Il Giappone dal successo dei “cluster” al caos olimpico

Il 25 maggio 2020, pochi mesi dopo l’inizio della pandemia, il Giappone aveva annunciato al mondo intero di aver sconfitto il virus. A farlo era stato il primo ministro Shinzō Abe, che durante una conferenza stampa aveva dichiarato finita l’emergenza, decretando la vittoria del modello giapponese sul Coronavirus. Secondo Abe, il paese era riuscito a limitare i contagi senza ricorrere alle pesanti restrizioni attuate da Stati Uniti ed Europa e in effetti a quell’epoca contava appena 4,1 morti per milione di abitanti (mpm), contro i 478 dell’Italia, i 535 della Spagna e i 680 del Belgio (i paesi allora messi peggio di tutti, che continueranno ad esserlo anche in seguito).

Il risultato era in linea con quelli degli altri paesi avanzati del Pacifico (Taiwan, Corea del Sud, Singapore, Australia e Nuova Zelanda), che viaggiavano tutti fra i 3 e i 5 mpm, con Taiwan addirittura a 0,3, mentre in tutti i principali paesi occidentali se ne contavano diverse centinaia. Tuttavia, negli ultimi mesi la situazione del Giappone è notevolmente peggiorata, pur restando nettamente migliore della nostra, al punto che la maggior parte della popolazione si è detta contraria allo svolgimento delle Olimpiadi di Tokyo e alcuni (peraltro senza alcuna prova) hanno addirittura accusato il governo di aver falsato i dati per non dovervi rinunciare, dichiarando un numero di contagi e di decessi più basso di quello reale.

Non c’è dubbio che il Giappone rappresenti oggi un “caso”, per molti versi paradossale e di non facile comprensione, nell’ambito di quella sorta di “isola felice” rappresentata dai paesi del Pacifico, che fin qui se l’erano cavata brillantemente nella gestione del virus. Tuttavia, quello che vi sta accadendo non si può spiegare con teorie complottiste a buon mercato. La realtà, infatti, è molto più complessa.

Prima di tutto è opportuno ricordare che il Giappone presenta alcune peculiarità che in parte hanno favorito e in parte ostacolato la lotta al virus. Per esempio, la Costituzione giapponese proibisce al governo di imporre dei blocchi totali delle attività: quindi, allo scoppio della pandemia il governo non ha potuto obbligare i cittadini a seguire le regole del distanziamento sociale e a ridurre le proprie attività a quelle strettamente necessarie, ma si è dovuto limitare a chiedere loro di rispettarle volontariamente, anche se l’appello è stato generalmente accolto, data che la cultura del paese valorizza molto l’ordine e il rispetto delle autorità.

Anche le condizioni geografiche e sociali hanno favorito il raggiungimento di risultati positivi nella lotta al Coronavirus. Anzitutto, il fatto di essere un arcipelago di isole ha reso più facili i controlli alle frontiere e in parte anche quelli sulla mobilità interna. Inoltre, molti giapponesi hanno da tempo preso l’abitudine di indossare le mascherine di protezione individuale anche in condizioni normali, ogni qual volta hanno un raffreddore o una banale influenza o anche per proteggersi dall’inquinamento, soprattutto nelle grandi città. E non sono certo famosi per la loro espansività: stringere le mani, abbracciarsi e baciarsi non sono comportamenti che rientrano nella tradizione nipponica. Ciò ha reso più facile ai cittadini organizzarsi spontaneamente per rispettare le distanze e limitare gli spostamenti, pur senza fermare le attività economiche.

Tuttavia, il successo giapponese è dovuto soprattutto al particolare metodo usato per il tracciamento dei contagi: quello dei cluster (termine ripreso dalla chimica, dove serve per indicare un ammasso o un raggruppamento).

Questo modello è stato sviluppato sulla base di uno studio epidemiologico condotto sulla nave da crociera Diamond Princess, che era entrata nel porto di Yokoama il 3 febbraio 2020 con diversi passeggeri positivi a bordo. La teoria sulla quale si fonda il metodo è nata per spiegare come gran parte dei passeggeri, nonostante avessero avuto contatti con persone infette, non abbiano contratto il virus. Si ritiene infatti che la trasmissione del virus sia causato quasi completamente da pochi soggetti ad alta contagiosità che vanno a formare grandi cluster di persone contagiate, mentre la maggior parte delle persone infette è responsabile di pochissimi contagi come in effetti è stato poi confermato da studi successivi, anche se non ne è ancora chiaro il motivo. Ciò suggerisce quindi che il metodo di contenimento più efficace sia arrivare alla fonte di ciascun cluster, scoprendo e isolando le poche persone ad elevata trasmissibilità, fermando le quali si arresterà anche la diffusione del contagio.

Questo è anche il motivo per cui in Giappone non sono mai stati effettuati dei test a tappeto su tutta la popolazione (come invece è avvenuto, benché tardivamente, in Europa), ma si è proceduto con tamponi mirati, tanto che il paese si trova attualmente al 143° posto al mondo, con appena il 14,5% della popolazione testata almeno una volta. Si pensi che il paese leader di questa speciale classifica, cioè la Danimarca, ha testato ogni abitante in media 13 volte, eppure ha 438 mpm, che è un discreto risultato per i disastrosi standard europei, ma è pure sempre 3,65 volte peggiore di quello del Giappone. Il successo del modello nipponico si basa infatti sul cosiddetto approccio delle tre T: Test, Trace, Treat, ovvero testa, traccia e tratta. Una volta che una persona positiva è stata identificata, il cluster viene tracciato fino a risalire alla fonte originale e a tutti i suoi membri, che vengono quindi isolati e curati.

Ciononostante, all’inizio di novembre 2020, senza che ne fosse ben chiaro il motivo, i contagi, che avevano già visto una leggera ripresa ad agosto, hanno incominciato improvvisamente a risalire, passando in due settimane da 600 a 2000 casi al giorno. Tokyo si è trovata in grande difficoltà con l’arrivo di una inaspettata terza ondata, molto più alta delle precedenti. Con gli ospedali vicini al collasso, la governatrice Yuriko Koike è stata costretta ad elevare lo stato di allerta. Ciononostante, le cose hanno continuato a peggiorare, finché a fine anno c’è stato un altro balzo che in una sola settimana ha visto praticamente raddoppiare i contagi, passati da 3400 a 5700 al giorno. Anche l’andamento dei decessi è stato molto simile, solo con un ritardo di circa 3 settimane (come è logico che sia, dati i tempi di evoluzione della malattia, e come infatti avviene dovunque).

A dicembre 2020 il nuovo premier Yoshihide Suga, subentrato ad agosto ad Abe, ritiratosi per ragioni di salute, ha dovuto fare i conti con un repentino calo dei consensi. Secondo un sondaggio avviato dalla televisione NHK il malcontento della popolazione era legato soprattutto alla sua gestione della pandemia e alla risalita dei contagi, che da allora non sono più scesi a livelli rassicuranti. In particolare, il governo viene criticato aspramente per non aver cancellato le Olimpiadi e per la tardiva e lentissima campagna vaccinale, fino a poco fa basata tra l’altro su un solo vaccino, Pfizer-Biontech.

L’istituto nazionale per malattie infettive ha rivelato che la variante N501Y del virus che si è originata in Gran Bretagna era ormai responsabile di circa il 90% dei casi, che presentavano in media sintomi più gravi rispetto alle mutazioni precedenti, in particolare nella fascia di età dai 40 ai 64 anni. I dati più recenti hanno anche evidenziato che l’età media degli ultimi contagi si è abbassata notevolmente. Nel distretto di Tokyo la percentuale dei trentenni positivi al Coronavirus tra gennaio e marzo 2021 era meno del 50%, mentre a maggio aveva raggiunto il 60%. Secondo la governatrice di Tokyo, Yuriko Koike, «le infezioni di Covid tra la popolazione più giovane crescono perché quest’ultime sono decisamente più attive nella vita sociale».

A metà maggio 2021 il primo ministro Suga ha dichiarato in una conferenza stampa: «La curva delle infezioni in alcune aree è in calo ma a livello generale la situazione rimane imprevedibile ed è per questo che abbiamo deciso di estendere lo stato di emergenza fino al 20 giugno». Le restrizioni hanno interessato 8 prefetture a partire dall’estremo nord dell’Hokkaido fino all’isola di Okinawa a sud dell’arcipelago, comprendendo molte delle principali città, tra cui Tokyo, Hokkaido, Hiroshima, Osaka e Okayama. Maggior potere decisionale è stato accordato ai vari governatori in base alle diverse esigenze e problematiche sanitarie. Le persone sono state invitate a stare in casa, a non spostarsi in altre prefetture e ad uscire solo per svolgere le commissioni necessarie. I bar, le sale karaoke e gli altri locali sono stati chiusi, mentre ai ristoranti è stato concesso di restare aperti, ma con il divieto di servire alcolici. La zona di Osaka è stata la più colpita dal Covid: gli ospedali erano pieni e molte persone hanno dovuto aspettare a casa o negli hotel con le bombole di ossigeno che si liberasse un posto letto.

Ai primi di giugno, solo un mese e mezzo prima della cerimonia di apertura delle Olimpiadi, fissata per il 23 luglio 2021, le prefetture di Chiba, Kanagawa e Saitama sono state sottoposte ad ulteriori restrizioni, come chiusure di bar e ristoranti anticipate alle 20, oltre alla serrata di centri commerciali e al divieto di organizzare attività ricreative. Inoltre, sei persone dell’organizzazione al seguito della staffetta della torcia olimpica sono risultate positive al tampone nella prefettura di Kagoshima situata a sud ovest dell’arcipelago. Gli organizzatori hanno tenuto a precisare che queste persone si occupavano di controllare il traffico durante l’evento e che indossavano la mascherina, ma ciò non è servito a molto, tanto che il capo del sindacato nazionale dei medici, Naoto Ueyama, è giunto a dichiarare: «È dura per gli atleti, ma qualcuno deve dire che i giochi dovrebbero essere cancellati».

