usiamola dunque, questa parola! Con lealtà, e parsimonia… Ad esempio per esigere risposte.

Pubblicato su La Stampa del 15 novembre 2020




Vaccini, la posizione di Andrea Crisanti

Pubblichiamo qui di seguito la lettera che il professor Andrea Crisanti (Ordinario di Microbiologia e Direttore del Dipartimento di Medicina molecolare, Università di Padova) ha scritto al Corriere della Sera.

Caro Direttore,

In una recente intervista a Focus life in risposta alla domanda se mi sarei vaccinato a gennaio ho affermato che non lo avrei fatto fino a che i dati di efficacia e sicurezza non fossero stati messi a disposizione sia della comunità scientifica sia delle autorità che ne regolano la distribuzione.

Ho formulato un concetto di buon senso che non esprimeva alcun giudizio negativo sulla bontà del vaccino né tantomeno metteva in discussione la validità della vaccinazione come il mezzo più efficace per prevenire la diffusione delle malattie trasmissibili. La mia storia personale e scientifica ne è la testimonianza.

La mia dichiarazione, che credo abbia interpretato il sentimento dei tanti che hanno a cuore e danno valore al metodo scientifico, è stata ispirata dalla modalità con cui le aziende produttrici hanno comunicato i risultati raggiunti senza accompagnarli ad una adeguata informazione almeno per quanto riguarda la Fase III.

La trasparenza è la misura del rispetto che si nutre nei confronti degli altri e genera un bene prezioso, la fiducia. In questi giorni le aziende produttrici, invece di condividere i dati con la comunità scientifica, hanno privilegiato una comunicazione basata su proclami non sostanziati da evidenze.

Noi tutti riponiamo in questi vaccini delle grandi aspettative; se le aziende in questione sono in possesso di informazioni che giustificano annunci che possono apparire rivolti in particolare ai mercati finanziari, devono essere rese pubbliche anche in considerazione del fatto che la ricerca è stata largamente finanziata con quattrini dei contribuenti.

La notizia che dirigenti delle due aziende produttrici abbiano esercitato il loro diritto, ne sono certo legittimo, a vendere le azioni per sfruttare i vantaggi legati al rialzo di prezzo non ha contribuito a generare un sentimento di fiducia.
A poche ore dalla mia intervista si è scatenato un inferno mediatico senza precedenti, illustri colleghi in coro hanno fatto a gara per censurare le mie parole definite irresponsabili. Secondo alcuni avrei addirittura messo in pericolo la sicurezza nazionale!

I custodi della ortodossia scientifica non ammettono esitazioni o tentennamenti, reclamano un atto di fede a coloro che non hanno accesso a informazioni privilegiate «il vaccino funzionerà», tuonano indignati. Io sono il primo ad augurarmelo, mi permetto tuttavia di obiettare che il vaccino non è un oggetto sacro. Lasciamo la fede alla religione e il dubbio ed il confronto alla scienza che ne sono lo stimolo e la garanzia.

Tra gli indignati si annoverano alcuni che durante l’estate ci hanno raccontato che le evidenze cliniche portavano a pensare che la crisi sanitaria fosse superata e che il virus fosse meno contagioso, e purtroppo possono avere inconsapevolmente incoraggiato comportamenti che hanno dato un contributo importante alla trasmissione del virus in quei mesi. Altri sono autorevoli membri del comitato tecnico scientifico a cui l’Italia si è affidata fiduciosa per prevenire una possibile seconda ondata, tutelare le attività commerciali, favorire la ripresa produttiva e garantire le attività didattiche.

Lascio agli italiani e agli storici il giudizio sul loro operato. Sono ormai settimane che si registrano più di 35.000 casi di infezione e circa 700 morti al giorno.

A partire dal mese di luglio il virus ha ucciso circa 15.000 persone e ne ha infettate 1.140.000: vorrei scriverlo «ad alta voce» perché per questa strage silenziosa non si indigna nessuno. Chi racconterà la storia di questa epidemia in futuro non troverà eco delle mie parole di qualche giorno fa, ma rimarranno impietose le statistiche a denunciare questi numeri e a mettere a nudo gli errori commessi.

La mia dichiarazione sul vaccino pronunciata con schiettezza ha toccato un nervo scoperto. Senza strumenti per controllare l’epidemia a meno di affidarsi a severe misure restrittive e senza una linea di difesa contro una seconda e possibile terza ondata, le opzioni a disposizione sono drammaticamente ridotte.