Da allora l’ostilità della popolazione verso le Olimpiadi ha continuato a crescere, fino a raggiungere, secondo alcuni recenti sondaggi, addirittura l’80%. Tuttavia, nonostante le molte voci che si sono accavallate, il governo non ha mai avuto realmente intenzione di abolirle e il 23 luglio i Giochi sono regolarmente cominciati, benché senza pubblico in tutta l’area urbana di Tokyo e con pubblico ridotto nelle gare che si svolgono in zone limitrofe, in cui la situazione è migliore. Del resto, se perfino la disastrata Europa è riuscita a far svolgere regolarmente e senza troppi danni gli Europei di calcio, per giunta itineranti in ben 8 paesi, con regole diverse e con stadi sempre abbastanza pieni (in alcuni casi addirittura completamente), perché mai il Giappone, che è tuttora messo molto meglio di noi, non dovrebbe essere in grado di gestire le Olimpiadi? L’ostilità sembra perciò avere motivazioni più emotive che reali, tant’è vero che non appena le gare sono iniziate tutti i giapponesi si sono incollati al televisore per seguirle e finora tutto sta funzionando perfettamente.

Nonostante questo indubbio successo di immagine, tuttavia, attualmente il paese del Sol Levante si trova nel pieno della quarta ondata, che è iniziata verso metà giugno e per numero di contagi sembra essere la peggiore di tutte, con quasi 10.000 nuovi casi al giorno, dovuti anche qui alla famigerata variante delta, di cui i funzionari sanitari hanno segnalato ben 26 nuove sotto-varianti. Tuttavia, va notato che il numero di morti è invece in drastico calo, essendo passato dagli oltre 110 al giorno di metà maggio (il valore più alto mai raggiunto) ad appena una dozzina.

Ciò si spiega col fatto che finalmente la campagna vaccinale ha iniziato a procedere a ritmo sostenuto: a metà maggio, infatti, meno del 2% della popolazione era stata vaccinata con entrambe le dosi, mentre oggi siamo intorno al 28%, come promesso dal premier Yoshihide Suga, che a inizio giugno aveva assicurato che entro la fine di luglio tutte le persone sopra i 65 anni sarebbero state vaccinate grazie all’inoculazione di un milione di vaccini al giorno. All’inizio, però, la distribuzione è stata molto lenta per problemi logistici e per la mancanza di personale sanitario, ma da metà giugno in poi c’è stata una netta accelerazione, che ha permesso di rimettersi in linea con le previsioni.

È davvero difficile capire le ragioni di questa involuzione di uno dei paesi modello nella lotta al virus, anche se per molti aspetti intorno al Giappone sembra esserci un allarmismo eccessivo, anch’esso, a sua volta, difficile da spiegare. Dopotutto, il suo tasso di mortalità da Covid è attualmente di 120 mpm, che è all’incirca lo stesso dei paesi più virtuosi d’Europa, dove il Giappone si collocherebbe al terzo posto, dopo le Far Oer (20) e l’Islanda (87) e prima della Norvegia (146), mentre è migliore di 17 volte rispetto all’Italia (2121) e addirittura di 26 volte rispetto all’attuale “maglia nera” Ungheria (3117). Anche il numero dei nuovi contagi, pur in forte crescita, è ancora nettamente inferiore a quello dei principali paesi europei.

Ciò che invece è davvero reale è che, se in termini assoluti il Giappone continua ad essere uno dei paesi che se la sta cavando meglio, in termini relativi è invece quello che ha registrato il peggioramento di gran lunga maggiore durante l’ultimo anno (a parte quello di Taiwan, che però è stato causato da un unico focolaio, peraltro eliminato in soli 45 giorni, ed è risultato così elevato – da 0,3 a 33 mpm, ovvero ben 110 volte maggiore rispetto a maggio 2020 – solo perché l’isola partiva da una mortalità pressoché nulla). Si è infatti passati da 4,1 mpm a inizio maggio 2020 fino agli attuali 120 mpm, il che significa che nel paese del Sol Levante la mortalità è aumentata di ben 30 volte in poco più di un anno, facendolo di fatto uscire dal gruppo degli altri paesi del Pacifico, in cui la mortalità è rimasta ovunque molto bassa (anche se pure in Corea del Sud c’è stato un graduale peggioramento, di circa 8 volte rispetto a maggio 2020, mentre in Nuova Zelanda e a Singapore la situazione è rimasta pressoché invariata, così come in Australia dopo lo spegnimento del focolaio di Melbourne a metà ottobre 2020).

Questo probabilmente spiega anche l’esagerato pessimismo di cui sopra, giacché è noto che pessimismo e ottimismo sono influenzati assai più dalla evoluzione di una data situazione che non dalla situazione in sé stessa. Ma da cosa è stata causata l’evoluzione, o meglio, l’involuzione della situazione giapponese?

Sempre secondo il già citato sondaggio della NHK, molti attribuiscono l’improvvisa ascesa dei contagi di fine 2020 all’iniziativa “Go To Travel”, lanciata dal governo per incentivare il turismo interno e far riprendere l’economia giapponese. Il progetto era stato approvato a luglio, quando Abe era ancora il primo ministro e i contagi sembravano sotto controllo. All’inizio in molti vi avevano aderito, grazie ai voucher e agli sconti applicati che permettevano di ottenere rimborsi fino a un massimo di 20 mila yen al giorno (circa 158 euro) e questo ha sicuramente contribuito a una maggiore circolazione del virus, tanto da costringere il governo a sospendere il programma.

A ciò si è poi sommato il fatto che il metodo dei cluster è molto efficace, però funziona solo finché il numero dei contagi è relativamente basso, anche perché la legge giapponese in materia di malattie infettive stabilisce che tutti i soggetti colpiti da una malattia considerata ad alto tasso di contagio devono essere ricoverati in ospedali anche se non ci si trova in presenza di sintomi. Perciò, quando il numero dei contagi è cresciuto, ciò ha finito per minare il sistema sanitario nazionale, che ha visto riempiti in breve tempo interi reparti negli ospedali, tanto che alla fine, a dispetto della legge, i governatori sono stati costretti a prenotare camere d’albergo e altre strutture per isolare i casi positivi meno gravi. Tuttavia, queste spiegazioni, per quanto certamente contengano una parte di verità, non sembrano sufficienti.

Il problema principale sembra infatti essere il grave ritardo con cui il Giappone ha iniziato la campagna vaccinale. Il ministro ad essa preposto, Taro Kono, ha attribuito la lentezza nella somministrazione dei vaccini al sistema molto rigido di approvazione dei farmaci del suo paese. Fino a metà giugno, infatti, l’unico vaccino approvato dalle autorità sanitarie era Pfizer-BioNtech, la cui fornitura dipende totalmente dagli stabilimenti europei. Ora si sta cercando di accelerare: il Giappone ha firmato un contatto con Pfizer per la fornitura di oltre 50 milioni di dosi che dovrebbero arrivare entro settembre 2021, mentre anche Moderna è stato approvato e AstraZeneca dovrebbe esserlo a breve, con l’esecutivo che ha già firmato i contratti per la fornitura, rispettivamente, di 50 e 60 milioni di dosi.

Sembra però verosimile che in ciò abbia influito anche un eccesso di ottimismo circa la tenuta del proprio sistema di contenimento: non a caso, anche gli altri paesi del Pacifico hanno tutti iniziato molto tardi la campagna vaccinale e sono tuttora abbastanza indietro, anche se solo Corea del Sud e Taiwan hanno finora avuto dei problemi (comunque non gravi come il Giappone), mentre Nuova Zelanda, Singapore e Australia, almeno per il momento, persistono nella loro felice eccezionalità.

SITOGRAFIA

https://www.japan.go.jp
https://www.mhlw.go.jp/stf/seisakunitsuite/bunya/0000164708_00079.html
https://www.adnkronos.com/covid-giappone-per-la-prima-volta-oltre-10mila-nuovi-casi-a-tokyo-record-di-contagi_3XWqBLY1gqYITlWu34G4xL
https://www.it.emb-japan.go.jp/itpr_it/covid-19_0707_WSJ.html
https://www.japantimes.co.jp/liveblogs/news/coronavirus-outbreak-updates/
https://statistichecoronavirus.it/coronavirus-giappone/
https://www.lastampa.it/topnews/primo-piano/2021/07/08/news/alta-densita-di-popolazione-solo-il-15-vaccinati-e-tanti-anziani-ora-il-covid-fa-paura-cosi-e-franato-il-modello-giappone-1.40476699
https://www.japan-guide.com/news/0053.html
https://japan.kantei.go.jp/98_abe/statement/202005/_00003.html




Dal Green-pass alla “normazione di emergenza”: vera libertà o “sgambetto” alla Costituzione?

Passaporto vaccinale, green-pass, stato di emergenza, tre cose all’apparenza ben distinte fra loro ma che, in realtà, sono legate da un sottile filo rosso, come risulterà chiaro al lettore dalla lettura del presente articolo. Purtroppo, invece, in Italia il dibattito pubblico – sia in televisione sia sulla carta stampata – si è soffermato principalmente su un singolo “albero”, il green-pass, perdendo del tutto di vista la “foresta”, ovvero la visione d’insieme ed il contesto. Eppure, per capire se nella gestione italiana della pandemia stiamo andando verso la vera libertà, come ci viene fatto credere dal Governo o, al contrario, ce ne stiamo sempre più allontanando è necessario allargare la prospettiva, non zoomare sui singoli dettagli. E il quadro che ne emerge (anche grazie all’aiuto dei vari esperti via via citati) non può che sollevare pesanti e motivati interrogativi che non riguardano questa volta la ‘mala gestio’ della pandemia – di cui questo sito ha ampiamente trattato nell’ultimo anno e mezzo – ma la democrazia e la libertà degli individui, l’uguaglianza sociale, l’impatto sull’economia, etc., tutti aspetti di cui da noi poco o nulla si parla.

Il passaporto vaccinale e l'”aparthaid dei vaccini”

I recenti dibattiti sui “passaporti vaccinali” e sul Green-pass – o certificazione formale/obbligatoria della vaccinazione – indicano un potenziale divario sociale sempre più ampio tra coloro che sono vaccinati e coloro che non lo sono. Quelli con la certificazione dell’immunizzazione Covid-19 potrebbero essere autorizzati a viaggiare, lavorare, andare in palestra, praticare sport, partecipare a eventi di intrattenimento, cenare nei ristoranti e, infine, tornare alla vita “normale”. Secondo Clare Wenham, della London School of Economics, una tale distinzione contribuirebbe alla creazione di un “sistema a due livelli” e, dato che “la Storia mostra che quando si creano divisioni all’interno della società ciò porta a disordini civili”, ritiene che ciò possa sfocia in una sorta di “apartheid del vaccino” [1]. Personalmente, sono più pessimista anche a causa dell’impatto economico del pass, e temo che si possa in futuro arrivare a proteste violente.

Si noti che l’idea dell'”aparthaid dei vaccini” non è certo un’invenzione dei media. Infatti, funzionari kenioti hanno accusato il Regno Unito di “apartheid vaccinale” a luglio, dopo che Londra ha aggiunto il paese dell’Africa orientale alla sua “lista rossa” – i 39 paesi in cui il Regno Unito vieta l’ingresso a chiunque sia stato all’interno dei loro confini nei 10 giorni precedenti [5]. La stragrande maggioranza si trova in America Latina e Africa, compresi paesi come il Ruanda, che hanno fatto molto meglio nel controllare la diffusione della pandemia rispetto al Regno Unito. Funzionari britannici affermano che il divieto è necessario per prevenire l’introduzione di varianti di Covid-19. I funzionari kenioti lo hanno visto invece come un esempio di un paese ad alto reddito che usa la pandemia per discriminare e hanno imposto una quarantena di due settimane a tutti i passeggeri provenienti o in transito attraverso il Regno Unito.

Gli esperti affermano che questo scontro sulla capacità di movimento delle persone potrebbe impallidire in confronto alle interruzioni che saranno causate dalla potenziale introduzione su larga scala di “passaporti vaccinali”. E gli sforzi emergenti per limitare i movimenti delle persone in base al fatto che abbiano ricevuto un vaccino contro il Covid-19 stanno aumentando le preoccupazioni per le disuguaglianze a livello mondiale che sono già state rivelate o esacerbate dalla pandemia. In effetti, alla maggior parte delle persone nel sud del mondo non è stato nemmeno offerto un vaccino. Dei circa 850 milioni di dosi di vaccino anti-Covid che sono state somministrate in un qualsiasi giorno di luglio, solo lo 0,1% è andato a persone nei paesi a basso reddito. “Non dovrebbe esserci nessun passaporto vaccinale fino a quando non saremo in grado di garantire un accesso equo per il vaccino”, ha affermato pertanto Joia Mukherjee, chief medical officer di Partners in Health, un’associazione globale senza scopo di lucro per la giustizia sociale [5].

Ma questo obiettivo sembra essere oggi ancora lontano. La pandemia di Covid-19 ha innescato una corsa mondiale ai vaccini. I governi ricchi che hanno investito in vaccini candidati hanno stipulato accordi bilaterali con gli sviluppatori che di fatto comportano la prenotazione di dosi di vaccino per i paesi a più alto reddito – un fenomeno noto come “nazionalismo dei vaccini” – lasciando potenzialmente le persone nei paesi poveri vulnerabili al Covid-19. Una risposta al nazionalismo dei vaccini è stata la creazione della “COVAX Facility”, una partnership internazionale che mira a sostenere finanziariamente i principali candidati al vaccino ed a garantire l’accesso ai vaccini per i paesi a basso reddito [6]. Settantanove paesi ad alto reddito sono membri COVAX. I loro governi aiuteranno a sostenere 92 paesi a basso reddito che altrimenti non potrebbero permettersi i vaccini contro il Covid-19. Molto bello, ma ciò non basta.

Di fatto, stiamo creando un’altra sovrastruttura o gerarchia coloniale di persone provenienti da paesi più ricchi che hanno accesso e paesi più poveri che non hanno accesso. Se ai cittadini dei paesi a basso reddito viene negato l’accesso – avvertono i critici del passaporto vaccinale – si acuirà il divario globale creato da alcuni paesi ad alto reddito che accumulano l’offerta mondiale di vaccini e, così facendo, si impedirà alle persone non vaccinate di avere accesso a beni e conoscenze, anche se le loro controparti provenienti da paesi a reddito più elevato ottengono un balzo in avanti nella ripresa. Inoltre, se i paesi o le agenzie internazionali stabiliscono un passaporto digitale, ad esempio le persone che non hanno accesso agli smartphone potrebbero soffrirne. Si potrebbe anche alimentare un aumento degli sforzi per falsificare i passaporti, come avviene già con il mercato sotterraneo dei certificati contraffatti per la febbre gialla che esiste nell’aeroporto nigeriano di Lagos, dove le card false costano solo 8,50 dollari [5].

Non solo più dell’80% delle dosi di vaccini anti-Covid sono andate a persone che vivono in paesi ad alto reddito, mentre solo l’1% delle persone che vivono in paesi poveri hanno ricevuto almeno una dose di vaccino. Ma i lavoratori asiatici che vivevano muovendosi da un continente all’altro sono stati fra i primi a perdere il lavoro a causa delle restrizioni negli spostamenti, mentre milioni di essi sono rimasti a casa senza la possibilità di guadagnarsi da vivere. Molti ignorano il fatto che i lavoratori migranti rappresentano una componente chiave della moderna economia. Ad esempio, negli Emirati Arabi Uniti ci sono 2,7 milioni di lavoratori indiani, 740.000 del Bangladesh e 560.000 delle Filippine [12]. Sebbene si stia cercando di tornare alla normalità, per questa classe di lavoratori l’incubo è ben lontano dal finire, anche perché il mondo occidentale non riconosce i vaccini cinesi e russi, nonostante l’autorizzazione dell’OMS.

Perché perfino l’OMS è contraria ai passaporti vaccinali

Come osserva l’esperta di diritti umani Kalla Tasneem, “il passaporto vaccinale proposto si concentra sullo stato di vaccinazione in cui vaccinato equivale a ‘sicuro’ e non vaccinato equivale a ‘pericoloso’. Questo indicatore binario fornisce le basi per dividere le popolazioni e controllare ciò che possono e non possono fare, fornendo essenzialmente una nuova base per la discriminazione e la disuguaglianza. Dividere le persone e i paesi in cose da fare e da non fare presenta un rischio nel suo potenziale di stabilire una polarizzazione ancora maggiore e divisioni sociali più profonde. [.. ] Le persone stanno spingendo per tornare a una vita di normalità nell’esistenza quotidiana. Ma dobbiamo chiederci che cos’è questa parvenza di normalità ed a chi è destinata. La distinzione tra persone vaccinate e non vaccinate potrebbe fornire un’altra base che perpetua l’ingiustizia, giustifica la discriminazione e controlla la libertà degli individui?”.

Inoltre, la Tasneem osserva: “L’OMS ha messo in guardia contro il rilascio di passaporti di immunità perché la loro accuratezza non può essere garantita, affermando che ‘attualmente non ci sono prove che le persone che si sono riprese dal Covid-19 e hanno anticorpi siano protette da una seconda infezione’. I vaccini sono temporanei, spiega Sarah Chan, bioeticista dell’Università di Edimburgo; la vaccinazione può fornire una certa protezione dal contrarre il Covid-19, ma non è efficace al 100% nel 100% degli individui. Inoltre, i vaccini approvati non impediscono la trasmissione, e si sa ancora poco della durata dell’immunità o della resistenza alle nuove varianti. La promessa delle vaccinazioni come mezzo efficace per gestire la pandemia e prevenire la trasmissione è discutibile, il che porta alla seguente domanda: vale la pena usare mezzi divisivi e potenzialmente discriminatori per verificare una vaccinazione?”.

L’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) ha preso una posizione distinta in merito ai passaporti vaccinali basata su questioni etiche, tecnologiche, legali e scientifiche e sollecita misure che ostacolino meno la libertà di movimento. Le considerazioni etiche riguardano la carenza globale di vaccini e l’ulteriore peggioramento delle disuguaglianze esistenti (sia in termini di accessibilità che di disponibilità di vaccini e test Covid-19). L’OMS attualmente scoraggia le autorità nazionali dall’imporre passaporti per le vaccinazioni Covid-19 [1]. Dicono che “ci sono ancora incognite critiche sull’efficacia della vaccinazione nel ridurre la trasmissione”. Inoltre, per implementare tali passaporti, i vaccini devono essere prima approvati dall’OMS garantendone la qualità e la disponibilità globale. Ciò è della massima importanza se si considera la moltitudine di attuali vaccini Covid-19 e candidati e le differenze nazionali nei vaccini adottati.

I Centri africani per il controllo e la prevenzione delle malattie e l’Organizzazione mondiale della sanità si sono uniti nello sforzo di respingere un passaporto vaccinale, con la portavoce dell’OMS Margaret Harris che cita già da molti mesi incertezze sul fatto che il vaccino prevenga la trasmissione, nonché preoccupazioni sull’equità di tale misura. Non a caso, la stessa OMS si è dichiarata contraria sia alla vaccinazione obbligatoria, se non in circostanze professionali specifiche (ma passaporti vaccinali e Green-pass non sono altro, di fatto, che una sorta di obbligo mascherato),  sia all’uso dei soli vaccini come arma per combattere la pandemia. John Nkengasong, direttore di Africa CDC, è stato ancora più diretto in una recente conferenza stampa: “La nostra posizione è molto semplice. Qualsiasi imposizione di un passaporto per le vaccinazioni creerà enormi disuguaglianze e le aggraverà ulteriormente” [5].