A questo punto tutte le speranze sono riposte nel vaccino come la pioggia per un popolo assetato nel deserto. Questo non giustifica la demonizzazione di chi possa avere dubbi, di chi chiede spiegazioni e di chi chiede trasparenza. Continuare su questa strada è il modo migliore per alimentari sospetti e fornire argomenti a chi si oppone all’uso dei vaccini.

Pubblicato su Il Corriere della Sera del 23 novembre 2020




Stop and go?

Chi è abbastanza vecchio da avere memoria degli anni ’70, o è abbastanza curioso da averli studiati, ricorderà di sicuro la politica dello stop and go, o “politica del semaforo”, con cui, in quel periodo, molti paesi occidentali cercavano di domare l’inflazione, senza però frenare troppo l’economia. La conseguenza era una crescita a singhiozzo, in cui a brevi periodi di espansione seguivano altrettanto brevi periodi di rallentamento, per tenere l’inflazione sotto controllo.

Qualcosa di simile, forse, si sta preparando ora sul versante della gestione dell’epidemia, con il Covid in un ruolo simile a quello che fu dell’inflazione. Se davvero, come appare sempre più verosimile, il 3 dicembre il governo consentirà una serie di riaperture, in modo che la corsa ai regali di Natale dia un po’ di ossigeno all’economia, e se nel periodo delle feste dovessero esserci di nuovo limitazioni, più o meno volontarie, magari seguite da un nuovo allentamento delle regole a gennaio, allora sì, dovremmo concludere che il governo ha deciso per lo stop and go.

Il che significherebbe: non riusciamo a stroncare l’epidemia, ma nemmeno vogliamo che ci arrivi in faccia la terza ondata, quindi navighiamo a vista. Teniamo aperto finché gli ospedali respirano, tiriamo il freno appena ci accorgiamo che gli ospedali potrebbero riempirsi di nuovo di pazienti Covid.

E’ razionale questa strategia?

Probabilmente sì, se l’obiettivo è solo di non far saltare il sistema sanitario e dare un po’ di ossigeno all’economia. E, naturalmente, se i sensori del governo sono meno arrugginiti di quelli usati fin qui, rivelatisi incapaci di avvisare in tempo dell’arrivo della seconda ondata.

Se però l’obiettivo fosse quello di minimizzare sia i morti sia i punti di Pil perduti, non sono sicuro che mesi e mesi di andamento a fisarmonica, con le Regioni impegnate in una danza senza fine fra i quattro colori di cui possono fregiarsi (verde-giallo-arancio-rosso), sarebbero la via più efficace. E questo per due motivi, uno relativo alla salute, l’altro relativo all’economia.

Sul versante della salute, non si può non osservare che mantenere le terapie intensive costantemente un po’ sotto il livello di guardia (diciamo al 20% della capacità anziché al 30%), obiettivo comprensibilissimo dal punto di vista dell’equilibrio del sistema sanitario, comporta circa 300 morti al giorno, dunque oltre 100 mila all’anno: più o meno 100 volte il numero annuo di morti sul lavoro, che già ci appare inaccettabilmente elevato.

Sul versante dell’economia i conti sono più ardui, perché mancano due informazioni cruciali: quanti saranno i mesi di vera apertura all’anno, e quanta mobilità in meno (spostamenti e consumi) comporterà lo stato di paura permanente indotto da un regime di stop and go, specie se nulla cambia nella medicina di base (una quota importante delle nostre paure è dovuta alla credenza, del tutto fondata, che in caso di infezione difficilmente riceveremo cure domiciliari). Secondo un recente studio del Fondo Monetario Internazionale, il rischio che la paura congeli la mobilità, e la mancanza di mobilità spenga l’economia, è molto forte. Se la paura non scende sotto un certo livello, è inutile illudersi che l’economia riparta.

Immagino che qualcuno, arrivati a questo punto, obietterà: e il vaccino? Non sarà il vaccino la nostra salvezza? Perché pensare a un lungo periodo di stop and go quando il vaccino è alle porte?

Personalmente nutro un misto di ammirazione e di invidia per chi è dotato di tanto ottimismo. Può darsi che, a differenza del vaccino influenzale, il vaccino contro il Covid arrivi presto, ed entro l’estate prossima sia disponibile per tutti. Può darsi che la maggior parte della popolazione si vaccini con entusiasmo, e non dia alcun credito alle cautele del prof. Crisanti, secondo cui assumere un vaccino non testato è rischioso (“senza dati a disposizione, io non farei il primo vaccino che dovesse arrivare a gennaio”).