La pandemia ha evidenziato che, sebbene il virus non discrimini, lo stesso non si può dire per la prevenzione e la cura e per tutto ciò che a valle ne consegue, a cominciare dal passaporto vaccinale. Ciò può avere conseguenze catastrofiche. Sempre più scuole e luoghi di lavoro chiedono prove di determinate vaccinazioni o di vaccini antinfluenzali. Tuttavia, ci sono alcune cose che rendono l’introduzione della prova della vaccinazione contro il Covid-19 molto diversa dall’avere un libretto giallo che mostra che hai avuto un vaccino contro la febbre gialla. La prova di essere vaccinati è essenzialmente classificare le persone in base al loro stato rispetto al Covid-19 e creare una nuova misura per dividere gli abbienti ed i non abbienti, o gli “immunoprivilegiati” e gli “immunodeprivati” [8]. Si tratta di un unicum senza precedenti, eppure nessuno ne ha analizzato a fondo le possibili conseguenze per capire se la “toppa” sia peggiore del “buco”.

La restrizione più ampia su chi è autorizzato a viaggiare a livello regionale e internazionale, in particolare, alla fine potrebbe aggravare il danno economico della pandemia di Covid-19 nei paesi a basso e medio reddito e impedire a studenti, scienziati e molti altri di partecipare al mondo globalizzato, potenzialmente per gli anni a venire. Ma le cose sono, se possibile, ancora peggiori a livello nazionale, poiché esattamente come il divario economico si va allargando sia tra Paesi sia all’interno delle singole nazioni, anche il divario prodotto dalla campagna vaccinale – o vaccine divide, per dirla alla anglosassone – non è meno rilevante. Alcuni paesi, come Israele e l’Italia, stanno introducendo “di getto” normative nazionali che consentono alle persone vaccinate di accedere a spazi, come palestre e ristoranti, vietati alle persone che non sono state vaccinate. Ciò ha conseguenze potenzialmente devastanti e del tutto inesplorate.

Il Green-pass fra (poche) luci e (tante) ombre

Israele ha emesso un Green-pass che consente alle persone di frequentare corsi di ginnastica, teatri, concerti e hotel; l’uso di tali certificati è esteso a coloro che desiderano sedersi all’interno di ristoranti e bar. Tuttavia, mentre questo approccio ha già consentito a circa 5 milioni di cittadini di tornare a una certa “normalità”, il processo di attuazione e applicazione dell’uso di questi passaporti rimane problematico, principalmente per gli aspetti logistici, legali ed etici. Il passaporto verde può essere integrato con test rapidi. Il governo polacco ha emesso un codice QR che consente una versione scaricabile di un documento di conferma del vaccino, che garantisce “i diritti a cui hanno diritto le persone vaccinate”. Oltre alle misure nazionali, grandi attori privati ​​(ad esempio il tour operator britannico Sage e British Airways) stanno valutando l’introduzione di Green-pass o passaporti vaccinali. Gli assicuratori di viaggio possono operare un sistema a due livelli che addebita tariffe più elevate per gli individui non vaccinati.

Ma l’idea sta sollevando serie domande legali ed etiche [10]: le aziende possono richiedere a dipendenti o clienti di fornire prove, digitali o di altro tipo, di essere stati vaccinati quando il vaccino contro il coronavirus è apparentemente volontario? Le scuole possono richiedere che gli studenti dimostrino di essere stati iniettati con quella che è ancora ufficialmente una profilassi sperimentale allo stesso modo in cui richiedono vaccini approvati da tempo per il morbillo e la poliomielite? E infine, i governi possono imporre le vaccinazioni o ostacolare le imprese o le istituzioni educative che richiedono prove di vaccinazione? Gli esperti legali dicono che la risposta a tutte queste domande è generalmente sì, anche se in una società così divisa, i politici sono già pronti a combattere. E gli stati potrebbero emanare una legge che vieta la discriminazione basata sullo stato di vaccinazione (mentre l’Italia fa proprio l’opposto).

In mancanza di tale legge, le aziende possono fare quel che vogliono ed i cittadini che non sono vaccinati ne pagano le conseguenze. Per questo, giocando d’anticipo, negli Stati Uniti il governatore della Florida Ron DeSantis ha preventivamente vietato alle aziende di richiedere l’esibizione di Green-pass o certificati vaccinali. “È completamente inaccettabile che il governo o il settore privato ti impongano l’obbligo di mostrare la prova del vaccino per essere semplicemente in grado di partecipare alla società normale”, ha affermato DeSantis [11]. “Proprio come è una tua scelta possedere o meno un’auto, dovremmo avere la possibilità di scegliere cosa vogliamo fare della nostra vita”, osserva un semplice cittadino, “i Green-pass ci fanno sentire come in una società discriminante. È come indossare la lettera scarlatta. È pazzesco”. E la politica non fa che polarizzare i cittadini su posizioni estreme, invece di smorzare i toni.

Non mancano, inoltre, critiche di tipo legale per il Green-pass, che comunque – a differenza di quanto pensano alcune persone – non è affatto anticostituzionale. Infatti, l’articolo 16 della Costituzione stabilisce che “ogni cittadino può circolare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità”. I dubbi a riguardo sono stati spazzati via da due dei massimi costituzionalisti italiani, Giovanni Maria Flick e Sabino Cassese, entrambi  docenti universitari ed a lungo giudici costituzionali. Come spiega infatti l’avv. Angelo Greco, che ha studiato le loro tesi, “esiste un interesse complessivo alla salute che giustifica la compressione delle scelte dei singoli, sia che si tratti di vietare l’ingresso nei pub a chi non è vaccinato sia che si voglia imporre per legge la profilassi vaccinale a intere categorie di lavoratori, come per esempio gli insegnanti oppure i sanitari” [15].

Infine, come osservavano Sesa et al. sul prestigioso British Medical Journal già nel mese di marzo, anche “il ruolo dei Green-pass  per contrastare l’esitazione vaccinale rimane problematico. Coloro che resistono ai programmi di vaccinazione (perché no-vax o perché non convinti dalla “narrazione ufficiale” a senso unico che esalta i vantaggi dei vaccini sperimentali nascondendone quasi tutti gli svantaggi, ndr) possono finire per considerare i Green-pass come misure coercitive del piano di vaccinazione globale, usate per controllare la popolazione e violare la privacy. E la mancanza di prove coerenti di efficacia dei vaccini nel contrastare la trasmissione dell’infezione evidenziata dall’OMS compromette il messaggio del vaccinarsi” [1]. In effetti, ormai sappiamo che i vaccini anti-Covid attuali sono “leaky” [3], cioè permettono l’infezione di terzi (infezioni secondarie)  da parte dei vaccinati (infettatisi) in circa un terzo dei casi, se non più [4].

Per non parlare dell’impatto economico del Green-pass, da tutti trascurato. Non è infatti prevista nessuna analisi preventiva dell’impatto economico delle misure legislative sui generis, cioè non strettamente economiche, adottate. Ma ciò non significa che il loro impatto non possa essere grande, potenzialmente enorme. Infatti, limitare l’ingresso a locali, ristoranti, stadi e trasporti in pratica ai soli vaccinati (quale famiglia spenderà 100 euro di tamponi antigenici solo per sedersi a tavola?) impatta eccome sulle attività e, di conseguenza, sull’economia del Paese, che già esce dalla pandemia fragilissima e con il rischio di superare pericolose soglie critiche, come discusso in un mio precedente articolo [17]. Il solo annuncio del Green-pass da parte del Governo ha fatto cancellare in poche ore circa il 40% delle prenotazioni alberghiere! E questo sorvolando sul fatto che, ancora oggi, gran parte della popolazione italiana – quand’anche si vaccinasse come da auspici del Governo – non è materialmente attrezzata per entrare in possesso del Green-pass [13], con tutte le conseguenze (e possibili discriminazioni) del caso.

Le prove di vaccinazione: verso un remake della “lettera scarlatta”?

Alcuni giorni fa è stato chiesto ai cittadini statunitensi, in un sondaggio [2], cosa ne pensassero del loro equivalente del nostro Green-pass, da usare in ristoranti, matrimoni ed eventi sportivi. Il 53% ha risposto che esso è benvenuto per la tranquillità nel viaggiare e nel partecipare ad eventi, mentre il 44% del campione ha risposto di essere contro il passaporto vaccinale perché esso infrange i propri diritti; il restante 3% si è dichiarato più incerto, avendo risposto “dipende”. Ma, come scrive Palma Kristi su Boston.com, “è incredibile come le persone non si rendano conto che si sta creando un pericoloso precedente. Una volta che abbiamo iniziato a mostrare il nostro passaporto vaccinale, quando avrà fine la cosa? Sarà necessario esibirlo anche per altre situazioni, ad esempio per i malati di mente o per chi è stato arrestato o condannato? Dopotutto, anche loro sono persone ‘pericolose’ per la società” [2].

Immagina un futuro distopico in cui la prova che sei stato vaccinato contro il Covid-19 potrebbe dettare la tua libertà, l’accesso agli spazi pubblici, il lavoro e altre attività che comportano il contatto con altre persone. Come osserva Kalla Tasneem, “questa distopia potrebbe non essere così inverosimile e potrebbe diventare una realtà mentre il mondo cerca di riconquistare un senso di normalità. Non sarebbe la prima volta che la libertà per alcuni gruppi di persone è determinata da stratificazioni sociali e disuguaglianze strutturali profondamente radicate. La disuguaglianza e la stratificazione sociale hanno svolto un ruolo enorme nel modo in cui i paesi sono stati colpiti e hanno affrontato la pandemia. Il 2021 ha inaugurato la fase di vaccinazione con una serie di nuove preoccupazioni per quanto riguarda la gestione della pandemia globale, una delle quali è la disuguaglianza nell’accesso alle vaccinazioni”.

Questa nuova realtà propone un sistema in cui coloro che scelgono di non essere vaccinati – o non hanno accesso ai vaccini – avranno la loro libertà ridotta in nome della salute pubblica. Anche se l’introduzione della verifica della vaccinazione è stata discussa fin dal 2020, il 2021 sembra essere l’anno che renderà il Green-pass (o la prova della vaccinazione) una realtà. Ma in che modo i paesi intendono affrontare il rischio di dividere le persone in vaccinate e non vaccinate e garantire che ciò non contribuisca ai modelli esistenti di privilegio, svantaggio e discriminazione? Come può la società garantire che un’altra divisione binaria non perpetui la disuguaglianza già esistente rafforzando la discriminazione basata sullo stato di salute di una persona? Gli impatti dei Green-pass e dei passaporti vaccinali sono di vasta portata e potrebbero aggravare le divisioni sociali. Problemi di razza, occupazione, precedenti penali, status di immigrato e altre divisioni nella società potrebbero essere esacerbati dalla necessità di dimostrare la tua vaccinazione.

L’Italia sta spingendo molto per vaccinare i cittadini sperando che il Green-pass sia la soluzione sicura per riaprire tutto, sbloccare l’economia e ripristinare una parvenza di normalità. Peccato, però, che nonostante le promesse più o meno implicite nell’adozione del Green-pass, nel nostro paese si stia andando nella direzione opposta, un po’ come se la mano sinistra non sapesse quel che fa la mano destra. Un gran numero di persone, guarite dal Covid o vaccinate, hanno segnalato falle burocratiche e difficoltà a ottenere il Green-pass al quale avrebbero diritto; oppure l’hanno ricevuto ma è sbagliato. Alcune storie sono fra l’assurdo e l’inverosimile, e ricevere un aiuto via telefono è quasi impossibile [6]. Inoltre, per la serie A di basket – solo per fare un esempio – la percentuale di occupazione dei palazzetti per la prossima stagione è simile a quella, bassissima, di quando non vi erano vaccini e Green-pass; mentre in Sardegna e Puglia molte discoteche sono di fatto operative, ma per i Dpcm non potrebbero. Forse qualcosa non torna…

Insomma, Green-pass e passaporti vaccinali sembrano porre più problemi di quanti non ne risolvano. Non stupisce, quindi, che negli Stati Uniti molti stati li abbiano messo al bando, citando preoccupazioni per la privacy (da noi si è invece giunti al paradosso di bocciare a priori, con la scusa della privacy, un’app come ad es. quella di tracciamento inglese, assai efficace nel contenere i contagi come dimostrano i dati di questi ultime settimane, e non invece il Green-pass, che al contrario la viola palesemente) e per l’intrusione nella decisione delle persone di vaccinarsi o mano. Se si considera che su una tematica così importante si dovrebbe cercare l’unità e non la divisione, si può almeno intuire il danno prodotto dal Green-pass, che è una soluzione “facile” per i Governi deboli e incapaci di offrire reali soluzioni alternative – o almeno complementari – ai vaccini, che però oggi esistono eccome (ma ne parlerò in un futuro articolo).

Vorrei, infine, sottolineare ancora una volta come tutto il presente dibattito riguardi non dei vaccini normali, bensì dei vaccini “sperimentali”, dei quali non si conoscono gli effetti a medio e soprattutto a lungo termine (ciò è vero sia in generale, poiché non è passato abbastanza tempo per poterli osservare, sia in particolare per quanto riguarda i vaccini a mRNA, mai usati in precedenza per vaccinazioni sull’uomo) e i danni che si stanno scoprendo grazie all’esame dei vaccinati da parte di ricercatori indipendenti (ne parlerò in un futuro articolo) sono piuttosto inquietanti. Si noti, inoltre, che i dati tratti dal database VAERS degli effetti avversi mostrano che ai vaccini “normali” tutti insieme sono associate negli USA 4.182 segnalazioni di morti per “presunti effetti collaterali” in 20 anni, mentre ai vaccini sperimentali anti-Covid che oggi si vogliono obbligare indirettamente con l’escamotage del Green-pass è associato lo stesso numero di morti (4.178) per “presunti effetti collaterali” nel giro di pochi mesi di vaccinazioni [18]. Ciò fa riflettere.

La Costituzione non prevede la sua auto-sospensione per motivi sanitari

Se i Green-pass ed i passaporti vaccinali possono avervi fornito l’idea che il Governo possieda la vostra vita, il vostro corpo e la vostra libertà, allora ancor più male vi farà venire a conoscenza dell’argomento che tratterò ora, che è stato molto trascurato dai media nonostante la sua enorme importanza. Il perdurare a oltranza, in Italia, dello “stato di emergenza” deliberato dal Governo pone sempre più sul tavolo il tema – del tutto ignorato dai talk-show televisivi, più interessati dalla questione del green pass – sul punto di equilibrio fra il diritto alla salute e gli altri diritti della persona garantiti dalla Costituzione.

In Italia, con la “scusa” della pandemia, la situazione sta diventando così restrittiva delle libertà da ricordare per certi versi lo status della popolazione in regimi autoritari che noi abitualmente biasimiamo, tanto che perfino una mia carissima amica cinese che vive da oltre vent’anni nel nostro Paese mi ha confidato: “Ora in Italia ti assicuro che è peggio che in Cina!”. In effetti, non posso darle torto. Ma la questione è, in realtà, assai più generale che non il cercare di stabilire la mera costituzionalità o meno del singolo strumento (ad es. il Green-pass) e dei singoli decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri (i famosi Dpcm). È solo allargando la prospettiva che si coglie l’assoluta anomalia della situazione attuale, dato che la nostra Costituzione non prevede lo “stato di emergenza”. Ho per questo deciso di farci illuminare, a riguardo, da un esperto come Angelo Di Lorenzo, avvocato penalista del Foro di Roma. Ciò, beninteso, non implica che io condivida posizioni negazioniste che potrebbero avere eventualmente animato alcuni suoi colleghi.

Come spiega Di Lorenzo in una sua relazione orale disponibile su YouTube [16], “la cosiddetta ‘normazione di emergenza’ non ha solo la finalità di regolare le questioni di vita sociale, politica ed economica in un Paese in un momento di crisi, ma ha la pretesa di entrare – come poi in effetti è entrata – all’interno delle nostre coscienze, all’interno delle nostre inclinazioni e pretende di esercitare per nostro conto diritti personalissimi e attività che poi alla fine ci qualificano come persone e ci consentono di realizzarci come singoli sia nelle formazioni sociali cui apparteniamo o sentiamo la necessità di appartenere, sia anche come individui. Ed allora, fino al 31 gennaio del 2020, la Costituzione era la pietra in cui trovare scolpite quelle che sono le regole fondamentali del nostro convivere civile e che caratterizzano, in qualche modo, la Repubblica Italiana e i diritti che ciascuno di noi gode nell’abbraccio ordinamentale”.

Ma poi le cose sono – lo sappiamo tutti – all’improvviso cambiate, come chiarisce però molto bene l’avvocato: “Dal 31 gennaio del 2020 si è introdotto, con un’azione d’impeto mossa da una sorta di ‘impreparazione e ignoranza congenita’, questo nuovo modello sociale che avrebbe dovuto in qualche maniera farci tornare Covid free – o potenzialmente tali – nel giro di brevissimo tempo: se pensate che il primo provvedimento a carattere nazionale era del 4 di marzo del 2020 e le prime misure previste in quel provvedimento dovevano cessare il 3 aprile del 2020, siamo nel giro di più o meno 30 giorni. E questo nuovo modello era basato sulla logica del lockdown e sulla possibilità di derogare alle regole, ai valori ed ai principi che hanno regolato il nostro convivere civile fino a quel momento”.

Come ci illustra ancora Di Lorenzo con una chiara immagine, in Italia con la pandemia di Covid-19 “la normazione di emergenza ha scalzato con uno ‘sgambetto a tradimento’ la Costituzione dall’apice della cosiddetta ‘gerarchia delle fonti’. Immaginate la gerarchia delle fonti, le quali altro non sono che la sorgente da cui vengono prodotte le norme, come un sistema gerarchico piramidale: all’apice di questa struttura piramidale – quasi militare – ci sono la Costituzione e le leggi costituzionali. Dalla Costituzione, poi, promanano – e vengono rilasciati a cascata – i semi dei princìpi, dei valori e dei diritti che vanno a costituire le regole. E questi semi vanno a informare le fonti sotto ordinate nella suddetta piramide: quindi, sotto la Costituzione troviamo le leggi generali di ambito europeo internazionalmente riconosciute e poi le leggi ordinarie, poi le leggi regionali e così, via via, a scendere fino alla base di questa struttura, che sono gli usi e le consuetudini. Ma tutte queste fonti sono generate dallo stesso seme, e rispettose dello stesso metaprincipio, di modo che l’ordinamento si presenti come un sistema organico e coerente”.

In sostanza, il Governo ha fatto una vera e propria “deroga” alla Costituzione e alle leggi ordinarie. Infatti, come chiarisce Di Lorenzo nel suo intervento, “la Costituzione non lo prevede! Quindi, è necessariamente al di fuori o al di sotto della Costituzione. E che non lo preveda non è certo una lacuna, un caso, se pensate che la Costituzione in generale è il collettore di quanto c’è di buono in tutti gli approcci ideologici e che i nostri ‘padri fondatori’ l’hanno voluta, pensata e scritta in un’assemblea costituente che ci ha regalato questo documento destinato ad essere perpetuo proprio perché fluido ed omogeneo, e quindi idoneo ad essere applicato in tutti i contesti storici, così da garantirne, appunto, la perpetuità e la contemporaneità. Siamo alla fine della Seconda guerra mondiale, nel 1948, ed i padri fondatori vengono da una esperienza bellica, ma soprattutto alcuni di loro hanno vissuto anche la pandemia di ‘Spagnola’ che aveva colpito l’intero mondo – non solo l’Europa – alla fine della Prima guerra mondiale, dal 1918 al 1920, mietendo dai 50 ai 100 milioni di morti con un tasso di letalità stimato dal 3 al 4 percento”.