Ma temo che lo scenario più verosimile sia un altro. E cioè che il vaccino diventi per qualche mese l’argomento preferito dei talk show, e insieme uno specchietto per le allodole che permette ai politici, ancora una volta, di eludere le domande importanti e di non fare le molte cose che spetta loro di fare. A partire dai dieci punti della petizione che, in 35 mila, abbiamo firmato una decina di giorni fa, e cui né il premier Conte, né il ministro Speranza (ai quali era indirizzata), hanno sentito il dovere di dare una risposta.

Pubblicato su Il Messaggero del 21 novembre 2020




Gli italiani e la pandemia: più lungimiranti dei loro governanti

Un paio di decenni orsono, insieme all’amico e collega Giorgio Grossi, elaborai un indicatore che oggi è divenuto patrimonio comune di gran parte della ricerca demoscopica. Esso si basa sulla considerazione che, per capire l’approccio al voto da parte del cittadino-elettore, sia indispensabile considerare non soltanto il suo orientamento di voto individuale, ma anche la sua specifica “percezione” dell’ambiente che lo circonda, del clima pre-elettorale in cui si trova inserito.

È stato dunque predisposto un indicatore robusto e semplice nello stesso tempo, che consiste nella pura richiesta all’intervistato di cosa – a suo parere – sarebbe successo nelle elezioni considerate, cioè di chi avrebbe vinto. Insomma: l’elettore come oracolo. O meglio, l’insieme delle previsioni individuali come “predittore” del vincitore. Per questo, l’abbiamo etichettato con il termine di “winner”. L’utilizzo di questo indicatore si è dimostrato negli anni molto affidabile: sia applicandolo ad elezioni locali che ad elezioni nazionali, il campione di intervistati evidenzia costantemente capacità predittive talora superiori a quelle degli studiosi e ai responsi dei sondaggi demoscopici.

La storia di “winner” mi è tornata alla mente in questo periodo pandemico, rileggendo i risultati di diverse migliaia di interviste effettuate da Ipsos durante i mesi di giugno e luglio scorsi, perché anche in quel frangente i cittadini interrogati sul decorso futuro del Covid-19 parevano aver compreso, oserei dire molto prima e molto meglio di quanto abbiano fatto politici e governanti, che il virus non si sarebbe arrestato tanto facilmente. Un po’ come accade appunto con la corretta profezia del vincitore, la stragrande maggioranza della popolazione pareva aver fiutato che le cose non si sarebbero risolte tanto facilmente o tanto velocemente, come qualche leader partitico o qualche presidente di Regione aveva al contrario proclamato agli albori della scorsa estate con lo slogan: riapriamo tutto!

Alla semplice domanda sulla possibilità che nei 6 mesi successivi ci saremmo trovati nella condizione di fronteggiare una seconda forte ondata di contagi in Italia, quasi l’80% degli italiani rispondeva che la ripresa pandemica era molto o abbastanza probabile. E che occorreva prepararsi per tempo, non quando saremmo stati nella sua fase più acuta.

E alla questione successiva: “Secondo Lei l’allentamento del lockdown e le riaperture delle attività decise nelle scorse settimane faranno aumentare il numero di contagi in Italia?” soltanto uno sparuto 14% degli intervistati dichiarava che “il trend di diminuzione dei contagi proseguirà più o meno come in questi giorni estivi”. Certo, magari il comportamento di alcuni dei nostri connazionali non è stato adamantino, proprio in quel periodo, ma è indubbio che la lungimiranza dei cittadini interrogati fosse di gran lunga maggiore di chi ha il potere decisionale, che come è stato da molti sottolineato in questa situazione è stata piuttosto carente, se non del tutto deficitaria.

Infine, anche sulla proroga dello stato d’emergenza si dichiarava d’accordo il 78% del campione, per una durata di almeno tre mesi per alcuni, ma per molti ancora di più, fino a 6 od oltre i 6 mesi. Il senso di responsabilità degli italiani sembrava superare (anche) in questo frangente quello dei governanti, preoccupati al solito della consueta ricaduta elettorale. Non a caso, tra coloro che minimizzavano il pericolo, erano soprattutto gli elettori di Lega e Fratelli d’Italia, sospinti dai rispettivi leader di partito, a ribadire che il peggio era ormai alle nostre spalle, che il virus era definitivamente sconfitto, e che occorreva tornare alla vita di sempre. Potere dello “storytelling”!