E continua l’avvocato: “nonostante tutto ciò, non si è voluto inserire nella Costituzione un meccanismo di auto-sospensione del proprio ordine costituzionale in presenza di un evento pandemico di natura sanitaria. Avrebbero potuto farlo e non l’hanno fatto, come invece però hanno fatto con l’unica eccezione che prevede la Costituzione: la dichiarazione dello stato di guerra. [..] Se la Costituzione non prevede questo meccanismo di auto-sospensione, è ovvio e naturale che nessuna legge ad essa subordinata possa disporre l’elusione o l’esclusione della sua immanenza, e infatti nessuna legge lo prevede: nemmeno la legge che è attualmente in vigore in materia sanitaria, che è il Testo Unico Sanitario, ovvero 394 articoli ricompresi in un Regio decreto del 1934. Questo è stato certamente aggiornato con la normativa contemporanea, ma in tale normativa di carattere generale – che ha il compito di indicare le linee guida e l’attività l’azione dello Stato in materia sanitaria – non si prevede un meccanismo di questo tipo”.

L’anomalia italiana dello “stato di emergenza” di fatto illimitato

In effetti, come vi sarà a questo punto chiaro, quando nel nostro Paese è scoppiata la pandemia, si è effettuata una forzatura ricorrendo alla normazione di emergenza per “mettere una toppa” all’impreparazione, all’ignoranza (nel senso di “non sapere”) e alla mancanza di competenze specifiche di alcune strutture preposte tradizionalmente alla gestione delle emergenze. In pratica, si è cercato in tutta fretta – creando però un precedente pericolosissimo – uno strumento che permettesse di operare al di fuori del controllo e dei limiti costituzionali. Il problema è che, senza che la gente neppure se ne renda conto – trattandosi di un argomento evidentemente tecnico-legale – nel suo utilizzo si sta andando ben al di là dei limiti temporali e dell’ambito previsto dalla legge per lo “stato di emergenza”.

Come spiega molto bene Di Lorenzo nel suo intervento, “la dichiarazione dello stato di emergenza nazionale è prevista dal codice della Protezione Civile: è il Decreto legislativo n.1 del 2 gennaio del 2018. E quello che effettivamente è stato fatto con questa dichiarazione dello stato di emergenza è costituire una sorta di fonte del diritto subdola, perché la si è utilizzata in una maniera impropria. L’unica vera attribuzione che la legge dà alla dichiarazione dello stato di emergenza è una competenza funzionale: quella di attivare una mobilitazione straordinaria del Servizio nazionale di Protezione Civile in presenza di una delle condizioni calamitose indicate dalla legge, in particolare dall’articolo 7 del Codice della Protezione Civile, il quale prevede tre tipi di calamità: le prime due riguardano le regioni; la terza – quella che a noi interessa – ovvero la lettera c, riguarda invece gli eventi calamitosi naturali o derivanti dall’attività dell’uomo che hanno una rilevanza nazionale in questo  momento”.

Di Lorenzo è chiaro: “le particolari attività di protezione civile sono indicate dalla stessa norma.’Protezione Civile’ significa previsione, prevenzione e gestione dell’emergenza, oltre alla soluzione dell’emergenza. Ma stendiamo un velo pietoso sulla soluzione dell’emergenza. Per gestione dell’emergenza si intende qualsiasi tipo di attività coordinata, integrata di soccorso e assistenza alla popolazione. Le attività di previsione riguardano, invece, l’identificazione degli scenari di rischio possibile, mentre le attività di prevenzione sono deputate al contenimento e ad evitare i danni conseguenti all’emergenza. Tutto ciò è alla base dell’attività conseguente la dichiarazione dello stato di emergenza, ma in tutti e quattro i decreti che hanno disposto o prorogato lo stato di emergenza non vi è stato alcun riferimento alla Costituzione, a una norma costituzionale, sebbene in tutti e quattro venga indicata la necessità di attribuzione – quasi un’auto attribuzione – di poteri e mezzi straordinari per far fronte all’emergenza sanitaria”.

Come osserva Di Lorenzo, “ciò costituisce quel vulnus di tutta la normazione emergenziale, perché in questa attribuzione di mezzi e poteri straordinari si dimentica di inserire un suffisso decisivo: ‘di protezione civile’. Ciò apre scenari vastissimi di incompatibilità costituzionale, proprio perché la dichiarazione dello stato di emergenza è stata utilizzata in questo modo impropriamente, oltre i propri limiti, oltre i propri fini e oltre le attribuzioni che la legge dà ad essa, di modo che la dichiarazione dello stato di emergenza è stata considerata come quella fonte del diritto che potesse in qualche modo generare le norme per derogare a quelle provenienti dalla fonti sovraordinate, quindi Costituzione e leggi europee. [..] Sebbene sia consentito attraverso le ordinanze speciali di Protezione Civile una deroga alle leggi in vigore – e stiamo parlando di leggi, non di fonti sovraordinate alle leggi – è necessario che questa eventuale deroga con le ordinanze speciali di protezione civile comunque rispetti i principi generali dell’ordinamento italiano”.

Insomma, lo stato di emergenza nazionale ha l’unica funzione di innescare l’azione di protezione civile, ma poi ci si è allargati parecchio, per usare un gentile eufemismo. E, come sottolinea Di Lorenzo, “se pensiamo che tutto ciò è davanti ai nostri occhi e si traduce nella nostra vita reale, basta aprire la Costituzione, chiudere gli occhi e far cadere il dito in un punto a caso dall’articolo 2 all’articolo 42. Vedrete che questo cadrà certamente su un diritto che viene affievolito dalla normativa emergenziale, compreso anche quello del diritto alla salute, perché se è vero che la lotta alla pandemia in qualche modo rientra nella tutela del diritto alla salute, non è vero il contrario: ovvero, la tutela del diritto alla salute non si esaurisce nella lotta alla pandemia, e questo è un aspetto di compatibilità costituzionale dell’intera normazione emergenziale che va ad abbracciare tutti gli altri aspetti coinvolti, anche e soprattutto quelli sanitari”.

Di Lorenzo spiega poi come l’anomalia italiana riguardi anche la durata dello stato di emergenza: “Il decreto legislativo n.1 del 2018 ci dice che, quando il Consiglio dei ministri delibera lo ‘stato di emergenza nazionale’, ne fissa la relativa estensione temporale l’articolo 24 comma 3, il quale prosegue dicendo che la durata dello stato di emergenza non può essere superiore a 12 mesi e può essere prorogabile per non più di ulteriori 12 mesi. Dalla lettura della norma, quindi, si evince una struttura ‘bifasica’ del termine della durata dello stato di emergenza: una prima fase –  diciamo così – ‘costitutiva e genetica’ che non può durare più di 12 mesi, ed una seconda fase eventuale e di proroga che non può durare per ulteriori massimo 12 mesi”. Nella sua relazione, Di Lorenzo mostra che la prima di queste due fasi è stata, di fatto, fissata dal Governo in 6 mesi (dal 29 di gennaio al 31 di luglio 2020), per cui lo stato di emergenza, con le proroghe, avrebbe dovuto terminare dopo altri 12 mesi, il 31 luglio 2021. Invece, esso è stato di recente ri-prorogato fino al 31/12/21. Il lettore può, a questo punto, facilmente trarre le proprie conclusioni.

Riferimenti bibliografici

[1] Sesa G. et al., “Covid-19 Vaccine passports and vaccine hesitancy: freedom or control?”, The British Medical Journal, 30 marzo 2021.

[2]  Kristi P., “Be ready to pay the consequences: Vaccine passports leave Boston.com readers divided”, Boston.com, 4 maggio 2021.

[3]  Menichella M., “I vaccini anti-COVID: perché ci attende un futuro pieno di incognite”, Fondazione David Hume, 10 marzo 2021.

[4]  Menichella M., “Quale potrebbe essere l’impatto del COVID-19 in Italia nel prossimo autunno-inverno?”, Fondazione David Hume, 28 giugno 2021.

[5] Green A., “How ‘vaccine passports’ could exacerbate global inequities”, Devex, 15 luglio 2021.

[6]  Fiori D., “Tutte le falle del Green pass: da chi non riceve il codice ai guariti con il certificato sbagliato. La corsa a risolvere le criticità prima del decreto”, Il Fatto Quotidiano, 21 luglio 2021.

[7]  Menichella M., ” ‘Pillole’ anti-COVID: quelle che non vi hanno mai dato”, Fondazione David Hume, 25 marzo 2021.

[8]  Kalla T., “Passport or Affidavit: How Vaccine Passports Could Further Divide Populations and Perpetuate Cycles of Inequalities”, Human Rights Pulse, 21 maggio 2021.

[9]  Aratani L., “US split on vaccine passports as country aims for return to normalcy”, The Guardian, 29 aprile 2021.

[10]  Stolberg S.G., “Vaccine passports are the next coronavirus divide?”, Financial Review, 7 aprile 2021.

[11]  Smith T., “Vaccine Passports: ‘Scarlet Letter’ Or Just The Ticket?”, NPR,  9 aprile 2021.

[12]  Dagia N., “Vaccine Passports: Ticket to Freedom or Path to a Divided World?”, The Diplomat, 12 luglio 2021.

[13]  Redazione cronaca di Viareggio, “L’odissea per arrivare al Green pass”, La Nazione, 24 luglio 2021.

[14]  Borga L., “Green pass, 20 milioni ancora esclusi: si teme impatto sull’economia”, SkyTG24, 20 luglio 2021.

[15]  Greco A., “Il Green pass e il vaccino obbligatorio sono costituzionali?”, YouTube, 24 luglio 2021. https://www.youtube.com/watch?v=kbNRdYq0XBo

[16]  Di Lorenzo A., Relazione fatta al Congresso di “Mille Avvocati e Mille medici per la Costituzione” – Verona, 17-18 aprile 2021, e pubblicata su YouTube. https://www.youtube.com/watch?v=f9c04QF3c_E&t=227s

[17]  Menichella M., “Il ‘boom’ dei prezzi e l’impatto del lockdown: l’Italia rischia ora la ‘tempesta perfetta’ “, Fondazione David Hume, 21 aprile 2021.

[18]  AFP USA, “US Government data does not show Covid-19 vaccine death tall”, AFP Fact Check, 19 maggio 2021.




Covid, perché questa Babele informativa?

Che ci sia un conflitto fra favorevoli e ostili alla vaccinazione sta nell’ordine delle cose. Nessuno, infatti, può prevedere completamente le conseguenze delle varie linee di condotta possibili. Inoltre, anche ammesso che tutte le conseguenze siano accuratamente prevedibili, non esiste alcun punto di equilibrio ovvio fra i “beni” che si vogliono tutelare: salute, diritto al lavoro, socialità, libertà di movimento, democrazia, eccetera. E infatti siamo divisi fra quanti ritengono che stiamo dando troppa importanza alla salute, e quanti ritengono che ne stiamo dando troppo poca. Può succedere così che, su certi punti (green pass), Giorgia Meloni sembri pensarla come il filosofo Cacciari, e su altri (obbligo di vaccinazione per i lavoratori) Salvini sembri pensarla come il capo della Cgil Landini.

Questo stato di anarchia del pensiero non deve sorprenderci troppo. Le società democratiche sono per loro natura iper-pluraliste e, quanto alla comprensione del virus e dell’epidemia, le scienze medico-sociali operano con margini di incertezza fortissimi.

E tuttavia c’è, nel modo confuso e cacofonico in cui parliamo di pandemia, vaccinazione, libertà, economia, qualcosa di non ovvio e non giustificato: la proliferazione di credenze false e di tesi tendenziose. Perché è vero che sono tantissime le cose che non sappiamo, ma sono anche parecchie – e importanti – le cose che sappiamo, o di cui siamo ragionevolmente sicuri. Quello cui assistiamo, invece, è la diffusione, anche da parte delle autorità politiche e dei mass media, di informazioni poco chiare, ambigue, fuorvianti, talora semplicemente false. Sicché oggi non esiste un minimo comune denominatore di informazioni condivise da tutti o, perlomeno, dalla stragrande maggioranza della popolazione.

Vorrei fare tre esempi.

Primo: i completamente vaccinati possono infettarsi?

Molti credono di no. E c’è persino chi dice che, poiché sono protetti dalla vaccinazione, i vaccinati non possono imporre alcuna restrizione nei confronti dei non vaccinati (se sono vaccinato, non posso temere il contatto con un non vaccinato). Non solo: se sono immune in quanto completamente vaccinato, non ho alcun bisogno – per proteggermi – di usare la mascherina, né all’aperto né al chiuso.

Bene, questa è una credenza falsa, e lo sappiamo non da ieri, ma fin dall’inizio della campagna vaccinale. Perché è così diffusa? Perché così raramente viene detta la verità, e cioè che il vaccino protegge dall’infezione molto meno di quanto protegga dalla morte o dall’ospedalizzazione?

Fondamentalmente perché pensare di essere invulnerabili è rassicurante (per i vaccinati). E forse anche perché le autorità politico-sanitarie hanno ritenuto che esaltare le virtù del vaccino avrebbe favorito la campagna vaccinale e la ripresa dell’economia, e poco hanno badato alla ovvia obiezione: se non dici tutta la verità sui limiti dei vaccini, i vaccinati prenderanno la palla al balzo per abbassare la guardia.

Secondo: anche i completamente vaccinati, se positivi, possono contagiare gli altri?

Gli scienziati, in modo sostanzialmente unanime, rispondono di sì, aggiungendo che – fortunatamente – il contagio dovrebbe verificarsi con minore probabilità. Il premier Draghi, invece, dice di no, pensando di rassicurare tutti, vaccinati e no. Forse il retropensiero è che se si dicesse verità (anche i vaccinati possono contagiare) la distinzione fra i buoni (vaccinati) e i cattivi (non vaccinati) sarebbe meno netta, e la campagna vaccinale rischierebbe di perdere appeal.

Terzo: siamo a un passo dall’immunità di gregge?

Molti politici (ultimo in ordine di tempo: l’assessore alla sanità del Lazio) credono o fingono di credere di sì. Anche alcuni giornalisti, particolarmente solerti nel promuovere la campagna vaccinale, ne sembrano convinti.

Invece no. Per qualsiasi epidemiologo dotato di una calcolatrice da tavolo è evidente che, con la variante delta e i vaccini attuali (che non sono sterilizzanti) è praticamente impossibile. Se R0 è vicino a 7, si dovrebbe vaccinare con vaccini sterilizzanti (che non abbiamo) almeno l’85% della popolazione, obiettivo chiaramente irraggiungibile senza un vaccino per i bambini e senza obbligo vaccinale.

Che cosa hanno in comune queste tre false e assai diffuse credenze?

Essenzialmente una cosa: ci rassicurano, perché nascondono i lati più inquietanti dell’epidemia. Ma perché nasconderli?

Non lo so. Forse per non rattristare le nostre vacanze. Forse per prolungare il più a lungo possibile il periodo di apertura delle attività. Forse per darci una speranza nel futuro.

Io però vedo anche un’altra spiegazione, meno tranquillizzante. Forse il governo, sulla gestione dell’epidemia, si è già rassegnato a ripetere il film dell’anno scorso, quando il governo Conte scelse di non intervenire durante l’estate e di non preparare in alcun modo il rientro dalle vacanze. Il mix era ed è chiarissimo, ieri come oggi: tamponi insufficienti, nessuna messa in sicurezza delle scuole, nessun rafforzamento del trasporto locale, nessuna riorganizzazione dell’assistenza domiciliare, nessuna app (funzionante) per il tracciamento elettronico dei contatti. Tutte cose che richiedono molti mesi, e non possono certo essere realizzate all’ultimo momento, per di più in agosto.

Con un’importante differenza, fra oggi e ieri. Oggi la politica può brandire l’arma del vaccino, e ha assoluto bisogno di farci credere che basterà a fermare l’epidemia (o a trasformarla in un incomodo con cui potremo convivere), e che se le cose andranno male sarà essenzialmente colpa nostra, che non ci saremo vaccinati in numero sufficiente.

Purtroppo, però, la differenza fra il rientro di quest’anno e quello dell’anno scorso non è solo il vaccino ma è la variante delta, molto più trasmissibile di quelle prevalenti un anno fa (R0 vicino a 7, anziché vicino a 3). E non è tutto: se compariamo il luglio di quest’anno con il luglio dell’anno scorso dobbiamo registrare che il numero di soggetti contagiati è circa 5 volte quello di un anno fa, e il valore di Rt è drammaticamente più alto (prossimo a 1.5, un valore catastrofico, mentre un anno fa fluttuava nei pressi di 1).

Insomma, tutti gli indicatori segnalano che la quarta ondata è in corso dai primi di luglio. La campagna vaccinale è, colpevolmente, l’unica vera arma messa in campo. Usiamola, ma per favore smettiamola di demonizzare i dubbiosi e diffondere incertezza con informazioni false, incomplete, distorte, ambigue. Potrebbe essere proprio una migliore informazione, che non nasconde le ombre e le incertezze della scienza, l’arma vincente per convincere non tanto i pochi Novax (che non sentono ragioni), ma il popolo degli indecisi, che vogliono capire e decidere per il meglio.

Pubblicato su Il Messaggero del 31 luglio 2021




Il Projeto Portinari…

Un riferimento sicuro per gli appassionati di cultura brasiliana che desiderano familiarizzarsi con le tradizioni di una terra meravigliosa. Forse una scuola di samba? No. Il Projeto Portinari, piuttosto. Un enorme archivio multimediale dedicato alla storia brasiliana del Novecento, nato quasi in sordina con l’intento ad un tempo modesto, quello di preservare, e ambizioso, quello di promuovere la diffusione, dell’arte di Candido Portinari (Brodowski 1903 – Rio de Janeiro 1962).

Di origini venete (plausibilmente ricollegabili alla nota famiglia di Firenze che diede i natali alla Beatrice cantata da Dante), Candido Portinari è indubbiamente una figura di spicco dell’arte sudamericana. Forse non bastano poche pennellate per completare il suo ritratto ma sono certamente meno di quelle che gli occorsero per dipingere Guerra e Pace, coppia di affreschi commissionata dalle Nazioni Unite per il Palazzo di Vetro che, pare, presto potremo ammirare anche in Italia grazie ad una sorprendente iniziativa del Projeto Portinari, annunciata dalla fondazione stessa.

Candido Portinari fu attivista per la pace, pittore e letterato, predecessore di quella corrente culturale oggi conosciuta col nome di Modernismo Brasiliano, nella quale ha militato il famoso gruppo dei cinque (Anita Malfatti, Mário de Andrade, Menotti del Picchia, Oswald de Andrade e Tarsila do Amaral), sui quali varrà la pena di tornare in un prossimo intervento. Si è distinto soprattutto per uno stile innovativo, pregno di multiculturalismo e al tempo stesso custode delle tradizioni artistiche anteriori al XX secolo. I suoi quadri, che paiono essere il frutto di una singolare mediazione tra astrattismo, cubismo, arte indigena ed elementi di stile quattrocentesco, sono sempre intrisi di cultura brasiliana.

Ci troviamo di fronte ad un uomo che, a pareri di ammiratori e detrattori, ha creato la prima arte genuinamente sudamericana. Al punto da rendere quasi impossibile immaginare un artista che abbia raffigurato la propria terra più di quanto Portinari non abbia saputo fare con il suo Brasile. Un’arte che attinge ad uno sterminato bacino di temi sociali e umani, i cui protagonisti sono attori di un dramma che oscillano tra la gioia infantile e la sofferenza estrema.

Un pittore che ha conciliato l’arte di Piero della Francesca (si vedano Guerra e Pace) con quella di Picasso (San Francesco d’Assisi) e di Modigliani (Ritratto di Maria Portinari). Un artista che è riuscito a dissotterrare il dolore universale partendo dalla quotidianità di Brodowski, il suo paese natale. Un vero e proprio tesoro artistico che ha purtroppo rischiato di perdersi e disperdersi.

Dopo la sua morte, nel 1962, Portinari è quasi caduto nell’oblio. Più del novanta per cento delle sue opere erano custodite in collezioni private inaccessibili al pubblico. Di qui l’idea, nel 1979, del Projeto Portinari, fondato, e fino ad oggi coordinato, dal figlio João Candido che, con certosina pazienza, nel tempo ha accumulato oltre 5.000 opere del padre e 30.000 documenti che ritraggono plasticamente le attività culturali e artistiche del Novecento. Fotografie storiche, articoli di giornale, lettere, critiche, commenti, 130 ore di registrazioni animate dalla voce (fra tutti) di Oscar Niemeyer e Jorge Amado che ci orientano nel dedalo creativo della mente visionaria di un grande pittore. Il Projeto è sostenuto dalla Pontifícia Universidade Católica di Rio de Janeiro, da “Ceramicas Portinari”, da “Banco Itaù”, dalla Segreteria Speciale della Cultura brasiliana, dal Ministero brasiliano della Cittadinanza e dal Ministero delle Comunicazioni brasiliano.

Tra i numerosi traguardi raggiunti possiamo menzionare il “Museu Casa de Portinari” a Brodowski, mostre ed esposizioni allestite in tutto il mondo nonché coinvolgimento attivo e capillare della rete di educazione scolastica brasiliana. Ma l’ambizione non si è ancora fermata.

I dipinti di Portinari stanno continuando a conquistare popolarità e a diffondere il proprio messaggio anche in Europa. La prossima iniziativa (non ancora ufficializzata e che diamo qui come notizia in anteprima e il cui successo dipende ormai solo dalla dinamica pandemica) vede come protagonista l’Italia e la città di Padova, dove saranno esposti Guerra e Pace. Ormai il Projeto Portinari può girarsi indietro e guardare con orgoglio al proprio passato. La maggior parte delle opere di Portinari sono state digitalizzate e sono alla portata di tutti, integrate da migliaia di documenti e di studi interpretativi.

Difficile dire quale sia esattamente il principale traguardo raggiunto dall’iniziativa di João Candido. Una nuova consapevolezza artistica? Una visione ampliata di tematiche sociali e culturali? La riscoperta e formazione dell’identità nazionale brasiliana? Non ha importanza.

Raggiungendo successi forse insperati in termini di divulgazione artistica, il Projeto Portinari ha riconosciuto che l’importanza e il valore di legare una nazione alle proprie tradizioni non è in contraddizione con quella di costruire, attraverso il dialogo, uno stabile equilibrio tra le diverse realtà culturali che convivono, e con le quali occorre imparare a convivere, nella complessa società odierna.

 

Notizie su Candido Portinari e il progetto Portinari

(Projeto Portinari) http://www.portinari.org.br/
(Candido Portinari) http://www.portinari.org.br/#/pagina/candido-portinari/apresentacao?idioma=en
(Guerra) http://www.portinari.org.br/#/acervo/obra/3799
(Pace) http://www.portinari.org.br/#/acervo/obra/3798
(San Francesco d’Assisi) http://www.portinari.org.br/#/acervo/obra/2474
(Ritratto di Maria Portinari) http://www.portinari.org.br/#/acervo/obra/3782
(Museu Casa de Portinari) http://www.museucasadeportinari.org.br/
(Progetti realizzati) http://www.portinari.org.br/#/pagina/projeto-portinari/realizacoes?idioma=en




Vaccini, ultima carta

Fino a qualche settimana fa speravo ancora in un cambio di strategia nella lotta contro il virus. Oggi non più. Oggi è evidente che la politica, tutta la politica, ha gettato la spugna. I segnali sono chiarissimi.

Sul versante europeo, innanzitutto. L’accordo su green pass e voli internazionali, secondo cui le compagnie aeree avrebbero dovuto assicurare i controlli, è stato una perfetta presa in giro. La stragrande maggioranza dei passeggeri non vengono controllati né alla partenza né all’arrivo, il che può significare solo due cose: le regole stabilite dalle autorità europee non erano vincolanti, oppure lo erano ma non prevedevano sanzioni.

Le cose non vanno meglio sul versante italiano. I tamponi sono la metà di quelli che si facevano a marzo; da ben 3 settimane l’Rt galoppa al di sopra di 1; da qualche giorno il numero di casi giornalieri ha oltrepassato la soglia (circa 4000 al giorno) che consente il tracciamento. Per tutta risposta il governo sta cambiando i parametri di allarme, puntando sulle ospedalizzazioni (che sono ancora poche, per fortuna) anziché sull’indice di trasmissione Rt e sul numero di casi (incidenza settimanale), che invece stanno crescendo a un ritmo preoccupante e, con le vecchie regole, costringerebbero a far passare alcune regioni in zona gialla. Dunque lo scenario è chiaro: si cercherà di tirare a campare fino a Ferragosto per salvare il turismo, poi, quando saremo arrivati a 30 mila casi al giorno (così dicono le proiezioni), improvvisamente si scoprirà che dobbiamo chiudere tutto il chiudibile.

E a quel punto?

A quel punto, come l’anno scorso, avremo elezioni e ritorno a scuola. E poiché nel frattempo nulla è stato fatto né sul versante del trasporto locale, né su quello della messa in sicurezza delle scuole (per non parlare della riorganizzazione della medicina territoriale), sarà difficile evitare un’ulteriore esplosione dei contagi, anche agevolati dalla fine della bella stagione e della vita all’aperto.

Dunque, non nascondiamocelo: vaccini e green pass a parte, poco si sta facendo per arginare l’esplosione dei contagi. E la scuola non è affatto “una priorità assoluta”, come vorrebbe farci credere il ministro Speranza, ma è l’agnello sacrificale che, per il secondo anno consecutivo, immoliamo in nome del sacro diritto alle vacanze e alla ripartenza.

Detto questo, però, la domanda resta: che fare per limitare i danni?

Spiace essere tranchant, ma – dal momento che le autorità sanitarie hanno deciso, a dispetto della pericolosità della variante indiana, di lasciar correre il virus – non si può che concludere che siamo soli, completamente soli. E ci resta un’unica cosa da fare: provare a limitare i danni vaccinando noi stessi e convincendo gli altri a fare la stessa cosa. La possibilità di scegliere serenamente fra vaccinarsi e non vaccinarsi è un privilegio riservato ai cittadini dei paesi – quasi tutti non europei – in cui l’epidemia è sotto controllo.

Il vaccino, infatti, è l’unica vera arma che ci resta in una situazione in cui, per mille ragioni, si è deciso di rinunciare a usare altre armi, perché giudicate troppo costose o complicate.

Quali sono i vantaggi del vaccino?

Sono essenzialmente tre, uno di tipo altruistico, gli altri due di tipo egoistico.

Il vantaggio altruistico è che le persone vaccinate, pur potendo trasmettere il virus, lo fanno in misura considerevolmente minore. Una persona vaccinata è meno pericolosa per gli altri di una persona non vaccinata. Questo significa che, più persone si vaccinano, più lentamente circola il virus. Il rallentamento indotto dal vaccino, dunque, può controbilanciare (anche se solo in parte) l’accelerazione indotta dalla variante delta.

E veniamo ai due vantaggi egoistici. Il primo è che chi è vaccinato ha minori probabilità di contrarre il virus. Il secondo è che, anche se lo contrae, di norma sviluppa sintomi meno gravi di chi non è vaccinato, e raramente viene ospedalizzato o muore. Sono due vantaggi enormi, che fanno la differenza – esistenzialmente cruciale – fra vivere nell’angoscia e vivere nella consapevolezza di un piccolo rischio.

Questo non significa che la vaccinazione piena (con 2 dosi, o con 1 di Johnson & Johnson) azzeri il rischio di infezione, ospedalizzazione, morte, come alcuni credono. Significa però, ed è decisivo, che i rischi si riducono in modo drastico.

In concreto tutto ciò implica che, ove la quota di pienamente vaccinati si avvicinasse all’80 o al 90%, almeno il numero di ospedalizzati e di decessi potrebbe essere fortemente limitato. E’ a questo che dobbiamo puntare, raggiungendo chi non si può muovere e ragionando con i dubbiosi. Vaccinarci è l’unica arma che ci è stata lasciata in mano, e quindi sarebbe stolto non usarla.

La vaccinazione di massa risolverà ogni problema?

Lo speriamo. Ma pensare che basti, e da sola ci garantisca anni di convivenza pacifica con il virus, potrebbe essere un tantino azzardato. Di per sé, la vaccinazione di massa non esclude due eventualità che dobbiamo sempre tenere presenti. Da un lato, è possibile che, proprio perché si è lasciato circolare il virus, si formino varianti che “bucano” la barriera dei vaccini, o che sono ancora più trasmissibili di quella indiana. Dall’altro, se il virus dovesse infettare quasi tutti, il rischio è che – oltre a scontare un numero di morti non trascurabile – si debba fare i conti con milioni di persone alle prese con il cosiddetto Long Covid, ossia con i postumi più o meno irreversibili della malattia (attualmente si stima che ne siano affetti il 10% dei guariti).

Da questo punto di vista la scelta di cambiare i parametri, abbandonando Rt e l’incidenza settimanale, appare un tantino imprudente. Se la gravità dell’epidemia viene valutata solo o prevalentemente con le ospedalizzazioni, il rischio è che – ancora una volta – ci si accorga del pericolo solo quando l’epidemia galoppa, e i costi economici e sociali per frenarla sono diventati proibitivi.

Pubblicato su Il Messaggero del 24 luglio 2021